“Fermiamo la guerra in Mali”: comunicato della FAI.

Fonte: Anarchaos.

” Fermiamo la guerra in Mali! [Comm. Rel. Internazionali FAI]

http://federazioneanarchica.org/archivio/20130216cri.html

Fermiamo la guerra in Mali!

L’11 gennaio il governo francese ha dato inizio ad un’operazione militare in Mali. Ha dichiarato di intervenire per sostenere le unità maliane contro il terrorismo di matrice islamica che imperversa in quell’area e per difendere la popolazione dalle violenze. Qualche giorno dopo, il 14 e il 17, rispettivamente la Germania e l’Italia, attraverso i loro ministri degli esteri, hanno affermato di appoggiare l’attacco francese in Mali e di essere disponibili a offrire supporto logistico. Passano poche settimane e, all’inizio di febbraio il presidente francese Hollande “atterra” tra le sue truppe a Timbuctu, ripreso dalle telecamere delle TV internazionali, sottolineando che le milizie islamiche/tuareg sono in fuga e il Mali è quasi completamente liberato: “Sosterremo i maliani fino alla fine di questa missione nel nord – ha dichiarato – ma non intendiamo star qui per sempre”.

Una frase che deve essere interpretata in senso esattamente opposto se si allarga lo sguardo alla politica estera dei governi francesi degli ultimi anni.
Infatti, c’è perfetta continuità tra Sarkozy che bombarda la Libia e Hollande che bombarda il Mali.
Sin dal 2007, in Niger, si è sviluppato un movimento tuareg, e dopo quasi cinquantanni di rapporti esclusivi con la Francia,questo paese aveva di recente aperto a compagnie non francesi lo sfruttamento delle risorse minerarie.
Certo, si potrebbero evidenziare le contraddizioni di chi interviene militarmente, ora in difesa della popolazione, ora per togliere di mezzo il dittatore scomodo. Insomma un giorno si spargono i “semi” della democrazia, l’altro si sostengono le forze ribelli con soldi e armi. A volte capita che i nemici di oggi siano stati gli amici di ieri (durante l’attacco alla Libia, Francia e Gran Bretagna hanno fatto ampio uso degli islamisti per combattere le forze armate di Tripoli, poiché i separatisti della Cirenaica non erano interessati a rovesciare Mu‘ammar Gheddafi una volta che Bengasi fosse diventata indipendente).
La campagna di comunicazione massmediatica preferisce mostrare le folle festanti che sventolano la bandiera francese invece delle migliaia di profughi che si sono concentrati in pochi giorni presso i confini maliani. Il ritornello si ripete mostrando i danni che i fondamentalisti hanno provocato al patrimonio culturale, (la biblioteca di Avicenna e i mausolei di Timbouctou) sottolineando il divieto di ascoltare la musica o di vestirsi senza seguire i dogmi religiosi. La distruzione generata dai bombardamenti dell’aviazione, invece, non appare mai.
L’opinione pubblica occidentale si confronta con l’ennesimo conflitto in modo apparentemente indolore: la distanza che ci separa dagli scenari di guerra favorisce, infatti, un certo “distacco”.
Non dobbiamo, però, scordare che gli interventi degli eserciti degli stati alimentano il pericolo “terrorista” (i recenti fatti che hanno interessato l’impianto energetico di In Amenas in Algeria rappresentano un esempio lampante).
Gli effetti di queste politiche neocolonialiste, travestite da missioni umanitarie, si estendono, comunque, anche all’interno dei confini dei paesi europei grazie alle legislazioni speciali antiterrorismo che, in nome della “sicurezza” continuano a erodere gli spazi di libertà e costituiscono uno “strumento repressivo e politico pronto all’uso” per fronteggiare le forme più pericolose e crescenti della protesta sociale.
Esaminando più nel dettaglio l’intervento militare in Mali ci si rende conto dell’infondatezza delle motivazioni ufficiali e delle mille contraddizioni che ne scaturiscono.
L’esercito francese era, da tempo, pronto a intervenire; la richiesta d’aiuto del presidente golpista Dioncounda Traorè è stata solo il pretesto.
È’ impossibile credere che sia stata l’emergenza umanitaria a spingere l’Europa a intraprendere questa nuova guerra. L’Africa è vessata, da decenni, da miriadi di focolai di violenza e nessuna potenza occidentale se ne è mai seriamente interessata. Si dirà che in Mali ad aggravare la situazione c’è l’emergenza “terrorismo islamico”.
Non dimentichiamo, inoltre,il ruolo degli Stati Uniti,in questa guerra,che da decenni contendono alla Francia il controllo della FrancAfrique.
Significativo il fatto che circa tre settimane dopo l’intervento francese in Mali, gli Stati Uniti abbiano siglato un accordo con il governo di Niamey per l’installazione di una base militare statunitense ad Agadez, nel nord del Niger nella zona uranifera del paese.

