Urupia, una comune libertaria nel Salento.

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Nel pubblicizzare, per così dire, l’interessantissimo incontro-dibattito sulle forme di autogestione e autoorganizzazione che si svolgerà a Roma il 2 Marzo prossimo presso lo Spazio Sociale 100celle, non posso fare a meno di cogliere l’occasione per “presentare” a grandi linee, per chi non ne avesse ancora sentito parlare, l’esperienza della comune libertaria di Urupia in Puglia, così come viene illustrata in un articolo tratto dal sito dello Spazio Sociale 100celle che promuove e ospita l’evento:

” URUPIA :: UNA COMUNE LIBERTARIA NEL SALENTO
Il progetto Urupia nasce all’inizio degli anni novanta dall’incontro tra un gruppo di salentini – all’epoca quasi tutti redattori della rivista Senza Patria – e alcune persone di origine tedesca, “militanti” della sinistra radicale in Germania.

Tre anni di seminari, scambi epistolari, incontri dibattiti, accompagnano un percorso di conoscenza, di chiarificazione degli obiettivi e dei contenuti del progetto, di definizione dei metodi organizzativi, delle prospettive economiche, delle possibilità politiche, ecc.
Il progetto decolla “uffucialmente” nel 1995, con l’acquisto di alcuni fabbricati rurali e di circa 24 ettari di terreno nelle campagne di Francavilla Fontana, nel Salento, a metà strada tra Brindisi e Taranto.
La masseria – così da noi si chiamano i cascinali di campagna – e i terreni vengono acquistati grazie alle (poche) possibilità economiche delle comunarde e a diverse sottoscrizioni, crediti e donazioni di compagne e compagni italiani e tedeschi. La proprietà di questi beni viene intestata all’Associazione Urupia, figura giuridica senza scopo di lucro, creata appositamente per poter sottrarre alla proprietà privata la disponibilità legale dei beni e dei mezzi di produzione della Comune.

La Comune Urupia diviene così realtà: suoi principi costitutivi sono soprattutto l’assenza della proprietà privata e il principio del consenso, ossia l’unanimità delle decisioni.

Questi “punti consensuali” vengono scelti nella convinzione che, in qualsiasi contesto sociale, una vera uguaglianza politica non sia realizzabile senza la base di una uguaglianza economica, e vengono assunti come corollario al desiderio di porre l’individuo, la sua autonomia e la sua felicità a fondamento di qualsiasi sviluppo sociale.
Urupia comincia a “vivere” nella primavera del ’95 con la ristrutturazione dei fabbricati – quasi 2000 metri quadri di strutture murarie coperte – e con la messa a coltura dei terreni della Comune, entrambi da anni in condizioni di avanzato abbandono.
Da allora tutti gli impianti fondamentali sono stati realizzati: acqua, luce, gas, riscaldamento, un impianto pilota di fitodepurazione per le acque di scarico, due impianti solari per la produzione di acqua calda, una fitta rete di tubazioni per l’irrigazione delle colture nelle campagne. Diversi spazi abitativi sono stati ristrutturati, così come molte delle infrastrutture della vita quotidiana: la cucina, i bagni, i magazzini , i forni, diversi laboratori, ricoveri per attrezzi, un campeggio attrezzato per gli ospiti estivi, un locale per lo stoccaggio e la vendita dell’olio, una nuova cantina, un capannone per le attività sociali e culturali…
I terreni sono stati quasi tutti messi a coltura, altri ne sono stati acquistati o presi in gestione: più di 15 ettari di oliveto – prevalentemente plurisecolare, tre ettari e mezzo di vigne, un ettaro di orto, i seminativi, i frutteti, ecc. per un totale di circa 30 ettari. Migliaia di nuove piante sono state messe a dimora.
Qualcuno ha detto che a Urupia si lavora “troppo”: e in realtà, se ci si guarda in giro, e si è stati qui almeno una volta all’inizio, non ci si può sottrarre alla sensazione di un’enorme, fervida, interminabile mole di attività che ha trasformato completamente, in poco più di 10 anni, l’aspetto di questo posto. Ma il lavoro a Urupia non è solo quello sui cantieri o nei campi: migliaia di ore di assemblee hanno impostato la nostra vita e le nostre scelte, regalandoci nello scambio maggiore consapevolezza e maggiore libertà praticamente su tutto: sui nostri limiti e sui nostri sogni, sulla cura dei figli e sull’uso delle auto, sulla guerra nei mille angoli del mondo e sull’allevamento degli animali, sui nostri consumi e sulle risorse del pianeta, sulla repressione politica ed economica e sulle nostre relazioni sociali…

Difficile descrivere oggi, dopo oltre 10 anni di vita, che cos’è la Comune Urupia; difficile dare un’idea, sia pure approssimativa, delle innumerevoli attività – poitiche, sociali, lavorative, economiche – svolte dal 1995 ad oggi dalle centinaia di persone che hanno animato questo laboratorio sociale dell’utopia.

