Il populismo e ciò che vi si nasconde dietro.

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Uno spettro si aggira per l’Europa: lo spettro del populismo. Dopo Brexit e Trump presidente degli USA, molti politici, analisti, commentatori, esperti e comuni cittadini sono preoccupati per l’ascesa di movimenti e partiti populisti in tutta Europa, fino a paventarne, in alcuni casi, una possibile presa di potere. Non si può negare che alcuni di questi partiti e movimenti abbiano recentemente raggiunto risultati elettorali importanti, né sarebbe irrealistico ritenere che alcuni di essi possano addirittura arrivare ad ottenere una maggioranza in qualche parlamento nazionale e a formare un governo*. Prima però di chiederci cosa ciò concretamente possa significare, quali cambiamenti potrebbero in tal senso prospettarsi sul piano politico, sociale, economico e culturale di un Paese o di un’unione di Paesi, dovremmo provare a rispondere ad una domanda fondamentale: cosa significa nei fatti il termine populismo?

Un tentativo di definizione del populismo.

Il vocabolario Treccani parla dei Narodniki russi, di Juan Perón, di arte e letteratura e, in mezzo a ciò, fornisce la definizione apparentemente più appropriata, che connota il populismo come “atteggiamento ideologico che, sulla base di principî e programmi genericamente ispirati al socialismo, esalta in modo demagogico e velleitario il popolo come depositario di valori totalmente positivi”. Il populismo emerge specialmente nei momenti di crisi politica o economica, è  caratterizzato dal riferimento centrale, perlopiù retorico, al popolo quale soggetto reale di riferimento della politica, non solo depositario di valori positivi e dotato della capacità istintiva di comprendere quali siano i veri problemi della società e le rispettive soluzioni, ma anche destinatario dei benefici di un governo ideale, ad esso vicino e pertanto attento alle sue esigenze. Oggi il termine “populista”, associato spesso a quello di “demagogo”, viene perlopiù affibbiato a persone o gruppi che attaccano la classe politica accusandola di essere lontana dagli interessi reali del soggetto denominato di volta in volta “popolo”, “cittadini”, “elettori” o “gente”. A loro volta tali persone e gruppi, quando non rifiutano il termine, lo connotano positivamente rivendicando la propria vicinanza nei confronti del popolo e dei suoi interessi. Il populista si fa portavoce di quello che, secondo lui/lei, la maggioranza pensa ma non dice, polarizza ricorrendo a facili schemi in stile “buono/cattivo”, propone argomenti e soluzioni semplificate. Populisti possono essere pertinentemente definiti quei partiti e movimenti dalla connotazione anti-establishment, “antipolitici”, anti-intellettuali, critici nei confronti delle istituzioni transnazionali e della globalizzazione, della corruzione e del malaffare, della classe politica e dei partiti tradizionali.  Per quanto concerne specificamente il populismo di destra, va aggiunta l’opposizione alla società multiculturale e all’immigrazione “incontrollata”. La dicotomia è comunque quella del discorso retorico del “noi qui sotto” contro “loro lá sopra”, dove per “noi” si intendono i comuni cittadini, mentre “loro” sono politici affermati, intellettuali, tecnocrati, vertici amministrativi istituzionali, spesso anche alta finanza. Da notare però che a far ricorso a tale retorica non sono solo esponenti di organizzazioni definite comunemente populiste, ma anche, a seconda delle circostanze, rappresentanti di partiti politici tradizionali , fatti a loro volta bersaglio degli attacchi dei populisti comunemente etichettati come tali. Questo anche perchè il populismo non è di per se un’ideologia come lo sono storicamente, ad esempio, il liberalismo o il socialismo, quanto una modalità di relazionarsi, è innanzitutto un approccio “anti-qualcosa”. Nonostante sia riconoscibile e definibile, è al tempo stesso flessibile, camaleontico. Questa è in parte la sua forza ma anche, probabilmente, la sua principale debolezza in termini di un suo possibile successo.

Caratteristiche specifiche del populismo di destra.

Nella variante di destra del populismo, alcuni elementi ideologici centrali, tipici dei classici partiti dell’estrema destra, vengono modificati in modo da rendere messaggi e programmi più moderni ed accettabili, meno ideologici e al tempo stesso più vicini alle paure ed ai pregiudizi dell’ “uomo qualunque”: ad esempio, ai concetti di razza e nazione si sostituiscono quelli di tradizione, cultura, patria, etnia, mentre il modello di sistema auspicabile non è più quello di una dittatura fascista, piuttosto una trasformazione della democrazia in senso autoritario, etnocentrico ed esclusivo. I movimenti populisti di destra si dicono favorevoli all’uso di strumenti di democrazia diretta (referendum), che vorrebbero usare per legittimare, anche a livello legislativo, norme discriminatorie, così come strumentalizzano i diritti democratici e le conquiste sociali per escludere e criminalizzare quelle minoranze che, al lor dire, minaccerebbero tali diritti: secondo questo ragionamento, per esempio, i musulmani non riconoscerebbero il pluralismo religioso, i diritti LGBT, la parità fra i sessi ecc…, pertanto non sarebbero compatibili con la democrazia e la civiltà occidentale. Ciò non significa che i populisti di destra non siano essi stessi omofobi e transofobi, a favore della famiglia tradizionale o si mostrino aperti nei confronti di tutte le confessioni religiose, semplicemente quelle che sono rivendicazioni o conquiste tipicamente progressiste vengono strumentalizzate in chiave anti-inclusiva. Allo stesso modo, la libertà di espressione sarebbe minacciata dalla cultura del “politicamente corretto” e dalla presunta egemonia culturale della sinistra: il diritto di chiunque a dire ciò che pensa viene usato per rendere normali e accettabili discorsi beceri, xenofobi, intolleranti, ma soprattutto per chiedere a gran voce che la libertà la si tolga a qualcun’altro. Il discorso centrale vede l’identità collettiva della popolazione autoctona minacciata da influenze esterne, siano esse culturali o economiche, laddove per “esterne” si intendono anche quelle provenienti dall’establishment.

