Gerusalemme capitale e la strategia imperialista degli USA in Medioriente.

Trump and NetanyahuLa decisione presa dal presidente USA Donald Trump di riconoscere la città contesa di Gerusalemme come capitale dello Stato di Israele e di spostare in quella città l’ambasciata statunitense in Israele ha scatenato non solo una serie di proteste formali da parte dei governi di mezzo mondo, ma hanche rinfocolato un conflitto, quello fra Israele e Palestina, che non necessitava certo di questa nuova doccia di benzina su un fuoco che arde ormai da almeno ottant’anni. Perchè Trump abbia deciso di sposare l’idea di Gerusalemme capitale se lo chiedono in molti, diversi analisti e commentatori hanno provato a dare una risposta al quesito. Forse che, fallito per ora lo scontro nucleare col rivale nordcoreano Kim Jong “Bimbominkia” Un, Donald “Er Pannocchia” Trump si consoli seminando l’ennesimo casino in Medioriente per poter trascorrere le feste natalizie in modo un pò meno noioso del solito? Battute a parte, le ragioni di questa mossa andrebbero principalmente cercate nella volontà statunitense di recuperare terreno nella competizione imperialista in Medioriente rispetto alla Russia, Paese che finora sembra aver guadagnato più punti d’influenza in seguito all’esito del conflitto militare in (e intorno alla) Siria.

Infatti la scelta di Trump di riconoscere Gerusalemme capitale d’Israele non solo mira a rafforzare l’appoggio della destra religiosa e filo-sionista in politica interna, ma è soprattutto un regalo agli alleati per eccellenza degli Stati Uniti d’America. Un secondo regalo potrebbe essere l’inclusione d’Israele fra gli Stati coinvolti nella spartizione di alcuni territori appartenenti alla Siria al termine del conflitto in corso: la cessione al controllo israeliano per volontà statunitense di un’area demilitarizzata della Siria contigua alle Alture del Golan. In una costellazione di poteri imperialisti locali e internazionali complessa, nella quale la Turchia volta le spalle agli USA rivolgendosi alla Russia, l’Arabia Saudita è in difficoltà nella guerra in Yemen contro i ribelli sciiti filo-iraniani e l’Iran sembra essere lo Stato mediorientale che ha guadagnato di più dal risultato del conflitto siriano, vedendo riconfermato Assad al potere in Siria e affermando la propria influenza in ampie aree dell’Iraq, Israele si rivelerebbe un efficace grimaldello nelle mani del potere statunitense per contrastare l’egemonia della Russia e dei suoi alleati.

In questo contesto il governo statunitense abbandona, almeno per il momento, la soluzione dei due Stati in Israele/Palestina, sostenuta in passato peraltro solo a parole, gettando Gerusalemme capitale come pomo della discordia sul piatto della bilancia degli equilibri mediorientali. D’altronde, se non in maniera strumentale, l’idea di due Stati come soluzione del conflitto israeliano-palestinese non interessa realmente a nessun governo mediorientale né internazionale, ma se anche fosse: due Stati non fanno nemmeno mezza soluzione – tutt’altro! E mentre in questi giorni si riaccende la violenza fra israeliani e palestinesi, in un futuro non troppo lontano la situazione potrebbe addirittura peggiorare trascinando nei conflitti utili alle potenze imperialiste un gran numero di persone che con quegli interessi nulla hanno a che spartire, strumenti di un gioco al massacro al quale ci si deve assolutamente opporre a prescindere da quale potere possa esserne il vincitore.

COP23: le proteste intorno alla conferenza internazionale sul clima a Bonn (Germania).

Dal 6 al 17 Novermbre 2017 si terrà a Bonn, ex capitale della Repubblica Federale Tedesca e tuttora città ospitante uffici dell’ONU, una conferenza mondiale sul clima organizzata da quest’ultima. Come si evince dal nome, la conferenza COP23 è la 23ma di questo tipo, i suoi obiettivi non sono dissimili da quelli di analoghe conferenze precedenti e i risultati attesi non sono migliori di quelli già visti in passato. Tanto per sgomberare il campo da equivoci e illusioni, durante il vertice dei G20 ad Amburgo tenutosi nel Luglio scorso, gli Stati partecipanti (responsabili del 75% delle emissioni di CO2 su scala mondiale), riferendosi esplicitamente agli accordi di Parigi, hanno apertamente annunciato di voler combattere i cambiamenti climatici anche attraverso l’uso di energia nucleare, fracking e carburanti fossili “puliti”(!). Se a Kyoto nel 1997 sembrava dura, oggi una possibile gestione responsabile ed efficace della crisi climatica da parte degli Stati responsabili dovrebbe risultare impossibile anche ai più fiduciosi. Rispetto ai fallimenti ed alle illusioni del passato riguardo un possibile salvataggio del pianeta da parte delle istituzioni governative, oggi la situazione appare ancor più chiara, ancor più allarmante: non solo perchè aumenta la diffusione di tesi antiscientifiche che negano un cambiamento climatico provocato dalle attività umane (l’attuale presidente degli USA Donald Trump è uno dei più noti esponenti di questa corrente di pensiero menzognero), ma anche e soprattutto perchè il tempo per invertire la rotta si accorcia drammaticamente ogni giorno che passa. La speranza nel cambiamento non può essere lasciata nelle mani di governi complici degli inquinatori capitalisti che in nome del profitto sono disposti a sacrificare il pianeta e il futuro dell’umanità, ma deve diventare prassi concreta dei soggetti e delle comunità che hanno realmente a cuore la salute, nel presente e nel futuro, delle proprie terre, di chi le abita e delle generazioni a venire.

Tanto le conferenze istituzionali sono inutili, quanto la protesta è necessaria. Necessaria a creare consapevolezza, scambiare idee e progetti da applicare poi concretamente, mostrare che coloro i/le quali si interessano sinceramente al destino del nostro pianeta non accettano le finte soluzioni proposte da chi ci governa e propongono alternative che affrontano alla radice la questione del cambiamento climatico. Non solo è necessario cambiare i nostri stili di vita: finchè non cambierà su scala modiale l’intero sistema di produzione e consumo dei Paesi industrializzati e in via di sviluppo i nostri sforzi idividuali (risparmio energetico domestico, consumo critico, riduzione degli sprechi, mobilità ecosostenibile eccetera) risulteranno vani. Anche fra chi scenderà in piazza a Bonn e altrove  nei giorni del summit COP23 non sempre esiste questa consapevolezza, per questo è necessario e urgente crearla partecipando alle proteste, arricchendole di contenuti e proposte radicalmente critiche . Non per chiedere ai governanti misure drastiche che loro mai applicheranno, ma per convincere chi ancora non l’abbia capito che tali misure dobbiamo trovare noi tutti/e il modo di implementarle, nonostante e contro governi e capitale.

Di seguito una lista di siti web (principalmente in lingua tedesca) che contengono appelli e informazioni sulle mobilitazioni che avranno luogo durante il COP23:

Un’opinione anarchica sull’indipendentismo catalano.

Che il referendum sul’indipendenza catalana indetto per il prossimo 1 Ottobre abbia successo o meno, a prescindere dal fatto che un suo esito eventualmente positivo non venga riconosciuto dalle istituzioni dello Stato spagnolo, vorrei abbozzare alcune  considerazioni generali, dal mio personale punto di vista di anarchico, sulla questione specifica dell’indipendentismo catalano e, piú diffusamente, sull’indipendentismo in generale, partendo da un presupposto libertario. Premetto che non è facile farsi rapidamente un’idea delle dinamiche che agitano gli animi dei fautori dell’indipendenza catalana e dei loro avversari unionisti. Ritengo che un buon punto di partenza sia la lettura dell’articolo pubblicato sul sito Sollevazione col titolo “La Catalogna, la Spagna e l’Unione Europea” che, da un punto di vista fortemente critico nei confronti dell’indipendenza catalana da una prospettiva di sinistra “radicale” e antieuropeista, spiega in maniera abbastanza approfondita chi e perchè sostiene il referendum sull’indipendenza catalana e chi e perchè vi si oppone, contestualizzando in particolare il rapporto degli indipendentisti con l’Unione Europea. Di articoli su questo tema se ne trovano molti altri, di diverse tendenze, sul web e su carta e, se ci si vuol fare un’opinione con un minimo di fondamento, se ne dovrebbero selezionare, leggere e confrontare parecchi. Due libri segnalati come interessanti che trattano la questione catalana sono:  Elena Marisol Brandolini, Catalunya – España, il difficile incastro, Roma, Ediesse, 2013 e Angelo Attanasio e Claudia Cucchiarato, La questione catalana. Independéncia?, GoWare, 2013 [e-book].