Nelle intenzioni delle comunarde che diedero vita al progetto, la Comune avrebbe dovuto rappresentare la realizzazione pratica di un’utopia libertaria: la possibilità, cioè, di raggiungere un alto livello di autosufficienza economica, di libertà politica e di solidarietà sociale attraverso il lavoro e l’agire collettivo, eliminando ogni forma di gerarchia, sia quelle determinate dalla proprietà che quelle legate al sesso, sia quelle fisiche che quelle intellettuali. Urupia doveva essere un laboratorio quotidiano dell’autogestione che riuscisse a permettere al tempo stesso il massimo sviluppo delle possibilità individuali e la massima negazione delle leggi del mercato, il rispetto delle diversità umane e l’opposizione alle leggi del privilegio e del profitto; la dimostrazione concreta, insomma, della possibilità di un vivere individuale e collettivo che negasse, di per sè, il più possibile, le ingiustizie del sistema dominante.
Quanto di tutto ciò siamo riusciti a realizzare, anche questo è difficile dire, e comunque, forse, non spetta neanche a noi, questo compito. Lontana da noi la presunzione di aver anche solo sfiorato il raggiungimento di simili ideali, viviamo invece quotidianamente la consapevolezza della difficoltà di un percorso di vera autogestione: i continui conflitti tra privato e collettivo, il costante riemergere di comodi meccanismi di delega e di ambigue gerarchie informali, la difficoltà del raggiungimento di una vera uguaglianza tra i sessi e di un rapporto di serena, efficace collaborazione tra uomini e donne, la risucchiante prepotenza delle peggiori leggi dell’economia, sono tutte contraddizioni che stanno lì ad indicarci quanta strada abbiamo ancora da fare, e quanto difficile sia questo percorso.
Contraddizioni alle quali, tuttavia, non abiamo alcuna intenzione di sottrarci, semplicemente rivendicando un ingenuo, quanto ipocrita, immobile “purismo”.
Ciò che è certo è che in questi anni non c’è stata critica – o suggerimento, o consiglio, o obiezione – che, per quanto brutalmente o confusamente espressa, non sia stata da noi seriamente presa in considerazione e discussa. Siamo sempre stati convinti del carattere sperimentale del nostro progetto e abbiamo sempre creduto di dover cercare soprattutto nelle nostre menti e nei nostri cuori le strade di una sincera e reale trasformazione sociale. Così alla fine Urupia potrebbe anche essere vista come un crocevia di esperienze e di idee, come un teatro di sofferenze e di emozioni, di speranze e di amori, di rabbie e di incertezze; una piccola – ma quotidiana, continua – rappresentazione di una personale e collettiva ricerca di quel mondo migliore, più libero e giusto, nel quale sarebbe anche ora che cominciassimo a vivere, noi che ci avveleniamo il sangue per questo schifo di mondo che invece dobbiamo sopportare.”

“Fermiamo la guerra in Mali”: comunicato della FAI.

Fonte: Anarchaos.

” Fermiamo la guerra in Mali! [Comm. Rel. Internazionali FAI]

http://federazioneanarchica.org/archivio/20130216cri.html

Fermiamo la guerra in Mali!

L’11 gennaio il governo francese ha dato inizio ad un’operazione militare in Mali. Ha dichiarato di intervenire per sostenere le unità maliane contro il terrorismo di matrice islamica che imperversa in quell’area e per difendere la popolazione dalle violenze. Qualche giorno dopo, il 14 e il 17, rispettivamente la Germania e l’Italia, attraverso i loro ministri degli esteri, hanno affermato di appoggiare l’attacco francese in Mali e di essere disponibili a offrire supporto logistico. Passano poche settimane e, all’inizio di febbraio il presidente francese Hollande “atterra” tra le sue truppe a Timbuctu, ripreso dalle telecamere delle TV internazionali, sottolineando che le milizie islamiche/tuareg sono in fuga e il Mali è quasi completamente liberato: “Sosterremo i maliani fino alla fine di questa missione nel nord – ha dichiarato – ma non intendiamo star qui per sempre”.

Una frase che deve essere interpretata in senso esattamente opposto se si allarga lo sguardo alla politica estera dei governi francesi degli ultimi anni.
Infatti, c’è perfetta continuità tra Sarkozy che bombarda la Libia e Hollande che bombarda il Mali.
Sin dal 2007, in Niger, si è sviluppato un movimento tuareg, e dopo quasi cinquantanni di rapporti esclusivi con la Francia,questo paese aveva di recente aperto a compagnie non francesi lo sfruttamento delle risorse minerarie.
Certo, si potrebbero evidenziare le contraddizioni di chi interviene militarmente, ora in difesa della popolazione, ora per togliere di mezzo il dittatore scomodo. Insomma un giorno si spargono i “semi” della democrazia, l’altro si sostengono le forze ribelli con soldi e armi. A volte capita che i nemici di oggi siano stati gli amici di ieri (durante l’attacco alla Libia, Francia e Gran Bretagna hanno fatto ampio uso degli islamisti per combattere le forze armate di Tripoli, poiché i separatisti della Cirenaica non erano interessati a rovesciare Mu‘ammar Gheddafi una volta che Bengasi fosse diventata indipendente).
La campagna di comunicazione massmediatica preferisce mostrare le folle festanti che sventolano la bandiera francese invece delle migliaia di profughi che si sono concentrati in pochi giorni presso i confini maliani. Il ritornello si ripete mostrando i danni che i fondamentalisti hanno provocato al patrimonio culturale, (la biblioteca di Avicenna e i mausolei di Timbouctou) sottolineando il divieto di ascoltare la musica o di vestirsi senza seguire i dogmi religiosi. La distruzione generata dai bombardamenti dell’aviazione, invece, non appare mai.
L’opinione pubblica occidentale si confronta con l’ennesimo conflitto in modo apparentemente indolore: la distanza che ci separa dagli scenari di guerra favorisce, infatti, un certo “distacco”.
Non dobbiamo, però, scordare che gli interventi degli eserciti degli stati alimentano il pericolo “terrorista” (i recenti fatti che hanno interessato l’impianto energetico di In Amenas in Algeria rappresentano un esempio lampante).
Gli effetti di queste politiche neocolonialiste, travestite da missioni umanitarie, si estendono, comunque, anche all’interno dei confini dei paesi europei grazie alle legislazioni speciali antiterrorismo che, in nome della “sicurezza” continuano a erodere gli spazi di libertà e costituiscono uno “strumento repressivo e politico pronto all’uso” per fronteggiare le forme più pericolose e crescenti della protesta sociale.
Esaminando più nel dettaglio l’intervento militare in Mali ci si rende conto dell’infondatezza delle motivazioni ufficiali e delle mille contraddizioni che ne scaturiscono.
L’esercito francese era, da tempo, pronto a intervenire; la richiesta d’aiuto del presidente golpista Dioncounda Traorè è stata solo il pretesto.
È’ impossibile credere che sia stata l’emergenza umanitaria a spingere l’Europa a intraprendere questa nuova guerra. L’Africa è vessata, da decenni, da miriadi di focolai di violenza e nessuna potenza occidentale se ne è mai seriamente interessata. Si dirà che in Mali ad aggravare la situazione c’è l’emergenza “terrorismo islamico”.
Non dimentichiamo, inoltre,il ruolo degli Stati Uniti,in questa guerra,che da decenni contendono alla Francia il controllo della FrancAfrique.
Significativo il fatto che circa tre settimane dopo l’intervento francese in Mali, gli Stati Uniti abbiano siglato un accordo con il governo di Niamey per l’installazione di una base militare statunitense ad Agadez, nel nord del Niger nella zona uranifera del paese.

