Naomi Klein, “Una rivoluzione ci salverà. Perché il capitalismo non è sostenibile”.

Naomi Klein, “Una rivoluzione ci salverà. Perché il capitalismo non è sostenibile”, 2014 (prima edizione in italiano 2015), ISBN 978-88-17-08511-3

L’autrice canadese Naomi Klein, nota al pubblico internazionale per i suoi testi critici su globalizzazione, neoliberismo e shock economy, torna con quello che probabilmente è il miglior libro che abbia mai scritto ad occuparsi di un tema controverso, attualissimo e d’importanza vitale: il futuro ecologico del nostro pianeta. Senza girarci intorno, sulla base di quanto sostenuto dal 97% dei climatologi su scala planetaria, ovvero che il cambiamento climatico provocato dall’Uomo è già in corso e provoca disastri e vittime, e constatando i fallimenti delle conferenze sul clima degli anni passati, incapaci di raggiungere i seppur insufficienti obiettivi stabiliti sulla carta per ridurre il surriscaldamento globale, Kein invita a ripensare completamente il modello economico capitalista, la stessa idea di crescita e di sviluppo. Dobbiamo fare una scelta netta fra gli interessi dell’ élite economica e politica e la salvezza del pianeta Terra e dell’intera umanità. Rivoluzione o estinzione, per dirla bruscamente.

Se lei stessa, nell’introduzione al libro, ammette di aver troppo al lungo ignorato la portata del problema e l’ improrogabilità delle soluzioni adatte a risolverlo, nel primo capitolo ci introduce nel mondo di chi invece nega apertamente il cambiamento climatico provocato da attività umane e ci permette di scoprire come questi Think Tank della destra americana siano preoccupati non solo di negare l’evidenza scientifica, ma anche e soprattutto di possibili cambiamenti radicali in campo sociale ed economico legati alle soluzioni più efficaci alla crisi climatica. Nel secondo capitolo ci viene illustrato come il fondamentalismo del libero mercato abbia contribuito al surriscaldamento del pianeta, nel terzo viene trattato il processo di riacquisizione della gestione energetica da parte del settore pubblico, di delocalizzazione e autosufficienza energetica locale, di come ricostruire e reinventare la sfera pubblica, tema in parte ripreso ne quarto capitolo che analizza tra l’altro successi e limiti dell’azione governativa in diversi Paesi per quanto riguarda le politiche sostenibili nella produzione energetica. Particolarmente interessante per quel che mi riguarda (la collocazione geografica di me medesimo!) è l’esame e la critica della conversione ecologica della Germania, un Paese che punta ancora sull’uso della lignite, carbone particolarmente inquinante. Sempre a proposito di collocazione geografica della propria persona, il tema dell’estrazione di carburanti dalle sabbie bituminose dell’Alberta in Canada (regione di provenienza dell’autrice) ricorre spesso nel libro. Ma si parla anche di luoghi ben più lontani, come l’isola di Nauru nel Pacifico meridionale, che col suo tragico destino di cannibalismo ambientale e di opulenza autodistruttiva ci introduce al quinto capitolo, che mostra come la concezione secondo la quale l’estrattivismo possa essere fonte di ricchezza e benessere si scontri con la natura stessa de nostri ecosistemi e costringa anche i sostenitori del “progresso e benessere per tutti” a dover mettere in discussione le idee legate alla crescita illimitata.

Nella seconda parte di “Una rivoluzione ci salverà”, Naomi Klein si occupa principalmente delle illusioni legate a possibili soluzioni eterodirette della crisi climatica, mostrandoci come molte associazioni ambientaliste si siano fatte corrompere dalla logica del Big Businnes, tradendo i propri -per quanto deboli- obiettivi e intimandoci di non fidarci di pseudo-messia, presunti filantropi milionari, né di “soluzioni” geoingegneristiche maturate secondo la stessa logica che concepisce il nostro pianeta come una “cosa” da modellare secondo le esigenze dell’ Homo oeconumicus, una fonte illimitata di materie prime da sfruttare fino al parossismo per alimentare la megamacchina del Capitalismo.

Se nelle due parti precendenti Naomi Klein non risparmia dati allarmanti, scenari a tinte fosche e critiche a presunte soluzioni calate dall’alto e funzionali alla logica del sistema dominante che creano problemi ancor più gravi di quelli che presumono di risolvere, la terza parte del libro è dedicata maggiormente alla speranza. Non quella illusoria, perchè le alternative al disastro ecologico esistono e vengono implementate attualmente dalle comunità locali e dagli/lle attivisti/e che lottano per la salvaguardia del territorio, per la presenvazione delle biodiversità, per la sopravvivenza di ecosistemi e di intere popolazioni. “Blockadia” è il termine usato dall’autrice per descrivere una comunità fluida, transnazionale, in diversi casi eterogenea, legata nell’azione contro la devastazione ambientale. A questo punto, se qualcuno avesse avuto dei dubbi, risulta inequivocabile come le lotte ecologiste siano anche lotte sociali globali: senza un pianeta che permette la vita qualsiasi altra rivendicazione o battaglia non ha più senso, ma senza rivendicazioni e battaglie globali per il diritto all’autogestione del proprio territorio, alla giustizia sociale, all’uguaglianza, non può esistere nessuna concezione ecologista degna di questo nome. Dalla resistenza contro le minere nella penisola Calcidica greca alle lotte promosse da nativi e altri attivisti contro l’oleodotto nordamericano Keystone XL, passando attraverso l’Amazzonia e la Nigeria sfregiate dalle compagnie petrolifere multinazionali, l’autrice ci parla di resistenza e progettualità, improbabili alleanze e risultati insperati, sbattendoci ancora una volta in faccia la verità nuda e cruda della logica devastatrice capitalista: più sei povero, meno hai potere, meno conti ergo meno diritto hai di vivere. Il messaggio finale vuol essere una sfida a questo paradigma, non lascia spazio alle illusioni ma alla speranza: abbiamo poco tempo a disposizione, dipende da noi invertire la tendenza. Si deve reagire, uniti si può vincere!

Se una critica a quest’opera va espressa, non riguarda certo l’accuratezza del libro: completa il testo una mole impressionante di dati, citazioni e riferimenti bibliografici, a dimostrazione che Naomi Klein e i/le suoi/e collaboratori/trici si sono date veramente da fare nella stesura di quest’opera sotto l’aspetto della ricerca e delle fonti. Anche lo stile dell’autrice rende la lettura scorrevolissima e, nonostante la serietà del tema trattato, a momenti si può perfino sorridere. Si può forse affermare che la giornalista e scrittrice canadese ricada, come spesso è accaduto in passato, nel vecchio tranello del porre al centro del discorso il conflitto fittizio “socialdemocrazia vs. neoliberismo”? Stavolta no, secondo me. La tesi centrale di “Una rivoluzione ci salverà” è quella del cambiamento di stile di vita e di sistema economico, ma soprattutto di paradigma ideologico, che non si ferma di fronte alle promesse dei governi – nonostante su essi, debitamente spinti dai movimenti ecologici a prendere le decisioni necessarie per la salvaguardia dell’ambiente e della nostra salute, la Klein faccia ancora affidamento. Qui si parla di comunità in lotta che costruiscono alternative dal basso, orizzontalmente, unendo ecologia e sociale, senza lasciarsi abbindolare dalle sciocchezze in stile Green Economy, pronte a sfidare il potere economico, politico, legale di chi a scopo di profitto avvelena un pianeta che è di tutti/e. Il messaggio nel’insieme è chiaro, come ho scritto sopra: rivoluzione o estinzione, ecologia sociale o barbarie. Non è Naomi Klein che ci invita ad agire, ma la vita stessa, contro il progetto di morte e devastazione promosso per troppo tempo dal sistema dominante.  La questione è cruciale, la sfida non può essere perduta.

 

 

Cuba: non solo Castro. La storia poco nota del movimento libertario cubano.

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Ieri, apprendendo della morte del líder maximo cubano Fidel Castro, mi è tornato in mente un libro che ho letto quattro o cinque anni fa in tedesco: “Anarchismus auf Cuba”, di Frank Fernández. L’opera mi colpì soprattutto perchè raccontava una storia avventurosa e vivace, entusiasmante nonostante le ripetute sconfitte dei compagni e delle compagne che a Cuba lottarono nel corso dei decenni per la libertà, una storia poco nota anche a chi, come me, pretende di avere una discreta conoscenza del movimento anarchico internazionale dalla sua nascita ad oggi. Originariamente pubblicato in inglese sotto il titolo “Cuban anarchism – the history of a movement”, il volume è stato tradotto in numerose lingue, tra cui anche l’italiano col titolo “Cuba libertaria”. In un articolo di “A-Rivista Anarchica Online” (anno 33 n. 295 dicembre 2003 – gennaio 2004) firmato Lily Litvak, del quale di seguito riporto un’ampio stralcio, viene riassunto il contenuto del libro:

