Nel dibattito su hijab e burkini sono maschilismo e ignoranza occidentalista a farla da padrone.

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Negli anni ’30 del secolo scorso lo Schah di Persia, al potere in Iran, impose una legge che proibiva alle donne l’uso in pubblico del velo. Quella che doveva essere una misura liberale, imposta da un Capo di Stato che rivestiva tale ruolo solo grazie al benestare occidentale, si rivelò un enorme ostacolo all’emancipazione femminile: molte donne che prima uscivano tranquillamente per strada e frequentavano luoghi pubblici indossando il niqab, vergognandosi di girare scoperte smisero di partecipare alla vita pubblica e si rinchiusero definitivamente tra le mura domestiche. Il velo divenne successivamente un simbolo di resistenza ostentato dalle donne che si opponevano al regime dello Schah. Oggi, a distanza di più di ottant’anni, capita di trovare piscine pubbliche in diverse località europee che proibiscono l’uso delle vasche per chi indossa abiti quali t-shirt o leggins o il cosiddetto burkini, mentre in Francia si parla di vietare l’uso del burkini in spiaggia. Per chi si chiede come mai qualcuna decide di fare il bagno in piscina o al mare o di stare in spiaggia vestita, la risposta è semplice: esistono prescrizioni morali e/o religiose che alcune persone si sentono di osservare. Se questa scelta sia volontaria o imposta è da stabilire principalmente secondo il punto di vista che ciascuno sostiene, secondo me ad esempio chi si sottomette ad un qualsiasi potere o forma di dominio non è veramente libero/a, d’altra perte secondo alcuni/e autoimporsi norme, regole e disciplina, seppur concepite da altri/e, aderire a questo o quell’alta dottrina prestabilita, è una libera scelta. Chi decide quindi di non mostrare parti del proprio corpo in pubblico perchè ciò è tabú per la religione che professa, compie una scelta volontaria, o perlomeno questo è ciò che comunemente viene affermato. Nei Paesi che il pensiero dominante Occidentale definisce “liberi” quasi nessuno/a va in giro nudo/a anche quando fa molto caldo e gli indumenti non sarebbero indispensabili, semplicemente perchè ci sono regole, non solo leggi ma anche e soprattutto norme sociali (in Germania ad esempio non è vietato mostrarsi nudi in pubblico, solo gli atteggiamenti “osceni” e “provocatori”  sono perseguibili per legge) che ci portano a non farlo, esiste quel comune senso del pudore che ci viene tramandato da millenni ed è parte integrante di ciò che riteniamo sia “normale”. Per molte donne cresciute in famiglie di religione musulmana, la normalità è quella di indossare un abbigliamento, l’hijab, che esse definirebbero decoroso, che non mette in mostra né sottolinea le forme del corpo femminile. Questa scelta è sí frutto dell’educazione e del condizionamento sociale (come centinaia di scelte quotidianamente compiute da uomini e donne non musulmani/e… anche le donne che indossano un tailleur, una minigonna o un abito scollato, senza rifletterci sono a volte condizionate nel farlo), ma più raramente di quanto si pensi viene imposta con la forza dal capofamiglia. Moltissime donne musulmane, in tutto il mondo, frequentano scuole e altre istituzioni pubbliche, lavorano e socializzano con altri esseri umani indossando indumenti consoni alla propria morale, sentendosi sicure di sé, senza subire l’ostracismo sociale di ambienti tradizionalisti. Che certe forme di tradizionalismo, così come il patriarcato e in fondo tutte le forme di irrazionalità e superstizione (incluse ovviamente le religioni) vadano superate è una mia ferma convinzione, ma ciò non può e non deve avvenire per imposizione di qualcuno, tanto meno se questo qualcuno è impregnato di ignoranza, opportunismo, intenti discriminatori ed è egli stesso condizionato da un’impostazione patriarcale e maschilista. Cosa particolarmente grave e disgustosa, questo “qualcuno” (anzi, “questi”…) che bolla burkini e hijab come imposizioni e a sua volta vorrebbe imporne il divieto, a volte è lo stesso individuo che di fronte ad uno stupro è capace di trasformare la vittima in colpevole (“andava in giro di notte da sola, in abiti succinti…aveva bevuto…aveva un atteggiamento provocante…”), ponendo i soggetti femminili in una condizione tutt’al più simile a quella di un animale da proteggere dall’estinzione o di una creatura debole e non pienamente capace che andrebbe difesa, o peggio di una proprietà del soggetto maschile (“le nostre donne…”). Il soggetto oppresso deve invece emanciparsi da sé, chi appoggia il processo emancipatorio non ha il diritto di imporre e decidere per gli/le altri/e, ma dovrebbe sostenere in modo solidale le scelte del soggetto che decide di liberarsi. Chi oggi in Occidente vorrebbe proibire alle donne di fede musulmana di indossare indumenti da loro ritenuti appropriati, per le strade o in spiaggia, compie una scelta discriminatoria e sessista che promuove l’esclusione sociale. Se ad esempio si proibisse di indossare il burkini in spiaggia, molte donne musulmane eviterebbero direttamente di frequentare quei luoghi. Come la mettiamo poi con quelle donne che musulmane non sono, ma vanno al mare vestite o indossano pubblicamente un qualche tipo di “velo”? Magari son poche, ma ci sono, come l’ anziana sarda con su mucadori o la classica babuschka delle zone rurali Est-europee, solo per citare due tipologie a caso. Senza contare il fatto che se oggi i divieti minacciano l’uso di determinati capi di abbigliamento femminile, domani potrebbe toccare ad altri modi di vestire, acconciarsi o esprimere le proprie inclinazioni, convinzioni, identità attraverso l’aspetto esteriore. Quante volte ancora le donne di tutto il mondo dovranno sentirsi dire da qualche uomo cos’è giusto o sbagliato fare, come devono o non devono vestirsi, quali mestieri o atteggiamenti o quale linguaggio o quali compagnie si addicono al loro “essere donna”? Sarebbe ora che ognuna ed ognuno decidesse per sé, per quanto questa scelta per ora, in società ancora non liberate e perciò condizionate dagli effetti dei sistemi dominanti, non possa definirsi a mio parere del tutto libera. Ogni donna, -ogni essere umano!- dovrebbe avere il diritto di andare in giro dove vuole, abbigliata come meglio crede, senza dover rischiare sanzioni,ostracismo o molestie, con buona pace di quelli che parlano di emancipazione femminile senza sapere cosa ciò significhi e senza aver mai chiesto il parere delle donne direttamente interessate.