Fra i partiti della destra populista esistono sfumature e differenze nel posizionamento su alcuni temi, così come esistono differenze sul modo di etichettarli, considerato che da alcuni commentatori il termine “destra populista” viene usato come sinonimo di “estrema destra”, da altri invece come termine che indica una connotazione politica più moderata.**  Nell’ Europa occidentale diversi partiti della destra estrema, facendo ricorso a strategie e argomenti populisti, hanno ottenuto negli ultimi anni e decenni consistenti risultati elettorali: Front National in Francia, Lega Nord in Italia, PVV in Olanda, FPÖ in Austria, Nuova Democrazia in Svezia, SVP in Svizzera, Partito del Progresso in Danimarca, Veri Finlandesi in Finlandia e altri ancora. Di fronte a cambiamenti culturali, crisi economiche  e questioni cruciali di importanza globale, questi hanno saputo abilmente far leva sulle paure del ceto medio, preoccupato di un peggioramento della propria condizione, così come sul crescente impoverimento della classe lavoratrice e dei suoi membri disoccupati, sul suo risentimento e sui suoi pregiudizi, sulla paura dello sradicamento culturale, sull’inquietudine per il futuro. L’uso di slogan semplificati, i discorsi viscerali, la capacità di dividere settori della popolazione mettendoli gli uni contro gli altri in modo strumentale si sono rivelati metodi efficaci ed hanno portato ad una crescita di consenso nei confronti di queste organizzazioni, capaci di raccogliere i voti di chi in precedenza era astensionista o appoggiava partiti tradizionali, anche a fronte di una crisi della rappresentatività sempre più sentita.

 Obiettivi dichiarati e risultati reali.

Ma, a conti fatti, cosa vogliono ottenere i populisti? A cosa serve veramente il populismo, ad avvicinare la politica alle masse, a far agire un governo in difesa dei reali interessi del comune cittadino, ad affrontare questioni irrisolte sulle quali finora la politica ufficiale ha taciuto o non ha agito in modo efficace? Nella retorica di movimenti e partiti populisti dovrebbe essere proprio così, ma la realtà è diversa, a cominciare dal fatto che le promesse fatte in campagna elettorale sono perlopiù esagerate e a scopo propagandistico, così come il programma teorico di un partito il più delle volte non trova uguale applicazione nei fatti. Ciò vale per le liste elettorali tradizionali così come per quelle nate dal malcontento popolare. Nella retorica del populismo le masse vanno sostanzialmente bene così come sono, non devono prendere coscienza, né emanciparsi. I leaders e “quelli che stanno in alto” le hanno tradite, hanno disatteso le loro aspettative, perciò è tempo di nuovi leaders, magari gente comune estranea all’entourage finora ai vertici. Da un punto di vista prettamente democratico rappresentativo, l’affermarsi di tendenze populiste può portare da un lato a maggior partecipazione e interesse delle masse per la res publica, la cosa pubblica, rafforzando e spingendo le istituzioni a venir maggiormente incontro ad alcune esigenze particolarmente sentite dalla popolazione di un Paese. D’altro canto, può sfociare nell’affermarsi di tendenze spiccatamente autoritarie (nel senso comune del termine così come viene usato nelle democrazie liberali), all’esclusione sociale e alla discriminazione in senso negativo di fette della popolazione, alla chiusura di fronte alle politiche di cooperazione e partecipazione internazionali. Se la seconda ipotesi sembra la peggiore, va fatto notare come, alla fine, pur di inserirsi nei meccanismi della politica dominante, anche i populisti devono ripulirsi un pò, abbassare i toni rinunciando alle componenti più radicali dei loro discorsi. In quanto alla prima ipotesi, è poprio questo il meglio che ci si può aspettare da un certo populismo protestatario***(un caso fra tutti, quello degli indignados in Spagna), le cui rivendicazioni vengono inglobate dall’ideologia dominante allo scopo di rafforzarla, seppellendo qualsiasi aspirazione di rottura col presente, poichè se un movimento o organizzazione populista non scompare presto dalla scena, per affermarsi e durare nel tempo deve adeguarsi alla struttura dominante, non essendo esso realmente interessato a distruggerla per creare qualcosa di radicalmente nuovo. Anche i populisti più beceri fanno comodo, perchè se da un lato vengono attaccati da massmedia e politici affermati, la loro presenza giustifica un voto contro di essi e quindi a favore dei partiti tradizionali…che al tempo stesso non si vergognano di attingere da essi rivendicazioni e punti programmatici! A conti fatti, spesso il populismo funge da valvola di sfogo per poi rientrare nei ranghi, legittimando ancor più il sistema che critica, tutt’al più facendo in modo che cambi qualcosa affinchè tutto rimanga uguale. Non che ci si possa aspettare di meglio da chi concepisce il “popolo” come un blocco omogeneo, virtuoso così com’è, proteso verso un mondo ideale al quale si verrà condotti da nuovi, incorruttibili capipopolo…magari pure a marcia indietro!

A chi non serve il populismo.

C’è chi nella melma populista sguazza quotidianamente, dai massmedia che alimentano la tendenza per poi demonizzarla, ai vertici al potere che la usano a proprio vantaggio. A chi si sente dimenticato dalle istituzioni, vittima vera o presunta delle storture di un sistema che non viene percepito come storto nella sua essenza e totalità, serve una valvola di sfogo. È indubbiamente una bella sensazione quella di essere ascoltati da qualcuno che finge di capirti in maniera convincente e che afferma di portare avanti le tue istanze. Essere parte di una comunità ideale, un tassello di un grande progetto ha una funzione catartica che spesso si esaurisce nelle manifestazioni esteriori senza intaccare la sostanza del pensiero di un individuo che nemmeno si percepisce intimamente come tale. È qui che fa presa la strategia populista. Questo perchè manca la diffusione capillare di coscienza e maturità. Non possiamo aspirare a cambiamenti radicali senza prima cambiare radicalmente le persone. A tutti/e coloro i/le quali non servono identità fittizie e rappresentanti ai vertici di un sistema che agisce contro i nostri reali interessi, non serve nemmeno il populismo. Non serve a chi agisce direttamente per costruire realtà alternative tra le pieghe dell’esistente, né a chi aspira ad una realtà nuova. Agli/lle altri/e, rimarrà sempre la speranza disattesa di poter migliorare qualcosa affidandosi all’imbonitore di turno, finendo per essere pedine in un gioco che non si sono nemmeno realmente sforzati/e di comprendere.

 

*In Grecia è attualmente al governo un raggruppamento, SYRIZA, considerato da diversi commentatori populista (di sinistra).

**Per quanto mi riguarda considero valida, in termini generali, l’opinione del sociologo ed esperto di estrema destra Alexander Häusler, che definisce il populismo di destra come un “metodo stilistico della modernizzazione” dell’estrema destra.

***Il politologo Pierre-André Taguieff fa una distinzione analitica tra “populismo di protesta” e “populismo dell’identità”, laddove quest’ultimo radicalizza ed essenzializza il concetto di appartenenza ad un’identità comune (etnica, nazionale, culturale…) ritenuta migliore in contrappposizione a ciò che viene definito estraneo, “altro”. In alcuni casi queste due modalità di populismo si sovrappongono.