Lotta incessante per la libertà

Oltre all’erudizione che traspare ad ogni pagina, di questo libro attrae lo stile di prosa chiaro, intelligente, controllato, che fa sì che il lettore si senta trascinato dentro gli eventi, quasi ne fosse un testimone oculare. L’opera di Fernández riguarda persone e fatti che lo appassionano e interessano e che, attraverso la sua ricerca, trovano nuove prospettive, nuovi significati e nuova vita. L’autore spiega che si è messo a indagare sull’influenza che hanno avuto le idee libertarie sul popolo cubano per senso del dovere e anche per necessità storica, proprio perché in questo paese gli anarchici hanno combattuto incessantemente per la difesa della libertà e della giustizia. Il primo capitolo copre il periodo coloniale che va dal 1865 al 1898. Vi si analizzano con particolare attenzione le correnti del pensiero anarchico filtrate durante la formazione e lo sviluppo della nazione cubana. Innanzi tutto si nota l’influenza di Pierre-Joseph Proudhon, che ebbe seguaci e discepoli tra artigiani e operai progressisti, soprattutto nel settore del tabacco, la prima industria a Cuba ad avere una coscienza di classe, cui seguì la costituzione della prima società mutua di origine proudhoniana, nel 1857. Si esamina poi l’arco di tempo che va dal primo sciopero del 1856, alla fondazione del settimanale «La Aurora», ad opera dell’asturiano Saturnino Martínez, alla creazione di gruppi di lettura nelle officine dell’industria del tabacco che tanto influirono sulla diffusione delle idee anarchiche.
Fu agli inizi degli anni Ottanta del secolo scorso (il XIX. Ndr) che fecero il loro ingresso a Cuba i concetti sociali provenienti dalla Federación Regional Española, illustrati durante il Congresso di Barcellona del 1881, quando l’adesione alle idee di Michail Bakunin soppiantò l’influenza di Proudhon. Risale anche a quegli anni l’istituzione della Junta Central de Artesanos e del Círculo de Trabajadores de la Habana, mentre cominciava a farsi notare Enrique Roig San Martín, per le idee che diffondeva dalle pagine de «El Productor».
L’autore passa minuziosamente in rassegna i diversi eventi che avevano scandito il consolidamento delle idee libertarie nell’Isola: gli scioperi nel settore del tabacco che avevano paralizzato l’industria, la costituzione della Federación Local de Tabaqueros, che sarebbe divenuta la fonte ideologica dell’anarchismo a Cuba, la prima celebrazione del Primo maggio nel 1890, e infine le continue repressioni da parte del governo.
Viene analizzata scrupolosamente l’importante discussione sorta dalla divergenza di opinioni tra gli anarchici sostenitori dell’indipendenza e quelli che invece cercavano un’altra teoria sociale. Ma Fernández rivela anche come i gruppi rivoluzionari che operavano soprattutto da varie città della Florida costituissero dei nuclei di patrioti libertari separatisti. Nel 1895 scoppiò a Cuba la guerra invocata da José Martí e tra i combattenti vi furono alcuni noti anarchici, soprattutto quelli già emigrati negli Stati Uniti.
Un ambito importante del volume è dedicato all’analisi della relazione tra gli eventi cubani e il movimento in Spagna. L’autore spiega che la crudeltà della guerra favorì il separatismo cubano, grazie anche a libertari come Fernán Salvochea e Pedro Vallina e alle attività di Ramón Betances a Parigi, che aiutarono a fomentare scioperi e proteste. Qui vengono rivisitate alcune delle idee e dei dati esposti da Fernández nella sua opera rivelatrice La sangre de Santa Águeda. Angiolillo, Betances y Cánovas (Miami, Ediciones Universal, 1994). E si può quindi capire fino a che punto l’esecuzione di Antonio Cánovas del Castillo sia stata l’inizio e la causa fondamentale di quello che poi venne chiamato “el desastre” del ’98.

Enrique Roig San Martin

Le ambizioni di Washington

Nel secondo capitolo si studiano le conseguenze di questa guerra e le ripercussioni che ebbero le ambizioni politico-economiche di Washington sull’isola. Cuba era fondamentale negli obiettivi statunitensi per la sua posizione geografica, strategica non solo per le comunicazioni nord-sud del continente, ma anche per essere un punto chiave del già progettato canale che avrebbe collegato i due oceani a Panama. Il risultato fu l’occupazione nordamericana di Cuba, iniziata il primo gennaio del 1899. Il libro racconta cosa accadde nell’ambiente libertario di quegli anni, ricorda alcuni scioperi importanti come quello di Sagua la Grande, la formazione della nuova organizzazione operaia, Liga General de Trabajadores, e la visita di Malatesta sull’isola. Si sofferma anche sulla seconda occupazione americana e sull’eco della rivoluzione sovietica; la costituzione della Federación Obrera de la Habana, e l’arrivo alla presidenza di Gerardo Machado, che sferrò una persecuzione contro gli anarchici.
Il capitolo successivo è dedicato agli eventi che vanno dal 1934 al 1958. È l’inizio di un nuovo governo di taglio izquierdista con accenti nazionalisti, la cui figura di spicco è Fulgencio Batista. Una legge promulgata dal suo governo colpì duramente l’anarchismo a Cuba, poiché impediva di assumere oltre il cinquanta per cento di lavoratori stranieri. Numerosi militanti dovettero abbandonare il paese e trasferirsi in Spagna, dove avrebbero trovato la guerra civile. A partire da questo momento le vicissitudini del movimento anarchico sarebbero state alla mercé dell’allora colonnello Batista, che divenne l’uomo forte di Cuba, colui che instaurò la dittatura ed esercitò un ferreo controllo sulle attività lavorative. Tuttavia alcuni gruppi, come l’associazione Juventud Libertaria de Cuba, riuscirono a trovare un loro spazio.
Veniamo a sapere da queste pagine che, allo scoppio della guerra civile spagnola, gli anarchici cubani avevano aderito alla difesa della Repubblica e avevano fondato a L’Avana una sezione della Solidaridad Internacional Antifascista, che si adoperò per inviare fondi e armi ai compagni della CNT-FAI. Apprendiamo anche che alla fine della guerra, con l’aiuto di militanti libertari, arrivarono a Cuba molti anarchici spagnoli provenienti dalla Francia e dalla Spagna con passaporti cubani.
Gli ultimi capitoli rivelano infine fatti quasi completamente sconosciuti fino ad oggi. Fernández descrive nel dettaglio in che modo gli anarchici parteciparono attivamente alla lotta contro Batista: alcuni dalle guerriglie orientali o da quelle dell’Escambray, altri nella lotta urbana. Già nell’opuscolo Proyecciones Libertarias, del 1956, in cui veniva attaccato Batista, si sottolineava la scarsa fiducia ispirata da Fidel Castro. Nonostante all’inizio si fosse osservato un atteggiamento cauto nei confronti del governo rivoluzionario, ben presto in varie pubblicazioni anarchiche si cominciò a condannare i metodi dittatoriali del regime. Come risposta, il governo rivoluzionario espulse gli anarcosindacalisti dai diversi settori operai. Fin dall’estate del 1960, convinti che Castro propendesse per un governo totalitario di tipo marxista-leninista, gli anarchici diffusero una dichiarazione attraverso l’organo del gruppo sindacalista libertario, in cui ribadivano l’opposizione degli anarchici allo Stato, dichiarandosi invece a favore del lavoro collettivo e cooperativo, ben diverso dal centralismo agrario imposto dal governo, e affermando la propria posizione antinazionalista, antimilitarista e antimperialista. Condannarono altresì il centralismo burocratico e “le tendenze autoritarie che ribollivano nel seno stesso della rivoluzione”.

 

In clandestinità

Questo fu uno dei primi attacchi mossi al regime da un punto di vista ideologico. Da quel momento gli anarchici dovettero rifugiarsi nella clandestinità, accusati di attività controrivoluzionarie. Fernández rende conto delle attività di opposizione di quel periodo, della pubblicazione del bollettino clandestino «Movimento de Acción Sindical» e della partecipazione anarchica a sostegno di centri di guerriglia disseminati nel paese. Dalla metà degli anni Sessanta, i compagni impegnati o meno nell’opposizione violenta dovettero intraprendere la via dell’esilio, mentre fin dal 1961 era iniziato l’esodo in direzione degli Stati Uniti. L’instancabile attività intellettuale dei vari gruppi di esiliati, il loro spirito di intraprendenza e la chiarezza ideologica con cui continuarono a sviluppare le loro attività testimoniano della capacità di sopravvivenza dell’anarchismo. Tra i pochi militanti che rimasero a Cuba, molti furono reclusi nella sinistra prigione di La Cabaña, altri ebbero la possibilità di uscire e continuare il loro lavoro ideologico e culturale tramite la pubblicazione e il contatto con i diversi gruppi di compagni in esilio.
Un importante epilogo ci viene dalle meditazioni dell’autore sulla situazione cubana attuale e sulla praticabilità delle idee anarchiche. Fernández così riassume questa eroica lotta: “Gli anarchici cubani hanno saputo mantenere uno spirito disinteressato di lotta per Cuba e il suo popolo, sono stati i detentori di una lunga tradizione di libertà e giustizia, uniti da una decisione indistruttibile, confidando che il secolo futuro sarà l’aurora di un mondo migliore, più solidale e più libero”.
Questa opera riempie un vuoto nella letteratura storica cubana. È necessario avere coscienza di quella lotta, soprattutto in un momento in cui il popolo cubano deve affrontare il futuro e cercare di raggiungere, finalmente, la realizzazione dei suoi ideali di liberazione nazionale e sociale.”

Nella sua narrazione Fernandez non arriva fino ai giorni nostri. Dopo il crollo del blocco sovietico, Cuba si è progressivamente aperta al turismo, ai capitali e ai mercati internazionali. Il socialismo, mai veramente realizzato, è rimasto presente fino alla fine solo nella retorica dei logorroici discorsi dell’appena defunto Fidel, mentre suo fratello Raul guida oggi il Paese verso ulteriori aperture all’estero, come quella agli USA. Il movimento libertario cubano, seppure con molte cautele per poter sfuggire alla censura ed alla repressione di Stato, si è lentamente riorganizzato nel corso degli ultimi anni sull’isola caribica. La mia speranza è che ulteriori, plausibili aperture ai diritti individuali ed alle libertà politiche, di parola, di stampa ed organizzative nei mesi e negli anni a venire potrebbero permettere in un futuro prossimo una vera e propria rinascita delle idee libertarie a Cuba. I nostalgici dei falliti comunismi autoritari piangono oggi la morte del loro eroe da mausoleo, gli anarchici e le anarchiche di tutto il mondo hanno di fronte a sé una storia ancora tutta da scrivere.

Sessant’anni fa: la rivoluzione ungherese.

Bildergebnis für anarchici rivoluzione unghereseLa rivoluzione scoppiata in Ungheria nell’Ottobre del 1956 è tutt’oggi oggetto di discussione storica e politica, sia per la sua natura ed il suo significato, sia per quelli che sarebbero potuti essere i suoi sbocchi futuri se nno fosse stata repressa con l’intervento militare dell’URSS poche settimane dopo il suo inizio. Mentre gli Stati “socialisti” e i partiti comunisti occidentali fedeli alla linea sovietica la dipingeranno a lungo come un’insurrezione reazionaria, nazionalista e antirussa, tesa a creare nel Paese un regime fascista simile a quello di Horthy che governò l’Ungheria per un ventennio e molti liberali, cristianodemocratici e socialdemocratici la definiranno come una rivolta di natura democratica che avrebbe dovuto riavvicinare l’Ungheria alle potenze Occidentali, vi è un’altra interpretazione dei fatti che tiene conto dei consigli operai che vennero creati fin da subito nelle fabbriche e che servivano ad esercitare un controllo diretto dei lavoratori sui mezzi di produzione e sui processi decisionali. L’esistenza di consigli di fabbrica, la loro centralità in un processo avviato dal basso per un cambiamento radicale dell’esistente al di là dei giochi politici e strategici dei due blocchi imperialisti contrapposti, è una realtà rimasta per troppo tempo in ombra. Mentre si preferisce parlare della repressione sovietica e degli equilibri geopolitici dell’epoca, del ruolo eroico e al tempo stesso tragico di Imre Nagy e celebrare il tragico anniversario della sconfitta della Rivoluzione in chiave patriottica -il tutto perfettamente in sintonia col clima reazionario e nazionalista che permea la società ungherese odierna e la classe politica che governa quel Paese-, per rendere onore alla realtà dei fatti si dovrebbe riportare al centro del discorso il ruolo dei consigli operai, le idee e gli obiettivi di chi tentò seppur invano di liberare la classe lavoratrice dalla morsa di partiti, burocrazia, servizi segreti e centralismo. Dieci anni fa, per il cinquantenario della Rivoluzione Ungherese, “A-Rivista Anarchica” pubblicava un testo che può aiutarci a recuperare informazioni su questi aspetti fondamentali: “I consigli operai”, di Suzanne Körösi. La stessa rivista pubblica anche uno stralcio del libro di Andy Anderson “Ungheria ’56. La comune di Budapest. I consigli operai”, che tratta il periodo immediatamente successivo alla fine “ufficiale” della rivoluzione ungherese e ci aiuta a capire meglio la natura dei consigli operai ed il loro rapporto/conflitto col potere statale. Solo conoscendo e comprendendo la Storia ci si può riappropriare del significato di eventi di cruciale importanza, sottraendoli a narrazioni falsate create ad hoc per far credere che non vi siano alternative al sistema dominante, per cancellare il passato di chi lottò contro qualsiasi forma di autoritarismo per liberare la classe lavoratrice dall’oppressione e dallo sfruttamento di vecchi e nuovi poteri e classi dominanti.