Dobbiamo considerare questa “nuova” guerra come la prosecuzione naturale della campagna libica e renderci conto che, probabilmente, ci troviamo di fronte a una precisa strategia neo-coloniale di controllo politico del territorio, finalizzato allo sfruttamento delle risorse naturali e inquadrato in un’ottica di contrasto dell’avanzata dei capitali cinesi in Africa. La Cina, infatti, è il primo partner commerciale di Tanzania, Zambia, Congo ed Etiopia (dove il PIL cresce con una media del 5,2% l’anno, cifre impressionanti) e in molte zone vanta l’esclusiva sui diritti di estrazione delle risorse.
Il governo francese ha enormi interessi economici nell’area centro-nord africana e sta cercando, anche con mosse azzardate, di mantenere sotto la propria influenza quelle zone di interesse strategico per l’abbondanza di risorse minerarie ed energetiche.
Il Mali potrà diventare importante nel prossimo futuro, ma il Niger lo è già ora. Non può sfuggire che, poco oltre il confine sud-est del Mali, sono collocate le più importanti miniere d’uranio nigeriane. Il riferimento è alla miniere di Arlit ed Akokan da cui la multinazionale Areva ricava gran parte dello “yellowcake” destinato ad alimentare i 58 reattori nucleari francesi. Nella stessa zona è prevista l’apertura di quella che è destinata a diventare una delle più grandi miniere al mondo per l’estrazione dell’uranio, Imouraren. Non mancano poi l’oro e il petrolio. Quindi, un grande affare che lo Stato francese – “spalla” di multinazionali come Total e Areva (giusto per fare due nomi) non può lasciarsi scappare.
Non si può dimenticare che la politica energetica francese è fondata sull’energia nucleare, una scelta che ha radici nel passato perché direttamente legata alla necessità di rafforzare il proprio ruolo militare nello scenario geopolitico internazionale. Sappiamo bene che non c’è soluzione di continuità tra gli impieghi, cosiddetti, civili dell’energia atomica e quelli finalizzati alla costruzione di ordigni destinati a minacciare l’umanità. Una scelta di sistema che rende, nell’attuale contesto d’instabilità, difficile, per il governo francese, individuare fonti energetiche alternative. La disponibilità dell’uranio rimane, quindi, una questione essenziale almeno in una prospettiva di medio periodo.
Quando l’esercito francese tornerà in patria sarà solo perché il controllo della situazione sarà affidato alle armi amiche delle forze africane alleate con la Francia.
Non è un caso che le forze armate della CEDEAO (Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale) siano state, velocemente, schierate lungo il confine tra Mali e Niger. La necessità di “proteggere” le aree d’interesse minerario da una possibile espansione della rivolta è stata subito evidente.
La nostra epoca è già contraddistinta da crisi energetiche e difficoltà di approvvigionamento di materie prime e non c’è da stupirsi che il capitalismo mondiale stia cercando di correre al riparo, ancora una volta, per garantirsi, con ogni mezzo, una parte del bottino. Tutti noi sappiamo che la guerra e la finanziarizzazione dell’economia sono mezzi per movimentare repentinamente enormi capitali, per riorganizzare equilibri politici di governi, stati e confini nazionali non più funzionali al profitto di multinazionali e società finanziarie.