Ed eccomi arrivato alle mie considerazioni sulla faccenda, riassunte schematicamente:

Indipendentismo, una panacea per tutti i mali. La politica dei partiti tradizionali e del governo centrale corrotto, incompetente e distante dai tuoi interessi ti delude? Sei in balia di una crisi economica che mette in dubbio quel che finora sembrava certo? Non ti senti padrone di decidere della tua vita e intorno a te serpeggia il malumore di altri insoddisfatti? La soluzione indipendentista, fermo restando i presupposti storico-culturali (se non ci sono si inventano dal nulla, come in “Padania”), potrebbe fare a caso tuo! Almeno questo è quello che ti raccontano i venditori di fumo interessati a trarre vantaggio dal riassetto istituzionale in questione. Non metto in dubbio che tra i sostenitori di una qualsiasi secessione ci siano anche persone benintenzionate e in buona fede, ma queste persone solitamente antepongono l’emotività al discorso razionale e tendono ad adeguare la realtà alle proprie opinioni e aspettative e non viceversa. Secondo me chiunque ha il diritto di autodeterminarsi, il che va ben oltre qualsiasi dichiarazione di voler rendere indipendente una regione da un’altra. Io intendo l’autodeterminazione come un processo di libero sviluppo della propria persona, di libera scelta riguardo i più disparati aspetti della propria esistenza.

A propugnare l’indipendenza della Catalogna dal resto della Spagna sono partiti di diversa tendenza e ispirazione, ma soprattutto persone di condizione sociale ed economica molto diversa fra loro. Su quest’ultimo aspetto non si può sorvolare. Che interessi comuni hanno il proprietario di una catena di alberghi e un lavapiatti? L’uno è lo sfruttatore dell’altro, lo è oggi anche grazie alle leggi spagnole e lo sarebbe ugualmente in un ipotetico futuro grazie alle leggi di uno Stato catalano. Se gli indipendentisti volessero fare una rivoluzione sociale abolendo il capitalismo e sostituendolo con modelli economici collettivisti/comunitari/solidali (cosa che, a ben guardare, ben pochi tra loro sognano) non perderebbero tempo sperando di vincere un referendum per il riconoscimento legale di un nuovo Stato sottomesso fin dalla sua nascita alle politiche del neoliberismo globale. Alla classe politica non interessa certo perdere i privilegi dei quali gode, né i capitalisti catalani sono smaniosi di rinunciare ai loro profitti perdendo competitività sui mercati, soccombendo alla concorrenza o lasciandosi addirittura togliere i mezzi con i quali sfruttano chi lavora per loro. Combattere al fianco del tuo nemico ha senso solo se tu lo ritieni piuttosto un alleato col quale far causa comune in nome dell’obiettivo principale che persegui, in questo caso un nuovo Stato. Competitivo, forte sui mercati, capace di crescita economica, politicamente e socialmente stabile. Il tutto condito con sangue e sudore dei lavoratori che hanno abdicato alla loro coscienza di sfruttati e oppressi in cambio di nuove catene.

“Ma abbiamo le stesse radici culturali!”, mi son sentito dire parecchie volte da indipendentisti di varia provenienza. Che differenza fa se a picchiarti è un bastone rosso o un bastone nero?, rispondo io riecheggiando Bakunin. E che differenza fa se chi ti spreme via tempo, forze e intelligenza a proprio vantaggio è nato nella tua stessa città, parla la tua stessa lingua, se amate gli stessi piatti tipici, professate lo stesso culto religioso e festeggiate le stesse ricorrenze? A parte il fatto che la cultura si crea e si modifica, non mi sembra un requisito fondamentale sul quale costruire alleanze o peggio in nome del quale scannarsi.

Eppure, un tempo si parlava di popoli e nazioni oppresse. Almeno in campo marxista era un dato di fatto indiscusso, come ricorda Steven Forti in un articolo ripreso da “A-Rivista Anarchica” del Dicembre 2013-Gennaio 2014: “In Irlanda, per il Marx maturo, non c’era una questione sociale al di fuori di una questione nazionale. Anche l’ultimo Engels sottolineò in più occasioni come l’internazionalismo del proletariato era possibile solo se esistevano nazioni indipendenti. La posizione di Lenin, ribadita più chiaramente nel Congresso dei popoli oppressi tenutosi a Baku nel 1920, era stata resa esplicita già nel 1916: “Credere che la rivoluzione sociale sia immaginabile senza le insurrezioni delle piccole nazioni nelle colonie e in Europa (…) significa rinnegare la rivoluzione sociale”.
Anche Mao, almeno a partire dalla Lunga Marcia iniziata nel 1934, dimostra posizioni orientate ancora di più in questa direzione: “nella lotta nazionale, la lotta di classe assume la forma di lotta nazionale; e in questa forma si manifesta l’identità tra le due lotte”. Ovvero: “Nella guerra di liberazione nazionale, il patriottismo è perciò un’applicazione dell’internazionalismo”. Lasciando da parte sia le ovvie considerazioni riguardo l’incoerenza dei pessimi epigoni di Marx nell’applicare il principio di autodeterminazione dei popoli, sia le funeste conseguenze degli ossimorici “socialismi di Stato”, mi chiedo se nel caso della Catalogna si tratti di una lotta di liberazione dallo stato centrale e non, come invece sembrerebbe, un caso di sciovinismo bell’e buono. La Catalogna infatti è fra le regioni più benestanti della Spagna, parte degli indipendentisti ritengono che starebbero meglio economicamente se avessero un loro Stato (lo conferma lo studio di un’associazione imprenditoriale catalana favorevole all’indipendenza, lo smentiscono tutte le fonti vicine al governo di Madrid). Perciò via i pesi morti, avanti i più forti. Il tutto in un’ottica borghese di sciovinismo del benessere, mentre la solidarietà e le lotte comuni con qualsiasi sfruttato ed oppresso spagnolo, immigrato o che vive, lavora e lotta altrove vanno a farsi friggere.

Mentre pure un’organizzazione che era marxista e autoritaria come il PKK ha cambiato da diversi anni visione e obiettivi  e tenta oggi di realizzare, insieme ad altre forze politiche, sociali e militari non l’indipendenza di uno Stato-nazione, ma l’autonomia di una regione, il Rojava, in chiave multietnica e sotto la bandiera del confederalismo democratico di ispirazione libertaria, devo tristemente constatare che altrove c’è chi ancora si attacca all’idea di Stato. C’è da riflettere anche sulle affermazioni fatte da un militante catalano del sindacato anarchico spagnolo CNT durante un’intervista di due anni fa, pubblicata da Umanità Nova. Se da un lato rimane inamovibile il rifiuto di qualsiasi Stato, d’altra parte si lascia intravedere la possibilità circa un miglioramento delle condizioni di lavoro e di vita sociale in un nuovo Stato catalano. Da dove scaturisca quest’ottimismo non è dato saperlo. Di certo, se i presagi non ingannano, comunque vada il referendum sull’indipendenza catalana, le istituzioni spagnole non sono disposte a riconoscerlo e già fanno di tutto per sabotarlo, incluso minacciare di portare in tribunale i sindaci catalani che ne autorizzeranno lo svolgimento nei loro comuni. Resta da vedere fino a che livello si innalzerà lo scontro fra Madrid e i separatisti e se questo offrirà spazi per l’espressione di forme di conflittualità che vadano oltre le mere rivendicazioni sovraniste.

Welcome to the Show: alcune riflessioni sul G20 di Amburgo e sulle proteste contro il summit.

