Naomi Klein, “Una rivoluzione ci salverà. Perché il capitalismo non è sostenibile”.

Naomi Klein, “Una rivoluzione ci salverà. Perché il capitalismo non è sostenibile”, 2014 (prima edizione in italiano 2015), ISBN 978-88-17-08511-3

L’autrice canadese Naomi Klein, nota al pubblico internazionale per i suoi testi critici su globalizzazione, neoliberismo e shock economy, torna con quello che probabilmente è il miglior libro che abbia mai scritto ad occuparsi di un tema controverso, attualissimo e d’importanza vitale: il futuro ecologico del nostro pianeta. Senza girarci intorno, sulla base di quanto sostenuto dal 97% dei climatologi su scala planetaria, ovvero che il cambiamento climatico provocato dall’Uomo è già in corso e provoca disastri e vittime, e constatando i fallimenti delle conferenze sul clima degli anni passati, incapaci di raggiungere i seppur insufficienti obiettivi stabiliti sulla carta per ridurre il surriscaldamento globale, Kein invita a ripensare completamente il modello economico capitalista, la stessa idea di crescita e di sviluppo. Dobbiamo fare una scelta netta fra gli interessi dell’ élite economica e politica e la salvezza del pianeta Terra e dell’intera umanità. Rivoluzione o estinzione, per dirla bruscamente.

Se lei stessa, nell’introduzione al libro, ammette di aver troppo al lungo ignorato la portata del problema e l’ improrogabilità delle soluzioni adatte a risolverlo, nel primo capitolo ci introduce nel mondo di chi invece nega apertamente il cambiamento climatico provocato da attività umane e ci permette di scoprire come questi Think Tank della destra americana siano preoccupati non solo di negare l’evidenza scientifica, ma anche e soprattutto di possibili cambiamenti radicali in campo sociale ed economico legati alle soluzioni più efficaci alla crisi climatica. Nel secondo capitolo ci viene illustrato come il fondamentalismo del libero mercato abbia contribuito al surriscaldamento del pianeta, nel terzo viene trattato il processo di riacquisizione della gestione energetica da parte del settore pubblico, di delocalizzazione e autosufficienza energetica locale, di come ricostruire e reinventare la sfera pubblica, tema in parte ripreso ne quarto capitolo che analizza tra l’altro successi e limiti dell’azione governativa in diversi Paesi per quanto riguarda le politiche sostenibili nella produzione energetica. Particolarmente interessante per quel che mi riguarda (la collocazione geografica di me medesimo!) è l’esame e la critica della conversione ecologica della Germania, un Paese che punta ancora sull’uso della lignite, carbone particolarmente inquinante. Sempre a proposito di collocazione geografica della propria persona, il tema dell’estrazione di carburanti dalle sabbie bituminose dell’Alberta in Canada (regione di provenienza dell’autrice) ricorre spesso nel libro. Ma si parla anche di luoghi ben più lontani, come l’isola di Nauru nel Pacifico meridionale, che col suo tragico destino di cannibalismo ambientale e di opulenza autodistruttiva ci introduce al quinto capitolo, che mostra come la concezione secondo la quale l’estrattivismo possa essere fonte di ricchezza e benessere si scontri con la natura stessa de nostri ecosistemi e costringa anche i sostenitori del “progresso e benessere per tutti” a dover mettere in discussione le idee legate alla crescita illimitata.

Nella seconda parte di “Una rivoluzione ci salverà”, Naomi Klein si occupa principalmente delle illusioni legate a possibili soluzioni eterodirette della crisi climatica, mostrandoci come molte associazioni ambientaliste si siano fatte corrompere dalla logica del Big Businnes, tradendo i propri -per quanto deboli- obiettivi e intimandoci di non fidarci di pseudo-messia, presunti filantropi milionari, né di “soluzioni” geoingegneristiche maturate secondo la stessa logica che concepisce il nostro pianeta come una “cosa” da modellare secondo le esigenze dell’ Homo oeconumicus, una fonte illimitata di materie prime da sfruttare fino al parossismo per alimentare la megamacchina del Capitalismo.

Se nelle due parti precendenti Naomi Klein non risparmia dati allarmanti, scenari a tinte fosche e critiche a presunte soluzioni calate dall’alto e funzionali alla logica del sistema dominante che creano problemi ancor più gravi di quelli che presumono di risolvere, la terza parte del libro è dedicata maggiormente alla speranza. Non quella illusoria, perchè le alternative al disastro ecologico esistono e vengono implementate attualmente dalle comunità locali e dagli/lle attivisti/e che lottano per la salvaguardia del territorio, per la presenvazione delle biodiversità, per la sopravvivenza di ecosistemi e di intere popolazioni. “Blockadia” è il termine usato dall’autrice per descrivere una comunità fluida, transnazionale, in diversi casi eterogenea, legata nell’azione contro la devastazione ambientale. A questo punto, se qualcuno avesse avuto dei dubbi, risulta inequivocabile come le lotte ecologiste siano anche lotte sociali globali: senza un pianeta che permette la vita qualsiasi altra rivendicazione o battaglia non ha più senso, ma senza rivendicazioni e battaglie globali per il diritto all’autogestione del proprio territorio, alla giustizia sociale, all’uguaglianza, non può esistere nessuna concezione ecologista degna di questo nome. Dalla resistenza contro le minere nella penisola Calcidica greca alle lotte promosse da nativi e altri attivisti contro l’oleodotto nordamericano Keystone XL, passando attraverso l’Amazzonia e la Nigeria sfregiate dalle compagnie petrolifere multinazionali, l’autrice ci parla di resistenza e progettualità, improbabili alleanze e risultati insperati, sbattendoci ancora una volta in faccia la verità nuda e cruda della logica devastatrice capitalista: più sei povero, meno hai potere, meno conti ergo meno diritto hai di vivere. Il messaggio finale vuol essere una sfida a questo paradigma, non lascia spazio alle illusioni ma alla speranza: abbiamo poco tempo a disposizione, dipende da noi invertire la tendenza. Si deve reagire, uniti si può vincere!

Se una critica a quest’opera va espressa, non riguarda certo l’accuratezza del libro: completa il testo una mole impressionante di dati, citazioni e riferimenti bibliografici, a dimostrazione che Naomi Klein e i/le suoi/e collaboratori/trici si sono date veramente da fare nella stesura di quest’opera sotto l’aspetto della ricerca e delle fonti. Anche lo stile dell’autrice rende la lettura scorrevolissima e, nonostante la serietà del tema trattato, a momenti si può perfino sorridere. Si può forse affermare che la giornalista e scrittrice canadese ricada, come spesso è accaduto in passato, nel vecchio tranello del porre al centro del discorso il conflitto fittizio “socialdemocrazia vs. neoliberismo”? Stavolta no, secondo me. La tesi centrale di “Una rivoluzione ci salverà” è quella del cambiamento di stile di vita e di sistema economico, ma soprattutto di paradigma ideologico, che non si ferma di fronte alle promesse dei governi – nonostante su essi, debitamente spinti dai movimenti ecologici a prendere le decisioni necessarie per la salvaguardia dell’ambiente e della nostra salute, la Klein faccia ancora affidamento. Qui si parla di comunità in lotta che costruiscono alternative dal basso, orizzontalmente, unendo ecologia e sociale, senza lasciarsi abbindolare dalle sciocchezze in stile Green Economy, pronte a sfidare il potere economico, politico, legale di chi a scopo di profitto avvelena un pianeta che è di tutti/e. Il messaggio nel’insieme è chiaro, come ho scritto sopra: rivoluzione o estinzione, ecologia sociale o barbarie. Non è Naomi Klein che ci invita ad agire, ma la vita stessa, contro il progetto di morte e devastazione promosso per troppo tempo dal sistema dominante.  La questione è cruciale, la sfida non può essere perduta.

