Gabbie.

Apprezzo il tentativo di Balasso di far riflettere con parole immediate e argomenti razionali sul tema del razzismo e dell’immigrazione, dal momento in cui il disprezzo nei confronti degli “stranieri”, lungi dall’essere un problema nuovo o passeggero, raggiunge in situazioni di crisi economica i suoi punti più alti- o forse sarebbe meglio dire più bassi, se si parla di bassezza dell’essere umano. Le guerre tra poveri, innescate a seguito degli effetti di un sistema economico e sociale che promuove disuguaglianza economica, sfruttamento, esclusione e marginalizzazione, servono proprio a chi questo sistema economico e queste strutture sociali le difende e le vuol perpetuare inalterate nella sostanza. Risposte semplici e irrazionali, che non prevedono approfondimento e analisi di problemi complessi, atte ad alimentare il conflitto tra individui ingabbiati in categorie spesso artefatte, impegnati a scannarsi tra loro senza rendersi conto delle origini del loro reale disagio: la metafora dei topi chiusi in gabbia non poteva essere più azzeccata. Eppure, proprio per evitare un’eccessiva semplificazione e per avvicinarsi alla radice dei problemi, anche il concetto di legalità e delinquenza sul quale in parte fa leva il discorso di Balasso andrebbe messo in discussione. Non importa ciò che è legale, le leggi possono cambiare, sono create non solo in base a fittizi valori condivisi all’interno di una società, ma soprattutto in base agli interessi di chi domina. Oggi in Italia ad esempio esiste il reato di clandestinità, ma non è reato sfruttare o gettare nella miseria un/a lavoratore/trice licenziandolo/a solo perchè le leggi non scritte del capitalismo lo richiedono, non è reato sfrattare chi non ha i mezzi per pagarsi un alloggio, non è reato reprimere con la violenza chi si trova forzato/a da circostanze avverse a violare le leggi sulla difesa del patrimonio e della proprietà privata, leggi fatte per tutelare chi più ha e deruba i più. Non è nemmeno reato colpire qualunque forma di dissenso e opposizione concreta al sistema dominante quando questa fuoriesce dai binari della legalità, una legalità tanto univoca quanto ingiusta e ipocrita, invocata da personaggi che spesso e volentieri nemmeno la rispettano. E così chi conduce campagne repressive a suo dire contro “insicurezza e degrado” e aizza i poveri del posto contro altri poveri venuti “da fuori” etichettando qualsiasi critica come “buonista”, è il primo a promuovere il vero degrado e ad assicurare solo il proprio benessere e quello degli appartenenti alla propria classe sociale, con o senza l’aiuto della legge, all’interno o al di fuori di essa, alla faccia di chi abbocca e vota e difende le sbarre della propria gabbia: il recente scandalo annunciato sulla corruzione e il malaffare a Roma ne è solo l’enesimo esempio. Tanto, finchè le galere e i centri d’accoglienza ed espulsione saranno pieni, finchè i quartieri popolari saranno disagiati ed esisteranno persone senza un tetto sulla testa, finchè i disoccupati saranno pronti ad accettare qualsiasi lavoro in cambio di due soldi bucati, finchè la gente invocherà la stessa polizia dalla quale nemmeno loro dovrebbero sentirsi al riparo, finchè insomma ci sarà carburante per la macchina del dominio e dello sfruttamento, chi ha stabilito le regole del gioco continuerà a vincere, mentre i topi litigano in gabbia.

Sulla condizione della classe lavoratrice in Romania.

 

Fonte: Anarkismo.

"Perdonateci, per favore: non riusciamo a produrre tanto quanto rubate!”
“Perdonateci, per favore: non riusciamo a produrre tanto quanto rubate!”


” La classe lavoratrice rumena: come anatre inermi sotto il fuoco del capitalismo


Ci sono oggi circa 5 milioni di lavoratori in Romania. Altri 3 milioni (un quarto della forza-lavoro locale) lavorano in altri paesi dell’Unione Europea, per lo più in Spagna ed Italia. Il tasso ufficiale dei disoccupati è stimato al 6,7%, ma non è un dato affidabile. Questo dato riguarda solo le persone che sono registrate come disoccupati e non considera il totale di persone che potrebbe lavorare ma viene escluso. Per cui il numero reale dei disoccupati in realtà non è noto (o non viene reso noto dal governo), ma in base a logiche deduzioni, ci sarebbe da contare un ulteriore milione di persone.

Un quarto dei disoccupati ufficiali sono giovani laureati. Il 53% dei disoccupati registrati hanno esaurito il periodo nel quale hanno titolo a ricevere il sussidio (il 75% del loro salario) ed attualmente non hanno alcun reddito. I lavoratori, per dirla in modo gentile, sono in una situazione terribile. Più dei 2/3 dei 5 milioni di lavoratori sono occupati nel settore privato. Non sono sindacalizzati: ci vorrà una grande solidarietà tra i lavoratori unitamente a dure lotte contro la classe dominante (la classe dei padroni, protetta dallo Stato), per spezzare la loro opposizione e consentire che ci siano i sindacati nel settore privato.

Gli unici sindacati esistenti in Romania sono quelli  “gialli” – una sinistra farsa – all’interno di alcuni settori dello Stato (nella polizia, in parte dell’istruzione e della sanità) o all’interno delle aziende di Stato e di quelle aziende ex-statali che sono state privatizzate. Questi sindacati non fanno altro che tradire sistematicamente i loro iscritti. Le uniche lotte efficaci che questi sindacati hanno condotto sono state quelle per ottenere gli avanzamenti di carriera a livello dirigenziale nell’apparato statale per i loro funzionari. Ecco alcuni casi esemplari: un primo ministro della fine degli anni ‘90 era un sindacalista (nel 1999 giunse a licenziare 100.000 minatori in una notte su indicazione del FMI, portando intere regioni alla rovina e ad una indicibile situazione di povertà), poi ex-ministri, diversi membri di partito e legislatori che erano stati dirigenti sindacali, alcuni dei rumeni che compaiono nella classifica Forbes delle 500 persone più ricche sono ex-dirigenti sindacali.