Nel vicino Niger, da 40 anni, Areva e le sue consociate estraggono l’uranio senza alcun rispetto per l’ambiente e per i lavoratori, gli abitanti vicini ai siti di Arlit e Akokan hanno pagato e pagano un prezzo altissimo in termini di salute e di morte, come risulta da studi indipendenti (CRIIRAD – ROTAB). I minatori di uranio sfruttati infatti, sono esposti a radiazioni ionizzanti nelle cave, nelle miniere sotterranee, nelle officine di lavorazione del minerale grezzo, ma anche nelle città e nelle loro case. In questa zona 35 milioni di scorie radioattive sono raccolte all’aria aperta sin dall’inizio dell’attività estrattiva. Grazie al vento gas radon e altri derivati considerati cancerogeni si spargono nell’ambiente. Ma l’Areva opera anche sul territorio italiano. Il trasporto di materiale irraggiato passa per il nostro paese verso l’impianto di la Hague dove si estrae plutonio (per le bombe) e produce il mox (un combustibile di riciclo con cui funzionano alcune centrali). In Mali è la guerra di sempre, di stato e capitale, dove sfruttamento e saccheggio ai danni della popolazione non conoscono confini nazionali!

Diffondere l’informazione contro l’ipocrisia del potere, rafforzare la consapevolezza per far crescere la voglia di giustizia sociale sono solo i presupposti per sostenere le lotte che in ogni parte del mondo devono liberare gli oppressi da vecchie e nuove schiavitù, economiche, militari o religiose che siano.
Solo attraverso l’internazionalismo, l’antimilitarismo e la solidarietà di classe possiamo da anarchiche ed anarchici fermare l’orda di questo ennesimo, nuovo e lurido conflitto.

Fermiamo la guerra in Mali!
Solidarietà a tutte le popolazioni colpite dalla guerra!

Commissione Relazioni Internazionali
della Federazione Anarchica Italiana”

“Febbraio nero”: azioni dal mondo.

L’appello per una campagna di solidarietà con gli spazi occupati e i/le compagni/e anarchici/che nel mondo ha ricevuto risposta a livello internazionale sotto forma di azioni dirette di diverso tipo. Dalla Germania al Cile, dalla Spagna alla Grecia, dall’Argentina all’Australia, dal Portogallo all’Austria, sarebbe difficile elencare tutte le azioni che, con tempi e in modi diversi, sono state messe in campo da individualità e gruppi che non lasciano che la parola “solidarietà” rimanga un semplice concetto teorico, ma si impegnano per tradurla quotidianamente in pratica concreta. Uno sguardo d’insieme sulle azioni per il “Febbraio Nero” lo si può avere consultando il sito “Fight Now”, le foto postate di seguito sono solo un piccolo esempio:

MESSICO:

critical-mass-tlanepantla

GERMANIA:

solidemo1

78257

CILE:

DSC01436

Febrero negro

EQUADOR:

ACTIVIDAD 15 FEBRERO

AUSTRIA:

demo_in_a_side_street

SPAGNA:

lumaca

PERÚ:

lima

AUSTRALIA:

ARGENTINA:

buenos aires febrero negro

PORTOGALLO:

Operazione Brushwood- Sentenza processo d’appello: cade l’associazione sovversiva.

Il seguente comunicato è tratto dal sito Informa-Azione. Per altri articoli e comunicati sull’Operazione Brushwood consiglio di cercare sul sito Anarchaos, dove ne sono stati pubblicati parecchi nel corso degli sviluppi di questa operazione repressiva.

“riceviamo e diffondiamo:

Il Processo d’Appello per la cosiddetta operazione Brushwood si è concluso con una umiliante sconfitta per le tesi dell’Accusa, sostenuta dalla pm Manuela Comodi (quella che chiese 6 anni per una scritta su un muro e che ora è il pm dell’Operazione Ardire):

– Michele Fabiani (condannato a 3 anni e 8 mesi in primo grado, il pm ne aveva chiesti 9) è stato assolto per l’accusa di associazione sovversiva e condannato a 2 anni e 3 mesi per le minacce all’ex governatrice umbra Lorenzetti e per i danneggiamenti ai cantieri.

– Andrea Di Nucci è stato ASSOLTO DA TUTTE LE ACCUSE, in primo grado era stato condannato a 2 anni e 6 mesi (il pm ne chiese 8), ha trascorso un anno agli arresti.

– Dario Polinori è stato condannato a un anno (confermata la sentenza di primo grado, il pm ne aveva chiesti 6)

– Damiano Corrias, accusato solo di una scritta su un muro è stato condannato ad 11 mesi (in primo grado a 12 mesi, la Comodi in un attacco di pazzia chiese sei anni).

Per tutti è venuta meno l’associazione sovversiva con finalità di terrorismo.

Grecia: fabbrica occupata inizia la produzione sotto controllo operaio.

Martedì 12 Febbraio 2013 è il giorno in cui è iniziata ufficialmente la produzione sotto controllo operaio nella fabbrica di materiali da costruzione Vio.Me (Metaleftikì Viomijanikì) di Salonicco. Gli/le operai/e non ricevevano il loro salario dal Maggio del 2011, la fabbrica era stata abbandonata dai padroni e il futuro che gli si prospettava era quello di ingrossare le file dei disoccupati, che in Grecia hanno raggiunto la percentuale del 30% della popolazione. Al posto di demoralizzarsi e lasciarsi trascinare nel vortice della miseria, dell’apatia e del cannibalismo sociale fomentato da una società priva di solidarietà dove ognuno pensa a se stesso e cerca di tirare avanti spesso sulla pelle altrui, i/le lavoratori/trici della Vio.Me si sono organizzati tra loro in assemblea, hanno inizialmente scioperato dal Settembre 2011 rivendicando il loro diritti per poi decidere, con voto all’unanimità durante una riunione tenutasi a fine Gennaio 2012, la riapertura della fabbrica sotto controllo operaio, senza aspettare il riconoscimento legale della loro iniziativa (che comunque hanno chiesto già nell’Ottobre 2011).

