Gerusalemme capitale e la strategia imperialista degli USA in Medioriente.

Trump and NetanyahuLa decisione presa dal presidente USA Donald Trump di riconoscere la città contesa di Gerusalemme come capitale dello Stato di Israele e di spostare in quella città l’ambasciata statunitense in Israele ha scatenato non solo una serie di proteste formali da parte dei governi di mezzo mondo, ma hanche rinfocolato un conflitto, quello fra Israele e Palestina, che non necessitava certo di questa nuova doccia di benzina su un fuoco che arde ormai da almeno ottant’anni. Perchè Trump abbia deciso di sposare l’idea di Gerusalemme capitale se lo chiedono in molti, diversi analisti e commentatori hanno provato a dare una risposta al quesito. Forse che, fallito per ora lo scontro nucleare col rivale nordcoreano Kim Jong “Bimbominkia” Un, Donald “Er Pannocchia” Trump si consoli seminando l’ennesimo casino in Medioriente per poter trascorrere le feste natalizie in modo un pò meno noioso del solito? Battute a parte, le ragioni di questa mossa andrebbero principalmente cercate nella volontà statunitense di recuperare terreno nella competizione imperialista in Medioriente rispetto alla Russia, Paese che finora sembra aver guadagnato più punti d’influenza in seguito all’esito del conflitto militare in (e intorno alla) Siria.

Infatti la scelta di Trump di riconoscere Gerusalemme capitale d’Israele non solo mira a rafforzare l’appoggio della destra religiosa e filo-sionista in politica interna, ma è soprattutto un regalo agli alleati per eccellenza degli Stati Uniti d’America. Un secondo regalo potrebbe essere l’inclusione d’Israele fra gli Stati coinvolti nella spartizione di alcuni territori appartenenti alla Siria al termine del conflitto in corso: la cessione al controllo israeliano per volontà statunitense di un’area demilitarizzata della Siria contigua alle Alture del Golan. In una costellazione di poteri imperialisti locali e internazionali complessa, nella quale la Turchia volta le spalle agli USA rivolgendosi alla Russia, l’Arabia Saudita è in difficoltà nella guerra in Yemen contro i ribelli sciiti filo-iraniani e l’Iran sembra essere lo Stato mediorientale che ha guadagnato di più dal risultato del conflitto siriano, vedendo riconfermato Assad al potere in Siria e affermando la propria influenza in ampie aree dell’Iraq, Israele si rivelerebbe un efficace grimaldello nelle mani del potere statunitense per contrastare l’egemonia della Russia e dei suoi alleati.

In questo contesto il governo statunitense abbandona, almeno per il momento, la soluzione dei due Stati in Israele/Palestina, sostenuta in passato peraltro solo a parole, gettando Gerusalemme capitale come pomo della discordia sul piatto della bilancia degli equilibri mediorientali. D’altronde, se non in maniera strumentale, l’idea di due Stati come soluzione del conflitto israeliano-palestinese non interessa realmente a nessun governo mediorientale né internazionale, ma se anche fosse: due Stati non fanno nemmeno mezza soluzione – tutt’altro! E mentre in questi giorni si riaccende la violenza fra israeliani e palestinesi, in un futuro non troppo lontano la situazione potrebbe addirittura peggiorare trascinando nei conflitti utili alle potenze imperialiste un gran numero di persone che con quegli interessi nulla hanno a che spartire, strumenti di un gioco al massacro al quale ci si deve assolutamente opporre a prescindere da quale potere possa esserne il vincitore.

Cosa vuol dire sconfiggere lo Stato Islamico?

La domanda che mi ronza in testa da tempo è: “come si può sconfiggere lo Stato Islamico?”. A interrogarmi su tale questione non sono solo, infatti ho potuto leggere chilometri di articoli, analisi, interviste e altro ancora tra quanto è stato pubblicato in rete e su carta sull’argomento da due anni a questa parte, non tanto alla ricerca di una risposta definitiva ad un problema oltremodo complesso e in continua evoluzione, quanto nella speranza di poter avere una maggiore comprensione della natura dello Stato Islamico e delle possibili vie percorribili per raggiungere la sua sconfitta. Di certo la volontà di un ritorno ad un passato ideale, quello della comunità di fedeli islamici (umma) del VII secolo o giù di lì, da contrapporre all’islam odierno che i seguaci della branca salafita-jihadista rappresentata dall’IS considerano corrotto, non è nata ieri e non morirà in tempi brevi, se mai morirà. L’IS ha avuto l’astuzia e la perfidia di fomentare conflitti e divisioni di natura etnico-tribale-religiosa già presenti nelle zone nelle quali agisce, compiendo ad esempio, dopo il 2003, attentati in Iraq contro gli sciiti, che si vendicavano sui sunniti spingendo questi ultimi a cercare protezione tra le file dei combattenti di quella che all’epoca si chiamava Jamāʿat al-tawḥīd wa l-jihād, ribattezzata poi “al-Qaeda nel Paese dei due Fiumi”- un sodalizio, quello con al-Qaeda, che dura solo fino al 2006, quando l’organizzazione cambia nuovamente nome in “Mujaheddin del Consiglio della Shura” e, pochi mesi dopo, in “Stato Islamico in Iraq” (al-Dawla al-Islamiyya fi l-‘Iraq, in breve ISI), per divenire nell’Aprile del 2013 al-Dawla al-Islamiyya fi-l-‘Iraq wa-l-Sham, “Stato Islamico in Iraq e Siria (ISIS)” o “Stato Islamico in Iraq e Levante (ISIL)” e infine, con la fondazione del califfato nel Giugno 2014, semplicemente “Stato Islamico” (IS). Considerando solo i continui cambi di nome del gruppo e le diverse alleanze fatte e disfatte nel corso di pochi anni ci si accorge di trovarsi di fronte ad un’organizzazione versatile, che non ha, come al-Qaeda, solo l’obiettivo di un jihad globale, né tantomeno vuole (come ad esempio Hamas) circoscrivere il proprio potere ad un territorio delimitato,  ma ha l’ambizione di impore il proprio potere su tutti i territori da essa controllati militarmente stabilendovi subito la legge islamica (sharia) senza tener conto di confini statali esistenti e differenze di nazionalità: l’idea di Stato di questi personaggi rispetto alla concezione occidentale moderna di Stato-nazione è molto differente e va tenuta sempre presente. Lo Stato Islamico si fa portavoce di un ritorno all’essenza dell’islam e si richiama alla tradizione del califfato abbàside e della discendenza diretta da Maometto del nuovo califfo al-Baghdadi, rifiuta la modernità ma usa gli ultimi ritrovati della tecnologia per propagandare le proprie idee con strategie pubblicitarie degne di un’azienda leader sul mercato, dichiara guerra all’Occidente ma massacra più musulmani/e di chiunque altro, fa proprio il concetto di “scontro delle civiltà” di Samuel Huntington riadattandolo secondo le proprie esigenze. L’IS ostenta la propria crudeltà per intimorire gli avversari e allo stesso tempo applica nei territori sotto il suo controllo misure paternalistiche e caritatevoli atte a tenere a bada il malcontento della popolazione che, più per paura e mancanza di alternative che per convinzione, non sa opporsi efficacemente al potere totalitario del califfato. La forza dello Stato Islamico non si limita solo alla capacità di trarre vantaggi dalle divisioni etnico-religiose (ironia della sorte, uno degli acronimi ufficiosi del gruppo è Daesh, che in arabo significa qualcosa come “portatore di discordia”), ma è anche data dalla propria abilità propagandistica e dalla sua forza economica. Quest’ultima poggia solo in piccola parte su offerte di denaro dall’estero, le entrate principali derivano dal traffico di beni artistici e archeologici e da quello di esseri umani (donne in primis, ridotte a schiave del sesso), dal saccheggio di villaggi e città occupati e dalla rapina (ad es. banca di Mossul), dalle tasse imposte alla popolazione, ma soprattutto dalla vendita di petrolio. Ad essere reclutati per la “guerra santa” sono soprattutto volontari provenienti dall’estero, mercenari a tutti gli effetti.