Dobbiamo considerare questa “nuova” guerra come la prosecuzione naturale della campagna libica e renderci conto che, probabilmente, ci troviamo di fronte a una precisa strategia neo-coloniale di controllo politico del territorio, finalizzato allo sfruttamento delle risorse naturali e inquadrato in un’ottica di contrasto dell’avanzata dei capitali cinesi in Africa. La Cina, infatti, è il primo partner commerciale di Tanzania, Zambia, Congo ed Etiopia (dove il PIL cresce con una media del 5,2% l’anno, cifre impressionanti) e in molte zone vanta l’esclusiva sui diritti di estrazione delle risorse.
Il governo francese ha enormi interessi economici nell’area centro-nord africana e sta cercando, anche con mosse azzardate, di mantenere sotto la propria influenza quelle zone di interesse strategico per l’abbondanza di risorse minerarie ed energetiche.
Il Mali potrà diventare importante nel prossimo futuro, ma il Niger lo è già ora. Non può sfuggire che, poco oltre il confine sud-est del Mali, sono collocate le più importanti miniere d’uranio nigeriane. Il riferimento è alla miniere di Arlit ed Akokan da cui la multinazionale Areva ricava gran parte dello “yellowcake” destinato ad alimentare i 58 reattori nucleari francesi. Nella stessa zona è prevista l’apertura di quella che è destinata a diventare una delle più grandi miniere al mondo per l’estrazione dell’uranio, Imouraren. Non mancano poi l’oro e il petrolio. Quindi, un grande affare che lo Stato francese – “spalla” di multinazionali come Total e Areva (giusto per fare due nomi) non può lasciarsi scappare.
Non si può dimenticare che la politica energetica francese è fondata sull’energia nucleare, una scelta che ha radici nel passato perché direttamente legata alla necessità di rafforzare il proprio ruolo militare nello scenario geopolitico internazionale. Sappiamo bene che non c’è soluzione di continuità tra gli impieghi, cosiddetti, civili dell’energia atomica e quelli finalizzati alla costruzione di ordigni destinati a minacciare l’umanità. Una scelta di sistema che rende, nell’attuale contesto d’instabilità, difficile, per il governo francese, individuare fonti energetiche alternative. La disponibilità dell’uranio rimane, quindi, una questione essenziale almeno in una prospettiva di medio periodo.
Quando l’esercito francese tornerà in patria sarà solo perché il controllo della situazione sarà affidato alle armi amiche delle forze africane alleate con la Francia.
Non è un caso che le forze armate della CEDEAO (Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale) siano state, velocemente, schierate lungo il confine tra Mali e Niger. La necessità di “proteggere” le aree d’interesse minerario da una possibile espansione della rivolta è stata subito evidente.
La nostra epoca è già contraddistinta da crisi energetiche e difficoltà di approvvigionamento di materie prime e non c’è da stupirsi che il capitalismo mondiale stia cercando di correre al riparo, ancora una volta, per garantirsi, con ogni mezzo, una parte del bottino. Tutti noi sappiamo che la guerra e la finanziarizzazione dell’economia sono mezzi per movimentare repentinamente enormi capitali, per riorganizzare equilibri politici di governi, stati e confini nazionali non più funzionali al profitto di multinazionali e società finanziarie.

Nel vicino Niger, da 40 anni, Areva e le sue consociate estraggono l’uranio senza alcun rispetto per l’ambiente e per i lavoratori, gli abitanti vicini ai siti di Arlit e Akokan hanno pagato e pagano un prezzo altissimo in termini di salute e di morte, come risulta da studi indipendenti (CRIIRAD – ROTAB). I minatori di uranio sfruttati infatti, sono esposti a radiazioni ionizzanti nelle cave, nelle miniere sotterranee, nelle officine di lavorazione del minerale grezzo, ma anche nelle città e nelle loro case. In questa zona 35 milioni di scorie radioattive sono raccolte all’aria aperta sin dall’inizio dell’attività estrattiva. Grazie al vento gas radon e altri derivati considerati cancerogeni si spargono nell’ambiente. Ma l’Areva opera anche sul territorio italiano. Il trasporto di materiale irraggiato passa per il nostro paese verso l’impianto di la Hague dove si estrae plutonio (per le bombe) e produce il mox (un combustibile di riciclo con cui funzionano alcune centrali). In Mali è la guerra di sempre, di stato e capitale, dove sfruttamento e saccheggio ai danni della popolazione non conoscono confini nazionali!