In mancanza di organizzazioni sindacali, il livello di vulnerabilità della classe lavoratrice rumena è il più alto in Europa, e questo comporta tragiche conseguenze sull’intera società, come è clamorosamente emerso nel corso degli ultimi 3 anni di feroce attacco capitalista contro i lavoratori. Nel 2009, lo Stato rumeno fu il primo nell’Unione Europea ad imporre al popolo le ricette dell'”austerity”, appoggiato dal FMI, dalla Commissione Europea e dalla Banca Mondiale. Nel volgere di una notte, il governo raddoppiò intenzionalmente il numero dei disoccupati costringendo alla bancarotta centinaia di migliaia di piccole imprese. Si trattava di piccole imprese, spesso a conduzione familiare, con pochi dipendenti. Di fatto il governo le mise deliberatamente in ginocchio, imponendo loro una tassa che sapeva che non avrebbero potuto pagare. “Le imprese che non possono pagare la tassa di €500 devono chiudere”, disse l’allora ministro delle finanze, Gheorghe Pogea.

Questo ha portato al raddoppio dei disoccupati del settore privato. Fu il primo passo di una chiara guerra capitalista guidata dallo Stato contro i lavoratori. Il secondo atto contro i lavoratori compiuto dallo Stato – il quale pubblicamente ha ammesso di essere dalla parte delle imprese – fu quello di cambiare la legislazione sul lavoro, togliendo ai lavoratori persino quella fragile ed apparente protezione contro il chiaro e totale sfruttamento padronale. Sono stati resi possibili i licenziamenti a volontà, la demolizione dei contratti di lavoro a tempo indeterminato,  il ripristino dell’apprendistato, con cui si rendono i giovani lavoratori vittime vere  e proprie degli abusi legali da parte dei datori di lavoro. Gli annunci di lavoro ora chiedono apertamente disponibilità al lavoro “volontario” per fare “esperienza” – il che significa schiavitù, lavoro non pagato ed è un fenomeno drammaticamente diffuso. E come se non bastasse, i guru delle imprese vogliono altri cambiamenti nella legislazione del lavoro per rendere i lavoratori ancora più vulnerabili. Le aziende sono libere di militarizzare il lavoro a volontà, rivolgendosi alla polizia e spiando legalmente i dipendenti.

Lo sfruttamento e le misere condizioni di lavoro portano ad un alto numero di incidenti sul lavoro – 4.000 nel 2012, di cui 215 mortali. Anche in questo caso, il numero reale è probabilmente più alto, dal momento che molti di questi incidenti non vengono nemmeno registrati come “incidenti sul lavoro” (poiché il datore di lavoro verrebbe costretto a pagare i danni ai lavoratori o alle loro famiglie). Di nuovo, questo succede perché la classe lavoratrice non è sindacalizzata, succede a causa della spaventosa corruzione e della fraterna combutta tra Stato e classe padronale. (Alcuni media sono riusciti a far emergere come funziona questa fraterna combutta: nel 2010, è venuto fuori che alcuni alti funzionari dell’Ispettorato del Lavoro hanno preso mazzette dalle imprese a nome del partito al governo per coprire degli abusi contro i dipendenti). Il fatto è che il piano di austerità imposto dallo Stato è stato un attacco brutale contro i lavoratori, dal momento che ha artificialmente creato un tasso di disoccupazione che viene usato per spaventare i lavoratori ed indurli a lavorare di più ed ha reso più facili i licenziamenti per garantire più alti profitti, cosa che consente alle imprese di assumere poi altri dipendenti a salari pesino più bassi. Questo artificiale tasso di disoccupazione, creato dallo Stato a beneficio della classe padronale, diventa un potente strumento disciplinare che impedisce ai lavoratori di sindacalizzarsi e mette nella mani dei datori di lavoro i mezzi per tenere i salari al più basso livello possibile.

Lo scopo della “austerity” nel creare un alto tasso di disoccupazione era anche quello di paralizzare ogni possibile resilienza popolare nel momento in cui ci sarebbero stati ulteriori tagli agli stipendi nel settore pubblico ed in quello privato, sui redditi degli insegnanti, dei dottori, degli studenti, dei pensionati, contemporaneamente ad un brutale aumento dell’IVA di 5 punti fino al tetto del 24% su tutti i beni ed i servizi.  Tutti provvedimenti giustificati “in nome della crisi”, tramite una montagna di bugie ed una furiosa propaganda ideologica da parte dei media controllati dal padronato, sebbene ad un certo punto nel marzo 2009, il presidente rumeno, che aveva guidato l’attacco al mondo del lavoro, giunse ad ammettere che il paese aveva bisogno di un grosso prestito (€20 miliardi, cioè un 1/5 del PIL, quasi 4 volte di più di quanto realmente necessario, come riconosciuto da alcuni banchieri) allo scopo  “di dare alle banche ed alle imprese una chance”. Tutte queste misure contro il mondo del lavoro e contro i salari hanno in ultima analisi portato alle stelle il costo della vita, che tradotto significa che oggi metà del paese vive in condizioni di povertà. Le statistiche indicano che 1/5 dei lavoratori dipendenti non riesce più a vivere col proprio salario e vive in assoluta povertà, sebbene la realtà potrebbe essere persino peggiore.

