Dove va l’Egitto?

La cacciata, poche ore fa, del presidente egiziano Mohammed Morsi, leader del partito dei Fratelli Musulmani eletto un anno fa, è la notizia del momento. Di notizie dettagliate e analisi riguardanti questo evento se ne possono trovare sul web fino alla nausea, ma in concreto nessuno sa cosa avverrà ora. O per meglio dire, molti hanno una loro teoria e propongono analisi sugli eventi iniziati due anni fa che hanno visto milioni di persone invadere le strade di gran parte delle cittá egiziane per chiedere prima le dimissioni del vecchio dittatore Hosni Mubarak ed ora quelle del nuovo presidente democraticamente eletto Morsi. Personalmente, lontano tanto dai facili entusiasmi quanto dalle teorie azzardate, posso fare nel mio piccolo un paio di riflessioni, seppur confuse. Innanzitutto credo che in Egitto sia potenzialmente in atto un grande cambiamento, spinto da masse di milioni di persone che nella maggior parte dei casi hanno “poco” da perdere (se non la propria vita, vista la durezza degli scontri scoppiati due anni fa così come oggi e nel tempo intercorso), un cambiamento che per certi versi mi verrebbe di chiamare rivoluzione. Il fatto è che sono restio ad usare questo termine, perchè di rivoluzioni più nominali che effettive nella Storia ne abbiamo avute fin troppe, sedicenti rivoluzioni che cambiano un giogo con un altro, che lasciano inalterati i rapporti sociali e di produzione, che spargono sangue più di quanto sia strettamente necessario per poi deludere le migliori aspettative emancipatorie in nome di “interessi superiori”, la solita formula per fottere gli sfruttati e gli oppressi. È inevitabile però sperare che le cose possano veramente prendere una piega positiva per le classi sociali subalterne in Egitto, che sono state il motore delle rivolte di piazza e potranno continuare ad esserlo anche in futuro. Un dittatore è stato mandato via, ci sono stati momenti importanti fatti di lotta, autogestione, riorganizzazione, partecipazione decisionale, rivendicazioni, poi le elezioni ed il governo fallimentare dei Fratelli Musulmani ed ora una nuova ondata di proteste che porta alla destituzione di un presidente con numeri nelle piazze decisamente maggiori di quelli che lo avevano portato al potere alle urne. Eppure rimane l’ombra dei militari e degli interessi che si celano dietro essi. L’ultimatum imposto dal popolo egiziano a Morsi non è quello imposto dai militari, che hanno effettuato un vero e proprio colpo di Stato, anche se atipico  visto l’appoggio delle piazze. La repressione sistematica attuata in queste ore dai militari nei confronti del partito dei Fratelli Musulmani va al di là di uno sfogo di rabbia popolare. Ho letto nei giorni scorsi parecchi articoli di “esperti” e opinionisti vari, dei quali posso anche non fidarmi del tutto, ma che lasciano intendere in modo pressochè unanime, al netto di sfumatore d’opinione e considerazioni a margine, che il governo degli Stati Uniti stia muovendo le fila dell’esercito egiziano, indirizzandone a suo piacimento le azioni e le decisioni: un fatto che non può essere ignorato e che risulta essere pericoloso, anche a fronte della conclamata simpatia di vasti strati della popolazione nei confronti delle forze armate (simpatia che la polizia, vista con diffidenza e disprezzo come organo di difesa della passata dittatura, non ha mai riscosso). A prescindere da ciò, pur ammettendo che una “rivoluzione” spesso non segua un percorso lineare, si ha la netta impressione che ora tutto ricominci da metà percorso, come dal momento della cacciata di Mubarak: si tornerà a nuove elezioni, ne  frattempo c’é il governo di transizione di Adly Mansour all’ombra dell’esercito. Nei momenti di euforia è facile dimenticare cosa significò il periodo di transizione trascorso dalla caduta di Mubarak alle elezioni e guidato dalle forze armate, facile dimenticare le decine di morti per mano militare, mano che si trasforma all’occorenza in pugno di ferro, piaccia o meno alle masse. Nell’eterogeneità di movimenti, opinioni e prese di posizione si mescolano le istanze religiose e quelle laiche, l’avanzamento di rivendicazioni sociali e la conservazione/restaurazione dell’ordine vigente e dei privilegi delle classi agiate, i pro e contro Mubarak come i pro e contro l’esercito come i pro e contro Morsi, domani magari ci troveremo di fronte ad altre sfilate di milioni di persone divise tra pro e contro Mansour e poi tra pro e contro nuovo presidente “democraticamente” eletto. Sempre che non si scivoli prima nella guerra civile, come temono alcuni. O nell’apatia, nel disgusto senza sbocchi propositivi e infine nell’indifferenza, il che mi azzardo a dire sarebbe addirittura peggio: uno scacco matto a quella che, nonostante tutto, vorremmo poter chiamare rivoluzione.