 

 

Welcome to the Show: alcune riflessioni sul G20 di Amburgo e sulle proteste contro il summit.

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“A quanto pare ad Amburgo quelli del blocco nero hanno deciso che a Luglio bruceranno le auto senza distinzioni”, racconta un mio amico. Un’altro chiede con una punta d’ironia: “E le biciclette? Ci sono bici che costano più di un’automobile!”. Eravamo sul treno che ci riportava a casa dopo una manifestazione contro un congresso del partito di destra tedesco AfD, ad Aprile. Ci interrogavamo su quanto avesse senso applicare strategie discutibili come la distruzione della proprietà senza distinzioni. “Distruggere l’utilitaria di uno che si alza alle sei del mattino per andare al lavoro non mi pare un gesto rivoluzionario”, dichiaro mentre gli altri annuiscono. “Oltretutto ho la sensazione che sia sempre la stessa storia, uno spettacolo programmato ad uso e consumo del sistema”. Sguardi interrogativi che chiedono un chiarimento. “Non so esattamente cosa accadrà ad Amburgo durante le proteste contro il G20, non credo che finirà come a Genova nel 2001, ma ritengo probabile che sotto alcuni aspetti non ci saranno molte variazioni sul tema. Gli sbirri tenteranno di dividere i buoni dai cattivi, i “cattivi” e quelli che in mezzo a loro si sono mischiati, infiltrati o gente senza arte né parte, sfasceranno un pó di roba, i giornalettisti dei tabloid e della stampa embedded avranno di che scrivere, i politicanti ne approfitteranno per chiedere più polizia e aumentare i controlli, qualche compagno/a verrà arrestato/a e processato/a e per assisterlo/a si dovranno impiegare energie e risorse altrimenti spendibili altrove, si preferirà l’estetica dell’attacco alla proprietà senza distinzione fra quella personale e quella privata a scapito di azioni comunicative che coinvolgano gli sfruttati e gli esclusi dei quartieri amburghesi…”. Al termine del mio monologo tutti ci chiedevamo se sarebbe andata così, se lo spettacolo del G20 sarebbe stato disturbato o se nello spettacolo sarebbero finiti, come io credevo, anche i disturbatori. Al termine degli eventi dei quali si discuteva quel pomeriggio di Aprile non ho una risposta definitiva, ma ho perlomeno la netta sensazione che parte dei miei sospetti si siano avverati. Giovedì 6 Luglio le forze del disordine hanno tentato di dividere i/le manifestanti “pronti all’uso della violenza” da quelli ritenuti pacifici, senza forse immaginare che i/le partecipanti al black bloc si sarebbero frammentati/e scatenando una serie di azioni dirette a macchia di leopardo, mantenendo per ore il controllo di diverse zone della città, impedendo in parte che il summit dei G20 si svolgesse in una città-vetrina come voluto da organizzatori e partecipanti. Divenendo però, come ipotizzavo mesi prima, una parte dello spettacolo a uso e consumo dei massmedia asserviti alle logiche dominanti, delle strutture repressive poliziesche e giudiziarie, dei progetti dei politici a base di giri di vite contro strutture autogestite e promesse di maggiore sicurezza armata. Oltre ad aver lasciato per strada i cocci delle vetrine dei supermercati sfasciati e saccheggiati e le carcasse di decine di automobili bruciate, pezzi di lusso proprietà di persone abbienti così come (danni collaterali?) scassoni vecchi di undici anni appartenenti a quei lavoratori e a quelle lavoratrici che vorremmo dalla nostra parte e che ora sono più lontani/e da noi di quanto probabilmente non lo fossero una settimana fa, i militanti del blocco che ha protestato ad Amburgo sotto lo slogan “Welcome to Hell” sono ora oggetto di caccia all’uomo, alcuni/e già catturati fra le maglie della repressione, altri/e a rischio di fare la stessa fine, in più strumentalizzati dalla campagna elettorale precocemente in corso per il rinnovo del Bundestag. Come al solito fa più rumore un albero che cade di una foresta che cresce, se si voleva attirare l’attenzione lo si è fatto, ma a vantaggio di quelli che vorremmo combattere. Non si dovrebbe dimenticare che le vere decisioni non vengono prese durante le riunioni dei G20, per quanto queste siano una sorta di termometro politico internazionale. D’altra parte è innegabile che il programma di un incontro fra i potenti della Terra in una città-salotto, magari con qualche corteo ammaestrato di finto dissenso riformista tanto per non far sembrare il tutto troppo irreale, è saltato. Le azioni del black bloc hanno dimostrato, ancora una volta, che le forze del disordine di Stato non sono imbattibili e che queste se la prendono volentieri con chi meno sa o può difendersi. A riprova di ciò basta citare le cariche a freddo di Sabato contro manifestanti pacifici/che, avventori/trici di locali e persone potenzialmente “sospette” nei pressi del centro sociale amburghese Rote Flora, che adesso molti politici, soprattutto di centro e di destra, vorrebbero immediatamente sgomberato. Un cerotto da mettere sulla ferita aperta di una città messa sottosopra dagli scontri? Piuttosto l’ennesima scusa per implementare politiche autoritarie, un mediocre specchietto per le allodole per distrarre l’opinione pubblica da contraddizioni e divergenze apparentemente insuperabili allo stato attuale emerse durante il summit fra i  governi dei vari Paesi. Contraddizioni e divergenze, queste sí, che dovrebbero attirare la nostra attenzione e sulle quali dovremmo concentrare la nostra azione.

1 Maggio: appello per una mobilitazione internazionale.

Il 1 Maggio è una giornata internazionale di lotte e rivendicazioni lavorative, durante la quale si svolgono in numerosissime città del mondo cortei e altre iniziative di militanza politica e sindacale. Il sindacato di base tedesco di ispirazione anarchica FAU lancia per il 1 Maggio 2017 la proposta di una giornata di azione e lotta sul tema lavoro e migrazione, ovunque vi siano le condizioni e la volontà per realizzarla. Sul sito della FAU è possibile consultare l’appello alla mobilitazione, tradotto in diverse lingue. La versione qui sotto è una mia traduzione, elaborata ancor prima che comparisse quella fornita sul sito della FAU – ciascuno/a usi la traduzione che preferisce… Ovviamente potete stampare, copiaincollare, diffondere l’appello come preferite, anzi vi invito a farlo e ad aderire ad un 1 Maggio di lotta e solidarietà senza confini!