Un’altro aspetto che gioca a favore dell’IS è la mancanza di unità d’intenti tra i diversi Stati nel trovare una soluzione al conflitto in corso, visto che ciascuna potenza, internazionale o regionale, si impegna a difendere i propri interessi nella regione a scapito di altri Stati e, manco a dirlo, a prescindere dai reali interessi di chi abita la regione nella quale divampa il conflitto: l’Iran (e le milizie hezbollah, sua diretta emanazione in Libano) è legato da decenni alla dittatura della famiglia Assad, lo stesso vale per la Russia, che ha forti interessi economici (come la Cina) e strategici in Siria. La potenze occidentali della NATO sono intenzionate invece a rovesciare il regime di Damasco e in tale ottica hanno foraggiato i gruppi del Libero Esercito Siriano (FSA), tra cui spiccano numerose milizie islamiche, salvo poi bombardare l’IS quando questo ha palesato la propria volontà di conquista a scapito degli interessi occidentali e ha effettuato attacchi terroristici sul territorio europeo e statunitense. La Turchia, pur essendo un Paese NATO, segue invece una propria agenda politica imperialista e, come Arabia Saudita, Kuwait e Qatar, sostiene le fazioni islamiche anti-Assad più che quelle laiche, inoltre impiega le proprie energie principalmente nella repressione anti-curda. I quattro Paesi in questione hanno aiutato in modo più o meno intenso l’IS e continuano tuttora a farlo.

Quali misure sarebbero quindi efficaci per sconfiggere il califfato in Siria e Iraq e il gruppo islamico che lo ha fondato? Serve realmente a qualcosa trattare con Assad, considerato fino a poco tempo fa il problema principale? I Paesi uniti (incollati con lo sputo, direi senza ricorrere a eufemismi) nella lotta contro l’IS dovrebbero inviare truppe di terra o continuare a bombardare? Pensiamo per un attimo agli interessi divergenti tra le potenze in gioco, ai rapporti tra Russia e Turchia, al destino dell’Iraq dopo l’invasione USA nel 2003 (i militari al servizio del dittatore decaduto saddam Hussein, licenziati dagli americani, finirono in gran parte tra le nuove reclute di Jamāʿat al-tawḥīd wa l-jihād, non dimentichiamolo), al fatto che le armi vendute da Paesi europei come la Germania ad Arabia Saudita e Qatar finiscano poi nelle mani dei mercenari del califfato e all’evidenza che i bombardamenti, anche quando non massacrano civili e colpiscono realmente obiettivi militari nemici, non servono a scalfire lo Stato Islamico (due predecessori di Abu Bakr al-Baghdadi, al-Zarqawi e Abu Omar al-Baghdadi, furono uccisi durante attacchi aerei statunitensi)…cosa si potrebbe realisticamente contrapporre alle milizie dello Stato Islamico, ma soprattutto, cosa significa veramente sconfiggere il califfato? Quella dell’IS è una visione del mondo manicheista, come già detto incentrata sullo scontro tra quell’islam definito autentico e il resto del mondo: sconfiggere lo Stato Islamico significa soprattutto sconfiggere questa visione. Alimentare l’odio, la disgregazione sociale e la contrapposizione violenta è fondamentale per creare artificialmente uno scontro di civiltà: rifiutarsi di prestare il fianco a questa logica è un atto di resistenza fondamentale contro i progetti jihadisti. Chi oggi in Europa si batte per l’accoglienza dei profughi, contro l’islamofobia e le logiche delle destre estreme e populiste sta automaticamente rifiutandosi di fare il pieno al serbatoio dello Stato Islamico. Occorrerebbe inoltre provocare diffuse proteste contro l’ipocrisia degli Stati coinvolti per procura nel conflitto, denunciare senza sosta le connivenze, le forniture d’armi, l’acquisto di petrolio, l’apertura mirata delle frontiere per far passare rifornimenti ai miliziani di al-Baghdadi, l’ambiguità e l’inefficacia delle soluzioni militari tanto quanto il fallimento pianificato di quelle diplomatiche. Inoltre ritengo fondamentale l’importanza dell’appoggio a quello che è un progetto politico, sociale ed economico diametralmente contrapposto alla visione del mondo di Daesh, ovvero al “modello Rojava”. In Rojava è in corso una rivoluzione dai tratti libertari che sta cambiando profondamente il volto della regione, una rivoluzione che ha come cardini la parità tra i sessi e tra le diverse etnie e religioni, il benessere collettivo, l’ecologismo, la democrazia di base, l’autogestione, l’antiautoritarismo. Un incubo non solo per l’IS, cacciato dalle milizie popolari volontarie del Rojava da Kobane e da altre città che aveva conquistato o che tentava di conquistare, ma anche per le potenze mondiali che vedono minacciati i propri interessi particolari nella regione da un progetto autonomo, creato dal basso nell’interesse di chi lo vive. La rivoluzione in Rojava avanza nonostante si trovi di fronte a difficoltà non indifferenti di varia natura, ma ha bisogno di tutto l’appoggio possibile, non solo in nome della lotta senza quartiere contro la barbarie di daesh, ma anche per la libertà e l’autodeterminazione di persone- altrimenti destinate ad essere sfruttate, discriminate, oppresse e soggiogate se non direttamente massacrate da poteri locali o esterni- che hanno deciso di alzare la testa e decidere del proprio futuro costruendolo con le proprie mani.

“La NATO contro i Curdi: la Battaglia per A’zaz”.

Fonte: Anarkismo.

“La NATO contro i Curdi: la Battaglia per A’zaz

TRADUZIONE A CURA DI ALTERNATIVA LIBERTARIA/FDCA – UFFICIO RELAZIONI INTERNAZIONALI

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[Castellano] [Català] [English]

La NATO contro i Curdi: la Battaglia per A’zaz
Più si chiude l’accerchiamento contro la reazione fondamentalista armata in Siria, più il regime di Ankara, che l’ha generosamente sponsorizzata per cinque anni di carneficina, inizia a innervosirsi. La Turchia vede vanificarsi i suoi sforzi dopo l’irruzione sulla scena dei guerriglieri curdi delle YPG contro lo Stato islamico, dopo l’intervento russo e dopo il forte coinvolgimento delle milizie Hezbollah nella lotta contro questa alleanza eterogenea di opportunisti e fondamentalisti in armi che non cercano altro che di rovesciare Assad e porre fine alle milizie curde. Ecco dunque che la Turchia ha provveduto a intensificare i suoi bombardamenti contro i Curdi che operano nel nord, mentre appaiono sempre più evidenti da parte turca i segni di tentare un intervento diretto nel conflitto siriano, per allungare la durata di una avventura militare criminale che non ha fatto altro che portare dolore e morte.

E’ a questo punto che cadono le maschere. La NATO, rappresentata dallo stato turco, da due giorni sta bombardando senza pietà le unità di difesa popolare curde YPG che stanno avanzando a nord di Aleppo nelle città di A’zaz e Tal Rifaat [1]. I bombardamenti, che hanno ucciso almeno 23 civili [2] si sono concentrati sulla base aerea di Menagh, conquistata nel 2013 da una coalizione di “ribelli”, tra cui Al Qaeda (il Fronte Al-Nusra) ed altri che poi sono confluiti nello Stato islamico. Menagh è un obiettivo strategico per i rifornimenti alla “ribellione” al servizio delle petrol-teocrazie e degli interessi di USA e UE. Ahmet Davutoglu ha detto che di questi bombardamenti è stato informato il vicepresidente USA Joe Biden, che anche se non approva pubblicamente l’intervento militare, non lo ha condannato né ha provveduto a frenare lo Stato turco, che non agirebbe mai senza l’assoluta certezza del sostegno USA. Ricordiamo che la NATO aveva detto, nel bel mezzo della crisi con la Russia, che avrebbe difeso a spada tratta la “integrità territoriale” dello Stato turco, argomento che il regime di Ankara usa per attaccare i Curdi, dicendo che sono una minaccia per il loro concetto monolitico di unità nazionale. Questo potrebbe essere solo il preludio ad un intervento diretto da parte delle truppe di terra turche, eventualità che Erdoğan aveva già minacciato la scorsa settimana. La facciata della presunta unità contro lo Stato islamico è una farsa: lo Stato turco, e con esso la NATO, puntano alla destabilizzazione e all’estensione del bagno di sangue siriano, e contemporaneamente alla lotta contro il movimento libertario curdo.

Scommettendo sulla strategia dell’incudine e martello, mentre colpisce i Curdi in territorio siriano e rifornisce i gruppi reazionari armati per distruggere le milizie YPG, lo Stato turco colpisce anche i Curdi nel proprio territorio, cercando di schiacciare il loro spirito ribelle. Sono mesi che è stato imposto lo stato di emergenza nei territori curdi dentro lo stato turco, che si susseguono operazioni militari di carattere repressivo, che si bombardano le città. Mentre i media occidentali sono rimasti scioccati dalla distruzione del patrimonio culturale, storico e archeologico messa in atto dallo Stato Islamico in luoghi come Palmyra (Siria) e l’hanno denunciato ai quattro venti, sono rimasti muti davanti alla distruzione sistematica del patrimonio mondiale che lo Stato turco sta compiendo nella regione curda ai suoi confini: in base alle informazioni del Comune di Diyarbakir (02/10/16) il quartiere Sur della città è stato bombardato e le sue mura storiche, patrimonio dell’UNESCO, sono state gravemente danneggiate. E’ stato colpito il 70% degli edifici di questa parte della città antica, mentre 50.000 persone che abitavano nel Sur sono state sfollate dalle loro case dalla violenza e dal terrore di stato.