Risultati immagini per g20 hamburg proteste

“A quanto pare ad Amburgo quelli del blocco nero hanno deciso che a Luglio bruceranno le auto senza distinzioni”, racconta un mio amico. Un’altro chiede con una punta d’ironia: “E le biciclette? Ci sono bici che costano più di un’automobile!”. Eravamo sul treno che ci riportava a casa dopo una manifestazione contro un congresso del partito di destra tedesco AfD, ad Aprile. Ci interrogavamo su quanto avesse senso applicare strategie discutibili come la distruzione della proprietà senza distinzioni. “Distruggere l’utilitaria di uno che si alza alle sei del mattino per andare al lavoro non mi pare un gesto rivoluzionario”, dichiaro mentre gli altri annuiscono. “Oltretutto ho la sensazione che sia sempre la stessa storia, uno spettacolo programmato ad uso e consumo del sistema”. Sguardi interrogativi che chiedono un chiarimento. “Non so esattamente cosa accadrà ad Amburgo durante le proteste contro il G20, non credo che finirà come a Genova nel 2001, ma ritengo probabile che sotto alcuni aspetti non ci saranno molte variazioni sul tema. Gli sbirri tenteranno di dividere i buoni dai cattivi, i “cattivi” e quelli che in mezzo a loro si sono mischiati, infiltrati o gente senza arte né parte, sfasceranno un pó di roba, i giornalettisti dei tabloid e della stampa embedded avranno di che scrivere, i politicanti ne approfitteranno per chiedere più polizia e aumentare i controlli, qualche compagno/a verrà arrestato/a e processato/a e per assisterlo/a si dovranno impiegare energie e risorse altrimenti spendibili altrove, si preferirà l’estetica dell’attacco alla proprietà senza distinzione fra quella personale e quella privata a scapito di azioni comunicative che coinvolgano gli sfruttati e gli esclusi dei quartieri amburghesi…”. Al termine del mio monologo tutti ci chiedevamo se sarebbe andata così, se lo spettacolo del G20 sarebbe stato disturbato o se nello spettacolo sarebbero finiti, come io credevo, anche i disturbatori. Al termine degli eventi dei quali si discuteva quel pomeriggio di Aprile non ho una risposta definitiva, ma ho perlomeno la netta sensazione che parte dei miei sospetti si siano avverati. Giovedì 6 Luglio le forze del disordine hanno tentato di dividere i/le manifestanti “pronti all’uso della violenza” da quelli ritenuti pacifici, senza forse immaginare che i/le partecipanti al black bloc si sarebbero frammentati/e scatenando una serie di azioni dirette a macchia di leopardo, mantenendo per ore il controllo di diverse zone della città, impedendo in parte che il summit dei G20 si svolgesse in una città-vetrina come voluto da organizzatori e partecipanti. Divenendo però, come ipotizzavo mesi prima, una parte dello spettacolo a uso e consumo dei massmedia asserviti alle logiche dominanti, delle strutture repressive poliziesche e giudiziarie, dei progetti dei politici a base di giri di vite contro strutture autogestite e promesse di maggiore sicurezza armata. Oltre ad aver lasciato per strada i cocci delle vetrine dei supermercati sfasciati e saccheggiati e le carcasse di decine di automobili bruciate, pezzi di lusso proprietà di persone abbienti così come (danni collaterali?) scassoni vecchi di undici anni appartenenti a quei lavoratori e a quelle lavoratrici che vorremmo dalla nostra parte e che ora sono più lontani/e da noi di quanto probabilmente non lo fossero una settimana fa, i militanti del blocco che ha protestato ad Amburgo sotto lo slogan “Welcome to Hell” sono ora oggetto di caccia all’uomo, alcuni/e già catturati fra le maglie della repressione, altri/e a rischio di fare la stessa fine, in più strumentalizzati dalla campagna elettorale precocemente in corso per il rinnovo del Bundestag. Come al solito fa più rumore un albero che cade di una foresta che cresce, se si voleva attirare l’attenzione lo si è fatto, ma a vantaggio di quelli che vorremmo combattere. Non si dovrebbe dimenticare che le vere decisioni non vengono prese durante le riunioni dei G20, per quanto queste siano una sorta di termometro politico internazionale. D’altra parte è innegabile che il programma di un incontro fra i potenti della Terra in una città-salotto, magari con qualche corteo ammaestrato di finto dissenso riformista tanto per non far sembrare il tutto troppo irreale, è saltato. Le azioni del black bloc hanno dimostrato, ancora una volta, che le forze del disordine di Stato non sono imbattibili e che queste se la prendono volentieri con chi meno sa o può difendersi. A riprova di ciò basta citare le cariche a freddo di Sabato contro manifestanti pacifici/che, avventori/trici di locali e persone potenzialmente “sospette” nei pressi del centro sociale amburghese Rote Flora, che adesso molti politici, soprattutto di centro e di destra, vorrebbero immediatamente sgomberato. Un cerotto da mettere sulla ferita aperta di una città messa sottosopra dagli scontri? Piuttosto l’ennesima scusa per implementare politiche autoritarie, un mediocre specchietto per le allodole per distrarre l’opinione pubblica da contraddizioni e divergenze apparentemente insuperabili allo stato attuale emerse durante il summit fra i  governi dei vari Paesi. Contraddizioni e divergenze, queste sí, che dovrebbero attirare la nostra attenzione e sulle quali dovremmo concentrare la nostra azione.

“Ong in catene: più morti in mare” (da AnarresInfo).

Articolo riportato dal sito “A-Infos”:

“Il 4 luglio i principali quotidiani hanno aperto con il “fallimento” del vertice di Parigi tra Italia, Francia e Germania sull’immigrazione. Macron ha negato l’accesso ai porti della Republique alle navi che raccolgono i migranti in difficoltà nel Mediterraneo. Il governo spagnolo lo ha seguito a ruota. Un esito diverso era decisamente improbabile. Da due anni la Francia ha blindato la frontiera di Ventimiglia, la Svizzera il valico di Chiasso. A poche ore dal summit di Parigi è l’Austria ha deciso di inviare 750 militari al Brennero per bloccare l’accesso nel paese di migranti provenienti dall’Italia. Nel primo semestre di quest’anno, complice una primavera estiva e un primo scorcio d’estate bollente, gli sbarchi sono aumentati rispetto allo stesso periodo del 2016. Pochi osservatori rilevano che il passaggio per il canale di Sicilia è l’unico aperto, dopo la chiusura della rotta balcanica e della via d’acqua dal Marocco alla Spagna.

Poche migliaia di profughi in più sono bastati a giustificare l’ennesimo squillo di trombe sull’eterna emergenza sbarchi. Le politiche emergenziali servono solo a mantenere un clima di allarme, utile a giustificare respingimenti, rimpatri di massa, eliminazione delle garanzie, esternalizzazione della repressione a chi tortura, stupra, incarcera, ricatta, uccide i migranti.

A farne le spese sarà la gente in viaggio. Gentiloni al vertice ha ottenuto la promessa dell’aumento delle quote di immigrati redistribuiti in Francia e Germania. Ma il bottino più grosso, che il presidente del consiglio italiano conta di portare a casa dopo il vertice di Tallinn in Estonia, è l’approvazione di un protocollo destinato a mettere sotto controllo le ONG, che operano nel Mediterraneo e di fatto costituiscono l’unica ancora di salvezza per il popolo dei gommoni.

In un incontro con il ministro degli esteri francese Collomb, tedesco De Maiziere e il commissario europeo Avramopoulos Minniti ha esposto il suo piano.
Il governo italiano intende interdire i porti del Bel Paese alle imbarcazioni che non accetteranno le condizioni fissate dal titolare degli Interni.
Le Ong potranno operare solo se accetteranno a bordo militari della guardia costiera, se terranno sempre acceso il trasponder, se non supereranno il limite delle acque territoriali libiche, se non segnaleranno la loro presenza ai migranti in difficoltà.

Inutile dire che Gentiloni e Minniti si sono ben guardati dal mettere in discussione i trattati di Dublino, che stabiliscono che i profughi e i richiedenti asilo sono tenuti a fare domanda nel paese dove approdano, anche la loro destinazione è un’altra.

In un’intervista uscita martedì 4 luglio sul quotidiano La Stampa Loris De Filippi, presidente della sezione italiana dell’ONG Medici senza Frontiere, che opera nel Mediterraneo con alcune imbarcazioni, ha detto chiaro che il protocollo non fermerà le migrazioni ma aumenterà il numero dei morti in mare. In questi anni il Mediterraneo è divenuto sudario per oltre 30.000 persone. I morti si aggiungeranno ai morti, nel silenzio e nell’indifferenza dei più.

La stretta sulle navi delle Ong che operano nel Mediterraneo è già partita. Ieri mattina una nave di Medici senza Frontiere, la Vos Prudence, è rimasta bloccata al porto di Palermo per questioni burocratiche. Poco prima che la nave salpasse, gli uomini della Capitaneria di Porto sono saliti a bordo per alcuni controlli rilevando che i documenti del direttore di macchina, che doveva sostituire un collega sbarcato a terra per motivi familiari, non erano in regola.