Too little, too late: gli assassini razzisti Zimmerman e Roof assaggiano un pò di giustizia.

Un ragazzo di colore cammina per le strade di Sanford, Florida, USA. Ha in mano un pacchetto di caramelle e una bibita, la testa coperta dal cappuccio della sua felpa per ripararsi dalla pioggia. Va di fretta, sta andando a casa della fidanzata del padre. È la sera del 26 febbraio del 2012. Il ragazzo si chiama Trayvon Martin, ha diciassette anni e non arriverà a compierne diciotto: un vigilante privato gli spara a seguito di una colluttazione dopo averlo seguito credendolo, a suo dire, un malintenzionato sotto l’effetto di droga. Il vigilante, tale George Zimmerman, viene processato per omicidio di secondo grado e, il 13 Giugno del 2013, la giuria lo dichiara innocente. Il caso scatena negli USA un acceso dibattito sul razzismo e su una controversa legge di matrice repubblicana in materia di diritto all’autodifesa, la “Stand-your-ground law“. Zimmerman viene da più parti tacciato di razzismo, cosa che lui nega sottolineando le sue origini latinoamericane e portando a testimoniare a suo favore in tribunale alcuni suoi amici di colore. Di certo non si tratta del primo razzista a non avere un pedigree da WASP, né del primo razzista ad avere qualche “amico di colore” da mettere in bella mostra come alibi, così come è certo che Zimmerman non ha un gran bel carattere, essendo stato coinvolto, dopo il processo, in alterchi durante i quali ha fatto uso di violenza fisica e mostrato senza troppi problemi un’arma da fuoco. A proposito di arma da fuoco: quella usata per freddare Trayvor Martin è stata venduta all’asta da Zimmerman lo scorso Maggio per 250mila $, denaro con il quale egli dichiara di voler sostenere non meglio specificati “gruppi d’interesse”.