L’Occidente credeva di poter utilizzare i Curdi per opporsi ai settori fondamentalisti “incontrollabili”, ma non ha fatto i conti con il loro ritorno di fiamma. I Curdi sono un attore politico maturo, con molta esperienza di lotta per poter essere tenuti a rimorchio ed essere considerati come semplici marionette al servizio delle grandi potenze. Quando gli Stati Uniti hanno dato inizio alla loro strategia di ridefinizione del Medio Oriente, immaginando che sarebbero sorti ovunque regimi fantoccio, associati alle teocrazie del Golfo e disposti a dare via il loro petrolio per nulla, non avevano fatto i conti con i Curdi, nè col loro progetto socialista libertario di democrazia radicale; né hanno tenuto conto delle enormi forze popolari che si sarebbero scatenate in seguito alla loro strategia interventista. È vero, non è ancora finita la fioritura di un Medio Oriente libertario annunciato dal potere popolare che proviene dal Kurdistan e che si irradia a tutta la regione; ma è anche vero che gli Stati Uniti non sono stati in grado di imporsi, la loro egemonia nella regione è stata erosa ed ora i loro alleati sono nudi: non c’è stato un momento negli ultimi decenni in cui gli sceicchi sono stati più nervosi di quanto lo siano ora. Da qui nasce la violenza dell’improvvisato califfo di Ankara contro i Curdi.

Così come la battaglia per Kobanê è stata la chiave per invertire l’avanzata dello Stato Islamico, oggi, la battaglia per A’zaz è la chiave per sradicare il fondamentalismo armato e per difendere l’espansione, il consolidamento e il diritto di esistere del progetto di autonomia curdo, libertario e confederale.

José Antonio Gutiérrez D.
15 Febbraio 2016


[1] http://www.aljazeera.com/news/2016/02/turkey-shells-kurdish-held-airbase-syria-aleppo-160213160929706.html
[2] http://aranews.net/2016/02/dozens-of-civilian-casualties-reported-under-turkish-bombardment-northern-syria/ “

Come e perchè la Turchia supporta l’ISIS.

I movimenti politico-religiosi islamici sono stati usati dalle potenze occidentali in diversi luoghi e occasioni, soprattutto dall’inizio della guerra fredda tra USA e URSS, come diga all’espansione di idee comuniste, socialiste o semplicemente progressiste, come strumento di controllo sociale e politico sulle popolazioni locali e come bacino di reclutamento anche per forze paramilitari e terroristiche. La Turchia in particolare non è nuova a questo genere di cose, in bilico fin dai tempi della fondazione della repubblica ad opera di Kemal Atatürk tra severo laicismo e spinte alla (re)islamizzazione, ha attraversato fasi durante le quali le frange islamiche più radicali sono state foraggiate dai potenti del Paese con il benestare degli USA e della CIA. Tanto gli Hezbollah sono stati impiegati nella guerra contro le popolazioni curde in Turchia accanto ai fascisti del partito MHP, quanto movimenti come quello di Fetullah Gülen (che si presenta come democratico e moderato, ma ad un’analisi attenta si rivela essere uno dei motori della nuova ondata di islamizzazione in Turchia) hanno ricevuto sostegno e legittimazione non solo dal partito di Erdogan, ma anche da autorità politiche e religiose internazionali. Il problema per le potenze occidentali, insomma, nasce solo quando lo strumento, in questo caso il fondamentalismo islamico, sfugge al controllo e/o non adempie più alle funzioni richieste da chi si erge, a volte con troppe pretese, al ruolo di burattinaio. L’articolo che segue, tratto da Z-Net Italy, illustra alcuni aspetti dell’appoggio offerto dal governo dell’AKP di Erdogan all’organizzazione terroristica Daesh (ISIS):

 “Il segreto di Pulcinella della collaborazione tra la Turchia e lo Stato Islamico

rojava

Di Yasin Sunca

29 Novembre 2015

L’espansione del gruppo terrorista denominato Stato Islamico è sostenuto dall’appoggio risoluto della Turchia, insieme ad alcuni altri stati.

Fin dall’inizio della guerra civile in Siria, il governo turco dell’AKP (Partito per la Giustizia e lo Sviluppo)  ha cercato di perseguire una politica estera informata e motivata dalla sua mentalità esclusoria riguardo alle sue comunità etniche e religiose e anche ai gruppi progressisti e rivoluzionari in Turchia. Il governo dell’AKP, allo scopo di reprimere e contrastare qualsiasi  successo politico  dei Curdi che stanno costruendo un progetto politico radical-democratico in Siria, appoggia qualsiasi tipo di gruppo estremista, compresi il gruppo Stato Islamico, il Fronte al-Nusra, ecc.

Il motivo per cui la Turchia appoggia il Gruppo Stato Islamico

La rinascita dell’approccio neo-Ottomano del governo dell’AKP, che fondamentalmente implica il diventare una regione egemone, e oltre alle questioni socio-politiche della Turchia storicamente radicate, ha spinto il  governo verso una politica regressiva strategicamente programmata che alcuni indicano sia sull’orlo del collasso.

Prima della cosiddetta “Primavera Araba”  il primo ministro allora in carica,  Ahmet Davutoğlu, aveva introdotto una nuova, più aggressiva politica estera intesa a dominare la regione. Ma considerando se stesso come il “grande fratello” della regione, l’AKP credeva che la Turchia potesse essere uno stato egemonico per coordinare l’area insieme alle potenze imperialiste occidentali. In base a questo ragionamento, l’AKP ha attuato una politica a due facce. Da una parte, la Turchia è intervenuta nei paesi della regione attraverso una serie di organizzazioni islamiste, che andavano da diversi rami della Fratellanza Musulmana alle organizzazioni estremiste jihadiste, per rimodellare la formazione della regione nel loro migliore interesse,  dal 2007 in poi. D’altra parte, il governo dell’AKP tentava di costruire buoni rapporti con i poteri regionali allo scopo di far avanzare l’influenza economica e culturale della Turchia, che è stata definita come “soft power turco” dall’attuale   primo ministro Davutoğlu, nel suo controverso libro intitolato “Strategic Depth” (Stratejik Derinlik) , “Profondità strategica”. Questa politica del governo dell’AKP è stata  appoggiata dalle potenze imperialiste occidentali fino alla fine del 2012, poiché cercavano un’alternativa all’Islam politico radicale nel paese.

Tuttavia, per prima cosa gli sviluppi in Egitto e in Tunisia nel contesto della cosiddetta “Primavera Araba” e, secondo, la guerra civile in Siria, hanno cambiato moltissimo tutto per l’AKP nella regione e anche nei loro rapporti con le potenze imperialiste, rendendo visibile il loro impegno/collaborazione con le organizzazioni terroriste/jihadiste.

La Turchia ha eccessivamente appoggiato, facilitato e collaborato con vari gruppi jihadisti, compreso lo Stato Islamico, allo scopo di dare forma al futuro della Siria in linea con i suoi interessi. Per ironia, la collaborazione tra la Turchia e lo Stato Islamico è emersa  in parte grazie alla divisione delle potenze occidentali in schieramenti diversi riguardo alla guerra in  Siria. Durante il vertice del G20 tenutosi in Turchia, il presidente russo Vladimir Putin, che non vuole perdere il suo ultimo alleato nella zona del Mediterraneo, cioè Bashar Assad, ha citato circa 40 nazioni che sostengono  Daesh (ISIS), una delle quali, come il mondo ha appreso in seguito, è la Turchia.

Come detto sopra, la questione curda in Turchia è un fattore determinante per la politica estera della Turchia dalla formazione  della repubblica. Perciò la diplomazia turca è stata orientata a impedire categoricamente qualsiasi genere di progresso politico curdo. Questo si può osservare sia nel Kurdistan iracheno in seguito all’invasione statunitense dell’Iraq che nel Rojava (Kurdsitan Occidentale, Siria Settentrionale), dove i Curdi hanno ottenuto l’attenzione internazionale grazie alla loro eroica resistenza seguita da una vittoria storica contro il gruppo Stato Islamico a Kobanê. Dal momento che qualsiasi progresso politico dei Curdi altrove, catalizzerebbe la lotta dei Curdi nel Kurdistan Settentrionale (Turchia Orientale) contro la Turchia, il blocco dei Curdi a livello internazionale è diventata una delle massime priorità per lo stato turco.