“Non più la Questione Kurda, ma l’Alternativa Kurda”.

Articolo pubblicato in lingua inglese sul sito Kurdish Question e riproposto tradotto in lungua italiana dal sito Da Kobane a Noi:

“Non più la Questione Kurda, ma l’Alternativa Kurda
di Hawzhin Azeez

È un errore, oppure una violenza simbolica, continuare a sostenere che la “Questione Kurda” resti irrisolta.
Per gli studiosi, gli esperti di politiche nazionali e internazionali e i burocrati la Questione Kurda, con le sue complesse implicazioni politiche intra- e internazionali, resta il dilemma chiave dei tempi moderni. La resistenza epica contro Daesh da parte delle YPG-YPJ ha lanciato la Questione Kurda sotto i riflettori internazionali come mai prima. Si tengono seminari e conferenze, libri e saggi vengono scritti uno dopo l’altro e centinaia di persone attingono in massa a pagini e siti pro-Kurdi in cerca di informazioni.
E forse l’etichetta clinica della Questione Kurda poteva essere utilizzata, perché i Kurdi e il loro ostinato rifiuto di venire assimilati e turchizzati, arabizzati o persianizzati è sfociato in reazioni sempre più violente da parte dello stato per risolvere il “problema”. Di conseguenza, per decenni i Kurdi hanno dovuto far fronte alle pulizie etniche, ricollocamenti etnici, politiche di arabizzazione, genocidi, e la perdita dei diritti umani più elementari a causa degli stati arbitrari e artificiali che a loro volta sono stati prodotti da recinti coloniali istituiti con la violenza. Gli stati artificiali e le loro macchinazione repressive e ideologiche hanno promosso politiche di monoidentità violente, escludenti, oppressive che hanno a loro volta portato alla costruzione di identità nazionali immaginarie e costrutti mitici che inneggiano a “una storia, una nazione, una lingua, una bandiera”. Questa identità intrisa di sangue non appartiene soltanto agli stati post-coloniali, ma è tipica di tutti gli “stati-nazione” moderni.

L’attenzione prevalente, interna ed esterna, sulla cosiddetta, prolungata Questione Kurda comprende questo tipo di discorso: “il sistema internazionale fallisce miseramente nel risolvere questo dilemma, o addirittura nel riconoscere la legittimità della drammatica condizione Kurda, persino di fronte alle continue violenze contro i Kurdi, soprattutto in Turchia, violenza che avvengono su ampia scala e che aumentano in maniera inquietante. Una nuova Ferian, “la missione civilizzatrice”, una logica eurocentrica-orientalista che presume che i disgraziati-soggettificati Kurdi chiedano all’Occidente neoliberista, statocentrico, capitalista di individuare la soluzione del loro “problema” – problemi che questo sistema mantiene alacremente.

I danni tremendi e deliberati ai siti storici come Sur, come Nusaybin e, attualmente, Shex Maqsud sono una prova sufficiente della mancanza di volontà e di interesse da parte di questo Sistema; è vero piuttosto che il sistema intenzionalmente spezza il legame tra l’identità e il passato per indebolire lo spirito dei Kurdi. In quanto Kurdi, il nostro dialogo interno e il discorso con l’Occidente non riesce a registrare in maniera definitiva e non apologetica la fine del “problema” (un termine che implica che la colpa vada addossata a coloro che subiscono la violazione dei diritti umani fondamentali, la cui semplice esistenza si pone come un “problema” per il sistema): in che luogo e modo i Kurdi dovrebbero collocare i loro diritti etnico-religiosi all’interno del Medioriente?
È evidente che le continue violenze commesse contro i Kurdi continuano a dimostrare la supremazia e il fallimento del sistema internazionale, eurocentrico e statocentrico. E, cosa ancora più importante, dimostrano il fallimento della democrazia neoliberista, o parlamentarismo capitalista, quale paradigma supremo del “nuovo ordine mondiale”. La privatizzazione, l’avanzata dei mercati, la deregulation, l’outsourcing, l’indebolimento dei sindacati, la diminuzione delle tasse ai ricchi, la forbice sempre crescente tra ricchi e poveri, la depoliticizzazione, l’anti-intellettualismo, le crisi finanziarie globali, la devastazione ambientale, le guerre neocoloniali con conseguenze disastrose (Iraq, Afghanistan…), l’ascesa dell’ISIS e di altre organizzazioni terroriste che crescono in loco ma i cui semi vengono gettati a livello internazionale, l’industria delle armi che vi è associata: tutti elementi sintomatici dei fallimenti della democrazia neoliberista eurocentrica e statocentrica. Perfino nel momento in cui i Kurdi, e altre minoranze etnico-religiose, grazie al confederalismo democratico, continuano a creare democrazie radicali dal basso, comuni e cooperative, consigli di strada, locali e regionali con l’intento di accrescere l’impegno, la partecipazione e la responsabilità politica; perfino nel momento in cui tentano di rimuovere decenni di conflitti primordiali che si sono trascinati nel tempo, di rimuovere l’odio, e al suo posto far nascere una relazione basata sui valori tipici del comunalismo, la tolleranza e la coesistenza reciproca.

Gli accademici, gli esperti e i decision-makers occidentali continuano faticosamente a cercare di affrontare la Questione Kurda; dovrebbero invece concentrarsi sul fallimento congenito della loro infrastruttura capitalista, macchiata di sangue, il fallimento della sua democrazia neoliberista, della sua incapacità a dare risposte efficaci e a creare un equilibrio adeguato ai diversi bisogni delle sue masse sfruttate, dei gruppi e degli interessi minoritari. Al contrario, la democrazia neoliberista continua a promuovere una omogeneità culturale aggressiva perfino nelle cosiddette società “democratiche” e “multiculturali”.

In Australia, la coesione nazionale viene espressa attraverso uno schema razziale illuminista e le conseguenti politiche identitarie xenofobe, che sono poi sfociate nel disastroso “Tampa affair”. Rispedendo indietro i migranti “sui barconi” o i gruppi di subumani che si trovano in fondo allo schema razziale, John Howard, allora primo ministro, decretò che “siamo noi a decidere chi entra in questo paese e in che circostanza”, un approccio che è stato fatto proprio dai successivi governi laburisti e che ha condotto alla creazione di centri di detenzione sulla terraferma e in mare. Carcerazione, malattie mentali, omicidi, stupri di bambini e donne in condizioni di vulnerabilità che cercavano un luogo sicuro, tentativi di suicidio… ecco alcuni degli effetti collaterali di una detenzione coatta prolungata per mesi, se non per anni di fila. Altre migliaia di persone muoiono in mare tentando di raggiungere porti “sicuri”, porti che nel frattempo lavorano alacremente per costruire muri di acciaio per tenerli fuori. Il corpo senza vita di Alan Kurdi ha espresso questa tremenda verità.
E invece il popolo Kurdo e altre minoranze del Merioriente, potenziate e liberate dalla pratica del confederalismo democratico, stanno aiutando centinaia di migliaia di rifugiati e di sfollati interni. Nella città di Kobane, a sua volta irriconoscibile per i danni inflitti, si trova un campo per gli sfollati interni che ospita più di 5000 persone. I cantoni di Cizire e di Efrin accolgono migliaia di migranti forzati e terrorizzati a sfuggire alla brutalità del regime di Assad, o di Daesh, o di entrambi. Le ideologie sinceramente democratiche potenziano e promuovono le facoltà umane della collettività e alimentano l’umanitarismo, piuttosto che fondarsi su un suo indebolimento.

In America e in Gran Bretagna, la democrazia neoliberista sta marciando verso il declino e in tutti i tre paesi appena nominati i mercati e il processo decisionale politico sono dominati da degli oligarchi, con un conseguente aumento delle disuguaglianze economiche. In Gran Bretagna, la disuguaglianza inaugurata dal Thatcherismo ha portato all’elezione di un governo New Labour che non è riuscito quasi in nessun caso a far fronte alle disuguaglianze insite nel sistema neoliberista; quel che poi si è prodotto durante i successivi governi di centro sinistra e di destra sono state crisi economiche e misure di austerità concepite per rendere i ricchi ancora più ricchi, mentre i poveri stentano ad arrivare a fine mese.
In particolare, in America l’ascesa del Trumpismo ha dimostrato il fallimento del sistema Americano, schiavo di think tanks, PACs (Political Action Committees, sovvenzionatori di campagne, personaggi e partiti politici), lobbies e agglomerati mediatici. Tale indebolimento dei controlli democratici ha condotto all’incapacità di affrontare le questioni insepolte legate alla razza, l’avvento del complesso carcerario-industriale e le violenze della polizia, simboleggiate oggi in maniera massiccia dal movimento Black Lives Matter. Al contempo, la perdita dei diritti delle donne, i continui tentativi di chiudere Planned Parenthood e di ridurre i diritti riproduttivi e l’autonomia delle donne per quel che riguarda il loro corpo perfino in casi di stupro dimostra la natura sfaccettata del modello americano di democrazia neoliberista. Parallelamente, politiche ipercostose e il sostegno incontrollato del mercato e delle lobbies per i candidati alle elezioni ha trasformato il modello democratico americano in un vuoto simulacro, dove i lobbisti manovrano le elezioni democratiche e gli interessi degli elettori. Niente personifica meglio questa tendenza dell’ascesa spettacolare – e preoccupante – del miliardario candidato elle elezioni presidenziali Donald Trump, la cui piattaforma politica è fondata prevalentemente sul fascismo, il razzismo, l’odio verso i rifugiati, e che alimenta un islamofobia già esistente, mentre al di là del mare le guerre neoimperialiste continuano.