La Mother Emanuel African Methodist Episcopal Church, è una chiesa di Charleston, nella Carolina del Sud, USA, fondata nel 1816 dopo la scissione dalla chiesa metodista bianca nella quale dominava il razzismo. Uno dei membri fondatori fu Denmark Vesey, uno schiavo che comprò la propria libertà con il denaro vinto ad una lotteria, ma che non riuscì coi pochi soldi risparmiati col suo duro lavoro di muratore ad affrancare la moglie e la figlia, anch’esse schiave. Nel 1822 Vesey venne impiccato insieme ad altri 34 uomini dopo un processo svoltosi in segreto per essere stato accusato di aver organizzato una cospirazione atta ad uccidere i proprietari di schiavi a Charlestone, liberare gli schiavi e fuggire ad Haiti. La Mother Church venne bruciata da razzisti bianchi. Ricostruita definitivamente solo nel 1865, diverrà quasi un secolo più tardi uno dei centri della protesta per i diritti civili. Quella della chiesa e della comunità di fedeli che l’ha animata nel corso del tempo è una storia notevole, quasi simbolica e non sono in pochi a saperlo. Tra questi il giovane ventunenne suprematista bianco Dylann Roof, che il 17 Giugno del 2015 apre il fuoco sui/lle fedeli radunati/e dentro la chiesa, uccidendone 9. Catturato poche ore dopo dalla polizia, Roof si trova attualmente in carcere, il processo che lo vede imputato è iniziato il mese scorso. Su un sito web registrato da Roof pochi mesi prima che compisse la strage egli esterna le proprie convinzioni sulla superiorità della razza bianca e afferma che è stato l’omicidio di Trayvon Martin ad “aprirgli gli occhi”, perchè sono necessarie “azioni drastiche” per riaffermare il potere bianco in Nord America e in Europa.

Chi semina vento raccoglie tempesta”: un verso biblico che si sente citare spesso. Chissà se quel 17 Giugno di un’anno fa nella chiesa metodista di Charleston, durante l’ora di lettura della Bibbia, si discuteva anche di quel passaggio dell’ Antico Testamento. Di certo si tratta di un detto adatto a commentare quel che è accaduto pochi giorni fa ai due assassini nominati poco sopra. George Zimmerman si trovava in un ristorante nella zona di Sanford l’ultimo fine settimana di Luglio. Notando un tizio con un tatuaggio della bandiera degli Stati Confederati d’America, (la stessa bandiera che Dylann Roof mostra con orgoglio in alcune foto postate sul suo sito web, un simbolo considerato razzista da molti, non solo negli States), gli fa i complimenti e si identifica come “quello che ha sparato a Trayvon Martin”, per confermarlo tira addirittura fuori la carta d’identità. A quel punto un altro avventore del locale, identificato semplicemente come Eddie, si avvicina e gli dice “You’re bragging about that? You better get the fuck out of here” (“Te ne stai vantando? È meglio che ti levi dal cazzo”). Ne segue un’accesa discussione, al termine della quale Eddie sferra un potente cazzotto al volto di Zimmerman, lasciandolo sanguinante con gli occhiali fracassati per poi dileguarsi a bordo di una Harley Davidson prima del sopraggiungere della polizia. Pochi giorni dopo, la mattina del 4 Agosto, Dylann Roof viene assalito da un altro detenuto nel carcere di Charleston, nel quale è recluso in attesa di giudizio. L’aggressore, il 26enne di colore Dwayne Stafford, colpisce Roof provocandogli lividi e abrasioni. Intanto Stafford è appena uscito di prigione in attesa del suo processo che lo vede imputato per rapina: ha potuto pagarsi la cauzione grazie ai 100mila $ donati anonimamente da parecchie persone in un arco di tempo brevissimo su un sito di raccolta fondi appena diffusasi la notizia del pestaggio ai danni di Roof. Uno dei commenti più frequenti che gira per il web riguardo i due casi di giustizia “sommaria” nei confronti dei due razzisti: troppo tardi, troppo poco. A me piace pensare che ci siano persone che ancora hanno il coraggio di non tacere e di non stare ferme di fronte al razzismo ed alle sue manifestazioni concrete e mi piace anche pensare che, almeno qualche volta, anche se in piccolo, chi semina raccoglie.