“Le lotte lavorative non conoscono confini!

Se i segni del tempo non ci ingannano, ci troviamo di fronte ad una fase del populismo che non abbiamo ancora conosciuto nei decenni passati. Le persone vengono aizzate le une contro le altre e lo sfruttamento di lavoratori/trici ed esclusi/e viene portato avanti sotto il segno del nazionalismo e del razzismo. Contro il progetto di un mondo pieno di nuovi muri, ai confini e nelle menti, abbiamo bisogno di un progetto che sia in grado di abbattere tutti i muri, creando al loro posto legami fra noi lavoratori e lavoratrici, solidarietà e aiuto reciproco. Non abbiamo più tempo di coltivare ciò che ci divide – vogliamo invece cercare ciò che ci unisce nella lotta per condizioni di vita migliori e, in senso anarcosindacalista, combattere per un mondo senza dominio né sfruttamento.

La FAU chiama tutte le singole persone, i collettivi, i sindacati di base e le altre iniziative sociali a partecipare alla giornata internazionale di azione sul tema “Lavoro e migrazione”. Il 1 Maggio vogliamo esprimere solidarietà di classe con i/le migranti, mobilitare al di là delle frontiere contro xenofobia, razzismo e nazionalismo dominanti, che sono le armi degli Stati e del capitalismo. Una lotta coerente contro il razzismo significa per noi anche una lotta contro il sistema capitalista, che si basa su disuguaglianze estreme e che per mantenersi in piedi deve ricorrere alle divisioni sociali.

Nella nostra società i lavoratori e le lavoratrici particolarmente colpiti/e dallo sfruttamento e dalla privazione dei diritti sono i/le migranti, che soffrono a causa di politiche migratorie razziste, rapporti di lavoro illegali, proibizione o costrizione al lavoro. Principalmente operanti nell’edilizia, nella gastronomia e nel settore delle pulizie, con uno scarso livello organizzativo o senza alcun tipo di organizzazione sindacale, hanno ben poche possibilità di lottare contro la crescente precarizzazione dei rapporti lavorativi. I sindacati più affermati, dediti alla concertazione, mostrano dal canto loro solo un limitato interesse nell’organizzare i migranti illegalizzati o nel sostenerli nelle lotte contro ostacoli giuridici ed espulsioni. Piuttosto l’attenzione di questi sindacati si concentra su clientele abituali ben consolidate (con contratti di lavoro a tempo indeterminato) e sulla logica delle divisioni sociali a vantaggio degli interessi economici nazionali.

A questa situazione penosa è necessario opporre solidarietà ed autoorganizzazione – come nel caso dei nostri colleghi rumeni, impiegati nel cantiere del centro commerciale “Mall of Berlin” e costretti a vivere e lavorare in condizioni scandalose, sfruttati, imbrogliati sul salario e minacciati: la loro organizzazione nella FAU e la comune lotta in questa vertenza lavorativa hanno fatto diventare il centro commerciale berlinese, ribattezzato “Mall of Shame” (“centro commerciale della vergogna”), un simbolo di sfruttamento dei/lle migranti in Germania. In questo modo abbiamo potuto rispondere al clima di persecuzione in particolare contro lavoratori/trici migranti dal Sud-Est europeo con un esempio di resistenza efficace. Anche nell’attuale tentativo di obbligare i profughi al lavoro sottopagato noi vediamo il procedere di pari passo di emarginazione e abbassamento degli standard nei diritti lavorativi, che riguardano conseguentemente tutti i lavoratori e le lavoratrici. In quanto classe lavoratrice dovremmo mostrarci solidali e opporre resistenza, lottando non solo per la libertà di movimento di ogni persona, ma anche contro lo sfruttamento legittimato dal razzismo. Le lotte lavorative non conoscono confini!

In linea con la tradizione del 1 Maggio, invitiamo alla solidarietà con i lavoratori e le lavoratrici migranti, per protestare insieme contro le condizioni lavorative precarie, lo sfruttamento capitalista, il regime razzista delle frontiere. Non importa quali forme assumono queste proteste – scioperi, manifestazioni, comizi, azioni informative, performance; non importa se locali o interregionali; non importa se verranno organizzate da lavoratori/trici, disoccupati/e, studenti/esse, pensionati/e, migranti o profughi/e, l’importante è che ci sia per tutti e tutte la possibilità di organizzarsi contro lo sfruttamento. Solo con la solidarietà internazionale e con una pratica sindacalista che superi le frontiere possiamo difenderci dal capitalismo. Unitevi a noi, per mettere in pratica una giornata comune di azione per il 1 Maggio sotto lo slogan “Le lotte lavorative non conoscono confini!”. Insieme costruiremo ponti laddove altri vogliono erigere muri.

Il Comitato Internazionale della FAU (Freie ArbeiterInnen Union – Unione dei/lle Liberi/e Lavoratori e Lavoratrici).

P.S. Contattateci se avete domande. Siamo aperti a suggerimenti, idee, osservazioni o alternative. Saremo felici per qualsiasi adesione alla giornata di mobilitazione.”

Como: quando la solidarietà coi migranti è “socialmente pericolosa”.

Ho ricevuto pochi giorni fa una lettera con la richiesta di diffonderla. Si tratta del racconto di un compagno colpito da un provvedimento repressivo comminatogli dalle autorità a causa della sua attività a favore dei migranti concentrati a Como a seguito della chiusura della frontiera con la Svizzera:

Lettera aperta dal confino

FABIO ACHAB·VENERDÌ 14 OTTOBRE 2016

Buongiorno a tutti,

Sono Fabio Gabaglio, ieri mattina mi è stato notificato un “foglio di via” da Como della durata di un anno. In questo atto mi si accusa di avere preso parte ad una manifestazione non autorizzata in cui si denunciava la complicità della ditta di trasporti Rampinini nella deportazione dei migranti, di essere una persona socialmente pericolosa e di frequentare la città di Como col solo scopo di compiere reati. Con questa lettera aperta, per chi avrà la pazienza di leggerla, io intendo spiegare il mio punto di vista, rivendicare pubblicamente il mio operato, la mia identità e produrre quella difesa politica che in altre sedi non mi è consentito di dare. La doverosa premessa è quella che fa dei lettori a cui mi rivolgo, dei “giudici impectori”, il cui giudizio è quello che maggiormente m’importa, supponendo che anch’essi, come me, si pongano propositi di cambiamento radicale della società, interpretando il presente come profondamente ingiusto. Dal luglio scorso, quando la città di Como si è trovata al centro di quella che è stata definita “emergenza migranti”, ho iniziato ad interessarmi a quanto stava accadendo tra il confine Italo-Svizzero e la stazione di Como san Giovanni. Una sorte ironica fece che tutto il mio tempo libero, ferie incluse, lo trascorsi in quello che è anche un mio luogo di lavoro, in quanto di mestiere sono Macchinista Ferroviere. La storia è nota, ma non è mai superfluo ripeterla: L’autorità doganale svizzera chiude quasi completamente le dogane ai numerosi profughi che tentano di attraversarla e ai richiedenti asilo che vi si vorrebbero insediare, e a Como si crea quindi un ingorgo e l’accampamento che tutti abbiamo conosciuto. Chi cerca di passare il confine viene respinto a piedi sul suolo italiano nel migliore dei casi, altrimenti viene deportato nei centri di smistamento del sud Italia, Taranto quasi sempre. Con alcuni sodali decido esprimermi e spendermi sulla questione dando un apporto politico all’enorme e meritorio sforzo civile che la città, la parte migliore della città, ha profuso per dare ai “Ragazzi” un’ accoglienza dignitosa, un trattamento umano e un sostegno materiale. Il mio proposito aggiuntivo è quello di animare il dibattito generale sulla questione migratoria, ponendo degli interrogativi politici sugli interessi che influenzano la gestione dei flussi ed evidenziando le innumerevoli contraddizioni che ne emergono. Iniziai cosi, implementando il lavoro quotidiano di centinaia di volontari, a produrre una critica che spingesse ad andare oltre il livello della necessaria accoglienza che da più attori viene messa in campo, per costruire una solidarietà diretta, capace di mettere in relazione la condizione dei migranti, vittime estreme del sistema economico in cui viviamo, e la nostra, di indigeni, esposti agli effetti della crisi e della conseguente precarizzazione totale delle nostre vite. Per farlo in modo organico, occorreva però toccare con mano le questioni, conoscerle a fondo, e mediante l’inchiesta, guadagnarsi la libertà di parola, il titolo di potersi esprimere a ragione veduta. La prima iniziativa per cui mi spesi in prima persona fu il 7 agosto, una giornata di giochi, sport e socialità. Bastarono quattro palloni, un paio di canestri da basket, e una merenda collettiva per scoprire che quello che ne sarebbe seguito sarebbe stato molto di più della semplice inchiesta politica, ma sarebbe diventato anche una relazione di profonda amicizia, di empatia, di auto-riconoscimento. Senza quasi rendersene conto il rapporto si strinse molto, il “noi” ed il “loro” si fusero, i nomi impronunciabili e forestieri divennero familiari, e quelli che rifiutammo di considerare “utenti-destinatari” della nostra elemosina divennero compagni delle nostre infinite giornate campali, narratori delle storie più incredibili, portatori della più legittima delle volontà. E noi ne diventammo complici. Si sperimentò un percorso di autogestione da cui nacque l’infopoint: un gazebo in cui si cercava di dare le principali informazioni pratiche e una primissima accoglienza materiale (cibo e vestiti) a chi arrivava al “campo informale”, si organizzarono corsi di italiano ed inglese, e ogni sera si tenevano riunioni interetniche tradotte in inglese, arabo, francese, tigrino, amarico, oromo… Fu in questo contesto di confronto virtuoso che si decisero le molte e diverse iniziative messe in campo, tra le quali la lettera aperta che i migranti scrissero alla città, il presidio tenuto a Pontechiasso, dove decine di migranti reclamarono il loro diritto di superare il confine e di non essere trattati da animali, e il corteo del 15 settembre, forse il più bello che nei miei trent’anni (molti dei quali vissuti da militante politico) possa ricordare, e per il quale personalmente chiesi l’autorizzazione alla questura. Quel corteo per me fu una scommessa: 500 persone dalle più diverse sensibilità ed esperienze, migranti in testa, veicolavano il messaggio lanciato dall’appello, “Il campo non è una soluzione, aprite il confine!”. Rimandate al al mittente le provocazioni dei fascisti che minacciarono costantemente la coda del corteo, disattese le aspettative allarmiste di chi paventava la calata dei barbari in città, dissolta la coltre di terrore imposta dallo sproporzionato spiegamento di militari, il corteo, fortemente comunicativo, sfilò per la città senza intoppi. La scommessa fu vinta. Il clima tuttavia cambiò repentinamente quando aprì il campo governativo, la non-soluzione sulla quale sollevammo tanti dubbi e contro la quale gli stessi migranti si sono sempre espressi. Nei giorni immediatamente precedenti alla sua apertura la solidarietà iniziò ad essere sempre più criminalizzata, cucinare o portare cibo divennero pretesti per far intervenire la polizia, le docce e la mensa vennero chiuse, e i migranti, in un paio di giorni, furono costretti a lasciare i loro ripari di fortuna per entrare nel campo governativo. I dubbi diventarono certezza quando la natura del campo governativo si manifestò in tutta la sua burocratica freddezza. Le garanzie date dal prefetto sul funzionamento del campo furono prontamente disattese, le richieste di modelli alternativi di accoglienza non furono accolte, le tutele specifiche per minori non vennero attuate, il regolamento interno non fu pubblicato, i volontari furono estromessi, e chi riponeva speranze nel “circuito legale dell’accoglienza” rimase amaramente deluso. Lo stato così ha ripreso il controllo della situazione anche fuori dal campo, tutto quello che prima era socialmente accettato e tollerato, ora è proibito. Distribuire cibo, incontrare, parlare con chi ha l’aspetto di un rifugiato, porta ad essere identificati, intimiditi, segnalati. Trovare un riparo di fortuna per chi non ha accesso al campo governativo è reso quasi impossibile dalle decine di pattuglie che ogni notte perlustrano ogni angolo di Como, ogni anfratto, con l’ordine di sgomberarlo, di rendere inospitale la città, cercando in questo modo di arrestare il flusso in arrivo. E su Como, la città bella e solidale che riscoprimmo quest’estate, cala un invernale clima di apartheid. Ora al sottoscritto, come ad altri attivisti, viene presentato il conto per il ruolo attivo tenuto in tutto questo. Il foglio di via, nella fattispecie, è una misura preventiva di natura fascista, in cui il questore, senza una vera e propria indagine, senza un processo e senza la possibilità di difesa, intima arbitrariamente al destinatario di non fare ritorno su un determinato territorio, riconoscendo in lui una presunta pericolosità sociale. La reale intenzione di chi emette questa misura non è tuttavia punire qualcuno per un reato specifico commesso, ma semplicemente colpirlo ed allontanarlo per le proprie idee e per le pratiche che potenzialmente ne derivano, isolandolo dai suoi percorsi di lotta e dal contesto sociale in cui è inserito. Nel mio caso, accade che ieri, 13 ottobre, mentre presenziavo in qualità di uditore alla conferenza stampa tenuta dalla rete di “Como senza frontiere” di fronte al campo governativo vengo avvicinato da alcuni funzionari di polizia che mi intimano di presentarmi in questura per notificarmi un foglio di via obbligatorio che mi inibisce dal fare ritorno nel comune di Como per un anno. Mi si contesta nello specifico di aver manifestato contro la ditta di trasporti Rampinini, che dal luglio scorso si occupa anche di deportare i migranti, che respinti in Italia dal confine elvetico, vengono caricati su dei pullman e, scortati da un ingente pattuglia di polizia, sono spediti nell’hotspot di Taranto, contro la loro volontà, senza avere contezza del loro status giuridico, interrompendo, mortificando e umiliando in maniera violenta il loro progetto migratorio, che per queste persone, rappresenta l’umana e innata pulsione a migliorare la propria condizione materiale. Per rimettere questa azienda davanti alla sua palese responsabilità di collaborazionista il 12 settembre si è tenuto un presidio simbolico davanti alla sua sede di via Napoleona, in cui si diffondeva un volantino e si esponeva uno striscione: Rampini complice delle deportazioni. Lo scrivevamo allora, lo ribadisco ora, assumendomi la responsabilità di quanto fatto. Se esprimere questo, senza chiedere il permesso a chi quelle stesse deportazioni le dispone e le realizza sia più vergognoso dello stesso compierle, lo lascio decidere a voi. Questo foglio di via mi descrive inoltre con l’infamante appellativo di “persona socialmente pericolosa”, che usa frequentare Como “col solo scopo di commettere reati” e di accompagnarmi a persone già oggetto di “segnalazioni all’autorità giudiziaria.” Io credo, che se vi sia una minaccia reale per la società, essa stia proprio nel fatto che certe dittatoriali limitazioni della libertà personale possano essere comminate a chi invece è parte integrante della società, a chi ne anima i moti di cambiamento, a chi ha la pretesa attiva di renderla più giusta, includente e civile. Essere riconosciuto come frequentatore abituale del campo informale della stazione è una cosa di cui non mi vergogno affatto. Farlo in concorso con altri solidali non ritengo sia un aggravante. Essermi riunito innumerevoli volte con dei migranti, averci discusso, essermi organizzato con loro per dare voce alle comuni istanze è una cosa di cui non sono in alcun modo pentito. Sfidare il clima di piombo che si respira in città per continuare a mantenere il rapporto con i migranti incontrati fino ad oggi, o per costruirlo ex novo con chi tuttora continua ad arrivare, non credo faccia di me un pericolo sociale. Ebbene, con questo foglio di via, la questura, l’apparato immunitario dell’ingiusto sistema politico-legale che abbiamo di fronte, pone nella mia vita un ostacolo giuridico che si frappone tra me ed i miei propositi che lascio a voi giudicare. La città di Como inoltre, come è normale che sia, per me, rappresenta anche un luogo fisico in cui si intrecciano interessi personali, abitudini, relazioni sociali ed affettive dalle quali ora con questo provvedimento si cerca di isolarmi in un assurdo accanimento. É lì che abitualmente trascorro il mio tempo libero, è lì che sono solito incontrarmi con amici e amiche, è lì che talvolta mi trovo a esercitare la mia professione, ed è lì che voglio liberamente poter tornare. Lungi dal voler elemosinare la pietà di alcuno, io credo che il mio dovere, a fronte di quello che mi è toccato, sia in primis mettere in guardia ognuno di voi: quello che oggi si abbatte su di me, domani potrebbe succedere ad altri. Quando il divario tra legalità e giustizia si fa così sfacciatamente evidente tutti sono chiamati a prendere una posizione. Ed è quello che io ora vi chiedo. Grazie della vostra attenzione. La parte più bella di questa città rifiuta il razzismo e l’indifferenza, e io sono (ancora) lì. Fabio Gabaglio ”