Diffondere l’informazione contro l’ipocrisia del potere, rafforzare la consapevolezza per far crescere la voglia di giustizia sociale sono solo i presupposti per sostenere le lotte che in ogni parte del mondo devono liberare gli oppressi da vecchie e nuove schiavitù, economiche, militari o religiose che siano.
Solo attraverso l’internazionalismo, l’antimilitarismo e la solidarietà di classe possiamo da anarchiche ed anarchici fermare l’orda di questo ennesimo, nuovo e lurido conflitto.

Fermiamo la guerra in Mali!
Solidarietà a tutte le popolazioni colpite dalla guerra!

Commissione Relazioni Internazionali
della Federazione Anarchica Italiana”

“Forma e sostanza del regime dei banchieri”.

Articolo scritto da Michele Fabiani e pubblicato sul sito Anarchaos:

“Forma e sostanza del regime dei banchieri (di Michele Fabiani)

 

In un precedente articolo ho iniziato un percorso di studi sul rapporto fra la democrazia e il capitalismo. E’ bene ricordare che il capitalismo non è sempre stato democratico, anzi non lo è stato quasi mai. Ed essere pignoli non lo è stato mai.

 

Democrazia e governo rappresentativo

Uno dei pregiudizi nati nel Novecento e che ancora ci portiamo appresso è quello che distingue la democrazia “diretta” da quella “indiretta”, come se fossero ramificazioni da una stessa radice comune. La democrazia diretta era quella antica (Atene), quella indiretta invece è rappresentata dal regime contemporaneo in Occidente. Bisogna perdere cinque minuti per confutare tale pregiudizio. In primo luogo, non è vero che la democrazia antica fosse una democrazia diretta. In secondo luogo, non è vero che il regime contemporaneo sia un regime democratico.

La democrazia ateniese non era affatto una democrazia senza incarichi. Vi erano delle magistrature e numerose persone vi erano deputate, negli ambiti più disparati della vita civile nella sua complessità. Non è nemmeno vero che tutti partecipassero alla vita politica: le donne, gli schiavi, gli stranieri ne erano esclusi. Anzi, proprio quei momenti di democrazia “diretta” si rendevano possibili perché vi era una classe di sfruttati che mandava avanti la società ateniese anche quando i suoi cittadini erano in assemblea. Esattamente quello che avveniva a Sparta, con la differenza che invece che giocare alla democrazia gli spartiati giocavano alla guerra e mentre gli schiavi messeni mandavano avanti la società i cittadini si addestravano per il combattimento. Insomma la democrazia – che non è una democrazia “diretta” – non è poi una cosa così bella.

Ma se la democrazia antica non era una democrazia diretta, ma era “la” democrazia, cosa distingue il regime antico da quello contemporaneo? La divisione fra democrazia diretta e democrazia indiretta salta. Non è vero che prima c’era l’assemblea popolare mentre oggi ci sono i deputati. La distinzione sta nel modo con cui vengono nominati i governanti. Nella democrazia i governanti vengono estratti a sorte per dare a tutti i cittadini le stesse opportunità statistiche di essere nominati, nel sistema contemporaneo invece ci sono le elezioni.

Mi rendo conto che una tale affermazione può sembrare sorprendente: come le elezioni non sono il baluardo della democrazia? Se prendiamo la letteratura politica – da Aristotele a Rousseau – la distinzione fra democrazia e aristocrazia sta nel fatto che nella democrazia c’è l’assemblea sovrana e l’estrazione a sorte degli esecutori, mentre nell’aristocrazia c’è l’elezione dei migliori e il potere esecutivo diviene a tutti gli effetti un governo. Oggi infatti “esecutivo” e “governo” sono sinonimi, il che non è possibile in democrazia dove, per definizione, il governo è del demos, i cittadini che non fanno parte delle classi oppresse, e gli esecutori sono dei meri funzionari estratti a sorte. E’ evidente che quindi le forme dei governo occidentali oggi in vigore non sono governi democratici, ma aristocratici, almeno secondo la letteratura politica classica.