A questo riguardo, il primo aspetto della resistenza curda contro lo Stato Islamico di fronte alla collaborazione tra la Turchia e tale gruppo estremista, è che il governo dell’AKP ha fatto una guerra per procura contro i Curdi del Rojava tramite il gruppo terrorista islamista allo scopo di bloccare o almeno di contenere un successo curdo in Siria. Il governo dell’AKP è anche responsabile degli attacchi dello Stato Islamico contro i Curdi e le persone di sinistra in Turchia e di non aver condotto un’effettiva indagine, malgrado tutte le prove. Lo Stato Islamico ha compiuto tre attacchi con le bombe: a Diyarbakir durante una manifestazione elettorale del partito di sinistra filo-curdo HDP; a Suruç, una città sul confine tra Turchia e Siria, e ad Ankara, durante una dimostrazione pacifista.

Il secondo aspetto è che     la resistenza curda nel  Rojava ha smascherato questa sporca collaborazione, specialmente durante la guerra a Kobanê. Infatti, la collaborazione della Turchia con i gruppi jihadisti e il loro utilizzo, specialmente contro i Curdi, non era iniziata con lo Stato Islamico e non era venuta fuori dal nulla. La Turchi l’ha fatto nell’ambito del suo approccio interventista al Medio Oriente che si può far risalire all’inizio del 2011 quando  appoggiava un altro gruppo jihadista, il Fronte Nusra, il ramo siriano di Al-Qaida che non è meno crudele del gruppo Stato Islamico. In seguito a una divisione interna nel Fronte Nusra, questo è stato rimpiazzato dallo Stato Islamico che fin da allora ha continuato a fare attacchi contro la terra curda liberata,  con l’aiuto del governo AKP. La collaborazione tra AKP e lo Stato Islamico continuerà fino a che uno avrà bisogno dell’altro. Ma c’è ora un equilibrio del terrore per la Turchia, creato dalla Turchia. Nel caso che questo paese interrompa la collaborazione con il gruppo Stato Islamico, e alquanto probabile che il gruppo terrorista gli  si rivolterà contro, dal momento che l’unica porta per le sue necessità logistiche è il confine turco.

In che modo la  Turchia appoggia il Gruppo Stato Islamico

La Turchia è in  collaborazione con lo Stato Islamico sia politicamente che ideologicamente e questa si espande in molti canali come è stato elencato in dettaglio

Da David L. Phillips sull’Huffington Post. Lo  Stato Islamico ha servito gli interessi turchi militarmente combattendo i Curdi, mentre il governo dell’AKP facilitava logisticamente e finanziariamente  la campagna omicida dello Stato Islamico. Il governo dell’AKP forniva anche equipaggiamento militare allo Stato Islamico. Tre camion carichi di armi si sono fermati nella regione di Adana il 19 gennaio 2014. Malgrado la smentita del governo, era chiaro che queste armi sarebbero state consegnate allo Stato Islamico. Secondo molti documenti venuti alla luce e in base alla copertura dei media, oltre a questi tre, ci sono stati molti altri camion di armi consegnate allo Stato Islamico, cosa confermata anche da video e foto fatte dai combattenti curdi dell’YPG (Unità di Difesa del Popolo)  e dell’YPJ (Unità di Difesa delle Donne). Inoltre il suolo turco era usato dai Sauditi per il trasporto di armi all’IS.

Il governo dell’AKP ha anche facilitato l’attraversamento del confine per i membri dello Stato islamico di recente reclutati, secondo un documento firmato dal ministro dell’Interno , Muammer Güler il 13 giugno 2014. E’ stato anche affermato dai media internazionali che il governo di Erdoğan  ha chiuso un occhio sulla “entrata per la jihad” attraverso il confine del pese con la Siria. Molti emendamenti ufficiali e domande nel Parlamento della Turchia proposti dai partiti di opposizione per avere una risposta ufficiale del governo riguardo alle facilitazioni per l’attraversamento del confine date ai jihadisti, sono rimaste senza risposta. Tra  molte di queste domande, il Membro del Parlamento del partito filo-curdo HDP, Ibrahim Ayhan, ha chiesto al ministro se il governo forniva rifugio ai membri dello Stato Islamico nel campo profughi di Akçakale.

Il gruppo dei combattenti  dello Stato Islamico, compresi i comandanti di alto rango, hanno ricevuto assistenza medica e sono stati curati negli ospedali delle città di confine della Turchia. Il giornalista turco Fehim Taştekin sostiene che il governo ha permesso l’acquisto e la vendita di petrolio proveniente dal territorio dello Stato Islamico. Inoltre, secondo altre fonti, alcuni dei membri della famiglia del presidente

Erdoğan, sono coinvolti nel commercio del petrolio dello Stato Islamico.

Nel trattare di questo, è fondamentale tenere a mente che un intervento militare internazionale non servirà a nulla se non al rafforzamento dello Stato Islamico e ad analoghi gruppi terroristi. Invece, appoggiare le forze di terra che combattono per la loro terra e per la loro libertà sarebbe del massimo rendimento.

Infine, essere di continuo solidali con l’esperienza unica  radical-democratica nel Rojava, al centro di una regione piena di violenza e di atrocità, è una responsabilità per tutto il globo e il modo migliore per andare avanti.

Yasin Sunca  è un attivista politico curdo e ricercatore indipendente. Seguitelo su Twitter @kurdeditir

Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo”

 

Il Kurdistan chiama: rispondiamo!

Le terre comprese tra Iran, Irak, Siria e Turchia abitate prevalentemente dalla popolazione curda sono da decenni sotto il fuoco incrociato della repressione dei diversi Stati ai quali ufficialmente appartengono le rispettive porzioni di territorio. La Turchia in particolare ha un conto in sospeso con i curdi: dopo aver tentato di assimilarli senza successo, facendo largo uso della più brutale violenza nei casi di reticenza o resistenza da parte della popolazione civile, avendo ancor meno successo nella lotta contro la guerriglia creatasi come conseguenza al totale rifiuto di soluzioni diplomatiche e pacifiche da parte del potere dello Stato turco, dopo aver giocato la carta dell’appoggio nemmeno troppo velato ai fondamentalisti islamici dell’ISIS ( o, per chiamarli con il termine dispregiativo più appropriato, Daesh), oggi finge di entrare in guerra contro i combattenti del califfato mentre in realtà bombarda le postazioni dei/lle resistenti curdi/e, che dal canto loro avevano di recente cessato qualsiasi ostilità nei confronti delle autorità turche. Allo Stato turco, fortemente centralista e apertamente autoritario, non va giù che in Kurdistan sia ormai in atto, da almeno un decennio a questa parte, un processo di autogestione comunale profondamente democratico, che coinvolge organizzazioni di base composte dagli/e abitanti di villaggi e quartieri delle città. L’obiettivo di questo processo non è quello di creare uno Stato curdo indipendente, bensì quello di autogestire le risorse comuni in modo orizzontale, secondo il principio della democrazia di base, per far fronte alle esigenze della popolazione di un’area geografica particolarmente povera e oppressa. Anche l’abbandono da parte del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) dell’ideologia marxista-leninista a favore di una concezione tendenzialmente socialista libertaria, simile a quella espressa nelle opere dell’anarchico statunitense Murray Bookcin, “padre” di concetti quali ecologia sociale e municipalismo libertario, ha avuto un ruolo importante nell’influenzare le prospettive di cambiamento sociale, economico e politico. Col passare del tempo sono stati creati nel Kurdistan “turco” collettivi e cooperative nel settore agricolo, edilizio, scolastico, sanitario, culturale ed artigianale, organizzazioni di base giovanili e femminili, realtà che si coordinano tra loro e che collaborano con le amministrazioni comunali “amiche” e disposte a sostenere lo sviluppo dell’autogestione, secondo la logica -sempre citando Bookchin- del conflitto Comune-Stato; si tenta un’approccio produttivo che esuli dalla logica capitalista, ancora relativamente poco sviluppata in quelle terre; si fa ricorso a comitati di mediazione e pacificazione per risolvere diatribe e far fronte al crimine, alle violenze private ed alle faide familiari; si creano regole proprie, comunemente decise, per aggirare quelle eteronome dello Stato centrale;  le donne si integrano, non senza dover superare grossi ostacoli ma in ogni caso con enorme successo, nei processi decisionali, si rendono economicamente indipendenti, imparano a difendersi dalle violenze e ad acquisire autostima e consapevolezza scardinando i residui della vecchia società patriarcale, divenendo il motore della rivoluzione sociale in corso- il tutto con un’approccio ecologista.  Di per sé è straordinario che questo processo di cambiamento, lento ma inesorabile, sia andato avanti fino allo scoppio del conflitto in Siria e all’aggressione terroristica di Daesh, ma è ancor più straordinario che tutto ciò vada avanti nonostante la guerra oggi in atto. Un processo simile coinvolge i cantoni autonomi curdi ufficialmente appartenenti allo Stato siriano, che implementano il confederalismo democratico in una situazione a dir poco proibitiva. I curdi e chi lotta al loro fianco al di lá di divisioni etniche o religiose, armeni, yazidi, assiri, aramei, arabi, turchi e turcomanni, cristiani o musulmani, aleviti o zoroastriani o atei che siano, necessitano di tutto il sostegno possibile nella loro lotta contro l’aggressione dei fondamentalisti islamici di Daesh e dei governi degli Stati che tentano di impedire la loro emancipazione. Ci sono momenti nei quali i dibattiti su aspetti teorici di un processo di cambiamento sono indispensabili e si può tranquillamente discutere sulla differenza fra “lotta di classe” e “lotta popolare”, fra abolizione della proprietà privata e uso comune di tale proprietà, fra abolizione dello Stato e appoggio alle istituzioni locali in chiave decentralista; ci sono invece momenti nei quali la  domanda che ciascuno/a di noi dovrebbe porsi urgentemente è: come possiamo appoggiare il cambiamento in corso, come possiamo sostenere la lotta dei curdi e delle popolazioni minacciate dai fondamentalisti islamici e dalla violenza militare dello Stato turco, come dare una mano a profughi e sfollati? Io avrei un paio di modesti suggerimenti, basati sulla mia esperienza personale di attivismo politico e su azioni tuttora in corso o svoltesi nei mesi passati in diverse parti del mondo. Suggerimenti forse vaghi, generici, alcuni più efficaci di altri, chissà, ma restare fermi a guardare non è un’opzione accettabile non dico per un anarchico/a, ma per chiunque conservi ancora un briciolo di umanità, di solidarietà, di sincero amore per la libertà. Inoltre penso che più si rafforza la solidarietà internazionale di chi ha a cuore la rivoluzione sociale libertaria e meno peseranno alla fine del conflitto gli aiuti “sbagliati” (per quanto sembrino ora decisivi almeno su un piano militare), quelli dei Paesi Occidentali sempre interessati al proprio tornaconto nazionale ed al controllo politico ed economico di intere aree geografiche a prescindere dalla volontà delle popolazioni che le abitano…. Pertanto: Che fare?