L’attacco e la criminalizzazione delle ONG, partito da Grillo, proseguito dal Procuratore capo di Catania Zuccaro, continuato su molti media, sta per produrre i propri frutti avvelenati e mortali.

Ascolta la diretta dell’info di radio Blackout con Antonio Mazzeo.

https://anarresinfo.noblogs.org/2017/07/05/ong-in-catene-piu-morti-in-mare/ “

Intervista a Nils Christie su crimine e alternative al carcere.

Nils Christie, criminologo norvegese e teorico del riduzionismo penale, risponde in una intervista del 2002 ad alcune domande sul crimine nella società contemporanea, sui concetti di reato, criminale, punizione, sulle alternative al sistema giudiziario attuale e soprattutto al carcere come strumento punitivo. Sebbene i presupposti che muovono l’analisi di Christie non siano quelli dell’abolizionismo carcerario bensí quelli appunto del riduzionismo, le sue riflessioni dovrebbero interessare chiunque metta in discussione l’esistenza degli Stati e delle loro strutture giudiziarie-carcerarie e la concezione stessa di delitto-punizione. Un ottimo punto di partenza per un confronto delle idee su un tema trascuratissimo, ma di vitale importanza per una critica radicale dell’ideologia dominante e del sistema-Stato nel quale viviamo. L’intervista è tratta dal sito diritto.it :

” IL CRIMINALE NON ESISTE…
Nils Christie: contro il carcere e per un sistema alternativo di soluzione dei conflitti

***

Riportiamo l’intervista del giornalista Zenone Sovilla (già pubblicata sul sito internet

www.nonluoghi.it) al criminologo norvegese Nils Christie, uno dei padri della teoria

riduzionistica in ambito penale. Il docente universitario, autore tra l’altro dell’opera

“Il business penitenziario”, spiega nell’intervista come dietro al ricorrente e spesso

ingiustificato ricorso al carcere ed a sanzioni privative della libertà personale,si

nascondano interessi economici rilevanti, quali quelli della casta dei “professionisti

dei conflitti” (magistrati, avvocati, e non solo). Un business che coinvolge anche,

in particolare negli Stati Uniti e nel Nordamerica, società private a fini di lucro che

amministrano la funzione carceraria. Un business, ammonisce Christie, che potrebbe

prender piede anche in Europa.

(Manuel M. Buccarella)

di Zenone Sovilla

La vita nell’età neoliberista catalizzata dalla televisione che ci chiude in casa e ci sottopone a inquietanti bombardamenti sull’allarme criminalità, rendendoci tutti più soli e diffidenti verso gli altri. Le piazze e le strade che si svuotano la sera trasformandosi nel loro grigiore in un simbolo tragico delle nostre paure. Il cittadino terrorizzato che delega allo Stato la cura della sua angoscia invece di provare a ricostruire le reti sociali. Lo Stato come sistema di controllo/repressione sociale e il carcere come fiorente industria al suo servizio.

Nils Christie studia il controllo del crimine da oltre cinquant’anni e non ha dubbi sulla origine ambientale del comportamento “deviante” rispetto alle convenzioni sociali o alle leggi. In inglese è appena uscita una edizione ampliata del suo “Crime control as industry. Toward gulags, western style” (in Italia la precedente da Elèuthera: “Il business penitenziario. La via occidentale al gulag”, 1998). Da poco è uscito sempre per i tipi di Elèuthera “Oltre la solitudine e le istituzioni. Comunità per gente fuori norma” nel quale Christie descrive cinque esperimenti, in corso in Norvegia da trent’anni, che propongono un’alternativa alla solitudine e alla privazione della libertà cui gli stati costringono gli “anormali”.

 

 

Nella libreria del suo piccolo ufficio all’istituto di criminologia dell’Università di Oslo, il professor Christie ha una sorta di piccolo archivio cartaceo: fascicoli che intitolano “Prigioni negli Stati Uniti”, “Prigioni in Russia”, prigioni, prigioni, prigioni…

“Il grande nemico dell’essere umano – mi dice quando gli chiedo del suo rapporto con i movimenti politici – è spesso lo Stato. Mi hanno appena chiesto un articolo sui <criminali pericolosi> e io ho risposto che allora non scriverò degli individui ma degli Stati. Se finisci in una prigione russa o americana, per esempio, è alto il rischio di non uscirne vivo o di uscirne distrutto dal punto di vista psichico, fisico e sociale. Lo Stato è un elemento decisamente pericoloso per la vita umana, specie nell’ambito del sistema penale. Per questo è fondamentale l’impegno per difendere la società civile: non è possibile assistere a un trend come quello americano che nel corso degli anni Novanta ha visto quasi raddoppiare il numero dei reclusi: due milioni (oltre 700 ogni 100 mila abitanti), molti dei quali poveri o scomodi per il potere. Questo significa che ormai si impiega il sistema penale per dirigere la popolazione, invece di assisterla con il welfare state. E il sistema penale non ha controparti: è difficilissimo ostacolarne la continua espansione in società come le nostre…”.

 

– In che modo si può tentare di incamminarsi verso un sistema alternativo di risoluzione dei conflitti e di approccio al crimine?

 

“C’è un piccolo saggio che scrissi parecchio tempo fa, <Il conflitto come proprietà>, nel quale mi chiedo chi detenga la proprietà dei conflitti: mi sembra tutt’altro che naturale che sia lo Stato. La proprietà deve appartenere ai protagonisti del conflitto. Da questo punto di vista, i giuristi si possono considerare dei <ladri professionisti>, perché rubano i conflitti alla gente”.

– Mi sta portando verso un’ipotesi di abolizionismo del sistema penale’ Come quella del suo collega olandese Louk Hulsman…

“L’abolizionismo va oltre le mie intenzioni, mi sembra poco realistico. Credo che da un lato vada trasferita a metodi di soluzione alternativi – sul modello del giudice di pace – la gran parte dei reati, ma che dall’altro si debba conservare un sistema di garanzie cui una delle parti (la più debole) possa ricorrere per evitare un accordo iniquo. Se io ti ho spaccato il naso con un pugno e poi tu – che sei socialmente più attrezzato e potente – pretendi da me, oltre alle scuse e alle spiegazioni, un risarcimento che mi renderebbe schiavo, devo poter optare per un normale processo in un’aula di tribunale. Insomma, non si tratta di gettare alle ortiche la forma di difesa dei diritti individuali sviluppata nel corso dei secoli; si tratta di migliorarla…”.

 

– In Norvegia esiste la Camera dei conflitti, un’istituzione alternativa al sistema penale. Che risultati sta dando questa esperienza?

 

“All’origine c’era il giusto proposito di trasferire – con l’accordo di entrambe le parti – le cause dal tribunale a un organo di soluzione consensuale del conflitto. Il problema è che le cause che finiscono al sistema alternativo sono decisamente troppo poche e di scarsa rilevanza. Allora chiedo: sulla base di quale diritto la Procura dello stato stabilisce che solo le piccole cause vanno alla Camera dei conflitti’ Qual è la ragione reale che impedisce il canale alternativo, per esempio, a casi seri di violenza, anche quando entrambe le parti, vittima e imputato, sono d’accordo? E’ per tutelare il potere della società. E perché le professionalità che qui entrano in gioco – magistrati, avvocati… – devono difendere i loro interessi, non possono accettare che la gente riesca ad arrangiarsi senza di loro…”.

 

– Trasferire più cause a un sistema di soluzione civile o comunitario, però, significa coinvolgere un numero crescente di persone chiamate a mediare fra le parti…

“Quando la sera cammino per le strade vuote di Oslo vedo dietro le finestre una luce blu. La dentro siede l’intera nazione e guarda la tv. Sarebbe stato molto meglio se, invece, quelle stesse persone fossero riunite in un’assemblea popolare per discutere di un omicidio”.

– In qualche zona del mondo succedeva. Anzi, forse succede ancora…

“In realtà è un metodo antico di risolvere le controversie. Per esempio, era comune che i più anziani della comunità si riunissero per cercare una soluzione a un conflitto. C’era questa consuetudine anche in Norvegia, nelle valli più remote: si cercava naturalmente di evitare il processo penale, perché sarebbe stato un trauma che avrebbe portato con sè nuovi conflitti. Se in un piccolo villaggio una persona viene punita dal Tribunale, questo fatto può accendere la miccia di una guerra civile: non si può. Ora questa tradizione va recuperata e ricreata in Nuova Zelanda, dagli indigeni australiani. La nostra civiltà postmoderna, che domina il mondo, riscopre all’improvviso qualcosa che aveva buttato via. Ma in Nuova Zelanda, per esempio, succede che la creazione di professionalità attorno agli strumenti alternativi appesantisce il processo: torna la domanda di prima: chi ha la proprietà dei conflitti'”.