Tale letteratura ebbe una forte influenza fino alla fine del XVIII secolo. Non a caso gli estensori della Costituzione USA non si consideravano dei democratici, ma dei repubblicani. Tutti i regimi rappresentativi contemporanei non nascono da democrazie, ma da regimi monarchici elettoralizzati. Prendiamo l’Italia. L’Italia non discende “geneticamente” dalle repubbliche democratiche cittadine rinascimentali (da Venezia a Firenze), ma dal regime dei Savoia. Il salto che ci ha portati dai Savoia alla Repubblica, per quanto abbia assunto con la Resistenza momenti rivoluzionari presto traditi, non è un salto di sostanza, ma solo, in parte, di forma. Tanto è vero che oggi lo Stato che ci opprime non è uno Stato “altro” rispetto a quello precedente, come ci dimostra Napoletano che, festeggiando i 150 anni dell’Unità d’Italia, riconosce anche la monarchia come la forma precedente di una stessa nazione. La nazione è la stessa dei tempi della monarchia, con l’elezione del Capo dello Stato invece che la discendenza dinastica.

 

Mussolini e Monti: due governi legali ma infami

Bisogna distinguere ciò che è legale da ciò che è giusto. Gli storici si sono a lungo interrogati sulla legalità o meno del fascismo rispetto alla “costituzione” dell’epoca, lo Statuto Albertino. Interessante il fatto che il regime di Mussolini si sia insediato senza il bisogno di sovvertire le istituzioni monarchiche-costituzionali preesistenti. Insomma sul piano della legalità, il regime fascista era un regime legale. Questo significa che fosse un regime giusto e buono? Ovviamente no. La legalità è stata da sempre la giustificazione degli oppressori per ogni infamità.

Combattere il fascismo in quanto illegale era l’operazione teorica che stava alla base dei partigiani monarchici: per loro Mussolini era un usurpatore semplicemente perché non aveva più la fiducia del Re e guidava uno stato (la Repubblica Sociale Italiana) fantoccio in mano all’occupante tedesco. Fino a quando Mussolini era il capo del governo, formalmente incaricato dal Re, per i monarchici era una gran brava persona. Viceversa, per la stragrande maggioranza dei combattenti della lotta armata antifascista, il fascismo era ingiusto, infame, violento e reazionario riguardo alla sostanza del suo essere politico.

Il parallelismo fra Mussolini e Monti è molto istruttivo. Anche Monti, a mio avviso, è una degenerazione legale del regime esistente. Non sono d’accordo con chi ritiene Monti una sospensione della democrazia.  In primo luogo, perché prima non c’era la democrazia. Ma in ogni caso perché Monti non viola la Costituzione Repubblicana. Credo, anzi, che l’insistere sull’illegalità del governo Monti, sull’illegalità delle intrusioni di Napolitano nel dibattito politico, porti ad un suicidio tattico: dimostrata la legalità del regime dei banchieri, verrà castrato il movimento rivoluzionario.

Dobbiamo quindi uscire dal giustizialismo di chi vuole cacciare Napolitino e Monti perché golpisti. Naplitano e Monti vanno cacciati riguardo alla sostanza della loro nefasta azione politica, non riguardo alla forma.

Capitalismo e involucro liberale: fine di un matrimonio di interesse

E’ evidente che siamo di fronte ad una forzatura reazionaria, autoritaria. Siamo di fronte ad una rottura mondiale – sicuramente europea – fra il capitalismo e la cosiddetta democrazia liberale (che democrazia non era nemmeno quella).

Il mio intervento, sia ben chiaro, non vuole in nessun modo giustificare tale svolta; piuttosto vuole spiegare che non è sulla via della legalità, del giustizialismo, dell’invocazione patriottica della Costituzione che possiamo difenderci dall’attacco.

Può sembrare un gioco di parole, ma stiamo entrando nell’epoca del liberismo illiberale. Il capitalismo, nella sua forma più sfrenata, nel suo più estremo liberismo, non sopporta più quei lacci e laccioli che un regime liberali prima comunque prevedeva. In un regime liberale ci sono dei principi certamente capitalisti (la proprietà privata), ma ce ne sono altri che invece in questa fase non sono tollerabili: la dignità della persona umana, la libertà di espressione, la libertà di protestare.