Informare ed informarsi:Risultati immagini per solidarity kurdistan donations

i massmedia mainstream riportano solitamente notizie e dichiarazioni  di fonte turca. Diamo voce a chi appoggia la resistenza curda, diffondiamo interviste, comunicati, video, aggiornamenti. Usiamo tutti i mezzi a nostra disposizione, soprattutto internet, ma non dimentichiamo la comunicazione diretta con le persone “in carne e ossa”. Spieghiamo ad esempio non solo quanto sia importante la lotta contro Daesh, ma anche e soprattutto chi sta lottando VERAMENTE contro i fondamentalisti islamici e che tipo di cambiamento è in corso nella società curda. Se possibile andrebbero organizzate conferenze e dibattiti pubblici con persone che hanno una conoscenza il più possibile approfondita della questione curda;

– Protestare e fare pressione:

Risultati immagini per we stand in solidarity with freedom fighters of Rojavain numerose città sono state organizzate proteste sotto le ambasciate e i consolati turchi, contro le politiche assassine del partito AKP di Erdogan, in solidarietà ai/lle combattenti curdi, contro il fondamentalismo islamico. E-Mail e lettere di protesta di massa indirizzate alle rappresentanze istituzionali turche, boicottaggi ben organizzati e ampiamente pubblicizzati, manifestazioni e presidi possono essere metodi di pressione efficaci e danno la possibilitá di portere all’attenzione pubblica questioni altrimenti rimosse o manipolate dai massmedia:

-Raccogliere fondi:

da diversi mesi a questa parte sono state messe in campo svariate iniziative atte a raccogliere denaro necessario per la ricostruzione delle infrastrutture, per procurare beni di prima necessità agli/lle sfollati, per la sanità, per sostenere progetti e associazioni locali esistenti anche da prima dello scoppio guerra, ma anche per acquistare armi necessarie all’autodifesa della popolazione. Sono stati organizzati concerti, cene benefit, tombole, mercatini, collette, sono state prodotte e vendute magliette che oltretutto servono anche a comunicare un messaggio chiaro e a stimolare la curiositá e un possibile dialogo con le persone che incontriamo quotidianamente. A volte basta davvero poco, anche solo un barattolo con su scritto “offerte per i/le combattenti curdi in Rojava” durante una festa. I fondi possono essere destinati a una o più organizzazioni che operano sul posto e usati per diversi scopi, nel dubbio contattare gruppi organizzati di persone che si recano in Kurdistan o che hanno contatti diretti con le persone del posto. Per chi avesse bisogno di qualche esempio dalla Germania può cliccare qui.

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“Ecos del desgarro”: un documentario sulla rivoluzione siriana.

“Ecos del desgarro” (Echi dello strappo o Echi della ferita), un documentario in spagnolo, inglese e arabo realizzato dal collettivo libertario spagnolo La Cámara Negra, racconta lo scoppio e gli sviluppi dell’attuale rivoluzione in Siria attraverso le parole ed il materiale audio e video di attivisti/e politici/che in esilio in Turchia.

Interviste sul (e dal) Kurdistan: dalla resistenza ad una nuova forma di società.

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Spesso non è facile reperire informazioni attendibili e di prima mano sugli sviluppi della situazione in Rojava, sulla natura dei cambiamenti in corso nel kurdistan siriano e sulla situazione e le prospettive rivoluzionarie dei curdi in Siria. L’ultima buona notizia giunta nei giorni scorsi è che la città di Kobane è ora nelle mani delle forze di autodifesa popolare e le truppe dello Stato Islamico si sono ritirate, ma è necessario andare oltre i resoconti delle battaglie sul piano militare e le notize fornite dai media mainstream che ignorano volutamente l’esistenza di milizie popolari di fondamentale importanza come YPG e YPJ e non parlano dell’autogestione in chiave emancipatoria della comunità locali. Soprattutto negli ambienti anarchici/libertari/antiautoritari crescono attenzione e dibattito sulla genuinità della rivoluzione sociale in Rojava e c’è chi, come David Graeber, arriva addirittura a fare paralleli tra la rivoluzione spagnola del 1936 e l’attuale situazione nel kurdistan siriano.

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Le informazioni su quella che è la realtà quotidiana, le forme di organizzazione democratiche di base, il ruolo delle organizzazioni politiche, le prospettive emancipatorie, egualitarie e antiautoritarie, vanno cercate tra quelle fornite da chi vive nei territori interessati o da essi proviene o chi è stato in tempi recenti in quelle zone, resoconti attendibili e analisi verosimili dei fatti necessari per avere un quadro più completo della situazione in corso e per consentirci eventualmente di immaginare sulla base degli eventi in corso i possibili sviluppi futuri, ma anche per avere un punto di partenza nel caso si voglia contribuire concretamente ad aiutare, per quanto possibile, gli sforzi di chi combatte per quella che noi riteniamo essere una causa condivisibile. Ho deciso perciò di segnalare alcuni resoconti diretti e interviste che trattano gli aspetti dei quali ho appena accennato. Penso che le eventuali divergenze su alcuni fatti e opinioni riportati e qualche imprecisione (dovuta, immagino, a errori di traduzione o di mancata correzione dei testi) non intacchino la validità né l’importanza delle testimonianze:

Il resoconto di Zaher Baher dalla sua visita in Rojava (riportato sul sito di Barbara Collevecchio);

Intervista col Kurdistan Anarchist Forum sulla situazione in Iraq/Kurdistan (riportato sul sito di Barbara Collevecchio);

Intervista al comandante delle YPG a Serêkaniyê (dal sito dell’ onlus Ufficio di informazione del Kurdistan in Italia);

Intervista al giornalista Ozgur Amed (dal sito ZNET Italy);

Intervista a compagni e compagne del DAF (pubblicato su Umanità Nova);

Intervista al fumettista Zerocalcare al ritorno dal suo viaggio in Rojava (dal sito Il Becco del Tucano).

Curdi vs. Stato Islamico: un pò di chiarezza.