L’esempio delle fabbriche occupate e autogestite dai/lle lavoratori/trici è vecchio quanto le lotte del movimento operaio. Tra gli esempi passati di occupazione ed autogestione basterà citare il cosiddetto “biennio rosso” (1919-1920) in Italia e l’autogestione in Catalogna durante la guerra civile spagnola (1936-1939), mentre tra gli esempi più recenti e più noti vi è quello delle FaSinPa, “fabbriche senza padroni”, iniziato in Argentina intorno al 2001 e tuttora in corso in diverse fabbriche e aziende. È proprio una situazione di crisi economica simile a quella che colpì l’Argentina nel 2001 che gli/le operai/e della Vio.Me si trovano a dover ora affrontare, una crisi alla quale è necessario reagire in prima persona senza aspettare che si realizzino le vane promesse di governi e padroni da sempre impegnati a difendere i loro interessi alle spalle di chi viene sfruttato.

Manifesti e volantini antielettorali.

Per completare il ciclo di articoli sul tema dell’astensionismo elettorale pubblico una serie di manifesti e volantini apparsi in diverse zone d’Italia in occasione delle varie tornate elettorali. I testi possono venire eventualmente modificati secondo i luoghi e le circostanze, in ogni caso potrebbero essere d’ispirazione per una campagna anti-elettorale propositiva e creativa.

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(Ancora) sull’astensionismo elettorale: botta e risposta.

Ho deciso di elencare alcune delle obiezioni che vengono rivolte più spesso nei confronti di chi afferma di non voler votare, corredate da quelle che sarebbero le mie risposte se tali obiezioni venissero rivolte a me personalmente- cosa che a volte è avvenuta…

-“Se non voti lasci che altri decidano chi ti deve governare”. Se invece andassi a votare eleggerei persone che in gran parte non rispettano il programma elettorale proposto agli/lle elettori/trici e che comunque non mi consultano prima di prendere decisioni, o meglio prima di ratificare decisioni prese altrove, insomma deciderei proprio che siano gli altri a governarmi senza nemmeno sapere fino in fondo chi sono questi “altri”. Inoltre se votassi non è detto che i delegati da me votati (nel caso vengano eletti!) riuscirebbero a far parte di un governo o perlomeno a influenzare le decisioni prese dal governo del quale non fanno parte. Se poi dovessero veramente formare un governo mostrerebbero il loro vero volto di burocrati aserviti alle esigenze del sistema economico. La democrazia rappresentativa è in teoria, tra le altre cose, una dittatura della maggioranza- nei fatti rappresenta solo un paravento per l’oligarchia che in realtà ci domina e decide per noi.

“Non votare non serve a cambiare le cose, col voto si può almeno provare”. Quante volte abbiamo/avete provato a cambiare le cose col voto? A cosa è servito? Solo a legittimare il potere delle istituzioni e le loro scelte che vanno in direzione opposta ai nostri interessi! Per cambiare qualcosa si deve agire in prima persona, non delegare ad altri il cambiamento. È chiaro che astenersi dal votare senza fare altro non serve, si deve andare oltre agendo in prima persona, proponendo in concreto alternative al sistema vigente e fornendo risposte pratiche alle nostre esigenze, cosa che i politicanti rinchiusi nei palazzi del potere mai hanno fatto né mai faranno.

“I nostri avi/ i partigiani sono morti perchè noi potessimo vivere in un sistema democratico. Votare significa anche onorare il loro sacrificio”. I nostri avi sono morti in tanti modi e per tanti motivi diversi. Molti sono morti sul lavoro, oppure di miseria e stenti o si sono suicidati perchè non avevano speranza nel futuro, altri sono stati uccisi dalla repressione e dalle galere, molti sono morti in guerre volute dai vari governanti degli Stati nei quali vivevano. Usare genericamente i morti per propagandare la scelta del voto mi sembra una cosa miserabile. In quanto ai partigiani, anch’essi erano tra loro diversi ed hanno combattuto per la liberazione dell’Italia dall’occupazione nazifascista portando avanti istanze diverse. C’erano repubblicani e monarchici, liberali e democristiani che volevano una (pseudo)democrazia in stile occidentale forzatamente condizionata dagli interessi statunitensi e comunisti che spesso si battevano per un regime su modello di quello sovietico, ma anche opportunisti che non disdegnavano un modello di governo autoritario solo in parte diverso dal fascismo che non avrebbe avuto bisogno nei fatti di conferme elettorali da parte del popolo e che si erano rivoltati contro il fascismo di Mussolini solo quando la guerra aveva preso una brutta piega. I partigiani che rappresentarono valori ai quali io mi sento vicino sono quelli che combatterono contro il nazifascismo ma che non accettarono l’occupazione americana, che sognavano una società libera senza sfruttati né sfruttatori e che non avevano certo rischiato o addirittura perduto le loro vite per una qualsiasi democrazia rappresentativa puramente simbolica con tutte le sue ipocrite costituzioni, istituzioni e autorità.

– “Il voto è servito a ottenere diritti civili e conquiste progressiste… Il diritto di voto stesso è una conquista civile!”. Le conquiste di diritti, per quanto parziali e pur sempre revocabili (revocabili da chi? Ma da governi “democraticamente” eletti!), sono state ottenute con lotte dure nei posti di lavoro, nelle scuole, per le strade, nella cosiddetta società insomma. Il parlamento le ha tutt’al più trasformate in leggi, smorzandone le reali potenzialità emancipatorie. Attraverso il processo di istituzionalizzazione delle rivendicazioni emancipatorie, queste perdono la loro carica rivoluzionaria e vengono integrate in un ambito comodo al sistema, ambito che contempla ovviamente anche il tanto decantato diritto di voto che serve in fondo solo a legittimare i governi nelle loro scelte nefaste ed antipopolari e può far esclamare ai governanti “se sto qui è perchè la maggioranza degli/lle elettori/trici mi ha votato!”.