 

– Nell’esperienza norvegese che tipo di reati vanno alla Camera dei conflitti?

 

“Si arriva al massimo ai piccoli furti nei negozi. I reati che implicano una pena detentiva sono esclusi: così vuole la Procura dello Stato. Così si continua a far danni sociali utilizzando il sistema penale. Se guardiamo, invece, ai conflitti che nascono fra le grandi società commerciali o industriali, ci rendiamo conto che si cerca sempre una mediazione per evitare il muro contro muro in Tribunale, una prospettiva che sarebbe deleteria, foriera di nuovi conflitti. Il concetto mi sembra elementare anche per i rapporti sociali. Dunque, semplicemente non lo si vuole capire”.

 

– Perché?

 

“Per un insieme di ragioni, credo. Per cominciare, lo Stato, ogni organizzazione statuale, vuole poter governare e giudicare gli individui; le professioni coinvolte, come ho già detto, vivono dei conflitti sociali e più ce ne sono meglio è; poi, abbiamo la nostra tradizione culturale così legata all’idea del castigo, alla quale, certo, si contrappone la corrente che sostiene il perdono”.

 

– Mi sembra un meccanismo perverso che alimenta il regime della delega al “sistema”, che favorisce la sottrazione di responsabilità ai singoli componenti della società e la perdita di consapevolezza sui doveri e sui diritti del vivere in comunità. In definitiva, un altro ambito organizzativo che sembra fatto apposta per allontanare l’individuo e la sua proiezione identitaria dall’incontro con gli altri…

 

“Rianimare la vita sociale, gli intrecci e i dialoghi fra le persone, mi sembra, infatti, uno degli effetti collaterali significativi di un percorso alternativo per la soluzione dei conflitti”.

 

– L’idea di fondo di questi percorsi alternativi è il superamento del concetto di pena. Ma in che senso?

 

“Sto scrivendo un libro che si intitola <Il crimine non esiste>. Esiste l’azione. Poi le va dato un significato. Era un individuo malato? Ineducato? Arrabbiato? O forse era mio figlio che aveva <preso in prestito> un po’ di soldi senza chiedermelo? Oppure si trattava di un delitto? Insomma, un reato da punire o un comportamento da capire? Quali sono le condizioni sociali che determinano la lettura di un’azione nell’una o nell’altra direzione? Se siamo favorevoli a una comunità civile fatta di individui responsabili, se abbiamo questa tendenza anarchica, allora dobbiamo impegnarci a organizzare la società in modo che le azioni siano viste come qualcosa di diverso da un <delitto>. Le azioni non sono, diventano. Questo vuol dire che non si potrà mai rispondere alla domanda: la criminalità aumenta? Il crimine dipende da che cosa in una data società viene considerato tale. Al massimo si potrà rispondere che è stato <registrato> un aumento di <reati> ma non si potrà dire che la criminalità <è> in aumento. La criminalità è un’opinione”.

 

– Un fenomeno culturale. Dobbiamo capire le azioni anche a prescindere dalle leggi di un dato momento e luogo…

 

“C’è forse qualcuno di noi che con i suoi atti non infrange la legge ogni tanto? No, il codice penale non ci aiuta a capire la criminalità. Siamo in una situazione in cui i politici hanno poco di cui discutere: persi gli ancoraggi ideologici, domina la filosofia del mercato e dei soldi. Chi propone approcci alternativi, come nel mio caso, non viene per nulla ascoltato. Dunque, non ci sono nella politica i portavoce dei valori sociali anti-sistema, non c’è chi <complica> il dibattito; intanto la criminalità diventa un buon terreno per riscaldare gli animi e mietere facili consensi. Questo è evidente in molti Paesi, a cominciare dagli Stati Uniti: se hai l’immagine di un politico troppo debole sul fronte della criminalità, per te è finita; la maggioranza ti volta le spalle, sei amico dei nemici del sistema”.

 

– Considerato che una persona mediamente dotata d’intelletto dovrebbe rendersi conto di quanto sia facile finire fra chi infrange una qualche legge, come mai è così semplice manipolare l’opinione pubblica con l’allarme criminalità?

 

“Perché la stessa persona media di solito non riesce a identificarsi mai con una certa azione <criminale> – reati legati agli stupefacenti, per esempio – e pensa: questo non lo farò mai. Ora, questa mancata capacità di relativizzare, di tentare di capire le situazioni e i conflitti, è legata al crescente isolamento sociale, all’angoscia crescente, quella delle strade vuote di Oslo e delle finestre con la luce blu della televisione. La gente sta chiusa in casa. Guarda la tv e ha sempre più paura. A causa di quello che vede in tv ma anche perché fuori non c’è nessuno; fuori nel buio c’è solo la minaccia criminale. Ecco, allora, che quest’angoscia torna utile al sistema, a chi ruba i conflitti”.

 

– In questo quadro, che cosa dire del ruolo dei media?

 

“Credo che il più significativo sia quello della televisione che, innanzitutto, riduce il nostro tempo sociale, la partecipazione alle varie attività che ci fanno stare insieme con gli altri. Inoltre, come noto, i mass media sovraespongono i fatti criminali, li rendono talmente centrali da spaventare la gente. E la gente spaventata alimenta il circolo vizioso, se ne sta di più a casa a guardare la tv, fuori un deserto buio. Se guardiamo i dati della polizia sulla criminalità notiamo che tutte le tipologie sono in crescita, a parte il reato d’ingiuria: brutto segno, la gente non si interessa più degli altri… Ci vorrebbero nuovi spazi di riflessione, dibattiti veri e non le cose <primitive> che ci offrono oggi politici e mass-media”.

 

– Un consiglio ai giornalisti?

 

“Per esempio andare a seguire una seduta alla Camera dei conflitti. Vedrebbero che spesso a soffrire sono sia la vittima sia l’accusato che magari non riesce a capire quanto grave sia stata (per la parte lesa) la sua azione e cerca di spiegarsi. Lì i giornalisti si renderebbero conto di come, piano piano, con il dialogo, le due persone cercano di farsi capire. La vittima comincia un po’ alla volta a rendersi conto che l’aggressore è una persona normale; questi comincia a capire quel che ha combinato. Può finire con una stretta di mano e questo mi sembra l’epilogo moralmente più accettabile; di sicuro più di affidare la pratica a un funzionario del sistema penale. In una piccola area dell’Australia in questo periodo è in corso un esperimento che coinvolge l’intera popolazione sulla questione del conflitto e della partecipazione: così si può costruire una nuova consapevolezza.

 

– Una parte delle persone in carcere non ripeterebbe l’atto per il quale sono state punite; un’altra parte, probabilmente sì. Ha senso cercare di mettere a fuoco questa distinzione per determinare l’esistenza di una minoranza di individui che potrebbero potenzialmente reiterare, per esempio, azioni violente?

 

“Non si riuscirebbe mai a capire chi sarebbero i componenti di questa minoranza. Credo che la scelta della detenzione si possa immaginare solo quando fallisce del tutto la mediazione; oppure nei singoli casi di azioni violente così raccapriccianti da far ritenere che il cittadino medio non accetterebbe una condizione diversa per l’imputato. Torniamo agli aspetti culturali. Va tenuto conto, però, che rinchiudere una persona in carcere aumenta la probabilità di reiterazione del reato una volta scontata la pena. Ricordo spesso che se mandiamo i nostri figli a scuola è perché pensiamo che lì imparino delle cose e abbiano una vita sociale; che cosa significa, invece, mandarli in prigione? Come saranno quando usciranno? O vogliamo forse avere dei giganteschi campi di concentramento in cui si entra e non si esce più?”.

 

– C’è chi difende il carcere come strumento preventivo, la pena come deterrente…

 

“E’ molto bassa la probabilità che una persona non compia un’azione perché un altro individuo è stato incarcerato per un atto analogo. Quando uno perde il controllo non pensa certo né al codice penale né a chi sta in cella. E nemmeno chi agisce per un bisogno economico (per esempio, un contadino colombiano che decide di coltivare o trasportare cocaina) o in base a meccanismi di gratificazioni di un ambiente degradato in cui la violenza è l’unico mezzo per emergere. Insomma, si tratta di una battaglia culturale su più fronti”.