Ma neppure l’Europa è al riparo dall’avvizzimento della cosiddetta democrazia capitalista. L’ultimo rapporto della Freedom House ha avvisato che “la crisi dei migranti e gli enormi problemi economici stanno minacciando … la sopravvivenza dell’Unione Europea”. La crescente mancanza di trasparenza e individuazione di responsabilità è sfociata nel declino delle democrazie nascenti nei Balcani, portando a un terribile degrado. Paesi come la Serbia, il Montenegro e la Macedonia hanno utilizzato “uomini forti” in politica per richiedere un atteggiamento meno rigido dall’Unione Europea, unione sempre più defunta di ventotto democrazie capitaliste, la cui deplorevole risposta collettiva alla cosiddetta “crisi dei rifugiati” ha dimostrato il crollo delle radici istituzionali, normative, morali dell’Unione.

Nello stesso tempo, la Turchia ha astutamente sfruttato la crisi dei rifugiati per estorcere più indulgenza dall’UE verso i negoziati per l’entrata nell’Unione, mentre continua ad avere un approccio genocida nei confronti della Questione Kurda. La risposta del sistema capitalista è gettare più soldi alla Turchia, nonostante un recente rapporti di Amnesty International abbia evidenziato in maniera preoccupante il prodursi di ritorni forzati di rifugiati siriani. La democrazia capitalista, sotto la leadership illiberale di Angela Merkel, ha condotto al soffocamento degli elementi chiave della democrazia, come la libertà di parola: i disegnatori satirici tedeschi sbeffeggiano Erdogan ritraendolo imbavagliato e minacciato con sentenze di prigione.

Ci troviamo di fronte a una negazione perenne della legittimità dei diritti delle minoranze impegnate nella propria autodifesa e resistenza attiva, che va da un annacquamento di richieste legittime allo sradicamento bello e buono di richieste di diritti portate avanti per anni, come è avvenuto chiaramente nel caso delle dissoluzione delle Tigri del Tamil nel sistema democratico neoliberista, delle comunità Indigene e Aborigene in Medioriente, America Latina, Asia, Stati Uniti, Canada e Australia, che vengono etichettate come “terroristi”, “dissidenti”, “radicalizzati”, come selvaggi non democratici e non civilizzati.

Il governo dell’AKP in Turchia, nel frattempo, continua a massacrare il popolo Kurdo nel silenzio, che diviene così assenso, della comunità internazionale. Non stupisce che di fronte a tale oppressione cresca la “rivoluzionizzazione” dei giovani – piuttosto che la loro “radicalizzazione”, termine che implica la presenza di uno sguardo eurocentrico-orientalista, dall’alto verso il basso, a svilire la legittimità dei diritti delle minoranza all’autodifesa paragonandola a un generico terrorismo sponsorizzato dallo stato, proprio di un depotenziato gruppo etnico-religioso, per mano del secondo maggior esercito della NATO. Moltissimi giovani vanno in montagna in Kurdistan a cercare rifugio e trovano l’addestramento militare, ma soprattutto ideologico, necessario a combattere le strutture oppressive e genocide dello stato.

La mitica “fine della storia” di Fukuyama, espressa con tanta sicumera dai portavoce accademici e intellettuali del Nuovo Ordine Mondiale, guidato dall’egemonia statunitense, è stata evidentemente svuotata di significato nel momento in cui emerge in Medioriente un modello democratico alternativo, radicale, locale: il confederalismo democratico.
In maniera non dissimile, la profezia di Huntington sullo “scontro di civiltà” era stata predicata tra l’Occidente e l’Islam nel mondo post-11 settembre; non era però in grado di immaginare che lo scontro si sarebbe svolto tra la democrazia neoliberista, il cui decadimento interno dimostra le incoerenze e gli antagonismi intrinseci al capitalismo, e la democrazia radicale, definita come confederalismo democratico e sviluppata da Abdullah Ocalan, ispirata dalle opere di Murray Bookchin.
La democrazia neoliberista eurocentrica e statocentrica non ha mai concepito che il cosiddetto scontro di civiltà si sarebbe svolto con un sistema democratico alternativo. Ha presunto che il suo sistema democratico si sarebbe dimostrato l’unica opzione possibile contro alternative fasciste, terroriste e violente; la sua cecità epistemologica non riusciva a rispondere, né anche solo a tenere in considerazione il razionalismo occidentale. Al contrario, il suo orientalismo inerentemente eurocentrico ha reso miopi i falchi neoliberisti che immaginavano semplicemente un mondo popolato da “terroristi islamici” ad alimentare le proprie perpetue macchine belliche. I neoliberisti hanno continuato a dominare e a riorientare i principali enti ed istituzioni internazionali verso la promozione della sua versione di democrazia capitalista: tra gli altri, le Nazioni Unite, la NATO, la Banca Mondiale, il FMI, l’OCSE. Ma, come ha sottolineato Mohamad Tavakoli-Targhi, gli sviluppi sociali “e i processi alternativi, non europei”, non occidentocentrici “sono stati definiti come assenza di cambiamento e storia non storica”.
Non hanno mai immaginato che una delle comunità più oppresse del Medioriente avrebbe formulato una cosmologia, una filosofia e un approccio per la risoluzione dei diritti delle minoranze di natura complessa, coesiva, inclusiva, multiculturale, antimonopolista e orientata al consenso; quella stessa risoluzione che il loro sistema, nel migliore dei casi, non è stato in grado di affrontare, se non l’ha attivamente repressa nelle forme panottiche dell’utilitarismo di stampo Benthamita, concepito per servire gli interessi delle élites minoritarie.
Ma chi altro avrebbe meglio potuto formulare una soluzione alla condizione degli oppressi se non i più oppressi, i più emarginati?
Ma è giunta l’ora.

È giunta l’ora che gli attivisti e gli accademici Kurdi smettano di crucciarsi riguardo alla “Questione Kurda” che continua ad andare avanti, una questione apparentemente irrisolvibile. Non siamo una questione da risolvere; non siamo una formula matematica! Siamo una collettività di persone fortemente oppresse la cui ideologia di liberazione ha creato un modello per la nostra comunità e per milioni di altri colonizzati; una soluzione che la modernità capitalista è stata incapace di trovare se non attraverso il genocidio e la pulizia etnica. Se non riusciamo a capire realmente che cosa significhi sminuiamo il portato del nuovo paradigma, che si sta dimostrando il più efficace nell’affrontare 5000 anni di sfruttamento statale e patriarcato.
Non più la Questione Kurda, ma l’Alternativa Kurda deve essere l’oggetto della nostra attenzione.
I Kurdi sono riusciti a individuare la soluzione al problema che non sono mai stati.
La vera questione è quanto il sistema democratico neoliberista, eurocentrico e statocentrico lotterà per non accettare la sua spettacolare sconfitta.”

Cosa vuol dire sconfiggere lo Stato Islamico?

La domanda che mi ronza in testa da tempo è: “come si può sconfiggere lo Stato Islamico?”. A interrogarmi su tale questione non sono solo, infatti ho potuto leggere chilometri di articoli, analisi, interviste e altro ancora tra quanto è stato pubblicato in rete e su carta sull’argomento da due anni a questa parte, non tanto alla ricerca di una risposta definitiva ad un problema oltremodo complesso e in continua evoluzione, quanto nella speranza di poter avere una maggiore comprensione della natura dello Stato Islamico e delle possibili vie percorribili per raggiungere la sua sconfitta. Di certo la volontà di un ritorno ad un passato ideale, quello della comunità di fedeli islamici (umma) del VII secolo o giù di lì, da contrapporre all’islam odierno che i seguaci della branca salafita-jihadista rappresentata dall’IS considerano corrotto, non è nata ieri e non morirà in tempi brevi, se mai morirà. L’IS ha avuto l’astuzia e la perfidia di fomentare conflitti e divisioni di natura etnico-tribale-religiosa già presenti nelle zone nelle quali agisce, compiendo ad esempio, dopo il 2003, attentati in Iraq contro gli sciiti, che si vendicavano sui sunniti spingendo questi ultimi a cercare protezione tra le file dei combattenti di quella che all’epoca si chiamava Jamāʿat al-tawḥīd wa l-jihād, ribattezzata poi “al-Qaeda nel Paese dei due Fiumi”- un sodalizio, quello con al-Qaeda, che dura solo fino al 2006, quando l’organizzazione cambia nuovamente nome in “Mujaheddin del Consiglio della Shura” e, pochi mesi dopo, in “Stato Islamico in Iraq” (al-Dawla al-Islamiyya fi l-‘Iraq, in breve ISI), per divenire nell’Aprile del 2013 al-Dawla al-Islamiyya fi-l-‘Iraq wa-l-Sham, “Stato Islamico in Iraq e Siria (ISIS)” o “Stato Islamico in Iraq e Levante (ISIL)” e infine, con la fondazione del califfato nel Giugno 2014, semplicemente “Stato Islamico” (IS). Considerando solo i continui cambi di nome del gruppo e le diverse alleanze fatte e disfatte nel corso di pochi anni ci si accorge di trovarsi di fronte ad un’organizzazione versatile, che non ha, come al-Qaeda, solo l’obiettivo di un jihad globale, né tantomeno vuole (come ad esempio Hamas) circoscrivere il proprio potere ad un territorio delimitato,  ma ha l’ambizione di impore il proprio potere su tutti i territori da essa controllati militarmente stabilendovi subito la legge islamica (sharia) senza tener conto di confini statali esistenti e differenze di nazionalità: l’idea di Stato di questi personaggi rispetto alla concezione occidentale moderna di Stato-nazione è molto differente e va tenuta sempre presente. Lo Stato Islamico si fa portavoce di un ritorno all’essenza dell’islam e si richiama alla tradizione del califfato abbàside e della discendenza diretta da Maometto del nuovo califfo al-Baghdadi, rifiuta la modernità ma usa gli ultimi ritrovati della tecnologia per propagandare le proprie idee con strategie pubblicitarie degne di un’azienda leader sul mercato, dichiara guerra all’Occidente ma massacra più musulmani/e di chiunque altro, fa proprio il concetto di “scontro delle civiltà” di Samuel Huntington riadattandolo secondo le proprie esigenze. L’IS ostenta la propria crudeltà per intimorire gli avversari e allo stesso tempo applica nei territori sotto il suo controllo misure paternalistiche e caritatevoli atte a tenere a bada il malcontento della popolazione che, più per paura e mancanza di alternative che per convinzione, non sa opporsi efficacemente al potere totalitario del califfato. La forza dello Stato Islamico non si limita solo alla capacità di trarre vantaggi dalle divisioni etnico-religiose (ironia della sorte, uno degli acronimi ufficiosi del gruppo è Daesh, che in arabo significa qualcosa come “portatore di discordia”), ma è anche data dalla propria abilità propagandistica e dalla sua forza economica. Quest’ultima poggia solo in piccola parte su offerte di denaro dall’estero, le entrate principali derivano dal traffico di beni artistici e archeologici e da quello di esseri umani (donne in primis, ridotte a schiave del sesso), dal saccheggio di villaggi e città occupati e dalla rapina (ad es. banca di Mossul), dalle tasse imposte alla popolazione, ma soprattutto dalla vendita di petrolio. Ad essere reclutati per la “guerra santa” sono soprattutto volontari provenienti dall’estero, mercenari a tutti gli effetti.