Inoltre, lo Stato ha chiuso d’ufficio almeno 1.300 scuole (su 3.000 chiusure pianificate) ed 1/4 degli ospedali, per creare le condizioni verso una totale privatizzazione dell’istruzione e della sanità. I trasporti pubblici sono quasi tutti privatizzati, lo Stato sta ora cercando di vendere anche le Ferrovie e le Poste. I servizi sono quasi tutti privatizzati, senza che per questo si sia creato nulla di quella promessa di “libera competizione di mercato per abbassarne i prezzi”, invece i prezzi dei servizi sono in costante crescita, visto che lo Stato ha effettivamente creato monopoli privati territorialmente separati. Durante questa povertà pianificata imposta dallo Stato, che viene chiamata “austerity”, i prezzi hanno continuato a crescere in modo insostenibile, specialmente quelli degli alimentari e dei servizi, rendendo il costo della vita insostenibile e costringendo le persone a fare più lavori o a lavorare strenuamente. Il tasso dei suicidi è cresciuto drammaticamente. Nel 2011, uno studio dell’UNICEF su 30 paesi ha rivelato che la Romania ha il più alto tasso di bambini che vivono in povertà.

La propaganda di Stato, per far passare sui lavoratori la povertà pianificata, è stata incentrata un giorno sì ed un giorno no sulla stigmatizzazione dei lavoratori: i politici li hanno accusati senza sosta di essere “pigri”, mentre lor signori si concedono più spesa pubblica per finanziare i loro sponsors nel settore privato e per far sì che gli apparati della polizia antisommossa e dei servizi segreti siano ben retribuiti. L’intera situazione può ben essere illustrata dal tormentone scandito dal popolo che ha protestato nelle strade, per settimane di fila, durante il duro inverno del 2012, contro gli abusi, contro la corruzione diffusa e contro la povertà indotta: “Perdonateci per favore: noi non riusciamo a produrre tanto quanto voi rubate”. La realtà è che la classe lavoratrice rumena è la più sfruttata d’Europa: per il più alto numero di ore lavorate (legalmente dovrebbero essere 8 ore al giorno, ma tutti gli studi parlano di 10-12 ore effettive di lavoro, a volte anche durante la fine settimana), e per i peggiori salari in Europa, mentre il costo della vita è comparabile (se non più alto in certe zone) con quello dell’Europa Occidentale.

La classe lavoratrice non è sindacalizzata, nel settore privato i sindacati non esistono, e quelli nel settore statale sono esclusivamente sindacati “gialli”. I sindacati “gialli” sono altamente responsabili dello stato di disaffezione che si sta diffondendo tra i lavoratori rumeni. Sebbene sia un fattore cruciale, non è questo il fattore più pernicioso nella terribile situazione della classe lavoratrice. Ancora peggio della mancanza di sindacati è la mancanza di coscienza dei lavoratori della loro condizione reale: una condizione di persone costrette a lavorare per un salario, di cui i 2/3 se ne vanno per la mera sopravvivenza. Tuttavia, la maggior parte dei lavoratori si identifica nella condizione di consumatori, nel tentativo di sfuggire alla generale denigrazione della classe lavoratrice, quale risultante da decenni di propaganda statale, politica, mediatica e culturale. Quanto prima le persone prenderanno coscienza della loro condizione di lavoratori, di schiavi salariati, e ne coglieranno le cause, tanto prima dissolveranno la cortina fumogena delle illusioni imposte loro dal capitalismo e meglio riusciranno a cercarsi ed a trovarsi l’un l’altro, ad organizzarsi ed a ribellarsi, nella solidarietà, nella lotta per l’emancipazione. Cosa difficile, perché la propaganda capitalista domina su tutti i media, ma non impossibile. Ci sono i modi per informarsi sulla vera storia della classe lavoratrice e delle sue lotte, per informarsi sugli sviluppi in corso tra le classi lavoratrici di altri paesi, sui modi migliori per sindacalizzarsi ed organizzarsi. Non c’è nessun altro modo per la classe lavoratrice per sollevarsi, organizzarsi e lottare per se stessa.

IASR – Iniziativa Anarco-Sindacalista di Romania

Traduzione a cura di FdCA-Ufficio Relazioni Internazionali

Verwandter Link: http://iasromania.wordpress.com

Catastroika.

“Catastroika- Privatisation Goes Public” è un documentario greco del 2012, realizzato da Aris Chatzistefanou e Katerina Kitidi, che tratta il tema delle privatizzazioni di servizi pubblici. Prodotto con un budget limitato, ha raggiunto milioni di persone grazie anche alla sua distribuzione su internet attraverso canali gratuiti. L’analisi del documentario mette in relazione crisi economica, ideologia neoliberista, autoritarismo e privatizzazioni, spiegando dinamiche e conseguenze di un processo tutt’ora in corso non solo in Grecia. Quella che potrebbe sembrare a prima vista una presa di posizione in favore del monopolio statale su determinati settori dell’economia si rivela essere (specialmente nella parte finale dell’opera) un’invito ad una maggiore democratizzazione dell’economia in chiave partecipatoria, concetto a mio parere valido e interessante, ma poco sviluppato in questa occasione dagli/lle autori/trici del documentario.  Nella versione che ho deciso di pubblicare qui, è possibile attivare i sottotitoli in diverse lingue selezionando quella preferita cliccando sulla prima icona che si trova in basso a destra nella schermata del video. Buona visione e, come sempre, se vi piace diffondete!

Sulla rivolta sociale in corso in Slovenia.

Fonte: Anarkismo, pubblicato il 18/12/2012.

 

” Rivolta di massa in Slovenia

La scintilla ha acceso la rivolta contro l’elite politico-economica e contro l’intero sistema capitalistico

La Slovenia è scossa dalla prima rivolta di massa degli ultimi 20 anni e dalla prima rivolta in assoluto contro il sistema politico, contro le politiche di austerity, tanto che in alcune città sta assumendo un carattere anti-capitalista.