– “La peggiore delle democrazie è pur sempre meglio della migliore delle dittature”. A ben guardare l’unica differenza è che almeno in una dittatura i sudditi hanno ben chiara la natura del sistema nel quale vivono e non vengono presi in giro dicendogli che godono della libertà di scelta e che il potere è nelle loro mani. Oltretutto non è raro che i confini tra dittature e governi cosiddetti democratici siano piuttosto sfumati e si basino su dettagli di forma. La scelta del meno peggio porta sempre al peggio e ci porta pure ad accettarlo, “non si sa mai, potrebbe andare peggio!”…che tristezza!

– “Se non vai a votare alcuni candidati verranno eletti lo stesso e un governo verrà formato, con o senza il tuo consenso. In più le schede nulle o bianche vengono conteggiate come premio di maggioranza per la coalizione vincitrice, in pratica se non voti regolarmente fai un favore al partito/coalizione che prende più voti”. Questa affermazione mostra implicitamente che il mio voto in pratica non vale una sega. Va da sè che governi vengono comunque formati senza il mio consenso. Per quanto riguarda l’annoso problema del “come astenersi”, devo ammettere di non sapere esattamente quale sia il più efficace. Esistono diatribe infinite sul web tra chi sostiene la tesi dei voti nulli distribuiti come premio di maggioranza e chi dice che ciò non sia vero, c’é chi cita leggi e chi con leggi controbatte, mentre c’é chi informa su come rendere ufficiale la propria astensione rifiutando la scheda presso il seggio- anche qui discussioni infinite sull’efficacia e sulla fattibilità di questo metodo. Personalmente, da quando ho deciso di non votare, non ho proprio messo piede in un seggio elettorale, ma a questo giro m’hanno spedito direttamente a casa il kit del “perfetto cittadino che fa il suo dirittodovere” con annessi certificato elettorale, schede e busta preaffrancata per rispedire il tutto, visto che secondo la legge sarei un cittadino italiano residente all’estero. Non ho ancora deciso se smaltire il tutto nel bidone della spazzatura previo stracciamento o se rispedire al mittente la scheda dopo averci scritto sopra qualcosa di più significativo di tutte le obiezioni all’astensionismo che ho sentito finora. Una frase breve ma molto significativa ce l’ho già in mente: “I MIEI SOGNI NON ENTRERANNO MAI IN UN’ URNA ELETTORALE”.

Irlanda: Le responsabilità dello Stato e le Case Magdalen.

Fonte: Anarkismo.

” Irlanda: Le responsabilità dello Stato e le Case Magdalen

Una lavanderia Magdalen negli anni '40.

Pubblicata la relazione finale dell’inchiesta

Dopo 18 mesi di investigazioni, la commissione governativa – presieduta dal senatore Martin McAleese – nominata dal governo per stabilire i fatti riguardanti il coinvolgimento dello Stato irlandese nelle lavanderie Magdalen ha pubblicato la sua relazione finale (1). Il documento non ha disatteso le aspettative e stabilisce infatti che lo Stato era coinvolto direttamente nel sistema gestito dalle Case Magdalen, a gestione di ordini di suore cattoliche.

In passato lo Stato irlandese ha sostenuto di non avere avuto alcuna responsabilità nella questione, dal momento che si trattava di istituzioni private, ma le investigazioni dimostrano che lo stesso Stato appaltava contratti di gran valore alle Case Magdalen – esentando le lavanderie da qualsiasi obbligo a livello di contributi – e inoltre eseguendo periodiche ispezioni da parte dell’Ispettorato di Lavoro. Le Case Magdalen, in qualità di organizzazioni a scopo caritatevole, erano esenti dalle tasse (sulle imprese, sui redditi e quelle comunali).

I ricoveri

Uno degli aspetti esaminati dalla relazione del Comitato – che ha studiato 11.000 ricoverate dagli anni ’20 fino agli anni ’80 – era il modo in cui le donne furono ricoverate nelle Case Magdalen. In alcuni casi (circa il 16%) i ricoveri vengono definiti “autoricoveri”. Questa categoria include donne che cercavano ricovero a causa di povertà, abusi domestici o per essere rimaste senza casa.

Circa il 10% dei ricoveri erano su richiesta delle famiglie delle donne e quasi il 9% su richiesta di un prete cattolico.

Altri ricoveri furono effettuati su richiesta della NSPCC (Ente nazionale per la prevenzione di crudeltà ai bambini) e della Legio Mariae.

Comunque, la maggioranza dei ricoveri avvenne tramite organi dello Stato e in particolare dal sistema giudiziario, scolastico e sanitario, per un totale del 26% dei ricoveri. Va tenuto presente che che in Irlanda la Chiesa ha un importante ruolo sia nel sistema scolastico che in quello sanitario.