Il sito Informa-Azione riporta un comunicato di persone colpite dallo stesso provvedimento, nello stesso contesto, che annunciano resistenza contro le misure restrittive imposte dalla Questura.

Controinformazione sul terremoto nel Centro Italia.

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Come ci viene raccontato dai massmedia il terremoto che in Italia ha colpito la zona appenninica compresa tra Lazio, Marche e Umbria provocando la distruzione di interi paesi, la morte di più di 300 persone e lo sfollamento di altre migliaia? Più che informazione corretta e scientifica, unita ad una seria e impietosa riflessione sull’impreparazione a tali catastrofi naturali tremendamente aggravate sia dall’incuria che dalla cinica speculazione umana, l’evento viene spettacolarizzato in chiave emotiva. Gli sciacalli sono lì alla ricerca di dettagli macabri, storie strappalacrime, immagini simbolo che devono tenere incollati/e i/le telespettatori/trici allo schermo, piangono lacrime di coccodrillo mentre pensano alla grande occasione di profitto che riempirà le tasche di pochi. Esiste però un altro tipo di mentalità e quindi un modo molto diverso di fare informazione e vorrei qui fornirne degli esempi, riportando alcuni articoli “di parte”, contro-informativi, contenenti testimonianze critiche, osservazioni tecniche e notizie utili su come aiutare sfollati/e e sopravvissuti/e:

Terremoto, e tutto tornerà come prima”, di Zatarra su Alternativa libertaria;

“Solo le montagne sono serene”, su Malamente;

“Terremoto: aumenta la solidarietà popolare e dal basso contro sciacalli, razzisti e istituzioni”, su InfoAut.

 

In Francia si estendono le proteste contro la legge di riforma del lavoro.

Nonostante le minacce del governo e la violenza messa in campo dalle “forze dell’ordine (costituito!)”, si inaspriscono ed estendono in Francia le proteste contro la riforma del lavoro. Per saperne di più consiglio la lettura del seguente articolo ripreso da Infoaut; per altre informazioni e analisi da una prospettiva anarchica/libertaria, suggerisco di seguire i siti di Alternativa Libertaria e del sindacato CNT-F .

“Francia. Dopo le raffinerie, i manifestanti annunciano blocco delle centrali nucleari

I muscoli sono sempre più tesi in Francia nel contesto del braccio di ferro tra il movimento contro la Loi travail e il governo. Da diversi mesi studenti, giovani precari, sindacati e lavoratori immigrati chiedono il ritiro del jobs act francese con impotenti manifestazioni rifiutandosi di accettare ogni mediazione col governo di Manuel Valls. Numerosi in queste ultime settimane sono anche stati gli scontri con le forze dell’ordine viste da più parti come le truppe al soldo di uno dei governi più impopolari della storia della repubblica.