Andrés Ruggeri, “Le fabbriche recuperate”.

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Andrés Ruggeri, “Le fabbriche recuperate. Dalla Zanon alla RiMaflow. Un’esperienza concreta contro la crisi”, edizioni Alegre, 2014, ISBN 978-88-98841-07-3

Andrés Ruggeri, antropologo presso la facoltà di Lettere e filosofia di Buenos Aires, analizza in questo libro il fenomeno delle imprese recuperate dai/lle lavoratori/trici in Argentina, principalmente a partire dalla crisi economica del 2001 fino ad un paio di anni fa. Abbandonate dai padroni, occupate e rimesse in funzione dai/lle lavoratori/trici in un contesto spesso difficilissimo, le cosiddette fabbriche recuperate in Argentina sono più di 300 e consentono di lavorare a più di 15mila persone: una goccia nel mare dell’economia nazionale, forse, ma secondo l’autore di questo libro un esempio concreto e funzionante di come democrazia di base, mutuo appoggio, autogestione e soddisfacimento dei propri bisogni possano affermarsi anche nei momenti più difficili, in controtendenza rispetto al paradigma capitalista fondato su accumulo del capitale, massimizzazione dei profitti, sfruttamento, precarizzazione, predazione delle risorse e autoritarismo. Ne “Le fabbriche recuperate” vengono analizzati diversi elementi fondamentali, utili a comprendere il fenomeno in questione. Viene illustrato il contesto socio-economico nel quale nascono queste imprese, la loro tipologia, il loro sviluppo negli anni, il ruolo dei sindacati e dei diversi movimenti di lotta ma anche il rapporto spesso difficile o addirittura conflittuale con le istituzioni locali e nazionali, le strategie dei/lle lavoratori/trici e i loro obiettivi, la struttura e l’economia interna delle aziende recuperate ed il loro rapporto con il mercato, il ruolo delle tecnologie. Il tutto senza imbellettare la realtà e senza risparmiare critiche, parlando chiaramente di limiti ed errori, ma sempre sottolineando la genuinità, l’importanza e le potenzialità insite nell’autogestione operaia. Chi peró fosse interessato/a a conoscere meglio le esperienze di autogestione lavorativa in altri Paesi, ad esempio in Italia, dovrà procurarsi altri testi: nel titolo italiano del libro si cita infatti la fabbrica recuperata milanese RiMaflow, ma il libro in questione si concentra quasi esclusivamente sulla realtà argentina. Il che, secondo me, non è un limite e serve anche ad evitare che i contenuti risultino troppo dispersivi, mentre l’analisi di Ruggeri si presenta centrata e sintetica pur offrendo al tempo stesso un quadro generale di solide basi sulle imprese recuperate nel suo Paese e sul movimento, le idee e le forze che hanno permesso che un’aspirazione collettiva divenisse realtà tangibile.

Erich Fromm, “Avere o essere?”.

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“Avere o essere?”, insieme a “L’arte di amare”, è uno dei libri più noti dello psicoanalista e sociologo tedesco Erich Fromm, figura di spicco della cosiddetta Scuola di Francoforte. In questa sua opera Fromm definisce la differenza tra due modalità esistenziali contrapposte, quella dell’ essere e quella dell’avere. Partendo da una critica radicale all’attuale società moderna, alienata e spinta verso la catastrofe dal sistema economico e sociale capitalista, l’autore si richiama ad una lunga tradizione spirituale e filosofica per rilanciare l’urgenza della modalità esistenziale dell’essere, da lui definita come attività realmente produttiva e creativa che porta l’individuo a realizzarsi interiormente ed a creare una società emancipata e basata sui presupposti dell’umanesimo. L’Uomo contemporaneo, secondo Fromm, è falso, superficiale, attaccato a beni futili, ossessionato dall’accumulo, incapace di vivere relazioni amorose e sociali realmente sane ed autentiche, manipolato nei gusti e nelle opinioni, nevrotico, potenzialmente distruttivo nei confronti di se stesso e degli altri, è dominato insomma dalla modalità dell’avere. Essere significa accettare la proprietà solo quando è funzionale; l’autorevolezza e non l’ autorità; conoscenza come processo di autoaffermazione della ragione umana della quale l’ignoranza, il sapere di non sapere, è parte integrante; l’attività concepita non come generico “essere indaffarati”, ma come continuo processo di crescita, divenire, mutamento; individualismo piuttosto che egoismo; solidarietà e condivisione. Al contrario, avere vuol dire fuggire da se stessi; essere posseduti dagli oggetti che possediamo, dall’ansia di doverne acquisire di nuovi e dalla paura di perderli; vedere le persone come oggetti, l’amore come oggetto; indossare sempre una maschera; voler depredare, distruggere, conquistare; avidità, autoritarismo, senso di superiorità che nasconde reali paure e nevrosi. Eccellente nel definire le due opposte modalità esistenziali nella loro dicotomia e nel propugnare la scelta dell’essere, Fromm si mostra però a mio parere debole nel campo delle proposte per la creazione di una nuova umanità e, di conseguenza, di una nuova società, rimanendo ancorato anche solo in parte a schemi facenti parte delle sovrastrutture dominanti e mancando di una articolazione propositiva per così dire “forte”. Senza voler essere eccessivamente severi, va ammesso che nessuno può proporre soluzioni valide che siano al tempo stesso preconfezionate, valide per tutti i luoghi, i tempi e le situazioni. Inoltre le idee espresse da Fromm e la sue lucide e puntuali analisi di stampo scientifico sono a mio parere imprescindibili come punto di partenza per un percorso di liberazione dell’umanità, liberazione che non s’intenda solo in senso materiale ma anche e soprattutto, passaggio questo fondamentale, sotto l’aspetto psicologico, ideale e “spirituale”.

La vera natura della crisi economica.