Il punto è che se continuiamo a porci in un’ottica difensiva, conservatrice non ne usciremo mai. Come nel calcio, se ti chiudi in difesa finisci per perdere.

Tanto più che il terreno della legalità sarebbe totalmente sbagliato. Non è quello il campo su cui si sta giocando tale partita. Il governo Monti rappresenta una forzatura della Costituzione, così come il fascismo era una forzatura dello Stato Albertino; ma comunque tale forzatura è del tutto legale, almeno fino ad ora. Chi oggi fa appello alla Corte Costuzionale contro Napolitano ci trascina nello stesso gravissimo errore che già fecero i liberali e i socialisti nel voler contrastare l’ascesa di Mussolini per vie legali, quando era l’ora della lotta armata.

Un errore simile è stato fatto nei primi anni ’70. Dopo la strage di stato di piazza Fontana si diffuse la tesi complottista (illuminante un articolo comparso recentemente su anarchaos contro il complottismo di Lucio Garofalo) secondo la quale un colpo di stato era alle porte. Il pericolo di golpe era certamente reale, ma i veri dietrologi era i bravi democristiani che dietro a tali minacce ne approfittarono per incatenare la sinistra alla difesa della “democrazia” in pericolo, rinunciando all’attacco. Un errore strategico madornale che porterà ad anni di pace sociale, almeno fino al ’77 – anche quelli puniti con una nuova strage, a Bologna nell’80, e anche quella strage non portò al golpe ma a nuova pace sociale fondata sulla lotta al terrorismo.

Non vorrei che oggi si ripetesse la stessa cosa: si afferma che Monti è un golpista, ci si stringe uniti per la difesa della “democrazia” e si finisce ingabbiati nella Costituzione e in generale nelle compatibilità con lo Stato liberale.

 

La sostanza politica del regime dei banchieri

Il regime dei banchieri è certamente una degenerazione. Tale degenerazione, fino ad ora legale, si traduce sul piano sostanziale in una aggressione senza precedenti dai tempi dell’ultima guerra mondiale. Si tratta di un peggioramento terribile delle condizioni di vita ormai di centinaia di milioni di persone: il regime dei banchieri ha messo ormai propri uomini alla guida di paesi come l’Italia, la Grecia, la Romania, governa indirettamente la Spagna, il Portogallo e l’Irlanda, e si parla fortemente di una Grande Coalizione che unisca di nuovo democristiani e socialdemocratici perfino in Germania. La ricetta è più o meno la stessa: non potendo stampare moneta a causa del nefasto euro si abbassano i salari, si aumentano le tasse indirette per evitare di sfuggire al fisco, si introducono i licenziamenti facili, in sintesi si mobilita l’intero corpo dello Stato al servizio del capitalismo finanziario tagliando i servizi e ottenendo maggiori entrate con una tassazione forsennata.

E’ questo il piano sostanziale dello scontro. Non penso che facendo appelli alla Corte Costituzionale contro le esternazioni ormai non più superpartes di Napolitano in materia di lavoro che si possa rispondere alla violenza dell’attacco.

 

Napolitano e Monti: servi o traditori?

C’è chi afferma che Monti e Napolitano, soprattutto il secondo in quanto garante, sarebbero dei traditori. L’accusa è di aver svenduto la nazione alla finanza internazionale. Da qualche tempo, anche un demagogo come Grillo sta cavalcando questa ondata di indignazione democratica. Nessuna menzogna poteva essere camuffata con altrettanta arte in verità. Monti e Naplitano certamente hanno consegnato milioni di sfruttati al servizio del potere finanziario. Il nostro sudore serve a pagare il credito delle elité che hanno investito sulla crisi. Tale operazione di vera e propria rapina, però, non si configura come un tradimento della Costituzione e dello Stato. Viceversa è assolutamente coerente con lo scopo ultimo dello Stato da quando questo esiste: essere il cane da guardia delle classi dominanti. Nondimeno, è persino legale sul piano costituzionale, dato che siamo in un regime parlamentare.

Il contrasto alla svolta autoritaria ed alla rapina attuata dal regime dei banchieri non può più essere sostenuto sul terreno della legalità. Non dobbiamo difendere lo Stato da dei traditori, ma abbatterlo con tutti il suo codazzo di servi.

Michele Fabiani”

Sullo stesso argomento, sempre di Michele Fabiani: “Dai colonnelli ai banchieri. Quando al capitalismo la democrazia liberale sta stretta” e “L’onore e il sacrificio al tempo del regime dei banchieri“.