Per quanto riguarda la giustizia, le donne furono rinviate in custodia presso le Case Magdalen dai tribunali sia in attesa di processo che in libertà vigilata a fine pena. In quest’ultimo caso, la relazione nota che il personale necessario per vigilare mancava e spesso le corti irlandesi ricorrevano a personale volontario, generalmente proveniente da organizzazioni quali la Legio Mariae, l’Esercito della Salvezza (in casi riguardanti protestanti) e la Società San Vincenzo De Paoli (in casi di maschi). I reati per i quali queste donne erano state condannate andavano dall’omicidio, infanticidio o tentato suicidio a reati banali quali furto, atti che avrebbero potuto provocare scandalo, prostituzione o addirittura il non pagamento del biglietto sul treno. In alcuni casi la polizia stessa ha consegnato direttamente la donna alla Casa Magdalen.

Per sistema scolastico si intendono le cosiddette scuole industriali (istituite per bambini abbandonati, maltrattati e orfani) e le scuole riformatorio (in effetti carceri minorili). Sono già ben documentati gli abusi fisici e sessuali che avvenivano negli anni in questi luoghi. Comunque, la Commissione ha trovato molti casi di ragazze trasferite direttamente da queste scuole alle Case Magdalen (almeno 622 casi), ognuno dei quali consentito dalle leggi in vigore.

I rimandi alle Case Magdalen da parte dei servizi sanitari avvenivano da vari enti tra cui il Ministero della Salute, i dipartimenti sanitari delle autorità comunali e regionali, i servizi sociali, gli ospedali, gli ospedali e servizi psichiatrici, gli istituti per i disabili intellettuali e i cosiddetti Mother& Baby Homes. Quest’ultime erano istituzioni gestite dalla Chiesa ma finanziate dallo Stato, dove si ricoveravano giovane nubili incinte fino alla nascita del figlio, dopo il quale si cercava di persuadere la ragazza di darlo in adozione.

Gli abusi

Uno degli aspetti più importante del noto film di Peter Mullan, “Magdalene”, è quello delle sofferenze di queste donne nelle lavanderie. Lo scandalo è venuto alla luce nel 1993 con la scoperta di una fossa comune contenente oltre 150 corpi nei terreni di una delle Case Magdalen. Il film di Mullan, che seguiva un documentario della Channel 4 inglese, ha portato la storia a un pubblico molto più vasto. Una Commissione governativa nel 2009 ha confermato l’esistenza di abusi di ogni genere su bambini irlandesi in varie istituzioni, ma solo in seguito a un appello da parte del Comitato ONU contro la tortura, il governo irlandese si è sentito costretto ad avviare un’inchiesta formale per esaminare la responsabilità dello Stato in questo affare.

La sezione della relazione dedicato agli abusi fisici e psicologici è basata su interviste fatte a oltre 100 sopravvissuti delle Case Magdalen. Naturalmente di tratta di una minima parte del totale di persone trattenute o “ospitate” in queste istituzioni, ma è comunque indicativo delle condizioni nelle lavanderie. Quasi la totalità delle donne intervistate negano l’esistenza nelle lavanderie di abusi fisici, tranne in rarissimi casi, ma quasi tutte parlano di abusi psicologici. Emerge dalle interviste un’immagine di un luogo dove erano normali gli insulti delle suore (“bastarda”, “tua madre era illegittima”, “hai il diavolo in te”, “tuo padre è un ubriacone pedofilo”, “stai qui perché la tua famiglia non ti vuole”, ecc.), la fame, l’assenza di amicizie, il lavoro continuo. Parlano anche delle punizioni inflitte per varie infrazioni, anche minori, quali l’isolamento per più giorni, esclusione dalla cena, giacere per terra e baciarla. L’uso di radere la testa come punizione (o per altro motivo) era negato da tutte.

Ma la cosa che creava più terrore tra le donne della Case Magdalen era non sapere mai quando sarebbero uscite. In gran parte dei casi, il ricovero avvenniva senza indicazione della durata. Inoltre molte donne che sono uscite credevano che in qualsiasi momento avrebbero potuto essere di nuovo ricoverate, così prolungando l’agonia per anni dopo l’esperienza dentro l’asilo.

Il lavoro

Tutte le donne intervistate parlano di lavoro molto duro dov’era anche vietato parlare. Le mansioni includevano lavoro nella lavanderia e cucire. Anche nelle ore di ricreazione non c’era libertà, e le ragazze dovevano occuparsi lavorando a maglia o creando rosari. Alcune delle donne intervistate descrivevano la loro giornata così: “Preghiera, colazione, preghiera, lavoro, preghiera, lavoro, cena, preghiera”. La quantità di lavoro è intuibile quando si guarda l’elenco di alcuni dei clienti più importanti delle Lavanderie Magdalen: Áras an Uachtaráin (residenza del Presidente della Repubblica), la megafabbrica della Guinness, il teatro Gaiety, l’ospedale Dr Steevens’, la Bank of Ireland, il Ministero della Difesa, il Ministero dell’Agricoltura, CIÉ (azienda nazionale dei trasporti pubblici).

Nestor McNab

Nota:
1. L’intera relazione è online in inglese: http://www.idcmagdalen.ie/

Attacco incendiario contro sede anarchica a Londra.