Qual’è la vera natura della crisi economica attraversata attualmente dal sistema capitalista? Di sicuro molti di voi avranno sentito innumerevoli spiegazioni a riguardo, tesi diverse e spesso contrastanti a seconda di chi le propone, in buona fede o meno. È colpa della natura umana, dell’egoismo e dell’istinto predatorio? Oppure le istituzioni preposte al controllo ed alla regolamentazione del mercato e della finanza non hanno agito come avrebbero dovuto ed ora occorre riformarle per evitare nuovi disastri? Hanno ragione gli economisti keynesiani-trattino-socialdemocratici, quando dicono che lo Stato dovrebbe avere più controllo sull’economia, o i loro avversari neoliberisti, che sostengono che le cause della crisi siano da ricercare nell’intromissione degli Stati in quello che dovrebbe essere un mercato veramente libero e deregolamentato basato interamente sull’iniziativa dei privati? Le radici della crisi risiedono nella cultura e nella mentalitá di questo o quell’altro Paese? A mio parere nessuna di queste spiegazioni può ritenersi soddisfacente, anche se ognuna di esse potrebbe contenere un fondo di veritá. Quello che sfugge ai piú, o che non si vuole ammettere perché significherebbe ammettere il fallimento dell’attuale sistema economico nel suo insieme, è che non solo questa crisi, ma LE crisi economiche sono un fattore ciclico del sistema capitalista. Riscoprire Marx? In effetti l’analisi che l’economista tedesco fece a suo tempo del sistema capitalista è tutt’ora in gran parte valida ed è difficile negare, onestamente, che egli abbia avuto ragione su molte cose- così come, a mio modesto parere, ha avuto torto su altre. Ed è proprio basandosi su un’analisi di tipo marxista che il sociologo britannico esperto di geopolitica David Harvey tenta di spiegare la crisi, come si può vedere nel video animato che trovate qui sotto in italiano. Un’analisi su basi piú solide non l’ho trovata- ma esiste? Intanto capire l’attuale situazione di crisi é anche e soprattutto la condizione essenziale per poter elaborare e proporre soluzioni e risposte ad essa ed al sistema che l’ha generata, rifiutando di subire passivamente un corso degli eventi devastante ed annichilente.

A Malatesta.

Sono passati ottant’anni dalla morte di Errico Malatesta, colui che viene ritenuto il più noto ed influente anarchico italiano degli ultimi due secoli. Malatesta morì durante il regime fascista, quasi ottantenne, chiuso nella sua abitazione romana e sorvegliato a vista da alcune guardie. Aveva lottato instancabilmente durante la sua vita, diffondendo il pensiero anarchico e l’azione sovversiva per mezzo mondo, partecipando a insurrezioni, scioperi, comizi ed altre lotte sociali dall’Italia all’Argentina, dalla Svizzera alla Spagna, dall’Inghilterra all’Egitto, finendo più volte sotto processo e perfino in galera. Il suo modo d’intendere l’anarchia non era dogmatico nè ingabbiato in schematismi di sorta e rifletteva la sua volontà di mantenere unite le diverse componenti del variegato movimento: pur essendo tendenzialmente comunista libertario ed organizzatore, riteneva che le differenze fra individualisti ed “anarchici sociali” fossero di scarsa importanza e che l’unica differenza rilevante fosse quella fra anarchici e non-anarchici, concezione che si rifletteva nel suo definirsi “anarchico senza aggettivi”.

Quando iniziai ad avvicinarmi alle idee anarchiche, o per meglio dire quando mi resi conto di essere anarchico, tra gli scritti che lessi e che più mi rimasero impressi vi furono proprio quelli di Malatesta, non solo per la loro chiarezza e per il fatto che molti dei concetti da lui espressi li avevo già formulati nella sostanza per conto mio senza sapere che qualcun’altro li avesse elaborati settanta o ottant’anni prima, ma anche e soprattutto per il senso di umanità e di onestà intellettuale che da tali scritti traspariva. Coerente e deciso nel sostenere le proprie posizioni, accettava di buon grado il confronto con altri compagni anche quando questi portavano avanti posizioni diverse dalle sue con toni molto accesi e non censurava le loro opinioni.  Persona fondamentalmente amante della pace e che sognava una società libera e nonviolenta, comprendeva però la tragica necessità di usare la violenza per abbattere il sistema dominante, una violenza, quella anarchica, “che cessa dove cessa la necessità della difesa e della liberazione“. Di fronte ad un evento sciagurato come l’attentato avvenuto nel 1921 al Teatro Diana di Milano, Malatesta espresse una dura condanna nei confronti del gesto (che definì “delitto esecrando che giova solo a chi opprime i lavoratori e a chi perseguita il nostro movimento“, rimarcando in seguito il fatto che «…Qualunque sia la barbarie degli altri, spetta a noi anarchici, a noi tutti uomini di progresso, il mantenere la lotta nei limiti dell’umanità, vale a dire non fare mai, in materia di violenza, più di quello che è strettamente necessario per difendere la nostra libertà e per assicurare la vittoria della causa nostra, che è la causa del bene di tutti…»), ma contemporaneamente mostrò comprensione nei confronti degli attentatori, «compagni nostri, buoni compagni nostri, pronti sempre al sacrificio per il bene degli altri»; gente che «nel compiere il loro tragico ed infausto gesto intendevano fare opera di sacrificio e di devozione. […] Quegli uomini hanno ucciso e straziato degli incolpevoli in nome della nostra idea, in nome del nostro e del loro sogno d’amore. I dinamitardi del “Diana” furono travolti da una nobile passione, ed ogni uomo dovrebbe arrestarsi innanzi a loro pensando alle devastazioni che una passione, anche sublime, può produrre nel cervello umano (…)».È anche alla luce di queste considerazioni che per me il pensiero di Malatesta risulta più attuale che mai, un pensiero che, come lui diceva riferendosi alla pratica dell’anarchismo, deve adeguarsi ai tempi ed alle circostanze che tra loro differiscono.

Malatesta morì ma non si spense, Malatesta morì ma mai si arrese, né mai vennero a mancare i compagni e le compagne che, in ogni luogo ed epoca successiva, furono pronti a lottare per le stesse idee cha animarono la sua azione in vita. Non un personaggio da erigere su di un piedistallo che mai avrebbe voluto, ma un compagno da apprezzare e rispettare nel presente, impegnandosi nella lotta come lui fece in vita consegnandoci un esempio immortale.

(Video: brano inedito del cantautore Alessio Lega, eseguito  presso il monumento a Emilio Canzi (Peli di Coli – PC) il 24/06/2012).

Massimo Fini, “Il denaro ‘Sterco del demonio'”.

Massimo Fini, “Il denaro ‘Sterco del demonio'”Tascabili Marsilio, 1998 (quarta edizione 2008).