 

– In altre parole, siamo tutti potenziali criminali, dipende dall’ambiente…

 

“Ho analizzato a lungo i norvegesi che facevano le guardie nei campi di lavoro nazisti nella Norvegia settentrionale, dove i prigionieri, molti dei quali erano serbi, spesso morivano di stenti. Quelle guardie erano persone normali: pensavano semplicemente che i prigionieri, i “nemici”, erano delle bestie, non degli esseri umani… Uno dei sopravvissuti, un serbo, mi ha raccontato che deve la vita a una fatalità: l’aver trovato nel campo un vocabolario tedesco-norvegese che si studiò parola per parola nelle lunghe ore passate in cella. Un giorno mentre il prigioniero marcia in fila indiana nel cortile, la guardia norvegese in testa alla colonna chiede a quella in fondo se ha un fiammifero, un “fyrstikk”; l’altra risponde di no; il serbo allora dice: “Jeg har en fyrstikk”, io ho un fiammifero, e da quel giorno non fu l’unico a non essere trattato come un mostro…”.

Il populismo e ciò che vi si nasconde dietro.

Bildergebnis für populismo

Uno spettro si aggira per l’Europa: lo spettro del populismo. Dopo Brexit e Trump presidente degli USA, molti politici, analisti, commentatori, esperti e comuni cittadini sono preoccupati per l’ascesa di movimenti e partiti populisti in tutta Europa, fino a paventarne, in alcuni casi, una possibile presa di potere. Non si può negare che alcuni di questi partiti e movimenti abbiano recentemente raggiunto risultati elettorali importanti, né sarebbe irrealistico ritenere che alcuni di essi possano addirittura arrivare ad ottenere una maggioranza in qualche parlamento nazionale e a formare un governo*. Prima però di chiederci cosa ciò concretamente possa significare, quali cambiamenti potrebbero in tal senso prospettarsi sul piano politico, sociale, economico e culturale di un Paese o di un’unione di Paesi, dovremmo provare a rispondere ad una domanda fondamentale: cosa significa nei fatti il termine populismo?

Un tentativo di definizione del populismo.

Il vocabolario Treccani parla dei Narodniki russi, di Juan Perón, di arte e letteratura e, in mezzo a ciò, fornisce la definizione apparentemente più appropriata, che connota il populismo come “atteggiamento ideologico che, sulla base di principî e programmi genericamente ispirati al socialismo, esalta in modo demagogico e velleitario il popolo come depositario di valori totalmente positivi”. Il populismo emerge specialmente nei momenti di crisi politica o economica, è  caratterizzato dal riferimento centrale, perlopiù retorico, al popolo quale soggetto reale di riferimento della politica, non solo depositario di valori positivi e dotato della capacità istintiva di comprendere quali siano i veri problemi della società e le rispettive soluzioni, ma anche destinatario dei benefici di un governo ideale, ad esso vicino e pertanto attento alle sue esigenze. Oggi il termine “populista”, associato spesso a quello di “demagogo”, viene perlopiù affibbiato a persone o gruppi che attaccano la classe politica accusandola di essere lontana dagli interessi reali del soggetto denominato di volta in volta “popolo”, “cittadini”, “elettori” o “gente”. A loro volta tali persone e gruppi, quando non rifiutano il termine, lo connotano positivamente rivendicando la propria vicinanza nei confronti del popolo e dei suoi interessi. Il populista si fa portavoce di quello che, secondo lui/lei, la maggioranza pensa ma non dice, polarizza ricorrendo a facili schemi in stile “buono/cattivo”, propone argomenti e soluzioni semplificate. Populisti possono essere pertinentemente definiti quei partiti e movimenti dalla connotazione anti-establishment, “antipolitici”, anti-intellettuali, critici nei confronti delle istituzioni transnazionali e della globalizzazione, della corruzione e del malaffare, della classe politica e dei partiti tradizionali.  Per quanto concerne specificamente il populismo di destra, va aggiunta l’opposizione alla società multiculturale e all’immigrazione “incontrollata”. La dicotomia è comunque quella del discorso retorico del “noi qui sotto” contro “loro lá sopra”, dove per “noi” si intendono i comuni cittadini, mentre “loro” sono politici affermati, intellettuali, tecnocrati, vertici amministrativi istituzionali, spesso anche alta finanza. Da notare però che a far ricorso a tale retorica non sono solo esponenti di organizzazioni definite comunemente populiste, ma anche, a seconda delle circostanze, rappresentanti di partiti politici tradizionali , fatti a loro volta bersaglio degli attacchi dei populisti comunemente etichettati come tali. Questo anche perchè il populismo non è di per se un’ideologia come lo sono storicamente, ad esempio, il liberalismo o il socialismo, quanto una modalità di relazionarsi, è innanzitutto un approccio “anti-qualcosa”. Nonostante sia riconoscibile e definibile, è al tempo stesso flessibile, camaleontico. Questa è in parte la sua forza ma anche, probabilmente, la sua principale debolezza in termini di un suo possibile successo.

Caratteristiche specifiche del populismo di destra.

Nella variante di destra del populismo, alcuni elementi ideologici centrali, tipici dei classici partiti dell’estrema destra, vengono modificati in modo da rendere messaggi e programmi più moderni ed accettabili, meno ideologici e al tempo stesso più vicini alle paure ed ai pregiudizi dell’ “uomo qualunque”: ad esempio, ai concetti di razza e nazione si sostituiscono quelli di tradizione, cultura, patria, etnia, mentre il modello di sistema auspicabile non è più quello di una dittatura fascista, piuttosto una trasformazione della democrazia in senso autoritario, etnocentrico ed esclusivo. I movimenti populisti di destra si dicono favorevoli all’uso di strumenti di democrazia diretta (referendum), che vorrebbero usare per legittimare, anche a livello legislativo, norme discriminatorie, così come strumentalizzano i diritti democratici e le conquiste sociali per escludere e criminalizzare quelle minoranze che, al lor dire, minaccerebbero tali diritti: secondo questo ragionamento, per esempio, i musulmani non riconoscerebbero il pluralismo religioso, i diritti LGBT, la parità fra i sessi ecc…, pertanto non sarebbero compatibili con la democrazia e la civiltà occidentale. Ciò non significa che i populisti di destra non siano essi stessi omofobi e transofobi, a favore della famiglia tradizionale o si mostrino aperti nei confronti di tutte le confessioni religiose, semplicemente quelle che sono rivendicazioni o conquiste tipicamente progressiste vengono strumentalizzate in chiave anti-inclusiva. Allo stesso modo, la libertà di espressione sarebbe minacciata dalla cultura del “politicamente corretto” e dalla presunta egemonia culturale della sinistra: il diritto di chiunque a dire ciò che pensa viene usato per rendere normali e accettabili discorsi beceri, xenofobi, intolleranti, ma soprattutto per chiedere a gran voce che la libertà la si tolga a qualcun’altro. Il discorso centrale vede l’identità collettiva della popolazione autoctona minacciata da influenze esterne, siano esse culturali o economiche, laddove per “esterne” si intendono anche quelle provenienti dall’establishment.

Fra i partiti della destra populista esistono sfumature e differenze nel posizionamento su alcuni temi, così come esistono differenze sul modo di etichettarli, considerato che da alcuni commentatori il termine “destra populista” viene usato come sinonimo di “estrema destra”, da altri invece come termine che indica una connotazione politica più moderata.**  Nell’ Europa occidentale diversi partiti della destra estrema, facendo ricorso a strategie e argomenti populisti, hanno ottenuto negli ultimi anni e decenni consistenti risultati elettorali: Front National in Francia, Lega Nord in Italia, PVV in Olanda, FPÖ in Austria, Nuova Democrazia in Svezia, SVP in Svizzera, Partito del Progresso in Danimarca, Veri Finlandesi in Finlandia e altri ancora. Di fronte a cambiamenti culturali, crisi economiche  e questioni cruciali di importanza globale, questi hanno saputo abilmente far leva sulle paure del ceto medio, preoccupato di un peggioramento della propria condizione, così come sul crescente impoverimento della classe lavoratrice e dei suoi membri disoccupati, sul suo risentimento e sui suoi pregiudizi, sulla paura dello sradicamento culturale, sull’inquietudine per il futuro. L’uso di slogan semplificati, i discorsi viscerali, la capacità di dividere settori della popolazione mettendoli gli uni contro gli altri in modo strumentale si sono rivelati metodi efficaci ed hanno portato ad una crescita di consenso nei confronti di queste organizzazioni, capaci di raccogliere i voti di chi in precedenza era astensionista o appoggiava partiti tradizionali, anche a fronte di una crisi della rappresentatività sempre più sentita.