Già da diverse settimane avrei voluto buttar giù alcune riflessioni sugli avvenimenti in corso tra il nord dell’Iraq e la Siria, dove imperversa attualmente una guerra tra le popolazioni curde e i fondamentalisti islamici dell’ISIS (Stato Islamico in Siria e Iraq) o IS che dir si voglia. Al centro di tali riflessioni ci sarebbero state, come spesso accade quando scrivo su questo blog, più domande che risposte: da dove viene l’ISIS e da chi è stato appoggiato e aiutato a crescere militarmente questo schieramento? Qual’è il ruolo delle potenze occidentali (USA in primis) e degli altri Paesi dell’area mediorientale nell’attuale conflitto? Perchè le simpatie e l’appoggio da parte degli/lle anarchici/che dovrebbe andare ai curdi, oltre che per il fatto che essi lottano per la propria sopravvivenza minacciata da gente che porta avanti idee a progetti per noi a dir poco ripugnanti? E il PKK, non si trattava di un’organizzazione di stampo stalinista, lontana anni luce da concezioni e progettualità libertarie? A dare le risposte a queste ed altre domande ci pensa un articolo tra i migliori che io abbia letto di recente, conciso (sì, è ben difficile esaurire un argomento del genere in uno spazio più breve!) ma al tempo stesso abbastanza completo, che riporto di seguito, tratto dal sito Anarkismo:

“Tra le macerie dell’imperialismo USA:

Il PKK, le YPG e lo Stato Islamico


Le notizie che vanno per la maggiore raccontano le storie degli orrori commessi dallo Stato Islamico (IS) in Siria ed in Iraq ma anche di come gli Stati Uniti vogliano apparentemente mettere fine a questi orrori per ragioni umanitarie. Quello che non viene mai detto dai media privati e di Stato è da dove viene l’IS, quali sono le vere ragioni di questo nuovo intervento degli USA in Medio Oriente, della volontà degli USA di isolare e distruggere le uniche due forze che stanno realmente combattendo contro l’IS: il PKK e le YPG.

Come è nato lo Stato Islamico

L’evoluzione dell’IS da oscuro gruppo a forza di rilievo in Medio Oriente risale all’invasione ed occupazione statunitense dell’Iraq nel 2003, che portò alla morte di 1 milione e 400mila persone e ad atti di brutalità nei confronti della popolazione. Cosa che naturalmente ha alimentato sentimenti anti-USA in tutto il paese.

L’occupazione statunitense dell’Iraq si basava sulla tattica del divide et impera. Allo scopo di indebolire le possibilità di una resistenza unitaria all’occupazione, gli USA hanno appoggiato l’autonomia di parti del popolo curdo nell’Iraq settentrionale sotto il governo del Governo Regionale Curdo (KRG), guidato da un corrotta classe dominante filo-USA. Gli Stati Uniti hanno anche favorito la violenza settaria in Iraq, sempre per rendere difficile ogni unità popolare contro l’occupazione. In questo quadro rientra l’appoggio ad un governo fantoccio – nonostante fosse guidato dalla linea dura dei politici sciiti più vicini al regime iraniano – che ha represso ampi settori della popolazione sunnita.

E’ in questo contesto che l’IS si è sviluppato come forza sotto la guida di Abu Bakr al-Baghdadi. Molte persone, in particolare sunniti, si sono unite all’IS perché lo vedono come l’unica organizzazione capace di difendere la popolazione sunnita e di resistere tanto all’occupazione USA quanto al governo fantoccio di Baghdad. Ecco perché l’IS ha guadagnato un sostegno di base nonostante sia un’organizzazione brutale ed autoritaria.

Benché l’IS sia un’organizzazione anti-imperialista ed anti-USA, lo è da una posizione reazionaria e di estrema destra. Da tempo persegue lo scopo di instaurare uno stato totalitario sotto la sua dittatura che incorpori ampie porzioni del Medio Oriente. Nel perseguimento di questi suoi ambiziosi scopi politici l’IS si è fatto una storia di atrocità ed omicidi di massa commessi contro i suoi oppositori, siano essi musulmani o membri di rivali gruppi jihadisti. Tutti quelli ritenuti come loro oppositori sono stati trattati con estrema violenza, specialmente coloro dimostratisi riluttanti o non disposti ad abbracciare la loro ideologia estremista. Nella loro politica è centrale la sistematica oppressione delle donne. Tale visione misogina si è tradotta nella riduzione in schiave sessuali delle donne catturate.

Inizialmente, quando l’IS iniziava ad essere una forza in Iraq, gli USA chiusero deliberatamente un occhio, anche se c’erano le prime atrocità, perché gli Stati Uniti volevano che l’Iraq restasse diviso. Quando gli USA se ne sono andati dall’Iraq nel 2011, l’IS controllava già parti del paese.

L’intervento in Siria getta benzina sul fuoco

Non contenti di aver destabilizzato l’Iraq, nel 2011 gli USA iniziarono ad usare le proteste di massa e la guerra civile che ne è seguita in Siria per destabilizzare ed indebolire il regime di Assad. Non si trattava ovviamente di un loro appoggio alle proteste ed alle frazioni in lotta contro il regime di Assad nella guerra civile, perché non era loro interesse sostenere la domanda di democrazia in Siria, quanto piuttosto per gli USA di difendere i propri interessi imperialisti. Era evidente che per gli USA il regime di Assad era troppo vicino alla Russia ed all’Iran. Infatti, gli USA non volevano destabilizzare il regime siriano per la sua brutalità – di ieri e di oggi – quanto perché il governo siriano non era del tutto in linea (per sue proprie ragioni) con i programmi dell’imperialismo USA nella regione.

Quando nel 2011 in Siria scoppiarono le proteste popolari contro il regime, nel contesto della Primavera Araba e sulla base di un reale desiderio di mettere fine alla dittatura di Assad per creare una società migliore nel paese, gli Stati Uniti si attivarono per trarre vantaggi dalla nuova situazione. Benché le proteste di massa in Siria non fossero alimentate dagli USA, questi le hanno usate e retoricamente sostenute per cercare di far progredire i loro piani.

Alla brutale repressione delle proteste da parte del regime di Assad è seguita la guerra civile, in cui sono emersi vari gruppi armati. Alcuni erano jihadisti, altri più laici. Alcune frazioni dell’esercito al comando di generali corrotti hanno abbandonato il regime agli inizi della guerra civile costituendosi in Esercito Siriano Libero (FSA), subito rifornito di armi dagli USA.

Ma, nonostante le posizioni anti-USA, gli Stati Uniti hanno armato anche vari gruppi estremisti islamici e jihadisti che erano entrati in guerra contro il regime siriano. Ben presto molti miliziani di questi gruppi estremisti sono entrati nell’IS (che agli inizi era vagamente legato ad al-Qaeda, per poi distaccarsene per differenze politiche e tattiche). Alcune delle più importanti forze combattenti che sono entrate nell’IS erano milizie con esperienze di combattimento in Cecenia, a cui gli USA hanno fornito armamenti appena si sono unite alla guerra in Siria. Come risultante di questo processo in Siria, l’IS è diventato una della più potenzi forze militari – essendosi dotato di armamenti tra cui i carri armati T-55 e T-72 ed i missili SCUD presi dalle altre forze e di equipaggiamento di origine USA portato dalle altre forze jihadiste – e dal 2013 è padrone di parti della Siria, in particolare della città di al-Raqqa.

Nelle città siriane sotto il suo controllo, come al-Raqqa, l’IS ha instaurato una dura dittatura. Chiunque viene visto come un oppositore viene eliminato, anche tramite esecuzioni di massa. Il controllo dell’IS non viene esercitato solo sulla base della paura, ma anche sull’erogazione di welfare. L’IS ha effettivamente nazionalizzato alcune industrie, il settore bancario, lasciando anche che alcune industrie rimanessero alla proprietà privata. Ha anche imposto tasse più alte per i ricchi, sviluppando con tali proventi maggiori servizi sociali. Nonostante, dunque, sia una forza di estrema destra, l’IS si è guadagnato con tali misure il sostegno delle popolazioni delle aree siriane sotto il suo controllo.

Nel 2014, l’IS ha usato le sue basi in Siria per lanciare nuove operazioni militari in Iraq. Nel corso di questa nuova fase della sua campagna militare in Iraq ha sconfitto l’esercito iracheno in diverse parti del paese, appropriandosi di grandi quantità di moderni armamenti USA che erano stati forniti all’esercito iracheno. Quando l’IS ha assediato pozzi di gas e di petrolio iracheni di importanza per gli USA ed è divenuto una minaccia militare per il governo iracheno e per il KRG alleati degli ISA, allora l’IS è diventato un problema per gli Stati Uniti.