Grecia: sgomberati tre edifici occupati destinati all’accoglienza dei rifugiati.

Fonte: Pressenza- International press agency.

” Grecia, sgomberati a Salonicco tre edifici occupati dai rifugiati

28.07.2016 – Redacción Barcelona

Quest’articolo è disponibile anche in: Spagnolo, Greco

Grecia, sgomberati a Salonicco tre edifici occupati dai rifugiati

Di Theodoros Karyotis

La mattina del 27 luglio a Salonicco, in un atto senza precedenti nella ‘democrazia’ greca, il governo ha fatto sgomberare tre case occupate utilizzate come rifugio per i profughi.
Il governo di sinistra intende così trasmettere un messaggio preciso: nella difficile situazione dei rifugiati non c’è spazio per risposte basate sulla solidarietà e l’auto-gestione. Al loro posto solo carità statale, confino, emarginazione e deportazioni selettive, portati avanti da un governo che applica alla lettera le criminali politiche sull’immigrazione dell’Unione Europea.

Lo sgombero è avvenuto solo due giorni dopo la conclusione del campo No border a Salonicco, in cui migliaia di attivisti di tutta Europa si sono riuniti per protestare contro queste politiche.

Una delle case, Nikis, era occupata da tempo. E’ stata aperta per accogliere famiglie allo scoppio della crisi dei rifugiati. Un’altra casa, Orfanotrofeio, è stata rioccupata l’anno scorso con l’esplicito proposito di ospitare famiglie di migranti e profughi in modo auto-gestito. La terza, situata nel centro della città, è stata occupata pochi giorni fa, sempre con lo stesso obiettivo.

Orfanotrofeio  è stata sgomberata e subito dopo demolita. Sono rimaste così sepolte sotto le macerie tonnellate di medicine, cibo, vestiti e articoli di prima necessità destinate alle famiglie di rifugiati, così come gli effetti personali degli occupanti. Nel corso delle tre operazioni sono state arrestate centinaia di persone, tra cui molte profughe, inviate ai campi di detenzione e militanti greci ed europei del movimento di solidarietà con i rifugiati. A metà giornata del 27 luglio erano ancora sotto la custodia della polizia.

Non è la prima volta che il governo di Syriza mostra la sua faccia autoritaria. Dopo aver imposto le disastrose misure di austerity che il precedente governo di destra non era riuscito a realizzare, compete anche con questo nella dura repressione di chi continua a protestare e a lottare per la libertà e la dignità degli esseri umani.

Come risposta, una moltitudine di gente ha occupato la sede di Syriza a Salonicco. L’edificio è circondato da ingenti forze di polizia ed esiste la possibilità di scontri violenti. In tutta la Grecia intanto si stanno organizzando eventi, proteste e manifestazioni di solidarietà.

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Assalto agli edifici occupati dai rifugiati

Traduzione dallo spagnolo di Anna Polo”