Un’altro aspetto che gioca a favore dell’IS è la mancanza di unità d’intenti tra i diversi Stati nel trovare una soluzione al conflitto in corso, visto che ciascuna potenza, internazionale o regionale, si impegna a difendere i propri interessi nella regione a scapito di altri Stati e, manco a dirlo, a prescindere dai reali interessi di chi abita la regione nella quale divampa il conflitto: l’Iran (e le milizie hezbollah, sua diretta emanazione in Libano) è legato da decenni alla dittatura della famiglia Assad, lo stesso vale per la Russia, che ha forti interessi economici (come la Cina) e strategici in Siria. La potenze occidentali della NATO sono intenzionate invece a rovesciare il regime di Damasco e in tale ottica hanno foraggiato i gruppi del Libero Esercito Siriano (FSA), tra cui spiccano numerose milizie islamiche, salvo poi bombardare l’IS quando questo ha palesato la propria volontà di conquista a scapito degli interessi occidentali e ha effettuato attacchi terroristici sul territorio europeo e statunitense. La Turchia, pur essendo un Paese NATO, segue invece una propria agenda politica imperialista e, come Arabia Saudita, Kuwait e Qatar, sostiene le fazioni islamiche anti-Assad più che quelle laiche, inoltre impiega le proprie energie principalmente nella repressione anti-curda. I quattro Paesi in questione hanno aiutato in modo più o meno intenso l’IS e continuano tuttora a farlo.

Quali misure sarebbero quindi efficaci per sconfiggere il califfato in Siria e Iraq e il gruppo islamico che lo ha fondato? Serve realmente a qualcosa trattare con Assad, considerato fino a poco tempo fa il problema principale? I Paesi uniti (incollati con lo sputo, direi senza ricorrere a eufemismi) nella lotta contro l’IS dovrebbero inviare truppe di terra o continuare a bombardare? Pensiamo per un attimo agli interessi divergenti tra le potenze in gioco, ai rapporti tra Russia e Turchia, al destino dell’Iraq dopo l’invasione USA nel 2003 (i militari al servizio del dittatore decaduto saddam Hussein, licenziati dagli americani, finirono in gran parte tra le nuove reclute di Jamāʿat al-tawḥīd wa l-jihād, non dimentichiamolo), al fatto che le armi vendute da Paesi europei come la Germania ad Arabia Saudita e Qatar finiscano poi nelle mani dei mercenari del califfato e all’evidenza che i bombardamenti, anche quando non massacrano civili e colpiscono realmente obiettivi militari nemici, non servono a scalfire lo Stato Islamico (due predecessori di Abu Bakr al-Baghdadi, al-Zarqawi e Abu Omar al-Baghdadi, furono uccisi durante attacchi aerei statunitensi)…cosa si potrebbe realisticamente contrapporre alle milizie dello Stato Islamico, ma soprattutto, cosa significa veramente sconfiggere il califfato? Quella dell’IS è una visione del mondo manicheista, come già detto incentrata sullo scontro tra quell’islam definito autentico e il resto del mondo: sconfiggere lo Stato Islamico significa soprattutto sconfiggere questa visione. Alimentare l’odio, la disgregazione sociale e la contrapposizione violenta è fondamentale per creare artificialmente uno scontro di civiltà: rifiutarsi di prestare il fianco a questa logica è un atto di resistenza fondamentale contro i progetti jihadisti. Chi oggi in Europa si batte per l’accoglienza dei profughi, contro l’islamofobia e le logiche delle destre estreme e populiste sta automaticamente rifiutandosi di fare il pieno al serbatoio dello Stato Islamico. Occorrerebbe inoltre provocare diffuse proteste contro l’ipocrisia degli Stati coinvolti per procura nel conflitto, denunciare senza sosta le connivenze, le forniture d’armi, l’acquisto di petrolio, l’apertura mirata delle frontiere per far passare rifornimenti ai miliziani di al-Baghdadi, l’ambiguità e l’inefficacia delle soluzioni militari tanto quanto il fallimento pianificato di quelle diplomatiche. Inoltre ritengo fondamentale l’importanza dell’appoggio a quello che è un progetto politico, sociale ed economico diametralmente contrapposto alla visione del mondo di Daesh, ovvero al “modello Rojava”. In Rojava è in corso una rivoluzione dai tratti libertari che sta cambiando profondamente il volto della regione, una rivoluzione che ha come cardini la parità tra i sessi e tra le diverse etnie e religioni, il benessere collettivo, l’ecologismo, la democrazia di base, l’autogestione, l’antiautoritarismo. Un incubo non solo per l’IS, cacciato dalle milizie popolari volontarie del Rojava da Kobane e da altre città che aveva conquistato o che tentava di conquistare, ma anche per le potenze mondiali che vedono minacciati i propri interessi particolari nella regione da un progetto autonomo, creato dal basso nell’interesse di chi lo vive. La rivoluzione in Rojava avanza nonostante si trovi di fronte a difficoltà non indifferenti di varia natura, ma ha bisogno di tutto l’appoggio possibile, non solo in nome della lotta senza quartiere contro la barbarie di daesh, ma anche per la libertà e l’autodeterminazione di persone- altrimenti destinate ad essere sfruttate, discriminate, oppresse e soggiogate se non direttamente massacrate da poteri locali o esterni- che hanno deciso di alzare la testa e decidere del proprio futuro costruendolo con le proprie mani.

“Projekt A”, ovvero l’anarchia che esiste.

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“Projekt A” è un documentario realizzato  nel 2015 dai registi indipendenti tedeschi Moritz Springer e Marcel Seehuber. Il documentario, vincitore del premio del pubblico alla Filmfest München, racconta attraverso un viaggio in giro per l’Europa diverse esperienze anarchiche al di là dei cliché su caos e violenza erroneamente legati al concetto di anarchia. Dall’incontro anarchico internazionale svoltosi nel 2012 a Saint-Imier in Svizzera al movimento anti-nucleare tedesco, passando per il sindacato anarchico spagnolo CNT, il progetto Parko Narvarinou ad Atene e il collettivo Kartoffelkombinat di Monaco di Baviera, il film mostra e spiega esempi pratici di anarchia vissuta, forme di autogestione e creazione di progetti solidali, ecologici e collettivi nonostante e contro il dirigismo statale, le logiche di profitto e sfruttamento e le insanabili contraddizioni che affliggono la società nella quale viviamo. La morale può esser riassunta con uno dei miei slogan preferiti: “L’anarchia è ordine senza dominio“. Projekt A viene attualmente proiettato nelle sale cinematografiche di innumerevoli città tedesche e austriache (qui la lista completa).

Il Kurdistan chiama: rispondiamo!

Le terre comprese tra Iran, Irak, Siria e Turchia abitate prevalentemente dalla popolazione curda sono da decenni sotto il fuoco incrociato della repressione dei diversi Stati ai quali ufficialmente appartengono le rispettive porzioni di territorio. La Turchia in particolare ha un conto in sospeso con i curdi: dopo aver tentato di assimilarli senza successo, facendo largo uso della più brutale violenza nei casi di reticenza o resistenza da parte della popolazione civile, avendo ancor meno successo nella lotta contro la guerriglia creatasi come conseguenza al totale rifiuto di soluzioni diplomatiche e pacifiche da parte del potere dello Stato turco, dopo aver giocato la carta dell’appoggio nemmeno troppo velato ai fondamentalisti islamici dell’ISIS ( o, per chiamarli con il termine dispregiativo più appropriato, Daesh), oggi finge di entrare in guerra contro i combattenti del califfato mentre in realtà bombarda le postazioni dei/lle resistenti curdi/e, che dal canto loro avevano di recente cessato qualsiasi ostilità nei confronti delle autorità turche. Allo Stato turco, fortemente centralista e apertamente autoritario, non va giù che in Kurdistan sia ormai in atto, da almeno un decennio a questa parte, un processo di autogestione comunale profondamente democratico, che coinvolge organizzazioni di base composte dagli/e abitanti di villaggi e quartieri delle città. L’obiettivo di questo processo non è quello di creare uno Stato curdo indipendente, bensì quello di autogestire le risorse comuni in modo orizzontale, secondo il principio della democrazia di base, per far fronte alle esigenze della popolazione di un’area geografica particolarmente povera e oppressa. Anche l’abbandono da parte del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) dell’ideologia marxista-leninista a favore di una concezione tendenzialmente socialista libertaria, simile a quella espressa nelle opere dell’anarchico statunitense Murray Bookcin, “padre” di concetti quali ecologia sociale e municipalismo libertario, ha avuto un ruolo importante nell’influenzare le prospettive di cambiamento sociale, economico e politico. Col passare del tempo sono stati creati nel Kurdistan “turco” collettivi e cooperative nel settore agricolo, edilizio, scolastico, sanitario, culturale ed artigianale, organizzazioni di base giovanili e femminili, realtà che si coordinano tra loro e che collaborano con le amministrazioni comunali “amiche” e disposte a sostenere lo sviluppo dell’autogestione, secondo la logica -sempre citando Bookchin- del conflitto Comune-Stato; si tenta un’approccio produttivo che esuli dalla logica capitalista, ancora relativamente poco sviluppata in quelle terre; si fa ricorso a comitati di mediazione e pacificazione per risolvere diatribe e far fronte al crimine, alle violenze private ed alle faide familiari; si creano regole proprie, comunemente decise, per aggirare quelle eteronome dello Stato centrale;  le donne si integrano, non senza dover superare grossi ostacoli ma in ogni caso con enorme successo, nei processi decisionali, si rendono economicamente indipendenti, imparano a difendersi dalle violenze e ad acquisire autostima e consapevolezza scardinando i residui della vecchia società patriarcale, divenendo il motore della rivoluzione sociale in corso- il tutto con un’approccio ecologista.  Di per sé è straordinario che questo processo di cambiamento, lento ma inesorabile, sia andato avanti fino allo scoppio del conflitto in Siria e all’aggressione terroristica di Daesh, ma è ancor più straordinario che tutto ciò vada avanti nonostante la guerra oggi in atto. Un processo simile coinvolge i cantoni autonomi curdi ufficialmente appartenenti allo Stato siriano, che implementano il confederalismo democratico in una situazione a dir poco proibitiva. I curdi e chi lotta al loro fianco al di lá di divisioni etniche o religiose, armeni, yazidi, assiri, aramei, arabi, turchi e turcomanni, cristiani o musulmani, aleviti o zoroastriani o atei che siano, necessitano di tutto il sostegno possibile nella loro lotta contro l’aggressione dei fondamentalisti islamici di Daesh e dei governi degli Stati che tentano di impedire la loro emancipazione. Ci sono momenti nei quali i dibattiti su aspetti teorici di un processo di cambiamento sono indispensabili e si può tranquillamente discutere sulla differenza fra “lotta di classe” e “lotta popolare”, fra abolizione della proprietà privata e uso comune di tale proprietà, fra abolizione dello Stato e appoggio alle istituzioni locali in chiave decentralista; ci sono invece momenti nei quali la  domanda che ciascuno/a di noi dovrebbe porsi urgentemente è: come possiamo appoggiare il cambiamento in corso, come possiamo sostenere la lotta dei curdi e delle popolazioni minacciate dai fondamentalisti islamici e dalla violenza militare dello Stato turco, come dare una mano a profughi e sfollati? Io avrei un paio di modesti suggerimenti, basati sulla mia esperienza personale di attivismo politico e su azioni tuttora in corso o svoltesi nei mesi passati in diverse parti del mondo. Suggerimenti forse vaghi, generici, alcuni più efficaci di altri, chissà, ma restare fermi a guardare non è un’opzione accettabile non dico per un anarchico/a, ma per chiunque conservi ancora un briciolo di umanità, di solidarietà, di sincero amore per la libertà. Inoltre penso che più si rafforza la solidarietà internazionale di chi ha a cuore la rivoluzione sociale libertaria e meno peseranno alla fine del conflitto gli aiuti “sbagliati” (per quanto sembrino ora decisivi almeno su un piano militare), quelli dei Paesi Occidentali sempre interessati al proprio tornaconto nazionale ed al controllo politico ed economico di intere aree geografiche a prescindere dalla volontà delle popolazioni che le abitano…. Pertanto: Che fare?