Il libro di Massimo Fini "Il denaro 'Sterco del demonio'"

Massimo Fini é indubbiamente un personaggio difficile da inquadrare nei classici schemi di pensiero o ideologici di “destra” e “sinistra”. Etichettato superficialmente da più parti come “fascista”, in realtà mostra idee poco convenzionali e abbastanza originali, solo in parte frutto di un’eventuale influenza di pensatori dell’estrema destra (vedi il famigerato Julius Evola). Di sicuro, per quanto mi riguarda, mi sento lontano per molti aspetti dal pensiero di Fini, tanto dal suo “elogio della guerra” all’antica o dalla sua difesa del patriarcato o dal suo antimodernismo esasperato e condivisibile solo per alcuni aspetti, quanto dal suo riproporre modelli economici e sociali che si richiamano alla tradizione medioevale europea e che non mettono in discussione concetti quali dominio, gerarchia e autorità. Devo però riconoscere che le sue analisi sono spesso brillanti e per nulla convenzionali, meritevoli di attenzione e, magari, potenziali fonti d’ispirazione come nel caso dell’opera in questione. “Il denaro sterco del demonio” infatti non é solo un’avvincente ricostruzione storica, economica e antropologica su come e quando sia nato il denaro e su come fossero organizzati sistemi economici nei quali la moneta era assente, ma anche e soprattutto una critica devastante e senza mezzi termini al denaro stesso, elevatosi a divinitá dei tempi moderni, una scommessa sul futuro -ovvero sul Nulla. Il denaro condiziona il nostro stile di vita, la nostra esistenza, impedendoci di pensare al presente mentre viviamo in sua funzione ed in funzione di un futuro sempre più lontano ed inafferrabile, ci impone un modello economico, politico e sociale fine a se stesso e non al benessere ed alla felicità dell’umanità, non crea ricchezza reale ma piuttosto sfruttamento. Staccatosi definitivamente col tempo dalla materia, reso ancor più “fantasma” dalle transazioni virtuali, il denaro ha raggiunto la sua perfezione metafisica, ma al tempo stesso si avvicina sempre più alla propria fine, capace solo di riprodurre se stesso teoricamente all’infinito, praticamente fino all’implosione del sistema che ha generato.

Interessante confrontare alcuni concetti chiave sul denaro espressi da Fini in questo suo saggio con le parole pronunciate da David Graeber (alcuni giorni fa ho recensito il suo “Critica della democrazia occidentale”) durante il People’s Economic  Furum nel 2008:

Cooperative, capitalismo e l’IWW: una critica costruttiva.

Ho appena letto un’articolo su un blog del sito (portale?) Libcom in lingua inglese, scritta da Steven Johns e ho deciso di riportarne qui il link. Si tratta di una critica costruttiva ad un manifesto del sindacato libertario Industrial Workers of the World che illustra come una cooperativa possa essere una valida forma alternativa rispetto all’impresa capitalista con capi, gerarchie e tutto il resto.

Co-operatives, capitalism and the IWW

Le osservazioni fatte da Steven sono a mio parere nell’insieme condivisibili, è chiaro che in ogni caso è preferibile per dei lavorator/trici organizzarsi in cooperativa piuttosto che lavorare “sotto padrone”, senza però farsi illusioni sul fatto che ciò possa in qualche modo tirare fuori i/le lavoratori/trici dal sistema di mercato capitalista e senza dimenticare tutti i potenziali rischi e svantaggi legati alla concorrenza di altre aziende (specialmente catene) organizzate in modo tradizionale ed al conseguente autosfruttamento dei lavoratori/trici della cooperativa. È anche evidente che fondare cooperative può essere appetibile per chi voglia migliorare le proprie condizioni di lavoro e sperimentare forme di autogestione, ma non sarà certo questo a rovesciare il sistema economico capitalista! Sul fatto che il lavoro in una caffetteria sia sempre e comunque stupido ed inutile ho le mie riserve, dipende da cosa viene fatto nella tale caffetteria, se ci si limita a far pagare caffè e panini, come dice Steven, o se si tratta di qualcosa di diverso, più interessante, vario e creativo… ma si tratta comunque di un’osservazione a margine, é la parte centrale del discorso a meritare attenzione e adeguate riflessioni e discussioni. Buona lettura!

“Co-operatives, Capitalism and the IWW”.

Proprietà, possesso e furto.

L’ anarchico francese Pierre-Joseph Proudhon affermava che “la proprietà è un furto”, ma cosa intendeva dire esattamente? Che differenza c’è tra proprietà e possesso? Qual’è in linea di massima la posizione degli anarchici sulla legittimità o meno di proprietà e possesso? E sul furto? Per capire meglio questi concetti e per tentare di rispondere, pur senza avere pretese di esaustività, agli interrogativi appena posti, propongo la lettura di due testi, il primo tratto dalla sezione “citazioni sulla proprietà” di Anarchopedia, il secondo pubblicato sul sito Finimondo:

    ” <<Per capire bene la proprietà privata, bisogna distinguere tra una “proprietà” ed un “possesso”.

La “proprietà” è un monopolio su certi oggetti o privilegi protetti dallo stato, che potrebbero essere usati per lo sfruttamento d’altri. Un “possesso”, d’altra parte, è l’occupazione di certi oggetti che non possono essere usati per sfruttare altri (l’auto, il frigo, lo spazzolino da denti!! ecc) Per esempio, la casa dove uno vive è un possesso, invece se uno affitta questa casa ad altri, diventa una proprietà. Come, se uno usa un trapano per lavorare, questo trapano è un possesso, ma se assume un altro per usare il trapano, sistematicamente, il trapano diventa una proprietà. Anche se inizialmente, potrebbe essere difficile distinguere, questa distinzione aiuta moltissimo a capire la natura del capitalismo. Si tende ad usare la parola “proprietà” per tutto, dallo spazzolino da denti alla multinazionale, ma sono due cose diverse e con impatti sociali molto diversi. La differenza tra una proprietà ed un possesso si può vedere dai tipi di relazioni autoritari che generano. Per esempio, sul posto di lavoro, si capisce subito chi determina come debbano essere usati gli “oggetti” e chi effettivamente li debba usare. Questo porta ad un sistema quasi totalitario.

§         <<Nella società anarchica, non esisterebbero proprietà, ma soltanto possessi. Le case, come i mezzi di produzione, sarebbero possessi di chi li occupa, ma non ci sarebbe mai un diritto di proprietà, come nel sistema attuale. Pëtr Kropotkin affermava che lo stato era, “lo strumento per stabilire monopoli in favore della minoranza regnate.” Mentre certi di questi monopoli sono visibili, altri non si vedono e non hanno bisogno della forza per essere mantenuti.>>

§         <<Ci sono quattro tipi di proprietà che sono protetti dallo Stato:

1) Il potere di dare credito e denaro (la base del capitalismo bancario)

2) La terra e costruzioni (la base degli affitti)

3) I mezzi di produzione (la base del capitalismo industriale)

4) Le idee ed invenzioni (la base del copyright o “proprietà intellettuali”)

Mantenendo queste forme di proprietà, il capitalismo assicura che le condizioni oggettive dell’economia favoriscano il capitalista, con gli operai liberi soltanto di accettare i contratti di lavoro. Finché lo stato manterrà il controllo delle quattro condizioni suddette, il lavoratore può soltanto sognare l’emancipazione, ma non avverrà mai>>.