Il sostegno al KRG ed al governo iracheno

Per assicurarsi la riconquista dei pozzi di gas e di petrolio occupati dall’IS e per fermarne l’avanzata in Iraq, gli Stati Uniti stanno fornendo servizi di intelligence ed armi al KRG ed al governo iracheno. Gli USA hanno anche condotto attacchi aerei contro l’IS in Iraq e di recente in Siria su aree come al-Raqqa. La realtà però è che l’esercito iracheno ed il KRG sono stati inefficaci contro l’IS. Il che ha portato gli USA a dispiegare delle forze speciali in Iraq, apparentemente a supporto dell’esercito iracheno e dei curdi del KRG, ma in realtà per affrontare direttamente l’IS. Certo è che se il governo iracheno ed il KRG continuano a dimostrarsi inefficienti contro l’avanzata dell’IS, gli USA potrebbero essere costretti ad impiegare altre truppe per cercare di fermare l’IS.

Le forze progressiste

Ci sono, comunque, forze progressiste – il PKK e le YPG – in Iraq ed in Siria che si sono dimostrate efficaci, ancorché male armate, nel contrastare l’IS. Ma gli USA si rifiutano di appoggiare il PKK e le YPG contro l’IS, a causa della politica progressista di questi due gruppi.

Il PKK ha una lunga storia di lotta di liberazione nazionale contro la Turchia, alleato degli USA, ed è considerato da questi un’organizzazione terroristica. Nel corso di questa guerra, i quadri del PKK hanno acquisito una vitale esperienza militare.

Recentemente, il PKK ha combattuto l’IS per fermarne l’espansione nel nord dell’Iraq dove si stava rendendo responsabile di atrocità contro le popolazioni residenti. Lo scorso agosto il PKK si è mobilitato dalla Turchia in Iraq per fermare il massacro dei rifugiati curdi da parte dell’IS. E continuano a mantenere posizioni chiave nell’Iraq settentrionale.

Nonostante l’iniziale influenza maoista, il PKK e soprattutto il suo fondatore Abdullah Öcalan sono stati fortemente influenzati da alcune idee – sebbene non tutte – del socialista libertario Murray Bookchin. Lo stesso Bookchin che agli inizi della sua vita politica era uno stalinista, si è poi spostato su posizioni anarchiche adottando una forma di socialismo libertario fondato sul comunalismo e sul municipalismo libertario. Per cui, anche se il PKK nasce come gruppo di guerriglia marxista-leninista, a partire dai primi anni 2000, è andato adottando le idee di sinistra libertaria, cuore degli scritti di Bookchin.

Avendo parte di esso fatto dei passi verso una forma di libertarianismo di sinistra, il PKK ha assunto posizioni critiche sullo Stato come struttura, ora visto come oppressivo, gerarchico ed in ultima analisi difensore di una minoranza dominante e del capitalismo. Lo scopo del PKK ed il fine delle sue lotte è una rivoluzione nel Medio Oriente, cosa che induce gli USA a diffidare. All’interno di questa rivoluzione ed in linea con il suo orientamento da sinistra libertaria, il PKK ha esplicitamente stabilito che non è suo scopo creare uno stato, bensì un sistema di democrazia diretta che verrebbe istituito da assemblee popolari, consigli e comuni confederati tra loro. Questo sistema è stato chiamato “confederalismo democratico”. Sebbene questo sistema sia anti-statalista, reputi lo Stato quale ostacolo decisivo alla libertà ed all’uguaglianza e fornisca una visione dell’auto-governo basato sulla democrazia diretta, permangono degli elementi di ambiguità tattica sul fatto se lo Stato debba essere esplicitamente liquidato nel processo rivoluzionario (come sostengono gli anarchici) o se lo Stato possa semplicemente ritirarsi all’interno di un espandersi della democrazia diretta, senza necessariamente essere liquidato.

Oltre ad essere per una forma di auto-governo libertario, il PKK è anticapitalista e punta a cercare di costruire un’economia che sia gestita per soddisfare i bisogni del popolo. Per cui si punta a creare un’economia più ugualitaria, ma non è stato stabilito se tale economia sarebbe basata sull’autogestione dei lavoratori e sulla socializzazione dei mezzi di produzione e della ricchezza. Perciò, sebbene sia stato fortemente influenzato da idee di sinistra libertaria e benché si tratti di un movimento progressista (anche alla luce della forte presenza femminista), il PKK non può essere considerato come del tutto anarchico.

Gli USA, ovviamente, non prendono bene la politica progressista del PKK dal momento che se una rivoluzione basata sulle idee del PKK dovesse prendere piede in Medio Oriente, gli interessi imperialisti statunitensi nella regione verrebbero completamente compromessi.

Influenzati da alcune di queste idee del PKK, ma apparentemente non da tutte, i Curdi nella Siria settentrionale – un’area nota come Rojava – hanno iniziato dal 2011, all’indomani della rivolta contro il regime siriano, a istituire consigli ed assemblee. Questi organismi – a volte definiti col termine di comuni – sono confederati insieme nel Comitato Supremo Curdo che funziona come organismo di coordinamento. Sebbene si tratti di strutture basate sulla democrazia diretta, non è chiaro se anche l’economia sta subendo trasformazioni in una direzione più ugualitaria. Cioè non è chiaro se la democrazia diretta nella sfera politica sia stata estesa anche alla sfera economica. Inoltre, non è chiaro – e non è menzionato nei vari report – se nella Rojava ci siano stati dei passi verso la socializzazione o la collettivizzazione dei mezzi di produzione e della ricchezza, anche se si sa di redistribuzione delle terre. Nonostante ciò, la sperimentazione di consigli e di assemblee nella Rojava va avanti (pur in presenza di minacce interne da parte di partiti che vorrebbero istituire una struttura statalista). Ciò che anche è progressista e che va avanti è la liberazione delle donne, che è uno dei fronti avanzati delle iniziative nella Rojava.

Per difendere il territorio della Rojava sono state istituite nel 2011 le YPG, una struttura militare a milizie. All’interno di esse le donne svolgono un ruolo dirigente. Sono state le YPG le forze più efficienti nei combattimenti contro l’IS in Siria. Certo è che la milizie YPG hanno acquisito esperienza come combattenti in un breve lasso di tempo, dal momento che prima di essere impegnate nella difesa del territorio contro l’IS, le YPG hanno dovuto difendersi da elementi del FSA (con cui però sono ora alleate in chiave anti-IS), o da altri gruppi jihadisti e dall’esercito siriano.

Per tutto il 2013 ed agli inizi del 2014, le YPG hanno fatto arretrare l’IS allargando i confini della Rojava. Alla fine del settembre 2014, però, l’IS ha lanciato un’altra grande offensiva contro la Rojava, utilizzando non meno di 40 carri armati contro le YPG che invece non dispongono di sufficienti armi pesanti. Attualmente, le YPG stanno combattendo una grande battaglia contro l’IS per il controllo della strategica città di Kobani, dentro il territorio della Rojava. Con i recenti bombardamenti degli USA contro l’IS nella Rojava, l’IS ha spostato ancora altre forze sul fronte di Kobani.

Tuttavia, per gli USA, le YPG ed il PKK restano minacce al pari dell’IS. La ragione sta nel fatto che nonostante certi limiti, queste forze stanno dimostrando che la società può essere gestita dal popolo in un modo più democratico e potrebbe essere possibile mettere fine al capitalismo, allo Stato, al patriarcato ed al dominio di classe grazie alle lotte ed ai movimenti di massa. Ecco perché gli USA si rifiutano di fornire assistenza alle YPG ed al PKK. A riprova di ciò, gli USA e la Turchia hanno concesso ai combattenti dell’IS di attraversare liberamente il confine turco per attaccare il PKK e le YPG. Inoltre, la Turchia ha bloccato con la forza al confine tutti coloro, soprattutto Curdi, che volevano entrare per unirsi alla lotta contro l’IS, specialmente ora che Kobani è sotto minaccia. Aggiungiamo che ora gli USA sembrano intenzionati a spingere il KRG a lanciare un attacco contro il PKK e possibilmente contro le YPG, nonostante l’incombenza della minaccia dell’IS.