Informare ed informarsi:Risultati immagini per solidarity kurdistan donations

i massmedia mainstream riportano solitamente notizie e dichiarazioni  di fonte turca. Diamo voce a chi appoggia la resistenza curda, diffondiamo interviste, comunicati, video, aggiornamenti. Usiamo tutti i mezzi a nostra disposizione, soprattutto internet, ma non dimentichiamo la comunicazione diretta con le persone “in carne e ossa”. Spieghiamo ad esempio non solo quanto sia importante la lotta contro Daesh, ma anche e soprattutto chi sta lottando VERAMENTE contro i fondamentalisti islamici e che tipo di cambiamento è in corso nella società curda. Se possibile andrebbero organizzate conferenze e dibattiti pubblici con persone che hanno una conoscenza il più possibile approfondita della questione curda;

– Protestare e fare pressione:

Risultati immagini per we stand in solidarity with freedom fighters of Rojavain numerose città sono state organizzate proteste sotto le ambasciate e i consolati turchi, contro le politiche assassine del partito AKP di Erdogan, in solidarietà ai/lle combattenti curdi, contro il fondamentalismo islamico. E-Mail e lettere di protesta di massa indirizzate alle rappresentanze istituzionali turche, boicottaggi ben organizzati e ampiamente pubblicizzati, manifestazioni e presidi possono essere metodi di pressione efficaci e danno la possibilitá di portere all’attenzione pubblica questioni altrimenti rimosse o manipolate dai massmedia:

-Raccogliere fondi:

da diversi mesi a questa parte sono state messe in campo svariate iniziative atte a raccogliere denaro necessario per la ricostruzione delle infrastrutture, per procurare beni di prima necessità agli/lle sfollati, per la sanità, per sostenere progetti e associazioni locali esistenti anche da prima dello scoppio guerra, ma anche per acquistare armi necessarie all’autodifesa della popolazione. Sono stati organizzati concerti, cene benefit, tombole, mercatini, collette, sono state prodotte e vendute magliette che oltretutto servono anche a comunicare un messaggio chiaro e a stimolare la curiositá e un possibile dialogo con le persone che incontriamo quotidianamente. A volte basta davvero poco, anche solo un barattolo con su scritto “offerte per i/le combattenti curdi in Rojava” durante una festa. I fondi possono essere destinati a una o più organizzazioni che operano sul posto e usati per diversi scopi, nel dubbio contattare gruppi organizzati di persone che si recano in Kurdistan o che hanno contatti diretti con le persone del posto. Per chi avesse bisogno di qualche esempio dalla Germania può cliccare qui.

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“Turchia: Bombe di Stato contro la ricostruzione di Kobanê”

Fonte: Umanità Nova.

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La mattina di lunedì 20 luglio a Suruç nel giardino del centro culturale Amara è esplosa una bomba durante la conferenza stampa dell’organizzazione turca Federazione delle Associazioni dei Giovani Socialisti (SGDF). Circa 30 persone sarebbero rimaste uccise nell’esplosione, oltre 100 giovani invece sarebbero feriti, di cui alcuni in gravi condizioni. Tra le vittime, oltre a numerosi giovani militanti socialisti, vi sono anche due compagni anarchici, entrambi di 19 anni. Evrim Deniz Erol e Alper Sapan, quest’ultimo faceva parte del gruppo Iniziativa Anarchica di Eskişehir ed era obiettore di coscienza al servizio militare.

Suruç è una cittadina a maggioranza curda in territororio statale turco, che si trova a ridosso del confine con la Siria ed è base per tutte le azioni di solidarietà rivolte verso Kobanê, che dista solo pochi chilometri. Per questo circa 300 membri del SGDF si trovavano presso il centro culturale per una conferenza stampa in cui stavano denunciando la repressione attuata dal governo turco allo scopo di impedire che i giovani militanti passassero il confine per lavorare a progetti di ricostruzione della città. Quasi contemporaneamente un altro attentato a Kobanê, vicino al valico di frontiera di Mürşitpınar, verso Suruç, faceva ulteriori vittime tra le forze curde di autodifesa. L’attentato al centro culturale Amara viene per ora attribuito allo Stato Islamico, in ogni caso è chiaro che l’attacco risponde agli interessi di coloro che vogliono bloccare in ogni modo qualsiasi possibilità di cambiamento sociale rivoluzionario nella regione, a partire dal governo turco e dai suoi sicari. Per comprendere il contesto in cui è avvenuto questo attacco terribile, cerchiamo di ripercorrere gli eventi degli ultimi mesi.

Dopo le note vicende dell’assedio da parte delle milizie dello Stato Islamico alla città di Kobanê nell’autunno-inverno dello scorso anno, la situazione in Rojava è andata progressivamente modificandosi a seguito della liberazione della città, avvenuta nel Gennaio del 2015 per mano delle milizie curde YPG (Unità di Protezione del Popolo) e YPJ (Unità di Protezione delle Donne, milizia femminile) e delle altre forze che combattono al loro fianco.

Il Kurdistan in zona siriana (Rojava) è diviso in tre diversi cantoni. Nella zona nord orientale della Siria si trova il cantone di Cizire, quello geograficamente più grande e popolato. A nord ovest vi è invece il cantone di Efrin. Tra i due cantoni vi è quello di Kobanê. I tre cantoni sino al Giugno del 2015 hanno avuto degli ingenti problemi di collegamento, data la presenza di truppe dello Stato Islamico e di altri gruppi che bloccavano ogni possibilità di scambio tra le regioni.

I combattimenti nelle zone intermedie tra i tre diversi cantoni si sono difatti susseguiti ininterrottamente dal 2013 sino a oggi. Oltre ciò, non minore importanza ha avuto la chiusura ufficiale, predisposta dalla Turchia, di svariati valichi di confine con i territori controllati dalle forze curde. Azione che ha isolato ulteriormente le zone sotto il controllo dei curdi e che ha impedito ed impedisce anche oggi l’arrivo di qualsiasi assistenza ai territori martoriati dai continui attacchi dello Stato Islamico, bloccando a tempo indeterminato anche il flusso regolare di profughi in fuga. Va ricordato che nel periodo in cui le forze curde ancora non controllavano completamente alcune delle zone settentrionali della Siria, che allora erano nella maggior parte dei casi in mano a forze legate a gruppi islamisti che si sarebbero uniti successivamente allo Stato Islamico, lo stato turco tenne alcuni valichi di frontiera aperti a “tempi alterni”. Tale azione venne giustificata dall’esigenza di mantenere una continuità commerciale con il territorio siriano, aprendo e chiudendo, svariate volte e con violenza, l’accesso in Turchia ai profughi in fuga dagli scontri violentissimi tra varie fazioni. Attraverso questi valichi di frontiera sono transitati nel tempo rifornimenti per Al-Nusra e lo Stato Islamico. Non si è certo trattato di semplice negligenza nei controlli di frontiera da parte della Turchia, dal momento che il governo turco ha in numerose occasioni dimostrato il proprio sostegno a forze controrivoluzionarie come lo Stato Islamico sia in Siria sia all’interno del territorio turco, utilizzando formazioni paramilitari fasciste e religiose nella repressione dei rivoluzionari e dei militanti curdi.

L’atteggiamento del governo turco è sempre stato chiaro. Il confine sotto il controllo turco tra il paese anatolico e la Siria apre e chiude le sue porte in base all’utilità politica della situazione interna alla Turchia ed a quella del nord della Siria. Da un lato l’apertura e l’accoglienza apparente verso i profughi in determinati periodi dell’anno, dall’altra il blocco e la repressione violenta con la volontà d’interrompere ogni collegamento tra le due sponde quando la situazione politica nei due territori minaccia la stabilità politica del territorio turco. Al contempo i combattenti dello Stato Islamico attraversano tranquillamente il confine sotto gli occhi dei militari turchi. Un esempio lampante di tali politiche lo si è avuto con la repressione violenta esercitata dall’esercito turco e la Jandarma (polizia militare turca) durante l’assedio da parte dello Stato Islamico a Kobanê del 2014. Allora migliaia di persone in fuga dalla città, soprattutto curde, vennero duramente attaccate dalle autorità turche che ne stavano impedendo il passaggio. Fu di molti feriti e qualche morto il bilancio di quelle settimane.