In meno di tre settimane ci sono state 35 manifestazioni in 18 città, dove più di 70.000 persone sono scese in piazza insieme. Le manifestazioni si sono spesso trasformate in scontri con la polizia che cerca di reprimerle violentemente. 284 persone sono state arrestate, alcune sono state rilasciate, altre no. Molti sono i feriti.

Tutto è iniziato a metà di novembre con le persone che protestavano contro il corrotto sindaco della seconda città della Slovenia, Maribor (già dimessosi). Lo slogan che scandivano era Gotof je (sei finito) che è stato poi utilizzato contro quasi tutti i politici sloveni. In pochi giorni le proteste si sono diffuse in tutto il paese. Stanno diventando sempre più il canale tramite cui le persone esprimono la rabbia verso le condizioni generali in cui versa la società: niente lavoro, nessuna sicurezza, nessun diritto, nessun futuro.

Le manifestazioni sono decentrate, antiautoritarie e non gerarchiche. Ci sono persone che non hanno mai preso parte ad una manifestazione prima d’ora. Ci sono manifestazioni in villaggi e città in cui non si era mai vista una sola protesta fino ad oggi. Le persone stanno creando nuove alleanze, diventano compagni di lotta e sono determinate ad andare avanti fino a che serve. Non sappiamo per quanto riusciranno a restare nelle strade. Ma una cosa è sicura. Le persone stanno sperimentando il processo di emancipazione e stanno acquistando quella voce che gli era stata sempre strappata con la violenza nel passsato. E questo è qualcosa che nessuno gli può più togliere. Qui sotto il comunicato dei gruppi della Federation for Anarchist Organizing (FAO).


 

Nessuna discriminazione, sono tutti finiti!

Negli ultimi giorni la storia ci è caduta addosso con tutta la sua forza. La rivolta a Maribor ha dato inizio a ciò che solo pochissimi immaginavano fosse possibile: il popolo auto-organizzato che mette lo sceriffo locale all’angolo, quindi lo costringe a fuggire in disgrazia. Questa è stata la scintilla che ha acceso una rivolta ancora più grande contro l’elite politico-economica e contro l’intero sistema capitalistico. Noi non abbiamo la sfera di cristallo per sapere cosa succederà, ma ciò di cui siamo certi è che non possiamo aspettarci nulla da romanticherie e atteggiamenti naif, ma possiamo attenderci molto dall’organizzazione e dal coraggio.

Dal basso verso l’alto e dalla periferia verso il centro

Mentre le proteste si diffondevano in tutto il paese, si trasformavano in crescente rivolta contro l’elite al potere e contro l’ordine esistente. Persone di ogni regione stanno usando creativamente i loro dialetti per esprimere lo stesso messaggio ai politici: voi siete tutti finiti. Il carattere decentralizzato della rivolta è uno degli aspetti chiave degli eventi succedutisi. Un altro aspetto è il fatto che l’intero processo fin qui sviluppatosi è del tutto dal basso; non ci sono dirigenti dal momento che le persone non sono rappresentate da nessuno. Al fine di difendere questa solidarietà tra le persone ed al fine di impedire che la rivolta venga recuperata dalla classe politica, è esattamente il decentramento che dobbiamo difendere, promuovere e rafforzare!

Polizia ovunque, giustizia da nessuna parte

Che la polizia si mostri brutale verso le proteste è cosa che non dovrebbe sorprendere. Ciò che sorprende sono le illusioni di guadagnarsi l’appoggio della polizia. E’ vero che la polizia non è l’obiettivo primario di questa rivolta e che lo scontro tra la polizia ed manifestanti non ne costituisce l’unico e definitivo orizzonte. Il bersaglio del popolo in questo conflitto è la classe politica e capitalista ed il sistema nella sua globalità. Tuttavia è anche assolutamente vero che la polizia non è nostro alleato ed in ragione del ruolo che essa svolge all’interno del sistema non potrà mai ed in nessun modo essere alleata di questa rivolta. Non ce lo dimentichiamo: la polizia fa parte dell’apparato repressivo dello Stato. La sua funzione strutturale è quella di difendere l’ordine esistente e gli interessi della classe dominante. Non ha importanza quanto possano essere sfruttati gli individui in uniforme! Finché eseguono gli ordini dei loro superiori essi restano poliziotti e poliziotte. Solo quando si sottraggono a questi ordini, potranno diventare parte della rivolta.

Nutrire qualsiasi illusione sul fatto che la polizia possa stare dalla nostra parte è dunque essere naif fino all’estremo. L’intervento della polizia su queste manifestazioni degli ultimi giorni è stato davvero così non problematico come qualcuno lo dipinge e davvero a favore del popolo in strada? Abbiamo già dimenticato la brutale repressione delle proteste a Maribor e le minacce di Gorenak (ministro degli interni) di dare la caccia a tutti gli organizzatori delle proteste “illegali”?