§         <<Il sistema attuale non può essere riformato, e quindi va distrutto, perché l’esistenza dello stato, “protettore” del monopolio dei poteri politici, giuridici, legislativi, militari e finanziari, permette l’esistenza dello sfruttamento, le classi sociali, l’oppressione ecc.

Anche certi sostenitori del capitalismo, riconoscono che la proprietà privata fu creata con la forza. Ma queste ammissioni contraddicono l’esistenza stessa della proprietà. L’utilizzo della forza rende illegittimo l’acquisizione di un oggetto. Il furto e vendita di un oggetto non rende la proprietà di un oggetto legittimo, tranne quando è acquistato in buon fede, ma certamente, questo non è il caso. Quindi, se l’iniziale acquisizione dell’oggetto era illegittimo, tutti i diritti seguenti sono pure loro illegittimi. L’appropriazione della terra necessita di uno stato che ne difenda il diritto. Senza uno stato, il popolo potrebbe liberamente usufruire delle risorse della terra per soddisfare i loro bisogni ed esigenze. Quindi, il privilegio e la proprietà sono la conseguenza dello stato>> (anonimo).”

 

“Furto ed espropriazione

Secondo il “Risveglio”, la soluzione anarchica del problema sta nella risposta al seguente questionario a cui, senza pretese ma con tutta franchezza, ci proponiamo di rispondere nell’ordine che troviamo.
 
– In linea generale è da consigliare o sconsigliare il furto?
Secondo noi, quando si tratta di fatti che sono proibiti dalla legge e quindi soggetti a sanzione penale, non si consigliano agli altri che con l’esempio proprio. Ma quando, indipendentemente dal nostro consiglio, codesti fatti sono avvenuti e l’autorità si cinge a giudicarli ed a punirli, noi abbiamo il diritto di giudicarli a nostra volta, di spiegarli se ne siamo capaci, di giustificarli anche, se, in coscienza, li consideriamo giustificabili. In quest’ultimo caso a noi incombe anzi il dovere di difenderne gli autori contro le rappresaglie e le vendette dell’autorità. Negli altri, noi non crediamo che l’anarchico possa mai associarsi alle repressioni della legge borghese.
 
– Giova o nuoce la pratica del furto alla nostra propaganda?
La grande massa degli uomini priva d’alcuna porzione del patrimonio sociale è vittima di un grande furto iniziale che è la proprietà privata. I detentori di privata proprietà hanno legittimato con la legge quel loro furto e con la legge hanno stabilito i modi e le forme con cui deve compiersi il trapasso della proprietà dalle mani di uno a quelle di un altro. E hanno chiamato furto tutti quei modi che non sono contemplati e giustificati dalle loro leggi.
Ma per noi, anarchici, il “furto” preveduto e punito dalla legge borghese ha lo stesso valore del contratto d’impiego industriale, d’affitto rurale od urbano, dell’appropriazione per eredità ecc.: è, cioè, un atto d’appropriazione a vantaggio personale senza corrispettivo di lavoro produttivo o di servizio utile.
Il furto è quindi possibile soltanto in regime di monopolio della ricchezza ed appartiene per sua natura all’ordine di cose fondato sulla proprietà privata.
Vuol dire questo che noi dobbiamo condannarlo a priori, come a priori condanniamo la rendita, l’interesse, lo sfruttamento capitalista, l’eredità?
No. Il disoccupato che ha fame è vittima del grande furto consumato ai suoi danni; e quando “ruba” si toglie una porzione della ricchezza che produsse e di cui fu arbitrariamente — per quanto legalmente — spogliato. Si sono trovati persino giudici borghesi disposti ad assolverlo.
Il diseredato che ruba compie — inconsapevolmente molte volte — un atto di rappresaglia contro coloro che, primi, l’hanno derubato e si restituisce nel possesso di ciò a cui ha in parte diritto — se è vero, come gli anarchici concordemente sostengono, che tutti gli uomini hanno eguale diritto all’uso della ricchezza sociale pel soddisfacimento dei propri bisogni.
La nostra propaganda si svolge in un ambiente dominato dalla morale borghese, tutta devozione ipocrita all’istituto della sacrosanta proprietà e non v’è dubbio che le nostre idee sulla proprietà stessa e sul furto si prestino ai nostri nemici per mettere in cattiva luce le nostre idee e i nostri caratteri.
Ma è pure certo che intorno all’istituto della proprietà noi abbiamo idee e sentimenti di recisa avversione; che il furto parziale illegale non può trovare presso di noi tanta ostilità quanta ve ne trova il furto totale legalizzato; che se non sempre noi riusciamo a giustificarlo, sempre lo spieghiamo come una conseguenza logica inevitabile dell’iniqua, ingiusta ripartizione del patrimonio sociale.
 
– Dato che un compagno si è trovato una prima volta a dover rubare, bisogna spingerlo a diventare un professionista del furto o distoglierlo?
Bisogna, prima di tutto, non lapidarlo, non schernirlo, non unire la nostra voce d’irosa riprovazione al coro vendicativo dei moralisti venali, dei poliziotti e dei giudici. Perché noi sappiamo — e non abbiamo come i moralisti venali, i poliziotti e i giudici alcuna ragione per fingere d’ignorarlo — che al “furto” non si è dato per passatempo, ma che profonde, spesso tragiche ragioni ve lo hanno spinto.
Poi, se ci sentiamo in vena di precettori, possiamo dirgli: compagno, l’anarchico non ruba mai, espropria, qualche volta. Nel furto la società d’oggi è specializzata ed è armata potentemente a reprimere quelle forme di furto che non le convengono. Rubando tu non risolvi nulla né per te né per gli altri. Non per te, perché dentro e fuori — più dentro che fuori — dalle galere, non avrai un momento di tregua; non per gli altri, perché quando tu riuscissi ad appropriarti la fortuna di un altro non avresti fatto che cambiare il titolare di una proprietà rimasta immutata sui diseredati costretti ad alimentarne col sudore e col sangue i privilegi. E se tu sei veramente anarchico non hai certo di mira di diventare un borghese. Siam d’accordo con te che i titoli della proprietà individuale sono nulli, che la rivoluzione sociale è inconcepibile ove non sia accompagnata dalla totale espropriazione della ricchezza dalle mani di coloro che arbitrariamente la detengono a beneficio di tutti; e se veramente l’inerzia t’umilia, se ti senti cuore e mente, volontà e spirito di sacrificio per lanciarti, sentinella avanzata, nella mischia sociale per sovvenire coi mezzi dell’espropriazione parziale ai molti infiniti bisogni della propaganda e della preparazione rivoluzionaria, nell’operosa attesa che l’ora scocchi al quadrante della storia dell’espropriazione totale, non noi cercheremo nei sacri testi della morale anarchica, la censura o l’anatema. Guarda però che l’attivo è dubbio ed irto di minacce; sicuro invece il passivo, di cui, con tutta probabilità, non resterà che l’esempio d’una rivolta e d’un sacrifizio maledetti dal nemico, scherniti dal volgo, sospetti ai tiepidi, che per riuscire suggestivi dovranno essere ed apparire incontaminati e puri.
E s’egli, compresa la gravità del compito che s’impone, si getta allo sbaraglio e diventa non “un professionista del furto” ma un espropriatore rivoluzionario anarchico — lapidateci, o moralisti censori — ma noi lo rispettiamo e l’ammiriamo come anche voi ammirate gli eroi che ritenete in regola coi precetti del vostro anarchismo morale e incompleto.
 