Nel Giugno di questo anno, le YPG e le YPJ, hanno condotto un’operazione per tentare di riunificare il cantone di Kobane a quello di Cizire, cercando di liberare dallo Stato Islamico una delle città più importanti della zona settentrionale della Siria, Tall Abyad e la zona circostante.

La città di Tall Abyad, dopo la riconquista da parte delle YPG/YPJ della città di Kobanê, ha assunto per lo Stato Islamico un ruolo strategico e politico centrale. Tall Abyad difatti, conquistata dallo Stato Islamico nel Giugno del 2014, è rimasta sino a qualche mese fa, l’unico valico di frontiera nel nord est della Siria sotto il controllo dello Stato Islamico, permettendo ad esse di ricevere un regolare flusso di aiuti e combattenti provenienti dal territorio turco; il tutto come sempre sotto l’occhio accondiscendente dello stato turco.

Durante tutto l’arco del 2014, le milizie dello Stato Islamico hanno condotto nella zona un’ingente operazione di riassestamento demografico, minacciando di morte i curdi dell’area mediante un’operazione di allontanamento forzato dall’area. Durante l’estate del 2014 sono state molte le famiglie curde, turcomanne ed anche arabe che hanno abbandonato la zona per paura di ripercussioni.

Nel giugno scorso le operazioni delle YPG e delle YPJ hanno portato nel giro di qualche giorno alla liberazione della città di Tall Abyad. Durante lo stesso mese, in Turchia, si sono tenute le elezioni per rinnovare il parlamento ed eleggere il primo ministro della Repubblica, in un contesto politico nel paese fortemente conflittuale. Il partito di Erdoğan non è riuscito ad ottenere la maggioranza, mentre il partito a base curda HDP (Partito Democratico dei Popoli) ha conseguito più del 13% dei voti, entrando di diritto nel parlamento della Repubblica Turca. Questo è avvenuto nonostante il blocco di potere al governo, guidato dal partito conservatore-religioso AKP (Partito della Giustizia e dello Sviluppo), abbia tentato con ogni mezzo di ostacolare l’opposizione. Le elezioni infatti furono insanguinate da aggressioni contro attivisti curdi e dei partiti di sinistra, attacchi che culminarono con le bombe di stato ad Amed (Diyarbakir) il 5 giugno che provocarono 4 morti durante un comizio dell’HDP. L’esito delle elezioni, accompagnato dalle continue vittorie sul campo delle forze curde in territorio siriano e da un progressivo radicamento delle forze della sinistra rivoluzionaria in tutto il paese anatolico, hanno condotto il governo di Ankara ad aumentare la violenza della repressione interna.

Ankara non ha digerito la doppia sconfitta ed ha dichiarato, durante un incontro del Consiglio Nazionale di Sicurezza Turco (MGK), la decisione di implementare la sua presenza lungo il confine turco-siriano, in particolar modo in quei territori confinanti con le zone gestite dalle forze curde. Le dichiarazioni del MGK, presieduto dal Presidente della Repubblica Turca Erdoğan, si sono fatte molto dure, arrivando ad affermare che la Turchia “non permetterebbe mai la formazione di uno stato curdo lungo i propri confini meridionali”, ipotizzando la concretezza di un’invasione impellente da parte della Turchia in Siria. Tali affermazioni arrivano anche a margine delle accuse dello stesso Presidente Erdoğan nei confronti delle forze curde di aver perpetrato azioni di pulizia etnica nei confronti della popolazione araba e turcomanna di Tall Abyad. La stessa popolazione al quale lo stesso Erdoğan, tramite i fucili delle proprie truppe ed i gas delle proprie guardie, non aveva permesso l’attraversamento del confine durante gli scontri tra YPG/YPJ e Stato Islamico nei dintorni della città. Tale atto riprende il medesimo atteggiamento repressivo avuto nei confronti dei curdi di Kobanê nell’Ottobre dell’anno precedente, lasciando intendere una continuità d’intenti negli ultimi mesi.

Le dichiarazioni dell’MGK e la decisione di governo turco di prepararsi ad un’invasione della Siria, schierando un maggior numero di mezzi e truppe lungo il confine, sono arrivate lo stesso giorno in cui si è concluso l’attacco sferrato dallo Stato Islamico il 25 giugno a Kobanê .

Il 25 giugno, dopo l’esplosione di tre autobomba lungo il confine con la Turchia a Kobanê, circa un centinaio di combattenti appartenenti alle forze dello Stato Islamico, entrati in città prima che facesse giorno indossando divise delle YPG e dell’FSA, sferrano un feroce attacco rivolto soprattutto contro la popolazione civile. Dopo quattro giorni di battaglia, il 29 giugno finiscono i combattimenti nelle strade, ma appare subito chiaro, come afferma anche un portavoce delle YPG, che l’attacco dello Stato Islamico non aveva certo lo scopo di occupare e controllare la città di Kobanê o anche solo alcune zone di essa. Si trattava invece un attacco suicida collettivo con lo scopo di uccidere il maggior numero di civili. Infatti alla fine dell’attacco si contano 223 morti e 300 feriti tra i civili, uno dei più gravi massacri compiuti dallo Stato Islamico in Siria.

Sia le forze curde di Kobanê sia il governo siriano hanno affermato che le autobomba venivano dal territorio turco e che avevano quindi attraversato i valichi di frontiera controllati dallo stato turco. Inoltre Figen Yüksekdağ, cosegretaria dell’HDP, ha dichiarato che il governo turco ha supportato per anni lo Stato Islamico e il massacro è parte di questa politica di supporto.

Probabilmente il governo turco voleva che l’attacco a Kobanê servisse a dimostrare che le forze riunite attorno alle YPG/YPJ non erano capaci di controllare la città e soprattutto di proteggere i civili, e che potesse quindi rafforzare la presa di posizione dell’MGK riguardo alla “pulizia etnica” antiaraba a Tall Abyad contribuendo così a giustificare un eventuale intervento di terra in Siria o comunque l’invio di ulteriori truppe lungo il confine.

È ancora troppo presto forse per parlare di un cambio di strategia della Repubblica Turca nel conflitto, anche perché il fatto che dalle elezioni di inizio giugno ancora non sia stato insediato un nuovo governo e tuttora siano in atto le consultazioni per trovare una maggioranza, rende incerta la situazione politica interna alla Turchia. Sembra ad ogni modo che dopo la liberazione di Tall Abyad abbiano iniziato ad assumere un peso maggiore quegli elementi ai vertici dell’establishment turco che vogliono un intervento militare diretto in Siria contro la popolazione curda e le forme di organizzazione sociale che si sta dando in Rojava.

Le accuse rivolte dall’MGK e dallo stesso Presidente della Repubblica Erdoğan alle forze curde sono quindi da interpretarsi fondamentalmente come propaganda a sostegno della linea politica e militare che il governo turco conduce nel conflitto.

Tuttavia la giusta opera di demistificazione e la lotta contro la propaganda del governo turco non deve portarci ad ignorare o rifiutare la realtà della guerra. In questo conflitto, l’intervento diretto e indiretto delle principali potenze mondiali e regionali, che inviano armi e combattenti, bombardano e cercano di spartirsi il territorio e le sue risorse, porta ad una recrudescenza della violenza tipica della guerra imperialista. In questo contesto, anche per chi combatte per difendere una prospettiva alternativa al dominio imperialista e capitalista può essere facile cadere nella trappola della guerra, commettendo eccessi o comunque perdendo di vista il fine per il quale si lotta.

Ignorare i rischi che si presentano in una situazione di guerra come questa può portare ad una sconfitta non solo militare, ma anche e soprattutto politica. Una sconfitta politica può assumere anche la tragica forma dell’abbandono della prospettiva rivoluzionaria per ottenere una vittoria militare grazie al sostegno di quelle potenze interessate all’instaurazione di una forma di governo disponibile a non mettere in discussione gli interessi degli stati e del capitalismo globale nella regione. Questo, ancor più di una disfatta militare, costituirebbe una tragedia per la popolazione che nella Rojava sta cercando di darsi gli strumenti per un cambiamento sociale in senso rivoluzionario, perché bloccherebbe adesso e per gli anni a venire ogni prospettiva di reale liberazione sociale, ripristinando le vecchie condizioni di sfruttamento ed oppressione e creandone di nuove.

Per ora il protagonismo della popolazione nella sua pluralità, la presenza radicata di gruppi rivoluzionari, l’autodifesa popolare e la mancanza di un governo dotato di apparati repressivi hanno reso possibile l’inizio di un processo rivoluzionario.

Solo facendo leva su questi punti di forza è possibile vincere questa lotta sul piano politico, senza cedere ai ricatti delle potenze e senza cadere nelle trappole della guerra.

In questa prospettiva è fondamentale la questione della ricostruzione di Kobanê e della Rojava. Perché oltre al bisogno di aiuti immediati, di ricostruire infrastrutture, case ed ospedali, c’è anche bisogno di discutere di come dovrà essere la città, di come ricostruire la società, su quali basi. Ci sono chiaramente diverse posizioni e differenti progetti, da una parte ci sono speculatori che aspettano di fare l’affare del secolo, mentre dall’altra ci sono rivoluzionari che vogliono far sorgere dalle macerie una società libera dalla proprietà privata.

In questi mesi si sta avviando un’ampia campagna per la ricostruzione di Kobanê. Oltre all’appello internazionale lanciato dal KRB, il tavolo per la ricostruzione della città, vi sono campagne e progetti specifici portati avanti dalle forze politiche che hanno sostenuto fino ad oggi la resistenza.

Queste iniziative sono tutte orientate a dare alla ricostruzione un forte senso politico; i lavori infatti non saranno affidati alle multinazionali o ai grandi speculatori, ma sarà organizzata e gestita attraverso la partecipazione dei diretti interessati.

In questo contesto anche il movimento anarchico, in particolare il gruppo DAF (Azione Anarchica Rivoluzionaria) di Istanbul, radicato anche in Kurdistan, dà il proprio contributo specifico alla ricostruzione, nel senso della ricostruzione della vita, di una società nuova, libera, senza stati né classi.

Quanto sia importante la ricostruzione ed in particolare l’intervento dei gruppi rivoluzionari per sostenere il processo di trasformazione sociale in atto, è reso ancora più chiaro dalla ferocia con cui i militanti che si occupano dei progetti di ricostruzione vengono attaccati dal governo turco, dai suoi alleati e dai suoi sicari.

L’attentato esplosivo che ha ucciso i giovani militanti della SGDF a Suruç la mattina di lunedì 20 luglio è un colpo diretto ai gruppi rivoluzionari che sostengono la Rojava. Non è terrorismo indiscriminato ma un massacro mirato di militanti, che ha come scopo l’eliminazione fisica di giovani rivoluzionari e l’intimidazione nei confronti di tutte le altre forze che sostengono i progetti di ricostruzione. Le dichiarazioni di Erdoğan dopo l’attacco sono di fatto un’ulteriore minaccia di invasione della Rojava. Il Presidente della Repubblica Turca ha infatti affermato che l’attentato sarebbe la risposta alle recenti disposizioni di rafforzamento del controllo militare lungo il confine da parte dell’esercito turco.