Non siamo sorpresi nemmeno dal moralismo che si fa sui “rivoltosi” e sulla “violenza”, che si è sviluppato sui social network. il Governo ed i media ci hanno lanciato l’osso e qualcuno c’è subito cascato. Ma cosa sono alcune decine di vetrine rotte, una porta del municipio abbattuta ed i sanpietrini divelti da una strada in confronto alla violenza strutturale dello Stato? Una gioventù senza futuro, la disoccupazione, la precarietà, la riduzione della scolarità, la riduzione dei pasti nelle scuole pubbliche, il decremento di assistenza negli asili, i tagli alla sanità, i tagli ai fondi per la formazione e la ricerca, l’allungamento forzato dell’età pensionabile, il taglio di salari e pensioni, la riduzione delle ferie, il taglio all’edilizia popolare, gioventù forzata a vivere in appartamenti in affitto o con i genitori fino ad età adulta, negazione di ogni diritto agli omosessuali, ai migranti, alle donne ed alle persone la cui origine sociale non rientra tra le religioni e le etnie maggioritarie e molto altro ancora. Per non parlare della corruzione, del nepotismo, del clientelismo e della criminalità della classe dominante. Ci costringono a lavorare di più, ma i frutti del nostro lavoro finiscono sempre nelle mani della classe capitalista. Questo sfruttamento è ciò che costituisce il cuore di questo sistema. Diteci ora, chi commette violenza contro chi? Come osare condannare persone a cui è stato rubato ogni futuro? La gioventù è arrabbiata e non ha niente da perdere. Basta col condannarli; dobbiamo insieme rimettere a fuoco i problemi reali.

Ancora più pericolosi sono i vari appelli per l’auto-repressione e per la cooperazione con la polizia. Non dobbiamo già fare i conti con inaccettabili livelli di sorveglianza, con l’uso delle telecamere e con la repressione? Ci vengono a proporre costoro di aiutare la polizia nella caccia ai “rivoltosi”, consegnarli alla polizia e quindi escludere tanti giovani dalla rivolta a cui hanno contribuito in modo significativo? Cooperare con la polizia significa spararci sui piedi e condannare i giovani che esprimono le loro posizioni in modo più diretto significa divenire strumentali al blocco di ulteriori sviluppi del potenziale di questa rivolta.

Oggi infrangere una vetrina è un atto che viene definito violento dalle autorità. Ma deve essere chiaro che lo stesso metro può essere ben presto applicato a tutte le forme di protesta che non saranno approvate o permesse dalle stesse autorità, che non saranno abbastanza passive e perciò non saranno completamente benevoli. Che sia chiaro agli occhi di questo sistema che ci umilia, che ci deruba e ci reprime anno dopo anno, che siamo tutti rivoltosi. Ancora una volta ribadiamo la nostra piena solidarietà a tutti gli arrestati, chiediamo il loro immediato rilascio, chiediamo di mettere fine alla persecuzione giudiziaria e mediatica nei loro confronti e che vengano resi nulli i provvedimenti amministrativi e le sanzioni emesse a carico delle persone che hanno partecipato alle proteste.

Potere al popolo, non ai partiti politici

Dopo l’iniziale esplosione della rivolta, quando la creatività delle masse si è pienamente manifestata, si è aperto anche un nuovo spazio per la riflessione strategica. Se vogliamo che la rivolta si sviluppi in direzione di un movimento sociale con concrete rivendicazioni, scopi e prospettive, dobbiamo trovare modalità per articolare queste stesse rivendicazioni, che sono già espresse nella rivolta, e pervenire alla forma organizzativa che possa rendere possibile questo processo. Altrimenti la rivolta entrerà rapidamente in agonia e le cose resteranno come sempre.

Per quanto riguarda le rivendicazioni dobbiamo precedere passo dopo passo ed iniziare coll’assumere quelle che sono già state espresse dalla rivolta. Sicuramente dobbiamo preservare quelle strutture del welfare come la sanità e l’istruzione. Dobbiamo anche preservare gli esistenti diritti dei lavoratori. Detto questo dobbiamo altrettanto chiaramente dichiarare che non stiamo lottando per la preservazione del vecchio sistema. Se non possiamo permettere che ci vengano tolti i diritti che abbiamo conquistato con le lotte del passato, dobbiamo altresì mantenere una prospettiva strategica di fondo. Finché esisteranno il capitale e lo Stato, resteranno anche i progetti di sfruttamento e di oppressione nel sistema scolastico, nella sanità ed in tutto il sistema del welfare. Ecco perché dobbiamo auto-organizzarci in queste strutture e non solo negoziare per le briciole. I diritti non sono garantiti per sempre, bisogna conquistarseli con la lotta!

Un segmento della corrotta elite politica si accorgerà forse che nei fatti sono tutti finiti ed abbandoneranno lo scenario politico. Ma ben presto verranno sostituiti da nuovi politici che nuovamente, senza ottenere alcuna legittimazione popolare, prenderanno delle decisioni in nostro nome. I loro interessi non sono i nostri, e ce lo dimostrano ogni giorno i numerosi esempi di nepotismo, di corruzione e di riforme anti-crisi che ci stanno spingendo sempre di più ai margini della società ed oltre.

Ecco perché se ne devono andare via tutti, dal primo all’ultimo. Sarebbe molto ingenuo e naif credere che da qualche parte ci sono politici puri e non corrotti, politici che hanno nel loro cuore nient’altro che il nostro interesse, politici che ci porterebbero fuori dalla crisi e che attendono solo che noi li si voti alle prossime elezioni. E’ il sistema politico ed economico con le sue caratteristiche autoritarie e gerarchiche che rende impossibile poter vivere in modo non alienato e secondo i nostri desideri ed i nostri bisogni. Finché ci sarà il capitalismo, finché una minoranza governa sulla maggioranza e ci spinge ai margini della vita sociale ed economica, le nostre non saranno che vite vuote. Se non resistiamo e se non lottiamo per l’alternativa, ci sarà sempre qualcuno che governerà per noi; i patriarchi nelle famiglie, i decani e la burocrazia studentesca nelle università, i padroni sul lavoro ed i politici al governo. La falsa democrazia che ci offrono in forma di elezioni non è l’unica forma possibile di organizzare la nostra vita sociale.