Conclusioni

E’ evidente che l’IS è una forza reazionaria che non offre nessuna speranza per un futuro migliore per il Medio Oriente. L’IS vuole instaurare una dittatura e si mostra del tutto intollerante verso chiunque dissenta dalla sua politica. Dalle scelte degli USA, si coglie altrettanto chiaramente che non gli importa granché della democrazia o delle atrocità commesse dall’IS. Gli USA non sono interessati a che ci sia un Medio Oriente pacificato, libero ed uguale, dal momento che la sola cosa che sanno offrire è ancora più miseria per la classe lavoratrice della regione. Per la classe lavoratrice del Medio Oriente, solo le politiche e le iniziative messe in atto dal PKK e dalle YPG offrono – al momento – qualche prospettiva di un futuro migliore. Ecco perché, perversamente, gli USA vogliono distruggerle.

Shawn Hattingh

Traduzione a cura di FdCA-Ufficio Relazioni Internazionali.”

Mi ripropongo, tempo permettendo, di pubblicare prossimamente altro materiale informativo che aiuti ad approfondire ulteriormente la questione.

La Siria, i “buoni” e i “cattivi”.

Finora ho evitato di trattare su questo blog l’argomento del conflitto in corso in Siria. Ho infatti cercato col trascorrere de tempo di farmi un’idea precisa di ciò che stava accadendo in quel Paese, confrontando la mole di informazioni che ci vengono riversate addosso quotidianamente dai massmedia e sul web, anche da fonti di cosiddetta controinformazione, prima di esprimere un qualsivoglia giudizio. Ora che si parla apertamente di intervento militare da parte degli USA e dei suoi alleati mi sento di esporre brevemente le conclusioni alle quali sono giunto finora.

Nel Dicembre del 2012 ho ricevuto per posta un opuscolo informativo dell’associazione “Adopt a Revolution”, che mi invitava a sostenere economicamente i comitati rivoluzionari siriani. Tali comitati sono nati dal movimento di protesta contro l’attuale governo di Bashar al-Assad, con l’intento di rovesciarlo in modo nonviolento per favorire una rivoluzione democratica -questo il sunto delle informazioni contenute nell’opuscolo, nel quale si parla anche di repressione nei confronti degli/lle attivisti, di escalazione del conflitto e dell’impossibilità di proseguire le lotte antigovernative a viso aperto e senza l’uso delle armi. Si parla anche di un codice di comportamento per il “libero esercito siriano” (nel volantino, in tedesco, “Freie Syrischen Armee”), che numerosi gruppi dell’esercito ribelle si sono impegnati a rispettare per evitare saccheggi ed esecuzioni sommarie, escludendo dal discorso i gruppi combattenti formati da fondamentalisti islamici: nelle intenzioni, questo codice di comportamento servirebbe anche a porre le forze combattenti che lo sottoscrivono sotto controllo civile. A queste informazioni si aggiungono quelle delle quali ero venuto a conoscenza mesi prima, tra cui un comunicato unitario di anarchici russi e siriani  ed un’altro comunicato di un anarchico siriano, entrambi schierati nettamente dalla parte delle forze antigovernative. Ora, il fatto che esistano ribellioni in atto contro un qualsiasi governo (a mio parere meno spazi di libertà e dialogo lascia un governo, più la ribellione è urgente), spinte dalla genuina volontà della popolazione nel voler porre fine a forme di autoritarismo ed oppressione politica e sociale può solo incontrare la mia simpatia ed approvazione. Il problema è che nel caso della Siria la situazione è molto più complessa di quanto si possa pensare.

Innanzitutto la posizione geografica del Paese è fondamentale sullo scacchiere internazionale per gli equilibri del Medio Oriente- e non solo. Conseguenza di ciò, come faceva notare il docente universitario Massimo Ragnedda in un suo vecchio articolo online, è anche una vera e propria guerra psicologica di (dis)informazione: gli Stati che vedrebbero di buon occhio la rimozione dell’attuale governo siriano (USA, Unione Europea, Israele, Turchia, Arabia Saudita) non hanno fatto altro che diffondere informazioni manipolate e di parte sul conflitto in corso, attribuendo i peggiori crimini alle forze governative, presentando i guerriglieri come martiri democratici e la popolazione civile vittima di terrorismo da parte delle forze armate di Assad, raccontandoci di attacchi chimici contro civili, città distrutte e rifugiati. Guarda caso, anche la carta della paura nei confronti di nuove ondate migratorie alle porte della fortezza Europa nel bacino del Mediterraneo è stata giocata senza scrupoli di sorta dai massmedia “occidentali”. D’altro canto, dagli Stati in buoni rapporti con Assad (Russia, Cina, Iran) provengono notizie ben diverse sul conflitto in corso, che mettono ad esempio in dubbio l’uso di armi chimiche da parte delle forze armate governative, attribuendolo piuttosto alle forze ribelli indicate come un coacervo di Alquaedisti che, per destabilizzare la regione e spodestare il governo laico e moderato di Assad, commettono ogni sorta di nefandezza anche contro i civili che non sostengono la loro lotta. Quel che è certo è che l’attuale regime siriano, il cui partito Ba’ath è in carica dal 1963, si regge sul potere dell’esercito e di 14 diversi servizi segreti spesso in concorrenza tra loro, ha una natura nazionalista e militarista e difende sostanzialmente gli interessi e i privilegi della minoranza religiosa degli alawiti (sciiti). È altrettanto chiaro che tra i ribelli, foraggiati opportunisticamente anche da potenze straniere, vi sono milizie armate salafite e wahhabite, ovvero composte da elementi islamici fondamentalisti e reazionari, che non si mettono problemi nel liquidare gli alawiti (e non solo!) nel più brutale dei modi. È questa la triste realtá dei fatti con la quale si deve fare i conti prima di esprimere opinioni affrettate e prendere posizione per l’uno o l’altro fronte. Eppure, tra le forze politiche della cosiddetta sinistra radicale (sic!) c’è chi sembra avere le idee chiare: i partiti stalinisti siriani e quelli europei (almeno in Francia e Belgio) stanno dalla parte del regime di Assad, considerato antiimperialista; i trotzkisti dal canto loro si schierano con i ribelli e vedono i fondamentalisti islamici come possibili alleati. Al di fuori di questo pattume, gli anarchici non sembrano avere idee precise, perchè se da un lato ancora non ne ho sentito uno che supporti in qualche modo il governo siriano, dall’altro non tutti sostengono il fronte antigovernativo, inquinato da interessi esterni e composto da forze troppo eterogenee che spesso hanno nulla a che fare con ideali di libertà, emancipazione e uguaglianza.
Si deve anche prendere atto di un’altra evidenza: il conflitto siriano è un conflitto ancora locare, ma la posta in gioco è a livello mondiale. I diritti umani non valgono una sega per le potenze interessate alla soluzione del conflitto a favore o contro il governo di Assad, queste nel sangue dei poveracci ci intingono il pane da tempi ormai immemori. Ogni mezzo è buono per portare acqua al proprio mulino, ai propri interessi geostrategici. A farne le spese sono coloro i quali in questa guerra crepano come mosche, uccisi dalle armi, siano chimiche o meno, delle truppe governative, o dalle rappresaglie di guerriglieri ben poco interessati a concetti quali democrazia o emancipazione, o quelli che -più fortunati?- si trovano a dover fuggire dal Paese dopo aver perso tutti i loro averi per finire in condizioni disastrose in qualche campo profughi. Il settarismo religioso ed etnico, alimentato soprattutto dagli Stati stranieri interessati a favorire l’una o l’altra fazione (creando divisioni soprattutto all’interno del fronte antigovernativo), precipita il conflitto in una dimensione che non lascia spazio a nessuno spiraglio per gli ideali tanto cari a noi anarchici. Un bel puttanaio, insomma, per dirla in modo tanto brutale quanto chiaro. Un intervento militare (che sembra ormai scontato, proprio quando gli ispettori ONU sono appena arrivati in Siria!) non farebbe altro che porre la parola fine non tanto alla violenza del regime di Assad, che verrebbe sostituita da altra violenza (basti pensare nell’immediato, visto che si parla “solo” di un possibile attacco aereo, al fatto che le bombe intelligenti sganciate dai deficienti non guardano in faccia nessuno, se qualcuno ricorda i bombardamenti NATO ai tempi del conflitto tra Serbia e Kosovo, tanto per fare un esempio, saprà a cosa mi riferisco), quanto a qualsiasi speranza residua di una rivoluzione in Siria. Al suo posto, solo un nuovo Stato devastato, colonizzato e privato della sua sovranità…e non sarebbe l’unico. Ma non finirebbe così, ne sono convinto, perchè l’obiettivo finale delle potenze occidentali e dei loro alleati in Medioriente è l’Iran. E se Russia e Cina assumono per ora un ruolo tutto sommato passivo nella vicenda siriana, non credo che farebbero lo stesso in caso di aggressione al loro alleato chiave mediorientale…