La sera stessa della strage in molte città della Turchia si sono tenute manifestazioni, nella maggior parte dei casi la polizia ha attaccato i dimostranti e gli scontri si sono protratti nella notte.

Ad Istanbul migliaia di persone hanno marciato verso Taksim fino a quando la polizia non ha attaccato il corteo con lacrimogeni e proiettili di gomma. Ad Amed e Yüksekova ci sono stati durissimi scontri. A Suruç, dove la polizia era già intervenuta con i blindati subito dopo la strage, l’intervento repressivo contro i manifestanti nel tardo pomeriggio ha provocato numerosi feriti.

Dopo questi fatti è ancora più importante appoggiare la ricostruzione della città di Kobanê, sostenendo gli anarchici del DAF e tutte quelle forze che contribuiscono ad uno sviluppo del processo che in quella regione sta aprendo la strada alla rivoluzione sociale.

Giacomo Sini

Dario Antonelli “

“Ecos del desgarro”: un documentario sulla rivoluzione siriana.

“Ecos del desgarro” (Echi dello strappo o Echi della ferita), un documentario in spagnolo, inglese e arabo realizzato dal collettivo libertario spagnolo La Cámara Negra, racconta lo scoppio e gli sviluppi dell’attuale rivoluzione in Siria attraverso le parole ed il materiale audio e video di attivisti/e politici/che in esilio in Turchia.

Uscire dal capitalismo, non dall’Euro!

Quando la coalizione di sinistra Syriza vinse lo scorso Gennaio le elezioni politiche in Grecia, le forze progressiste e quelle antieuropeiste di tutta Europa, anche reazionarie e di destra, accolsero il voto popolare come fosse stato un referendum contro la permanenza nell’Euro. Molti/e greci/che avevano votato Syriza senza troppa fiducia né speranze, consapevoli del fatto che gli aiuti economici provenienti dalla Troika venivano elargiti ad un prezzo troppo alto da pagare in termini sociali e di mera sopravvivenza. Licenziamenti, tagli agli stipendi ed alle pensioni, privatizzazioni e tagli alla spesa pubblica ed ai servizi sociali hanno significato impoverimento per gran parte della popolazione greca, per alcuni la caduta nel baratro della miseria nera. Dal punto di vista psicologico sembrava importante avere ancora una speranza di poter contrastare non solo la miseria ma anche l’umiliazione, si chiedeva semplicemente che un nuovo governo di rottura con i partiti tradizionali, che avevano fallito negli anni passati, ristabilisse la sovranità nazionale greca rispetto ai ricatti di organismi finanziari transnazionali, recuperasse il terreno perduto sul piano delle conquiste sociali introducendo misure urgenti e di vitale importanza per la sopravvivenza dei ceti meno abbienti, negoziasse condizioni realisticamente accettabili per il pagamento del debito senza ricorrere a misure di massacro sociale. Purtroppo le ultime speranze affidate mesi fa alla compagine capitanata da Alexis Tsipras sono andate via via sfumando col passare delle settimane, è risultato evidente che nemmeno questa aveva un piano concreto per uscire nel modo meno doloroso possibile dalla crisi economica. Spulciando fra i tanti discorsi contraddittori fatti dai membri del governo di Syriza mi è sembrato di capire che, oltre a voler guadagnare tempo, il ministro dell’economia Janis Varoufakis puntasse ad un recupero della competitività sui mercati piuttosto che ad una politica di tagli e privatizzazioni indiscriminati. Nei fatti però il governo, a parte riaprire l’emittente televisiva pubblica chiusa dal governo precedente e strappare concessioni a dir poco risibili su misure di risparmio sulla spesa sociale comunque messe in atto, ha accettato tagli alle pensioni e aumento dell’IVA, aumento delle imposte sulla navigazione e altre misure che ricadono sulle spalle dei consumatori, dei lavoratori salariati e dei pensionati. La spesa militare invece non è stata ridotta e la Grecia, obbediente membro della NATO, continua ad acquistare armi da guerra, peraltro obsolete, col denaro che invece potrebbe venir indirizzato altrove.

Andare avanti accettando le condizioni della Troika sarebbe stato alla lunga impossibile, soprattutto avrebbe significato per Syriza fare la fine del socialdemocratico PASOK, partito storicamente forte ridotto ora a forza politica insignificante, pertanto è stato indetto il referendum consultivo che ha visto la vittoria del “no” e quindi un appoggio all’azione di governo. Di appoggio Tsipras ha incassato anche quello di altri tre partiti che in parlamento hanno scelto ora di sostenere la sua linea, mentre ha scaricato il ministro Varoufakis, al centro di critiche e campagne diffamatorie da parte della stampa mainstream europea, sostituendolo con un economista dal look più presentabile ma che porta avanti sostanzialmente le stesse idee in materia politico-economica. I portavoce delle istituzioni politiche ed economiche transnazionali non si sono scomposti ed hanno mantenuto inalterate le loro richieste e condizioni.  Il voto referendario non ha perciò cambiato nulla di sostanziale, le trattative tra governo greco e UE, BCE e FMI proseguiranno nei prossimi giorni…

Osservando questo scenario molti/e si chiedono innanzitutto quand’è che la Grecia riuscirà finalmente ad uscire dalla moneta unica. Questa sembra per molti una soluzione, introdurre una sorta di Nuova Dracma come valuta potrebbe attirare investimenti internazionali, permettere la gestione delle risorse con maggiore autonomia rispetto alle istituzioni finanziarie e politiche transnazionali, aumentare esportazioni e afflusso turistico ora in calo, favorire nuovi accordi commerciali con Paesi al di fuori dell’UE, Russia in primis. Il fatto è che non è detto che la Grecia esca dall’Euro, e anche se ciò dovesse accadere non si dovrebbe essere troppo ottimisti sulla condizione sociale di lavoratori/trici dipendenti, pensionati/e, disoccupati/e e inabili al lavoro in un Paese con un basso costo del lavoro che tenta disperatamente di uscire dalla crisi economica presentandosi appetibile ai mercati internazionali ed agli investitori che non hanno certo scrupoli né tantomeno intenti caritatevoli. Voglio ricordare per un attimo dov’é nato il problema: le crisi economiche nel sistema capitalista sono cicliche. Non è un dogma marxista, è un fatto osservabile. Quest’ultima crisi è partita con l’esplosione della bolla finanziaria delle ipoteche sugli immobili negli USA (2007/08), ha colpito prima di tutto chi aveva richiesto prestiti per gli immobili mandando in rovina parecchie famiglie del ceto medio-basso, ha coinvolto le banche che, negli USA e negli Stati europei ad economia più solida (Germania innanzitutto), sono state “salvate” col denaro dei contribuenti e dei risparmiatori, ha portato sull’orlo del baratro le economie dei Paesi più deboli. Le “manovre speculative di pochi incoscienti”, come le hanno definite alcuni, non sono altro che un sintomo della necessità del capitale di espandersi, rinnovarsi, conquistare nuovi mercati, spingere per un’ ulteriore crescita che richiede sempre maggiori investimenti; non sono altro che un sintomo della necessità del denaro di riprodurre se stesso. Ogni soluzione di stampo capitalista alla crisi porta con se nuove conseguenze -sia essa l’immissione sul mercato di nuovi titoli, la riduzione di salari e stipendi, il taglio alla spesa pubblica, la delocalizzazione delle imprese-, perpetuando al tempo stesso quel sistema che le crisi le genera.

Ma davvero abbiamo bisogno di tutto questo? Davvero i/le greci/che e noi tutti/e dovremmo sacrificarci per salvare un sistema nel quale veniamo usati e sfruttati e che per le sue dinamiche interne può precipitarci nella miseria e  nell’emarginazione privandoci di qualsiasi prospettiva? È da ormai troppo tempo che studiamo in funzione del nostro futuro lavoro, lavoriamo per pagare i costi e le spese che sosteniamo quotidianamente ed in prospettiva della pensione, viviamo in base ai ritmi imposti dal lavoro ed alle esigenze di consumo più o meno subdolamente imposte dai mercati, avvalliamo la morte e lo sfruttamento ancor più brutale di milioni di persone in tutto il mondo, solo perchè non siamo in grado di immaginare e creare una realtà diversa da quella presente. Sarebbe ora di farla finita, in Grecia e ovunque, coi sacrifici per il bene dell’economia, sarebbe ora di creare reti e strutture autogestite che nascono nei quartieri, nelle fabbriche, negli uffici, per sottrarre le ricchezze dalle mani di pochi, per riorganizzare la produzione secondo le reali esigenze di chi finora è stato/a sfruttato/a, riappropriandosi dei mezzi di produzione e decidendo di comune accordo cosa e come produrre, liberandoci del superfluo, abolendo le strutture gerarchiche, prendendoci la responsabilità delle nostre azioni e del nostro presente senza delegare ad altri la promessa di un futuro migliore. Gruppi e strutture autogestiti ne esistono già, vanno moltiplicati e rafforzati, resi più efficaci con contributi concreti, idee e partecipazione diretta. Sarebbe ora di agire in modo solidale e non competitivo, per costruire o riappropriarsi di beni e risorse comuni, evitando le guerre tra poveri, comprendendo che ognuno/a di noi non è solo/a in questa lotta, che ogni singolo individuo vale più di quanto non ci abbiano mai fatto credere e che ciascuno/a di noi è in grado di prendere decisioni libere riguardo la propria vita ed il proprio futuro, è padrone del proprio tempo e della propria intoccabile integrità fisica e psichica e dovrebbe prendere ciò di cui ha bisogno dando allo stesso tempo ciò che può, senza costrizioni, senza diktat né politiche di lacrime e sangue. Facciamo in modo, con la nostra volontà e con la determinazione delle nostre lotte consapevoli, che stavolta a piangere siano i burattinai ai vertici del sistema, i vampiri ai quali succhiare il sangue degli strati sociali ridotti allo stremo non basta, che ricorrono alla propaganda più infima per dipingere gente che s’è rotta la schiena lavorando una vita intera come “sfaticati che hanno voluto vivere al di sopra delle loro possibilità”. Voltiamo le spalle alle negoziazioni farlocche tra Stati, organizziamoci fra diretti/e interessati/e, dal basso e orizzontalmente…altrimenti finiremo per giaciere davvero orizzontali o supini, ancora vittime di chi ci sfrutta e gioca col nostro destino e col nostro presente.