Organizziamoci lì dove viviamo, dove lavoriamo e dove studiamo

Se vogliamo che questa rivolta e le sue rivendicazioni producano un vero potere sociale, dobbiamo auto-organizzarci. Quando parliamo di organizzazione della rivolta, pensiamo necessariamente a forme che sono diverse dalle modalità di organizzazione socio-politica a cui siamo adusi. Dobbiamo organizzarci dal basso, senza gerarchie e dirigenti; ovunque siamo sfruttati ed oppressi: nei nostri quartieri, nei posti di lavoro, nelle istituzioni della formazione. I contadini dovrebbero unirsi in cooperative; le cooperative dovrebbero connettersi con l’ambiente urbano. L’auto-organizzazione dovrebbe essere spontanea e creativa; dovrebbe sviluppare libere relazioni e stabilire strutture che favoriscano la piena emancipazione degli individui. Dovrebbe seguire i principi della democrazia diretta, della mutua solidarietà, dell’anti-autoritarismo e dell’anti-fascismo.

Quale metodo iniziale per organizzarci suggeriamo l’istituzione di assemblee a democrazia diretta che sono state la prassi dei movimenti insorgenti in tutto il mondo negli ultimi due anni. Possiamo organizzarci localmente in piccoli gruppi ed insieme dare forma al futuro riconoscendo i nostri bisogni e quindi i bisogni delle città e dei villaggi. Insieme possiamo avanzare proposte e scoprire le nostre potenzialità, tanto da accorgerci che siamo noi stessi capaci di realizzare più o meno tutto della nostra vita. Questo è come costruiremo un’unità fatta di fratellanza e sorellanza, in cui ci sia abbondanza per tutti, ma nulla per coloro che vorrebbero governarci.

Il passo successivo potrebbe essere il coordinamento mutualistico di questi gruppi e la stabilizzazione di nuove forme di organizzazione di questa rivolta dispersa ed in evoluzione. Suggeriamo che, sulla base dei nostri principi comuni, ci si unisca in un fronte di gruppi, di organizzazioni e di individualità. Questo fronte dovrebbe essere ideologicamente aperto, inclusivo e basato su rivendicazioni comuni. Dovrebbe essere un fronte organizzato orizzontalmente, senza organismi centrali e senza burocrati; e basato sull’autonomia degli individui e su un processo decisionale fondato sulla democrazia diretta.

Invitiamo tutti i gruppi, le organizzazioni e le individualità che si ritrovano con queste proposte ad organizzarsi nelle loro comunità locali in assemblee aperte, che possano più tardi connettersi l’un l’altra. Riprendiamoci le nostre vite tutti insieme!
Dalle strade e dalle piazze, 6 dicembre 2012

Federation for Anarchist Organizing (FAO), Slovenia

Traduzione a cura di FdCA-Ufficio Relazioni Internazionali.

http://a-federacija.org inter@a-federacija.org

 

Cronologia della rivolta

(Città, data, numero di partecipanti, numero di arresti, numero di feriti):Maribor (Marburgo), mercoledì, 21 novembre, 1.500 persone
Maribor, lunedì, 26 novembre, 10.000 persone, 31 arresti (tutti rilasciati il giorno seguente)
Lubiana, martedì, 27 novembre, 1.000 persone
Jesenice, mercoledì, 28 novembre, 200 persone
Kranj (Cragno), giovedì, 29 novembre, 1.000 persone, 2 arresti
Lubiana, venerdì, 30 novembre, 10.000 persone, 33 arresti, 17 feriti
Koper (Capodistria), venerdì, 30 novembre, 300 persone
Nova Gorica (Nuova Gorizia), venerdì 30 novembre, 800 persone
Novo Mesto (Nova Urbe), venerdì 30 novembre, 300 persone
Velenje, venerdì 30 novembre, 500 persone
Ajdovščina (Aidussina), venerdì 30 novembre, 200 persone
Trbovlje, venerdì 30 novembre, 300 persone
Krško, sabato, 1 dicembre, 300 persone
Maribor, lunedì, 3 dicembre, 20.000 persone, 160 arresti, 38 feriti
Lubiana, lunedì, 3 dicembre, 6.000 persone
Celje (Cilli), lunedì, 3 dicembre, 3.000 persone, 15 arresti
Ptuj (Poetovio), lunedì, 3 dicembre, 600 persone
Ravne na Koroškem, lunedì, 3 dicembre, 500 persone
Trbovlje, lunedì, 3 dicembre, 400 persone
Jesenice, martedì, 4 dicembre, 300 persone, 41 arresti
Brežice, martedì, 4 dicembre, 250 persone
Lubiana, mercoledì, 5 dicembre, protesta degli studenti davanti alla Facoltà di Arti, 500 persone
Lubiana, giovedì, 6 dicembre, protesta degli studenti davanti al parlamento, 4.000 persone
Koper, giovedì, 6 dicembre, 1.000 persone, 2 arresti
Kranj, giovedì, 6 dicembre, 500 persone
Izola (Isola d’Istria), giovedì, 6 dicembre, 50 persone
Murska Sobota, venerdì, 7 dicembre, 3.000 persone
Bohinjska Bistrica, venerdì, 7 dicembre, 50 persone
Ajdovščina, venerdì, 7 dicembre, 150 persone
Lubiana, venerdì, 7 dicembre 3.000 persone
Nova Gorica, sabato, 8 dicembre, 300 persone
Brežice, domenica, 9 dicembre 200 persone
Lubiana, lunedì, 10 dicembre, 100 persone
Maribor, lunedì, 10 dicembre, 200 persone (protesta di solidarietà per i fermati)
Ptuj, lunedì, 10 dicembre, 200 persone

ANNUNCIATE:

Lubiana, giovedì, 13 dicembre
Maribor, venerdì, 14 dicembre
SLOVENIA (in ogni città), 21 dicembre

La polizia fa parte dell'apparato repressivo dello Stato. La sua funzione strutturale è quella di difendere l'ordine esistente e gli interessi della classe dominante.