Se in Italia in Italia i sindacati sembrano ormai convinti che scioperi e assemblee sindacali siano possibili soltanto quando non creano “disagi” (ossia quando sono inefficaci), la strategia dei sindacati in Francia è ormai sempre più chiaramente quella di colpire gli interessi economici francesi per costringere il governo a indietreggiare. Già da diversi giorni numerosi porti, raffinerie e depositi di carburante sono bloccati grazie agli scioperi e ai picchetti provocando la reazione scomposta da parte del primo ministro Manuel Valls che ha dichiarato che ci sarà tolleranza zero verso i manifestanti. Martedì a Fos-sur-mer la polizia è intervenuta con una violenza inaudita usando lacrimogeni e un bulldozer mentre stamattina gli agenti sono arrivati a Douchy-les-Mines dove i manifestanti hanno dato alle fiamme barricate di copertoni prima di essere costretti a lasciare i presidi. Tutte le otto raffinerie che si trovano sul territorio francese sono parzialmente o completamente bloccate, suscitando la collera del padrone di Total che ha minacciato ieri di rivedere gli investimenti del gruppo nel paese nel tentativo di spaventare i lavoratori. Ai tentativi d’intimidazione si risponde con l’occupazione di nuovi snodi logistici con l’obiettivo di bloccare tutto: diventiamo ingovernabili è lo slogan che risuona da più parti in risposta alle proposte di dialogo offerte dal governo. Il ricatto degli appelli alla democrazia e alla moderazione sembrano infatti cadere nel vuoto davanti a un movimento sicuro delle proprie ragioni: “Conosciamo le nostre responsabilità, che il primo ministro prenda le sue ritirando la legge sul lavoro. Da qui non uscirà più una goccia di petrolio” ha dichiarato a Le Monde il segretario CGT della Compagnie industrielle maritime. Gli effetti si fanno ormai sempre più evidenti anche sulle pompe di benzina, centinaia di distributori sono a secco e lo spettro di una mancanza generalizzata di combustile si fa sempre più concreta con il segretario di Stato ai trasporti che ha ammesso che il governo ha iniziato ad utilizzare le riserve strategiche di prodotti petroliferi.

Ieri il sindacato ha deciso di giocare una nuova importante carta, minacciando il blocco delle centrali nucleari per domani, giorno dello sciopero generale. “Le sorti del progetto di legge si giocano ora, quindi è ora che bisogna agire” ha dichiarato il portavoce della CGT-energia “facciamo appello a tutto il personale per fare salire la pressione sul governo attraverso l’abbassamento della tensione elettrica o tagliando direttamente l’energia sulla rete”. Alla centrale Nogent-sur-Seine i lavoratori hanno già comunicato l’adesione allo sciopero e i tagli di corrente dovrebbero provocare l’arresto di almeno due dei reattori del complesso. Dei “sabotaggi” sulla rete elettrica hanno già avuto luogo ieri a Plan de Campagne, nei dintorni di Marsiglia, dove i dipendenti del più grande centro commerciale d’Europa hanno rivendicato di aver fatto saltare la corrente in opposizione alla Loi travail. “

Risposte creative alla campagna di reclutamento del Bundeswehr.

“Mach, was wirklich zählt!”, ovvero “Fai ciò che conta veramente!” è il motto di una massiccia campagna pubblicitaria lanciata dall’esercito tedesco (Bundeswehr) dal Novembre scorso per promuovere il reclutamento nelle sue fila. Quando ho visto passando per strada il primo di una lunga serie di manifesti pubblicitari, costati insieme a cartoline, sito web e altri ammennicoli la modica cifra totale di 10,6 milioni di Euro di denaro pubblico, mi sono chiesto subito un paio di cose: quanto fossero idioti i personaggi che hanno scelto gli slogan riportati sui manifesti (“Noi combattiamo anche per far sí che tu sia contro di noi”, “La vera forza non la trovi tra due manubri”, “Credi che sia figo essere soldato/soldatessa?”, eccetera…) , quanto idioti fossimo noi contribuenti nel pagare le tasse che vanno a finanziare certe porcate, ma sopratutto come si potesse rispondere ad una simile oscenità… Non che io non abbia trovato subito un paio di slogan appropriati che sarebbero stati utili per riassumere efficacemente la vera funzione dell’esercito in Germania e altrove, ma non  disponevo a breve termine dei mezzi per poter rispondere in modo esteso ed efficace alla propaganda militarista appena avviata: si fa quel che si può, ma nel mio caso si trattava di troppo poco. Pochi giorni fa sono però venuto a sapere che un pugno di artisti/e e attivisti/e politici/che riuniti/e nel gruppo “Peng-Kollektiv”, con la modica cifra di 100 €, ha messo in ombra, in dubbio e in ridicolo la campagna della Bundeswehr, aprendo un sito con link e grafica simili a quello originale usato per incoraggiare l’arruolamento dove si possono leggere alcune informazioni (verificabili) che ai signori dell’esercito non sarebbe mai passato per la testa di pubblicare, ad esempio il numero di soldati suicidatisi quest’anno o la percentuale di donne che subiscono molestie sessuali nell’esercito. Il sito è diventato in pochi giorni virale e ha dato l’imput sul web ad una serie di osservazioni, commenti e grafiche contro l’iniziativa militarista. Per quanto riguarda invece i manifesti, attivisti/e del collettivo “Abteilung zur sichtbaren und inhaltlichen Verschlimmbesserung unhaltbarer Truppenwerbung (AbtVerschlTruWer)” hanno tappezzato la zona nella quale ha sede il ministero della difesa tedesco con manifesti pubblicitari modificati. Ecco alcune foto dell’adbusting:

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“Bombardare per la pace è come fottere per la verginità”

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“Siamo via: guerra lampo in Siria. Nonno sarebbe stato così orgoglioso.”

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Difendere con la violenza lo sfruttamento. Il vostro esercito”

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“Nessuna idea di niente? Nessun problema! Prendiamo volentieri anche gli stronzi”

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“Anche gli animali combattono per far sì che noi possiamo mangiarli.”

Per completare il quadro segnalo un’altra azione compiuta da ignoti a Berlino, che nella notte del 9 Novembre scorso hanno “ridipinto” la facciata dello showroom dell’esercito tedesco per protestare contro la propaganda per l’arruolamento e contro la “normalizzazione” della guerra.

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Ciò che è giusto e ciò che è legale.

Risultati immagini per erri de lucaIl prossimo 19 Ottobre si terrà il processo che vede imputato lo scrittore Erri De Luca, accusato di aver sostenuto la legittimità del sabotaggio come mezzo di lotta contro il progetto dei treni ad alta velocità. I pm che imbastiscono l’accusa, i ben noti Rinaudo e Padalino, come sempre dediti all’attacco del movimento NO-TAV, chiedono per De Luca una condanna a 8 mesi di carcere.