– Se v’hanno tra noi compagni di rara audacia, energia e potenza d’azione dobbiamo applaudirli di perderle in volgarissime imprese di furto o grassazione od augurare che servano ad atti d’importanza storica?
I compagni di rara audacia energia e potenza, hanno generalmente anche una chiara coscienza dei propri atti e fanno a meno così dei nostri applausi come dei nostri consigli. Sopratutto, i compagni così descrivibili, non conducono una vita volgare.
Conducono una vita di lotta in cui non è mai un minuto di tregua. Insorti contro il più geloso dei privilegi costituiti, quello per cui esistono sopratutto gli eserciti, le leggi, i giudici, le galere e la morale che nei millenni ha avvelenato la mente e il sangue dei diseredati d’ogni più paurosa superstizione, essi hanno contro di sé più che l’organizzazione dello stato e l’interesse dei privilegiati; hanno contro di sé il pregiudizio devoto delle masse, gli scrupoli atavici dei loro stessi compagni.
Sono soli, o quasi, a proclamare la giustizia della loro causa, e la proclamano offrendo l’olocauso della propria libertà, del proprio sangue, della vita.
E non è “volgarissima” impresa quella a cui s’accingono. La proprietà privata è come il monarcato, il parlamento, l’esercito, un’istituzione d’un ordine sociale che la rivoluzione da noi preconizzata aspira ad eliminare. Quando Bresci attenta al re, quando Vaillant attenta al parlamento, quando Masetti spara su di un colonnello, noi tutti comprendiamo che il loro atto ha un contenuto di giustizia ed è determinato da un’aspirazione alla libertà che palpita nei cuori dell’universale. Chi oserà negare che non sia un identico contenuto di giustizia nell’atto di Pini che espropria il ricco e restituisce alla collettività perché si armi a conquistare la libertà a cui ha incontestato diritto?
Di volgare nell’espropriazione rivoluzionaria è soltanto al paura dei borghesi e l’omaggio anarchico alla morale che li protegge.
In quanto ai nostri desideri, noi non possiamo che augurare che colui il quale si mette sul terreno dell’espropriazione rivoluzionaria sappia nella buona e nell’avversa fortuna mantenersi uomo di fede, degno delle idee d’emancipazione sociale che professa. Il trionfo della rivoluzione sociale sarà nello stesso tempo un atto di giustizia politica e d’espropriazione economica e nel quadro storico in cui quella matura un grande atto di giustizia economica può assurgere alla stessa importanza d’un grande atto di giustizia politica.
 
– Il genere di vita che deriva da tale illegalismo eleva od abbassa l’individuo?
E un genere di vita che comporta promiscuità pericolose. Per uno che ha coscienza, ve ne sono forse cinque o dieci che non ce l’hanno, o la perdono. Perché il denaro è corruttore e molti che cominciano coll’espropriare, finiscono poi per rubare nel senso volgare, borghese della parola.
Ma quell’uomo c’è, c’è stato, ci sarà sempre; la sua vita è fatta di sacrificio, di audacia e di fede e nessuno di noi ha il diritto di inveire contro di lui.
Del resto, poi, quell’ambiente non è più corruttore degli altri che in intensità. Tutta la società in cui viviamo è corruttrice. Ci sono i propagandisti dell’anarchia che adolescenti mossero i primi passi insieme a noi e son finiti al parlamento, al governo, nelle sinecure sindacali, o son rientrati nei ranghi della gente per bene che bada ai fatti suoi. Vuol dire questo forse che tutti i propagandisti vanno diffidati, condannati?
Non lo penso. L’anarchico che diventa ladro, è in rapporto a quello che diventa espropriatore, ciò ch’è l’anarchico finito in parlamento in rapporto all’anarchico rimasto anarchico: un transfuga.
 
– Cosa insegnano le esperienze già avute, in quale senso, cioè, sono concludenti?
Devo confessare la modestia delle mie esperienze in materia. Ma posso dire che se molti i quali amano atteggiarsi ad anarchici espropriatori hanno evidentemente mal compresa la propria vocazione — come molti che si credono altrettanti Bresci o Kropotkin hanno mal compresa la loro — esistono veramente uomini superiormente dotati che all’espropriazione rivoluzionaria si danno anima e corpo, con fede e disinteresse assoluti, convinti di affondare il piccone demolitore nel più solido istituto dell’ordine costituito, facendo opera due volte benemerita perché è esempio di ribellione in un campo chiuso dall’insuperata barriera di secolari devozioni e timori e perché il risultato delle loro audacie può servire ad alimentare le infinite iniziative rivoluzionarie che stanno loro a cuore.
Secondo il mio modo di vedere la loro attività ha, sinora, maggior valore in quanto è esempio di ribellione temeraria e di sacrifizio eroico, che non in quanto sia riuscita a sopperire ai bisogni delle altre attività rivoluzionarie. Ma, per me, il valore morale dell’esempio è infinitamente superiore a quello materiale del profitto. Non il denaro farà la rivoluzione sociale, ma il disprezzo del pericolo e delle sante istituzioni.
 