Nella notte di Venerdì 1 Febbraio gli uffici londinesi del periodico anarchico “Freedom” (fondato nel 1886) e della casa editrice e libreria “Freedom Press” sono stati incendiati da ignoti vigliacchi. Nonostante gli ingenti danni materiali provocati dalle fiamme e dall’acqua usata per spegnerle, la libreria ha potuto riaprire già Lunedì 4 Febbraio- anche se in condizioni non ancora ottimali, grazie alla solidarietà attiva di chi ha aiutato a rendere i locali nuovamente agibili con pulizie, restauri e recupero del materiale ancora utilizzabile. Numerosi attestati di solidarietà, così come contributi economici e ordinazioni di libri, sono giunti da organizzazioni e singoli individui da tutto il mondo. Anche l’autore di questo blog esprime piena solidarietà ai/lle compagni/e di Freedom e Freedom Press, augurandosi che gli uffici possano al più presto riaprire definitivamente. Per chi volesse contribuire con assegni o ordinazioni di materiale editoriale: Freedom press, 84b Whitechapel High Street, London E17QX.

Movimento anarchico e rivolta sociale in Egitto.

egipto 2

Non sono spuntati dal nulla i giovani col volto coperto e vestiti di nero che hanno fronteggiato le forze di sicurezza e attaccato i simboli del potere in Egitto durante il secondo anniversario della cosiddetta rivoluzione che riuscì a rovesciare il dittatore Hosni Mubarak. Già durante le lotte di due anni fa gli anarchici, pur rappresentando solo una piccola parte degli oppositori al regime, erano in prima linea negli scontri contro polizia, servizi segreti e picchiatori prezzolati dal governo, usando la tecnica di azione diretta tipica del black bloc. Al contrario di quanto pensano i male informati, il black bloc non è un’organizzazione politica, ma piuttosto una strategia di azione diretta. Ispirandosi agli autonomi italiani e tedeschi degli anni ’70 e ’80 del secolo scorso, gruppi di manifestanti vestiti di nero e col volto coperto (per dare l’impressione di un gruppo compatto e per sfuggire all’identificazione da parte delle forze repressive dello Stato) si organizzano in piccoli gruppi solitamente con l’obiettivo di compiere azioni dirette contro obiettivi simbolici che rappresentano l’oppressione e lo sfruttamento del capitale e dello Stato. La violenza (se di violenza si può parlare) viene indirizzata contro la proprietà, contro oggetti, raramente contro le persone – a volte vi sono scontri con le forze dell’ordine o con estremisti di destra. Salita alla ribalta della cronaca durante le proteste di Seattle contro il vertice del WTO nel 1999 e fortemente influenzata da princìpi anarchici (ma al tempo stesso non condivisa né praticata da tutti/e gli/le anarchici/che), la strategia del black bloc si è diffusa rapidamente in molti Paesi. Anche in Egitto.

È inevitabile che, di fronte all’estrema violenza della repressione governativa esercitata già ai tempi di Mubarak contro qualsiasi forma di opposizione o lotta sociale anche solo pacifica e/o riformista, prima o poi i più audaci e determinati oppositori a qualsiasi forma di oppressione e sfruttamento avrebbero adottato strategie di lotta adatte alle circostanze. Gli anarchici lottarono al fianco dei lavoratori del settore tessile in sciopero a El-Mahalla El-Kubra già nel 2008, poi durante la successiva rivolta del 2011 contro Mubarak. Oggi, di fronte ad un governo che ricorda quello da poco rovesciato a furor di popolo, incapace di risolvere le contraddizioni ed i problemi sociali del Paese, forte di una costituzione approvata con pochi voti e tesa a rafforzare il potere presidenziale, i giovani senza prospettive lavorative, gli ultras delle tifoserie calcistiche già abituati a scontrarsi con le forze di sicurezza, gli sfiduciati e i delusi da qualsiasi governante che vivono sulla propria pelle una situazione intollerabile hanno scelto lo scontro diretto con gli oppressori.

A seguito delle manifestazioni avvenute tra il 20 e il 28 Gennaio in ricordo della rivoluzione iniziata due anni prima e che hanno assunto carattere antigovernativo e in parte confrontativo con le forze repressive, con cortei molto partecipati nelle principali città egiziane,  il governo dei Fratelli Musulmani presieduto da Mohammed Morsi ha dichiarato il giorno 28 lo stato di emergenza in tre città (Port Said, Ismailía e Suez) ed ha promesso di schiacciare con la forza qualsiasi forma di opposizione radicale al suo governo, in particolare chi si organizza nel black bloc. Dal canto loro alcuni rivoluzionari organizzati nel black bloc hanno attaccato e danneggiato sedi del partito di governo nella capitale. Ma non è tanto la forma della protesta quanto le idee di chi protesta ad essere il problema per il potere costituito, come dimostra il recente arresto ad Alessandria di 31 persone (tra cui 5 anarchici del Movimento Socialista Libertario) che presidiavano pacificamente il tribunale durante l’udienza di un processo a carico di agenti di polizia accusati di aver ucciso dei manifestanti durante le rivolte del Gennaio 2011.

Egipto Anarquistas

( Nelle foto: 1-manifestanti organizzati nel black bloc durante le proteste per il secondo anniversario della rivoluzione egiziana; 2- una bandiera anarchica sventola all’interno di una sede del partito Fratelli Musulmani assaltata dai manifestanti).

Per approfondire:

“Repression und Todesdrohungen gegen black bloc- Mursi kürzt Europareise Programm”, pubblicato su Anarchistischer Funke (in tedesco);

“Egipto, un pueblo sediento de libertad. Declarado Estado de Emergencia”, pubblicato su A Las Barricadas (in castigliano);

“Sui rinvii a giudizio di Alessandria”, pubblicato su Anarkismo (in italiano e in altre lingue);

Revolution Black Bloc (pagina facebook del black bloc di Il Cairo);

– Black Blocairo (nuova pagina del Black BloCairo);

– Black Bloc Egypt.