 Obiettivi dichiarati e risultati reali.

Ma, a conti fatti, cosa vogliono ottenere i populisti? A cosa serve veramente il populismo, ad avvicinare la politica alle masse, a far agire un governo in difesa dei reali interessi del comune cittadino, ad affrontare questioni irrisolte sulle quali finora la politica ufficiale ha taciuto o non ha agito in modo efficace? Nella retorica di movimenti e partiti populisti dovrebbe essere proprio così, ma la realtà è diversa, a cominciare dal fatto che le promesse fatte in campagna elettorale sono perlopiù esagerate e a scopo propagandistico, così come il programma teorico di un partito il più delle volte non trova uguale applicazione nei fatti. Ciò vale per le liste elettorali tradizionali così come per quelle nate dal malcontento popolare. Nella retorica del populismo le masse vanno sostanzialmente bene così come sono, non devono prendere coscienza, né emanciparsi. I leaders e “quelli che stanno in alto” le hanno tradite, hanno disatteso le loro aspettative, perciò è tempo di nuovi leaders, magari gente comune estranea all’entourage finora ai vertici. Da un punto di vista prettamente democratico rappresentativo, l’affermarsi di tendenze populiste può portare da un lato a maggior partecipazione e interesse delle masse per la res publica, la cosa pubblica, rafforzando e spingendo le istituzioni a venir maggiormente incontro ad alcune esigenze particolarmente sentite dalla popolazione di un Paese. D’altro canto, può sfociare nell’affermarsi di tendenze spiccatamente autoritarie (nel senso comune del termine così come viene usato nelle democrazie liberali), all’esclusione sociale e alla discriminazione in senso negativo di fette della popolazione, alla chiusura di fronte alle politiche di cooperazione e partecipazione internazionali. Se la seconda ipotesi sembra la peggiore, va fatto notare come, alla fine, pur di inserirsi nei meccanismi della politica dominante, anche i populisti devono ripulirsi un pò, abbassare i toni rinunciando alle componenti più radicali dei loro discorsi. In quanto alla prima ipotesi, è poprio questo il meglio che ci si può aspettare da un certo populismo protestatario***(un caso fra tutti, quello degli indignados in Spagna), le cui rivendicazioni vengono inglobate dall’ideologia dominante allo scopo di rafforzarla, seppellendo qualsiasi aspirazione di rottura col presente, poichè se un movimento o organizzazione populista non scompare presto dalla scena, per affermarsi e durare nel tempo deve adeguarsi alla struttura dominante, non essendo esso realmente interessato a distruggerla per creare qualcosa di radicalmente nuovo. Anche i populisti più beceri fanno comodo, perchè se da un lato vengono attaccati da massmedia e politici affermati, la loro presenza giustifica un voto contro di essi e quindi a favore dei partiti tradizionali…che al tempo stesso non si vergognano di attingere da essi rivendicazioni e punti programmatici! A conti fatti, spesso il populismo funge da valvola di sfogo per poi rientrare nei ranghi, legittimando ancor più il sistema che critica, tutt’al più facendo in modo che cambi qualcosa affinchè tutto rimanga uguale. Non che ci si possa aspettare di meglio da chi concepisce il “popolo” come un blocco omogeneo, virtuoso così com’è, proteso verso un mondo ideale al quale si verrà condotti da nuovi, incorruttibili capipopolo…magari pure a marcia indietro!

A chi non serve il populismo.

C’è chi nella melma populista sguazza quotidianamente, dai massmedia che alimentano la tendenza per poi demonizzarla, ai vertici al potere che la usano a proprio vantaggio. A chi si sente dimenticato dalle istituzioni, vittima vera o presunta delle storture di un sistema che non viene percepito come storto nella sua essenza e totalità, serve una valvola di sfogo. È indubbiamente una bella sensazione quella di essere ascoltati da qualcuno che finge di capirti in maniera convincente e che afferma di portare avanti le tue istanze. Essere parte di una comunità ideale, un tassello di un grande progetto ha una funzione catartica che spesso si esaurisce nelle manifestazioni esteriori senza intaccare la sostanza del pensiero di un individuo che nemmeno si percepisce intimamente come tale. È qui che fa presa la strategia populista. Questo perchè manca la diffusione capillare di coscienza e maturità. Non possiamo aspirare a cambiamenti radicali senza prima cambiare radicalmente le persone. A tutti/e coloro i/le quali non servono identità fittizie e rappresentanti ai vertici di un sistema che agisce contro i nostri reali interessi, non serve nemmeno il populismo. Non serve a chi agisce direttamente per costruire realtà alternative tra le pieghe dell’esistente, né a chi aspira ad una realtà nuova. Agli/lle altri/e, rimarrà sempre la speranza disattesa di poter migliorare qualcosa affidandosi all’imbonitore di turno, finendo per essere pedine in un gioco che non si sono nemmeno realmente sforzati/e di comprendere.

 

*In Grecia è attualmente al governo un raggruppamento, SYRIZA, considerato da diversi commentatori populista (di sinistra).

**Per quanto mi riguarda considero valida, in termini generali, l’opinione del sociologo ed esperto di estrema destra Alexander Häusler, che definisce il populismo di destra come un “metodo stilistico della modernizzazione” dell’estrema destra.

***Il politologo Pierre-André Taguieff fa una distinzione analitica tra “populismo di protesta” e “populismo dell’identità”, laddove quest’ultimo radicalizza ed essenzializza il concetto di appartenenza ad un’identità comune (etnica, nazionale, culturale…) ritenuta migliore in contrappposizione a ciò che viene definito estraneo, “altro”. In alcuni casi queste due modalità di populismo si sovrappongono.

Il PMLI supporta lo Stato Islamico. Ridere o piangere?

https://giacomodolzani.files.wordpress.com/2015/11/pmli3.jpg

Come se non bastasse essere maoisti: Il Partito Marxista-Leninista Italiano appoggia i fondamentalisti islamici dell’ IS in chiave antiimperialista! Nel corso della quinta sessione plenaria del comitato centrale del PMLI, lo storico segretario dell’organizzazione ha dichiarato che ““Una santa alleanza imperialista è nata per combattere e distruggere lo Stato Islamico (ISIS) che si oppone all’imperialismo. Ovviamente il PMLI non può farne parte. Il nostro posto attuale è al fianco di chi combatte l’imperialismo che è il nemico comune di tutti i popoli del mondo. Lo Stato islamico non vuole che l’imperialismo sia il padrone dell’Iraq, della Siria, del Medioriente, dell’Africa del Nord e centrale, dell’Afghanistan e dello Yemen. Nemmeno noi lo vogliamo, quindi non possiamo non appoggiarlo”…(Un estratto più ampio della dichiarazione in lingua inglese lo trovate cliccando qui sopra). La notizia è datata, ma vale la pena fare un paio di considerazioni sulla faccenda. Bisognerebbe spiegare ai buffoni del PMLI come i jihadisti siano stati finanziati ed appoggiati da potenze occidentali/Paesi Nato in funzione anti-Assad e come tuttora ricevano il supporto delle petromonarchie del Golfo. Tali pertomonarchie rivestono anch’esse un ruolo imperialista a livello regionale ed hanno una loro strategia ben precisa, orientata verso il controllo della regione, portata avanti anche attraverso il supporto a diversi gruppi jihadisti, tra cui l’IS. L’oppressione di genere, l’ostentata crudeltà nei confronti di chiunque non si pieghi alle regole imposte dal califfato di Al-Baghdadi o professi un credo religioso diverso, l’uso del terrorismo come normale strumento di lotta ed un programma nettamente opposto, nella teoria e nei fatti, a qualsiasi forma di emancipazione delle classi subalterne, non sembrano essere elementi sufficienti per far apparire lo Stato Islamico come un alleato impossibile per i maoisti nostrani. Sembra che alcune analisi storiche sull’imperialismo siano state maldigerite dalla setta targata PMLI, che ne ha fatto il punto centrale del proprio discorso politico, tanto da anteporre l’antiimperialismo alla lotta di classe. Tralasciando il fatto che qualsiasi movimento o organizzazione, suo malgrado, può diventare uno strumento nelle mani dell’imperialismo (come succede appunto con Daesh), essere antiimperialisti non è di per se una garanzia. Altrimenti si potrebbe trovare accettabile e sostenibile un qualsiasi regime tirannico, fascista, fondamentalista o totalitario che contrasti gli interessi delle potenze imperialiste globali e non abbia a sua volta ambizioni imperialiste. Il resto non avrebbe importanza in un gioco nel quale gli stati sostituiscono idealmente le classi sociali e nel quale, secondo una vecchia logica tanto pericolosa quanto fallimentare, “il nemico del mio nemico è mio amico”. Chissà cosa penserebbero i barbudos del califfato in Siria e Iraq se sapessero quali simpatizzanti si son raccattati per strada! Forse farebbero spallucce e accetterebbero, loro malgrado, questa “alleanza strategica”, seguendo il detto secondo il quale tutto fa brodo, pure le ossa delle mummie piemmelliste.