Il 15 Agosto, nella zona della Renania, in Germania, un migliaio di manifestanti del coordinamento Ende Gelände hanno bloccato i lavori nella miniera di carbone a cielo aperto del colosso energetico RWE, per protestare col metodo dell’azione diretta e della disobbedienza civile contro la devastazione ambientale e l’inquinamento. Sono piovute, oltre che manganellate e spray urticante, anche 800 denunce, che hanno colpito non solo gli/le attivisti/e ma anche alcuni/e giornalisti/e presenti sulla scena. La RWE ha gentilmente messo a disposizione della polizia, oltre che il personale della sicurezza privata, i propri mezzi per poter provvisoriamente fermare e identificare gli/le attivisti. O meglio, lo Stato ha come sempre messo a disposizione le proprie forze repressive per difendere gli interessi della grande proprietà privata.1 La collusione tra apparati repressivi statali e interessi capitalisti è ovvia: difesa del capitale e degli interessi economici über alles und überall. Ma disobbedire ad una legge di uno Stato, creata oggi e revocabile domani dai pochi che detengono il potere, non è la stessa cosa che disobbedire ad una legge fondamentale della natura (e della logica, direi!) che impone che il pianeta nel quale tutti/e noi viviamo vada salvaguardato per noi e per le future generazioni piuttosto che depredato e devastato. Nel primo caso si rischiano gogne mediatiche, processi, multe,  mesi o anni di carcere o comunque provvedimenti restrittivi della libertà personale, nel secondo caso si rischia la catastrofe, l’annichilimento del genere umano e delle altre specie viventi che popolano la Terra. Mettere im pratica azioni che contrastino con la logica del profitto ai danni della vita, della salute, del benessere collettivo o anche solo giustificare tali azioni verbalmente può anche essere un reato per uno Stato, per un sistema giudiziario, ma è senza ombra di dubbio un fatto non solo legittimo, ma necessario da un punto di vista etico, se l’etica è degna di questo nome. Dov’è la violenza? Nel danneggiamento di un macchinario usato per portare a termine un’opera nefasta, nel bloccare un’attivitá nociva, o nell’opera nefasta e nell’attività nociva? E cosa istiga alla resistenza attiva contro un’ingiustizia, un sopruso, un male arrecato a noi e alla terra sulla quale viviamo: le parole di una qualsiasi persona, più o meno nota che sia, che parla con coscienza e senza timore, o forse il sopruso, l’ingiustizia, il male di per sé? Chi lotta contro la devastazione ed il saccheggio delle risorse comuni deve sempre porsi problemi di ordine morale, mentre i nostri nemici si pongono quelli di ordine legale, perchè le leggi -almeno quelle artificiali, create da chi serve il sistema dominante- sono dalla loro parte. Dalla nostra parte c’è il coraggio di dire ciò che si pensa e di agire in prima persona senza scioccamente affidarsi alle false soluzioni e alle parole vuote di chi il problema lo ha creato, c’è la costanza e l’affetto nel tendere la mano a chi lotta con noi e si trova in difficoltà. Rispetto e solidarietà per Erri De Luca e per chiunque diventi un granello di sabbia nell’ingranaggio dell’ingiustizia che il sistema chiama giustizia.

Il Kurdistan chiama: rispondiamo!

Le terre comprese tra Iran, Irak, Siria e Turchia abitate prevalentemente dalla popolazione curda sono da decenni sotto il fuoco incrociato della repressione dei diversi Stati ai quali ufficialmente appartengono le rispettive porzioni di territorio. La Turchia in particolare ha un conto in sospeso con i curdi: dopo aver tentato di assimilarli senza successo, facendo largo uso della più brutale violenza nei casi di reticenza o resistenza da parte della popolazione civile, avendo ancor meno successo nella lotta contro la guerriglia creatasi come conseguenza al totale rifiuto di soluzioni diplomatiche e pacifiche da parte del potere dello Stato turco, dopo aver giocato la carta dell’appoggio nemmeno troppo velato ai fondamentalisti islamici dell’ISIS ( o, per chiamarli con il termine dispregiativo più appropriato, Daesh), oggi finge di entrare in guerra contro i combattenti del califfato mentre in realtà bombarda le postazioni dei/lle resistenti curdi/e, che dal canto loro avevano di recente cessato qualsiasi ostilità nei confronti delle autorità turche. Allo Stato turco, fortemente centralista e apertamente autoritario, non va giù che in Kurdistan sia ormai in atto, da almeno un decennio a questa parte, un processo di autogestione comunale profondamente democratico, che coinvolge organizzazioni di base composte dagli/e abitanti di villaggi e quartieri delle città. L’obiettivo di questo processo non è quello di creare uno Stato curdo indipendente, bensì quello di autogestire le risorse comuni in modo orizzontale, secondo il principio della democrazia di base, per far fronte alle esigenze della popolazione di un’area geografica particolarmente povera e oppressa. Anche l’abbandono da parte del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) dell’ideologia marxista-leninista a favore di una concezione tendenzialmente socialista libertaria, simile a quella espressa nelle opere dell’anarchico statunitense Murray Bookcin, “padre” di concetti quali ecologia sociale e municipalismo libertario, ha avuto un ruolo importante nell’influenzare le prospettive di cambiamento sociale, economico e politico. Col passare del tempo sono stati creati nel Kurdistan “turco” collettivi e cooperative nel settore agricolo, edilizio, scolastico, sanitario, culturale ed artigianale, organizzazioni di base giovanili e femminili, realtà che si coordinano tra loro e che collaborano con le amministrazioni comunali “amiche” e disposte a sostenere lo sviluppo dell’autogestione, secondo la logica -sempre citando Bookchin- del conflitto Comune-Stato; si tenta un’approccio produttivo che esuli dalla logica capitalista, ancora relativamente poco sviluppata in quelle terre; si fa ricorso a comitati di mediazione e pacificazione per risolvere diatribe e far fronte al crimine, alle violenze private ed alle faide familiari; si creano regole proprie, comunemente decise, per aggirare quelle eteronome dello Stato centrale;  le donne si integrano, non senza dover superare grossi ostacoli ma in ogni caso con enorme successo, nei processi decisionali, si rendono economicamente indipendenti, imparano a difendersi dalle violenze e ad acquisire autostima e consapevolezza scardinando i residui della vecchia società patriarcale, divenendo il motore della rivoluzione sociale in corso- il tutto con un’approccio ecologista.  Di per sé è straordinario che questo processo di cambiamento, lento ma inesorabile, sia andato avanti fino allo scoppio del conflitto in Siria e all’aggressione terroristica di Daesh, ma è ancor più straordinario che tutto ciò vada avanti nonostante la guerra oggi in atto. Un processo simile coinvolge i cantoni autonomi curdi ufficialmente appartenenti allo Stato siriano, che implementano il confederalismo democratico in una situazione a dir poco proibitiva. I curdi e chi lotta al loro fianco al di lá di divisioni etniche o religiose, armeni, yazidi, assiri, aramei, arabi, turchi e turcomanni, cristiani o musulmani, aleviti o zoroastriani o atei che siano, necessitano di tutto il sostegno possibile nella loro lotta contro l’aggressione dei fondamentalisti islamici di Daesh e dei governi degli Stati che tentano di impedire la loro emancipazione. Ci sono momenti nei quali i dibattiti su aspetti teorici di un processo di cambiamento sono indispensabili e si può tranquillamente discutere sulla differenza fra “lotta di classe” e “lotta popolare”, fra abolizione della proprietà privata e uso comune di tale proprietà, fra abolizione dello Stato e appoggio alle istituzioni locali in chiave decentralista; ci sono invece momenti nei quali la  domanda che ciascuno/a di noi dovrebbe porsi urgentemente è: come possiamo appoggiare il cambiamento in corso, come possiamo sostenere la lotta dei curdi e delle popolazioni minacciate dai fondamentalisti islamici e dalla violenza militare dello Stato turco, come dare una mano a profughi e sfollati? Io avrei un paio di modesti suggerimenti, basati sulla mia esperienza personale di attivismo politico e su azioni tuttora in corso o svoltesi nei mesi passati in diverse parti del mondo. Suggerimenti forse vaghi, generici, alcuni più efficaci di altri, chissà, ma restare fermi a guardare non è un’opzione accettabile non dico per un anarchico/a, ma per chiunque conservi ancora un briciolo di umanità, di solidarietà, di sincero amore per la libertà. Inoltre penso che più si rafforza la solidarietà internazionale di chi ha a cuore la rivoluzione sociale libertaria e meno peseranno alla fine del conflitto gli aiuti “sbagliati” (per quanto sembrino ora decisivi almeno su un piano militare), quelli dei Paesi Occidentali sempre interessati al proprio tornaconto nazionale ed al controllo politico ed economico di intere aree geografiche a prescindere dalla volontà delle popolazioni che le abitano…. Pertanto: Che fare?