Quale metodo iniziale per tale organizzazione suggeriamo l'istituzione di assemblee a democrazia diretta che sono state la prassi dei movimenti insorgenti in tutto il mondo negli ultimi due anni.

Vedi anche:

-Radio Blackout, “Rivolta sociale in Slovenia”, con intervista a due compagni di Maribor.

7 Novembre: proteste a Cagliari.

Ieri 7 Novembre ha avuto luogo a Cagliari una grossa manifestazione organizzata dalla cosiddetta Consulta Rivoluzionaria. L’iniziativa, definita dagli organizzatori come “Assemblea generale del Popolo Sardo” e che ha visto la partecipazione di alcune migliaia di persone, è nata dopo mesi di incontri e dibattiti tra le diverse componenti della Consulta. I motivi della protesta sono molteplici e non suoneranno certo nuovi a chi conosce la realtá sarda: gli alti tassi di disoccupazione, ormai cronica, e la chiusura di realtá produttive spesso avviate in modo avventuristico da multinazionali che lasciano dietro di sé persone senza lavoro, danni ambientali e distruzione dell’economia locale spinge molti giovani ad emigrare da una terra che è stata sempre gestita con piglio colonialista dallo stato centrale italiano, grazie anche al supporto della locale classe dirigente. Un’isola che è in parte laboratorio di pratiche repressive e in parte “pattumiera”, da un lato occupata da carceri- anche “speciali”- e da numerose installazioni militari dove si stoccano armamenti nucleari ( La Maddalena) e si sperimenta con i proiettili all’uranio impoverito (Teulada e Quirra), dall’altro cementificata e deturpata per gli interessi dei più ricchi e potenti e a favore del turismo d’élite, una terra alla quale la classe dirigente preferisce elargire qualche briciola di assistenzialismo piuttosto che allentare la morsa delle banche e delle sanguisughe di Equitalia, dove ad essere senza prospettive ed a sentirsi disperati sono tanto gli studenti quanto i pastori, gli agricoltori, i piccoli imprenditori ed artigiani, i lavoratori che rischiano di perdere il loro impiego (come quelli dell’ Alcoa o della Carbosulcis, per citare i due casi più recenti e più noti) e quelli che un impiego lo hanno già perso o non lo trovano affatto. Sono proprio questi soggetti e queste realtá ad aver partecipato alla manifestazione tenutasi sotto il palazzo della Regione Sardegna nella centralissima Via Roma a Cagliari, un’iniziativa preceduta da una serie di misure di sicurezza grottesche messe in atto dalle autoritá evidentemente timorose che l’esasperazione dei/lle partecipanti potesse trasformarsi in concrete esplosioni di rabbia. Come aspetto “coreografico” non si poteva fare a meno di notare alcuni cappi con nodi scorsoi, appesi accanto ai nomi delle istituzioni ritenute maggiormente colpevoli dell’attuale situazione: Regione, Governo centrale, Equitalia, banche, INPS, agenzia delle entrate…

Da sottolineare la forte adesione da parte di organizzazioni indipendentiste, che si rispecchia anche nelle rivendicazioni tese all’autodeterminazione in materia economica dell’isola ed alla valorizzazione della cultura e dell’identitá sarda. Ma sará veramente una soluzione quella dell’indipendenza? Serve a molto avere un proprio Stato con governanti della propria terra che stilano documenti nelle lingue locali quando poi continuano ad esistere disuguaglianze sociali e sfruttamento del lavoro salariato? Ci si può sentire liberi sapendo che comunque il capitale che comanda è quello internazionale e che, se anche così non fosse, il capitale nazionale o locale non è cosa migliore? Queste sono solo alcune delle contraddizioni con le quali la Consulta Rivoluzionaria e chi la appoggia dovranno fare i conti, fermo restando le sacrosante ragioni di fondo che animano l’iniziativa e le potenzialitá insite nelle proposte finora avanzate e nei loro eventuali sviluppi. Tra chi era in piazza c’é chi ha la consapevolezza di rappresentare in qualche modo un’avanguardia, con la convinzione che in molti si uniranno in un futuro prossimo alle lotte. Lo sviluppo degli eventi mostrerà se questi hanno avuto ragione, se finalmente si è innescato un processo di reale ribellione nei confronti di uno stato di cose intollerabile che permane da troppo tempo e quali saranno i frutti di questo processo.

31 Ottobre, sciopero generale in Spagna.

L’organizzazione sindacale di base CGT (Confederación General del Trabajo) ha proclamato in Spagna uno sciopero generale per la giornata del 31 Ottobre. Sulle ragioni che hanno spinto a prendere questa decisione e sugli obiettivi che la CGT, con questa ed altre mobilitazioni, intende perseguire, è stato reso noto un comunicato a firma dell’organizzazione sindacale, che ho tradotto nella sua forma riassunta (l’originale lo potete leggere sul sito dedicato all’iniziativa; una versione del comunicato più estesa è stata invece tradotta dall’ufficio relazioni internazionali della FdCA e si trova su Anarkismo):

“Il 31 Ottobre la CGT, insieme ad altre organizzazioni, convoca uno sciopero generale di 24 ore in tutto lo stato Spagnolo perchè il governo, con la sua politica di tagli e riforme ai diritti lavorativi, alla spesa sociale, a salari, pensioni, sanità e educazione, sta smantellando i servizi pubblici essenziali e ci ha postato ad una autentica situazione di emergenza sociale. Dette politiche hanno provocato la disoccupazione di 6 milioni di persone, che il 52% dei giovani non abbia lavoro e sia costretto ad emigrare, che più di 700 mila persone siano state sfrattate dalle loro abitazioni, che milioni di persone stiano ingrossando le file dei poveri, sono politiche che stanno truffando tutta la popolazione per farci pagare la loro crisi. Uno sciopero generale perchè c’è l’amnistia fiscale per i defraudatori e privilegi fiscali per il grosso capitale. Uno sciopero generale perchè la crisi la paghi chi l’ha provocata, perchè i truffatori vengano perseguiti penalmente.