Saronno: 3 giorni contro le frontiere.

Per ulteriori informazioni e approfondimenti: https://collafenice.wordpress.com/2016/11/17/3-giorni-contro-le-frontiere/

Matteo Renzi mi scrive: “Caro italiano…”.

http://www.sardegnasoprattutto.com/wp-content/uploads/2014/10/renzino.jpg

Stamane, tra la posta ho trovato una lettera che mi invita a votare “Sì” al Referendum Costituzionale che si terrà il mese prossimo. La prima pagina contiene, oltre alle istruzioni di voto per i/le cittadini/e italiani/e residenti all’estero, diverse immagini dell’attuale presidente del Consiglio dei Ministri Matteo Renzi, immortalato durante lo svolgimento delle sue funzioni di rappresentante istituzionale dell’Italia nel mondo. Sul retro, una vera e propria lettera. “Cara italiana, caro italiano…“, inizia il panegirico intriso di retorica ed opportunismo, “nessuno meglio di voi, che vivete all’estero, sa quanto sia importante che il nostro Paese sia rispettato fuori dai confini nazionali“. E questo è solo l’inizio. Matteo mi fa sapere che il nostro Paese è vittima di pregiudizi, il più persistente dei quali è quello per cui siamo, per dirla con l’immancabile riferimento calcistico buono appunto a rafforzare i pregiudizi sul popolino italico, “un Paese dalla politica debole, che si perde in un mare di polemiche. Un Paese instabile, che cambia il presidente del Consiglio più spesso di un allenatore della Nazionale“. Matteo dice d’essersi impegnato, durante le sue innumerevoli visite all’estero, nel promuovere un’immagine positiva dell’Italia, incita a “fare di più, tutti insieme” e parte col discorso della riforma costituzionale. Sembra che Matteo creda di sapere quel che deve affrontare un “cittadino/a italiano/a” costretto/a ad emigrare, non un cervello in fuga, ma braccia da lavoro. Va da sé che il mondo dorato nel quale vive Matteo da Rignano sull’Arno non è il mio, ad accomunarci non abbiamo nulla se non appunto il genere e la nazionalità scritta sui documenti d’identità, cose che per me contano praticamente nulla. Matteo pensa che all’estero si parli male di noi perchè abbiamo un sistema politico e burocratico farraginoso, sprechiamo risorse e denaro pubblici, abbiamo una classe politica litigiosa e attaccata alle poltrone. In parte è così, d’altronde dovrebbe ben sapere che molte critiche rivolte all’Italia, giuste o sbagliate che siano secondo i punti di vista, si rivolgono proprio a personaggi come lui, l’attuale presidente del Consiglio, preoccupato più di fare “bella figura” (termine spesso usato letteralmente dalla stampa tedesca) su podi e palcoscenici che di migliorare veramente la situazione del Paese. Renzi però non dispiace a tutti, almeno non del tutto. Basta seguire le regole del capitalismo e dei mercati globalizzati, destreggiarsi tra le rivalità di interessi e le contraddizioni interne, trovare i partners più adatti per firmare nuovi accordi e contratti, fare i favori giusti alle persone giuste ed ecco che inizi a piacere ad un sacco di gente in giro per il pianeta, gente influente, che fa girare la grana, che crea l’opinione, che gestisce il dominio. È questo quel che importa all’attuale imbonitore a capo del teatrino governativo, mentre i/le cari/e cittadini/e italiani/e, in patria e all’estero, servono solo quando devono dire SÌ. E per convincerci basterebbero un paio di frasi fatte sull’emozione suscitata dai nostri sguardi orgogliosi e dall’inno di Mameli, scritte da (o per) uno che non ci conosce, che se ne frega delle nostre esigenze, dei nostri problemi, delle nostre vite, uno tra tanti che è parte del problema e non della soluzione, che tratta ciò che dovrebbe essere di tutti come una proprietà privata sua e dei suoi amichetti, un’arrivista che blatera un terzo neolingua, un terzo retorica stantia e un terzo anglicismi mal digeriti? Ma che cazzo ne sa lui, che cazzo ne sai tu, Matteo Renzi, del nostro orgoglio, delle nostre esistenze, delle nostre storie, come le chiami tu? Vaffanculo! Vaffanculo a te e a tutti i signori e le signore che hanno fatto del clientelismo, della corruzione, del carrierismo, della concorrenza e degli interessi di classe o casta una ragione di vita, ma vaffanculo anche a tutti quelli che credono che la disonestà sia l’unico problema, quelli che non hanno capito che si ruba più legalmente che illegalmente, perchè il capitalismo stesso è nato dal furto e dal saccheggio in grande stile e lo sfruttamento può benissimo venir esercitato entro i confini stabiliti dalle leggi. E Vaffanculo anche a chi si illude che la “nostra” Costituzione sia da salvare, un pezzo di carta che ci viene sventolato sotto il naso ad ogni pié sospinto dalle stesse persone che lo usano per nettarcisi il deretano, un guazzabuglio di leggi decise da pochi per imbrigliarci e limitarci, per illuderci di aver raggiunto qualcosa, mentre gli assassini della dittatura fascista tornavano ai loro posti da bravi burocrati e compagni e compagne non assimilabili dal “nuovo” sistema finivano in carcere o venivano eliminati, mentre i “nuovi” padroni usavano il terrore come strumento di controllo per schiacciare qualsiasi aspirazione egualitaria ed emancipatoria. Fá una cosa, Matteo, la prossima volta che mi scrivi non parlarmi del tuo orgoglio di rappresentante di un Paese svenduto, colonizzato e al contempo colonizzatore, mandato in malora da un sistema malavitoso parzialmente legalizzato. Raccontami piuttosto di come tu sia orgoglioso di vivere in un Paese tutto da creare, dal quale nessuno/a deve emigrare pur di poter sbarcare il lunario e nel quale chiunque fugge da situazioni peggiori trova una dignitosa accoglienza; che non spreca risorse in dannosissimi progetti faraonici ma che investe nelle infrastrutture realmente necessarie con particolare riguardo all’ecocompatibilità; che non smantella i diritti dei/lle lavoratori/trici, ma li/le vede padroni/e del proprio lavoro; che non manda soldati a fare guerre in giro per il mondo né dichiara guerra ai poveri sul proprio territorio, ma cerca soluzioni il meno violente e il meno coercitive possibili per risolvere le controversie e s’impegna a creare una società solidale di individui liberi ed eguali. Raccontami che non vuoi il mio voto per far approvare più rapidamente le leggi che fanno comodo a te ed ai tuoi compari raccomandati, ma chiedimi piuttosto di impegnarmi in prima persona per mettere in moto il cambiamento che vorrei avvenisse intorno a me, non ciarlare di rappresentanza ma ammetti che l’unica democrazia degna di questo nome è quella diretta e dal basso, ovunque, nei luoghi di studio come nei posti di lavoro come nei quartieri nei quali viviamo. Ma soprattutto rivolgiti a me alla pari dopo esserti ritirato dai tuoi incarichi ed aver rinunciato a tutti i tuoi privilegi, e ricorda che finchè batti sui tasti del patriottismo, dei confini, del progresso fine a se stesso, del prestigio internazionale e del futuro (concetto col quale veniamo eternamente illusi), noi due non parleremo mai la stessa lingua, con buona pace dell’essere entrambi “italiani”. Fino ad allora faresti più bella figura se tu tacessi.