Informare ed informarsi:Risultati immagini per solidarity kurdistan donations

i massmedia mainstream riportano solitamente notizie e dichiarazioni  di fonte turca. Diamo voce a chi appoggia la resistenza curda, diffondiamo interviste, comunicati, video, aggiornamenti. Usiamo tutti i mezzi a nostra disposizione, soprattutto internet, ma non dimentichiamo la comunicazione diretta con le persone “in carne e ossa”. Spieghiamo ad esempio non solo quanto sia importante la lotta contro Daesh, ma anche e soprattutto chi sta lottando VERAMENTE contro i fondamentalisti islamici e che tipo di cambiamento è in corso nella società curda. Se possibile andrebbero organizzate conferenze e dibattiti pubblici con persone che hanno una conoscenza il più possibile approfondita della questione curda;

– Protestare e fare pressione:

Risultati immagini per we stand in solidarity with freedom fighters of Rojavain numerose città sono state organizzate proteste sotto le ambasciate e i consolati turchi, contro le politiche assassine del partito AKP di Erdogan, in solidarietà ai/lle combattenti curdi, contro il fondamentalismo islamico. E-Mail e lettere di protesta di massa indirizzate alle rappresentanze istituzionali turche, boicottaggi ben organizzati e ampiamente pubblicizzati, manifestazioni e presidi possono essere metodi di pressione efficaci e danno la possibilitá di portere all’attenzione pubblica questioni altrimenti rimosse o manipolate dai massmedia:

-Raccogliere fondi:

da diversi mesi a questa parte sono state messe in campo svariate iniziative atte a raccogliere denaro necessario per la ricostruzione delle infrastrutture, per procurare beni di prima necessità agli/lle sfollati, per la sanità, per sostenere progetti e associazioni locali esistenti anche da prima dello scoppio guerra, ma anche per acquistare armi necessarie all’autodifesa della popolazione. Sono stati organizzati concerti, cene benefit, tombole, mercatini, collette, sono state prodotte e vendute magliette che oltretutto servono anche a comunicare un messaggio chiaro e a stimolare la curiositá e un possibile dialogo con le persone che incontriamo quotidianamente. A volte basta davvero poco, anche solo un barattolo con su scritto “offerte per i/le combattenti curdi in Rojava” durante una festa. I fondi possono essere destinati a una o più organizzazioni che operano sul posto e usati per diversi scopi, nel dubbio contattare gruppi organizzati di persone che si recano in Kurdistan o che hanno contatti diretti con le persone del posto. Per chi avesse bisogno di qualche esempio dalla Germania può cliccare qui.

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L’interruzione della normalità.

Francoforte, 18 Marzo 2015: le vetrine delle banche infrante, le barricate e le auto della polizia in fiamme, i blocchi stradali, le diverse azioni di protesta pacifiche o meno e il corteo pomeridiano di Blockupy (25mila partecipanti) hanno interrotto per un giorno il businnes as usual al quale gran parte di noi sono più o meno abituati/e ed assuefatti, con grande disappunto di Schäuble, Draghi e compagnia danzante. Ma non è il loro disappunto che dovrebbe stupire e preoccupare- semmai di ciò si può solo gioire-, quanto quello dei/lle tanti/e cittadini/e comuni che magari hanno a parole poca simpatia per banche e sistema finanziario, ma che ritengono che le proteste, se hanno luogo, si debbano sempre e comunque svolgere entro i margini della legalità o perlomeno della nonviolenza. Costoro, oltre ad esprimere quasi sempre una critica ridotta e parziale del sistema capitalista di stampo riformista (se e quando esprimono qualcosa), vorrebbero che si attirasse l’attenzione dei potenti per chiedergli di agire diversamente, vorrebbero che si giocasse secondo le regole stabilite da chi per ora con quelle regole ha sempre vinto, sono pronti a indignarsi per una vetrina rotta o per una pietra lanciata contro un agente in tenuta antisommossa. A parte l’illusione a dir poco patetica di queste persone sulla possibilità di far leva sui sentimenti umani dei potenti e dei loro servi ai piani più alti chiedendo contentini e aggiustamenti di rotta, mi chiedo- limitandomi ad osservare la situazione della Grecia piegata da debito e politiche di austerity- dove sia la loro indignazione di fronte al fatto che la mortalità infantile in Grecia è aumentata del 40% negli ultimi tempi, che i malati di cancro ricevono medicinali gratuiti solo in fase terminale, che sempre più persone si suicidano dopo aver perso qualsiasi prospettiva ma anche e soprattutto la propria dignità, mentre altri finiscono a vivere per strada oltretutto minacciati dalle bande neonaziste di Alba Dorata e dalla polizia, che chi ha lavorato tutta la vita si trova ora ad avere nulla, a dover elemosinare un tozzo di pane secco mentre i più abbienti, i grossi capitalisti, gli investitori hanno fatto sparire dal Paese le loro ricchezze lasciando nella merda quelli che sfruttavano fino al giorno prima mentre tra un meeting e un’inaugurazione di edifici dai costi stratosferici i vari Juncker, Barroso e Draghi bevono champagne in onore di un sistema economico immondo e disumano. Ancora una volta, questi/e cittadini/e perbene indignati e scandalizzati per due vetri rotti nella loro città della Borsa e degli affari dovrebbero pensare, pensare, pensare e svegliarsi e mostrare una vera coscienza. Oppure tacere, almeno per un minimo di giustizia nei confronti del senso del pudore. Una banca sfasciata non è la rivoluzione, né il gong che ne segna l’inizio, non cambierà il mondo, ma è un segno tangibile della rabbia legittima di chi è oppresso e solidarizza con altri/e oppressi/e.