Perchè stiamo indicendo uno sciopero? Che tipo di sciopero?

Lo sciopero generale del 31 Ottobre è in primo luogo uno sciopero del lavoro, quindi dei lavoratori e delle lavoratrici per bloccare le imprese, i trasporti, i servizi, le comunicazioni e le amministrazioni, però è anche uno sciopero del consumo, per attaccare il capitalismo nella sua essenza e ridefinire il modello di sviluppo che sta depredando la vita nel pianeta, così come uno sciopero sociale per esigere diritti e libertà, per cambiare il modello con un’altro del quale possa beneficiare la maggioranza della popolazione attraverso una democrazia diretta e partecipativa.

Alternative della CGT alla crisi:

  • Abolire tutta la legislazione e le riforme aprovate contro i diritti della popolazione.
  • Protezione economica suffciente ai milioni di persone disoccupate.
  • Moratoria degli sfratti fino alla fine della crisi e politica sociale abitativa.
  • Riduzione della giornata lavorativa e dell’età pensionabile. Divieto della ERE (un tipo di procedura di licenziamento collettivo), cottimo, sottocontratti e ore extra.
  • No alla privatizzazione di sanità, istruzione, trasporti, comunicazioni, energia…
  • Accesso universale ai servizi pubblici per tutti e tutte.
  • Sviluppo degli aiuti alle persone non autosufficienti e suddivisione egualitaria dei lavori di assistenza.
  • Riforma fiscale, che paghi di più chi più ha e maggior tassazione di imprese e grande capitale.
  • Banca pubblica sotto controllo sociale che permetta l’accesso delle famiglie alle risorse.
  • Uso del denaro pubblico per la soddisfazione delle necessità delle persone e non per salvare le banche.
  • Abbandono di una politica economica indirizzata alla crescita illimitata e sostituzione con un’altra che tenga conto dei limiti delle risorse del nostro pianeta.
  • Il loro modello di democrazia non ci sta bene. Puntiamo su un altro modello di democrazia diretta, partecipativa e dal basso.”

In appoggio all’iniziativa è stata anche indetta, nella cittá tedesca di Dresda, una manifestazione di solidarietà con lo sciopero generale promossa sempre per il 31 Ottobre dall’Allgemeine Syndikat Dresden (FAU-IAA), che intende anche tematizzare i recenti scioperi in Portogallo, Italia, Grecia e Francia ma anche la situazione dei/lle lavoratori/trici salariati in Germania. Infatti, nonostante il capitalismo tedesco festeggi da vincitore e la popolazione non sia stata ancora colpita duramente dalla crisi così come avviene nei Paesi del Sud Europa, “si è comunque giunti negli ultimi anni ad un massiccio peggioramento della condizione sociale: pensione a 67 anni, calo dei salari reali (diminuzione del potere di acquisto, ndt), peggioramento dell’accesso a istruzione e sanitá, diffusione del lavoro interinale e di altre forme di precariato, umiliazione dei disoccupati e difficoltá di accedere ad alloggi a prezzi economici sono solo alcuni esempi”, si legge nel comunicato dell’Allgemeine Syndikat Dresden, che ricorda che “se noi stessi non agiamo, ci rendiamo responsabili dello sfruttamento di altri esseri umani” e che la manifestazione del 31 a Dresda “deve interessare tutte le persone dipendenti dal salario. Abbiamo bisogno di tutti/e!”

Argentina: crisi economica, lotte ed esperienze di autogestione.

Tre documentari sulla crisi economica che colpì l’Argentina alla fine degli anni ’90 del secolo scorso e sulle lotte dei ceti sociali vittime di tale crisi.

Diario del saccheggio, di Fernando E. Solanas, 2005. Narra le vicende della crisi economica in Argentina fino al Dicembre del 2001, data della caduta del governo di De La Rùa. Un vero e proprio atto di accusa nei confronti del genocidio sociale compiuto da politici, banche e multinazionali, supportato da una mole di informazioni rese però accessibili da un montaggio efficace e da una narrazione semplice e diretta. E, a proposito di “diretta”, a molti sembrerà di viverci dentro, a questo film: le analogie con molti aspetti  dell’attuale situazione italiana si sprecano.

La dignità degli ultimi, di Fernando E. Solanas, 2005. La prosecuzione ideale del documentario precedente (stavolta l’arco di tempo è dal 2001 al 2004), incentrato però maggiormente su storie personali di uomini e donne che hanno deciso di unirsi e resistere alla miseria, ai soprusi ed all’ingiustizia del potere. Toccante ma non stucchevole, a tratti poetico: le storie raccolte da Solanas hanno molto da insegnare e ridanno significato pieno a termini troppo spesso abusati e svuotati quali solidarietà, dignità, umanità e coraggio.

The Take- La Presa, di Avi Lewis (sceneggiatura di Naomi Klein), 2004. Il documentario è incentrato sull’occupazione delle fabbriche dismesse compiuta degli/lle ex operai/e rimasti disoccupati in seguito alla crisi economica ed alla fuga dei padroni. Estremamente formativo: quello che gli anarchici vanno ripetendo da sempre viene messo in pratica negli anni della crisi in Argentina da persone spinte dalla necessità e prive di preparazione teorica, che mettono in pratica principi quali autogestione, azione diretta, democrazia di base, mutuo appoggio, nonostante le difficoltà quotidiane e la reazione del capitale e dei suoi sgherri.