– L’ambiente in cui viene a trovarsi l’illegalista, la necessità di cedere la refurtiva a prezzi derisori, i contatti colla peggiore depravazione non fanno di lui un corrotto, uno sfruttato, un brutale?
Chi pone questa domanda pensa evidentemente ai ladri incoscienti, buttati al furto dalla cattiva conformazione della società, nei quali noi vediamo più delle vittime che dei colpevoli, contro i quali in ogni modo, noi lasciamo ai preti e ai giudici il triste compito d’inveire.
Noi discutiamo degli anarchici espropriatori, i soli che c’interessino, pel momento. E se non esitiamo a riconoscere che, dato l’ambiente in cui sono costretti a muoversi, possono essere facile preda dell’ingordigia dei ricettatori, quindi sfruttati, non riusciamo a comprendere perché debbano essere necessariamente dei corrotti e dei brutali.
Se hanno una coscienza illuminata da un grande ideale — ed allora soltanto restano anarchici — ed a questo, con abnegazione suprema, fanno dono della libertà e della vita, nel cimento quotidiano ineffabile; se nel martirio delle lunghe infernali detenzioni hanno dimostrato di saper essere uomini sempre, incutendo in ogni più avversa occasione ai loro stessi aguzzini, il rispetto alla loro dignità di uomini e di anarchici, vuol dire che quella coscienza può e sa resistere alle corrosioni dell’ambiente e che della rettitudine e della delicatezza dei sentimenti possono essere in grado di dare esempio, anziché riceverlo.
Si dirà ancora che qui si parla d’eccezioni e che la regola è ben diversa.
Ma non è così in tutto il movimento anarchico, la tutti i movimenti rivoluzionari dove molti possono bensì fregiarsi del nome, ma pochi vivono la sostanza intima dell’idea?
 
M.S.
 
 
[L’Adunata dei Refrattari, anno IX, n. 12 del 5 aprile 1930]”

Cos’é l’azione diretta?

Il sindacalista anarchico Rudolf Rocker definiva l’azione diretta come «Ogni metodo di guerra immediata dei lavoratori (o altre persone nella società) contro i loro oppressori economici o politici». Si tratta di un principio fondamentale dell’anarchia, teorico e pratico, che consiste nell’agire nelle diverse situazioni lavorative, quotidiane, sociali in generale, senza intermediari ( quindi direttamente ) attraverso diversi mezzi, pacifici o violenti, per ottenere miglioramenti concreti e situazioni più favorevoli, spesso nel tentativo di influire sulle condizioni sociali generali che si ritengono negative. Lo sciopero é uno dei metodi di azione diretta tra i più noti, insieme a boicottaggio, sabotaggio, rifiuto di pagamenti ( ad esempio di tasse, affitti, bollette ecc. ), occupazioni di spazi autogestiti, disobbedienza civile nonviolenta,diverse altre forme di propaganda ed azione, fino ad arrivare nei casi estremi alla resistenza armata come forma di ultima difesa. Per chi pratica l’azione diretta le leggi hanno un valore relativo e limitato, il metro di valutazione sono i principi morali e l’etica. Come si può leggere sul sito ( myspace ) dell’omonimo gruppo musicale streetpunk/oi! perugino:

“Semplicemente, azione diretta significa agire da solo senza aspettare che qualcuno lo faccia per te, poiché solo agendo direttamente le cose possono cambiare. Quindi, rifiutare l’idea che la società sia statica, e che le coscienze delle persone, le loro idee ed ideali non possano essere cambiate. L’azione diretta provoca una trasformazione degli stessi che la fanno, perché agendo per se stessi, oltre a soddisfare la propria voglia di libertà, dimostrano che ogni cosa è possibile, se esiste la volontà per farla. Liberandoci dalle catene mentali, ci rendiamo conto che tutto è possibile, collaborando ed agendo direttamente. Grazie all’azione diretta ci siamo liberati dalla schiavitù dei secoli passati, e con questa forza diretta abbiamo anche ottenuto le cosiddette “libertà civili”. Usata bene da un grosso numero di persone, permetterà di raggiungere qualunque meta prefissata. La voglia di cambiare, viene dalla consapevolezza dell’errore presente.”

Nulla può far più infuriare i potenti, che ci hanno sempre abituato a delegare ogni cosa ( ingannandoci e tenendoci ben lontani dalla conquista dei nostri obiettivi e dalla difesa dei nostri interessi reali), di un gruppo di individui che prende in mano lo svolgimento di una situazione agendo direttamente per i propri interessi contro sfruttatori ed usurpatori, autogestendosi ed autorganizzandosi in modo solidale ed antiautoritario, lanciando un chiaro segnale al resto della società e rappresentando un esempio che si spera possa essere contagioso.

Zone Temporaneamente Autonome (TAZ).

Quello di “Temporary Autonomous Zone” ( TAZ, in italiano “zone temporaneamente autonome” o “zone di autonomia temporanea” ) é un concetto introdotto nel libro “T.A.Z.: The Temporary Autonomous Zone, Ontological Anarchy, Poetic Terrorism”  (1991) dell’anarchico individualista statunitense Hakim Bey, al secolo Peter Lamborn Wilson. Le TAZ sono luoghi sia fisici che mentali, liberati nel presente dalle regole del dominio imposto dall’attuale sistema, dove l’orizzontalitá delle relazioni interpersonali sostituisce le classiche gerarchie che dominano la societá nella quale viviamo. Il concetto illustrato da Bey é per molti versi complesso e non puó essere inquadrato in una breve spiegazione, ma per comprenderlo meglio é sufficiente citare quelli che sono a tutti gli effetti esempi di TAZ: un corteo, una flashmob, una casa occupata, le iniziative di “Critical Mass” o “Reclaim the Streets”, spazi temporanei liberati che possono essere di breve durata temporale e che comunque non devono mai divenire “istituzionalizzati”, zone pirata fuori dal controllo dell’autoritá che si spostano,compaiono e scompaiono , riapparendo o meno in altri tempi e luoghi o modalitá a seconda delle circostanze e della volontá delle persone che hanno dato vita alla realtá liberata, comunitá piccole e circoscritte che peró nel loro insieme possono formare una rete di rapporti correlati fra loro. Nello sviluppare il concetto di TAZ, Bey riecheggia le teorie dei situazionisti e pone inoltre l’accento sull’importanza dell’informazione come strumento per scardinare il sistema di controllo mentale imposto dall’attuale sistema dominante. In questo quadro l’informatica ha un ruolo importante, internet diventa un luogo nel quale discutere, relazionarsi, scambiare informazioni e idee,sperimentare e costruire esperienze virtuali da trasporre poi nel reale. I fautori delle TAZ agiscono in modo creativo, flessibile e usando tecniche in qualche modo ispirate alla guerriglia, ma di norma non violente: ogni luogo e situazione puó venire cosí liberato per un breve lasso di tempo, diffondendo nei momenti piú impensati un’utopia fatta realtá, un esempio che vuol essere contagioso.