Movimento anarchico e rivolta sociale in Egitto.

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Non sono spuntati dal nulla i giovani col volto coperto e vestiti di nero che hanno fronteggiato le forze di sicurezza e attaccato i simboli del potere in Egitto durante il secondo anniversario della cosiddetta rivoluzione che riuscì a rovesciare il dittatore Hosni Mubarak. Già durante le lotte di due anni fa gli anarchici, pur rappresentando solo una piccola parte degli oppositori al regime, erano in prima linea negli scontri contro polizia, servizi segreti e picchiatori prezzolati dal governo, usando la tecnica di azione diretta tipica del black bloc. Al contrario di quanto pensano i male informati, il black bloc non è un’organizzazione politica, ma piuttosto una strategia di azione diretta. Ispirandosi agli autonomi italiani e tedeschi degli anni ’70 e ’80 del secolo scorso, gruppi di manifestanti vestiti di nero e col volto coperto (per dare l’impressione di un gruppo compatto e per sfuggire all’identificazione da parte delle forze repressive dello Stato) si organizzano in piccoli gruppi solitamente con l’obiettivo di compiere azioni dirette contro obiettivi simbolici che rappresentano l’oppressione e lo sfruttamento del capitale e dello Stato. La violenza (se di violenza si può parlare) viene indirizzata contro la proprietà, contro oggetti, raramente contro le persone – a volte vi sono scontri con le forze dell’ordine o con estremisti di destra. Salita alla ribalta della cronaca durante le proteste di Seattle contro il vertice del WTO nel 1999 e fortemente influenzata da princìpi anarchici (ma al tempo stesso non condivisa né praticata da tutti/e gli/le anarchici/che), la strategia del black bloc si è diffusa rapidamente in molti Paesi. Anche in Egitto.

È inevitabile che, di fronte all’estrema violenza della repressione governativa esercitata già ai tempi di Mubarak contro qualsiasi forma di opposizione o lotta sociale anche solo pacifica e/o riformista, prima o poi i più audaci e determinati oppositori a qualsiasi forma di oppressione e sfruttamento avrebbero adottato strategie di lotta adatte alle circostanze. Gli anarchici lottarono al fianco dei lavoratori del settore tessile in sciopero a El-Mahalla El-Kubra già nel 2008, poi durante la successiva rivolta del 2011 contro Mubarak. Oggi, di fronte ad un governo che ricorda quello da poco rovesciato a furor di popolo, incapace di risolvere le contraddizioni ed i problemi sociali del Paese, forte di una costituzione approvata con pochi voti e tesa a rafforzare il potere presidenziale, i giovani senza prospettive lavorative, gli ultras delle tifoserie calcistiche già abituati a scontrarsi con le forze di sicurezza, gli sfiduciati e i delusi da qualsiasi governante che vivono sulla propria pelle una situazione intollerabile hanno scelto lo scontro diretto con gli oppressori.

A seguito delle manifestazioni avvenute tra il 20 e il 28 Gennaio in ricordo della rivoluzione iniziata due anni prima e che hanno assunto carattere antigovernativo e in parte confrontativo con le forze repressive, con cortei molto partecipati nelle principali città egiziane,  il governo dei Fratelli Musulmani presieduto da Mohammed Morsi ha dichiarato il giorno 28 lo stato di emergenza in tre città (Port Said, Ismailía e Suez) ed ha promesso di schiacciare con la forza qualsiasi forma di opposizione radicale al suo governo, in particolare chi si organizza nel black bloc. Dal canto loro alcuni rivoluzionari organizzati nel black bloc hanno attaccato e danneggiato sedi del partito di governo nella capitale. Ma non è tanto la forma della protesta quanto le idee di chi protesta ad essere il problema per il potere costituito, come dimostra il recente arresto ad Alessandria di 31 persone (tra cui 5 anarchici del Movimento Socialista Libertario) che presidiavano pacificamente il tribunale durante l’udienza di un processo a carico di agenti di polizia accusati di aver ucciso dei manifestanti durante le rivolte del Gennaio 2011.

Egipto Anarquistas

( Nelle foto: 1-manifestanti organizzati nel black bloc durante le proteste per il secondo anniversario della rivoluzione egiziana; 2- una bandiera anarchica sventola all’interno di una sede del partito Fratelli Musulmani assaltata dai manifestanti).

Per approfondire:

“Repression und Todesdrohungen gegen black bloc- Mursi kürzt Europareise Programm”, pubblicato su Anarchistischer Funke (in tedesco);

“Egipto, un pueblo sediento de libertad. Declarado Estado de Emergencia”, pubblicato su A Las Barricadas (in castigliano);

“Sui rinvii a giudizio di Alessandria”, pubblicato su Anarkismo (in italiano e in altre lingue);

Revolution Black Bloc (pagina facebook del black bloc di Il Cairo);

– Black Blocairo (nuova pagina del Black BloCairo);

– Black Bloc Egypt.