Uscire dal capitalismo, non dall’Euro!

Quando la coalizione di sinistra Syriza vinse lo scorso Gennaio le elezioni politiche in Grecia, le forze progressiste e quelle antieuropeiste di tutta Europa, anche reazionarie e di destra, accolsero il voto popolare come fosse stato un referendum contro la permanenza nell’Euro. Molti/e greci/che avevano votato Syriza senza troppa fiducia né speranze, consapevoli del fatto che gli aiuti economici provenienti dalla Troika venivano elargiti ad un prezzo troppo alto da pagare in termini sociali e di mera sopravvivenza. Licenziamenti, tagli agli stipendi ed alle pensioni, privatizzazioni e tagli alla spesa pubblica ed ai servizi sociali hanno significato impoverimento per gran parte della popolazione greca, per alcuni la caduta nel baratro della miseria nera. Dal punto di vista psicologico sembrava importante avere ancora una speranza di poter contrastare non solo la miseria ma anche l’umiliazione, si chiedeva semplicemente che un nuovo governo di rottura con i partiti tradizionali, che avevano fallito negli anni passati, ristabilisse la sovranità nazionale greca rispetto ai ricatti di organismi finanziari transnazionali, recuperasse il terreno perduto sul piano delle conquiste sociali introducendo misure urgenti e di vitale importanza per la sopravvivenza dei ceti meno abbienti, negoziasse condizioni realisticamente accettabili per il pagamento del debito senza ricorrere a misure di massacro sociale. Purtroppo le ultime speranze affidate mesi fa alla compagine capitanata da Alexis Tsipras sono andate via via sfumando col passare delle settimane, è risultato evidente che nemmeno questa aveva un piano concreto per uscire nel modo meno doloroso possibile dalla crisi economica. Spulciando fra i tanti discorsi contraddittori fatti dai membri del governo di Syriza mi è sembrato di capire che, oltre a voler guadagnare tempo, il ministro dell’economia Janis Varoufakis puntasse ad un recupero della competitività sui mercati piuttosto che ad una politica di tagli e privatizzazioni indiscriminati. Nei fatti però il governo, a parte riaprire l’emittente televisiva pubblica chiusa dal governo precedente e strappare concessioni a dir poco risibili su misure di risparmio sulla spesa sociale comunque messe in atto, ha accettato tagli alle pensioni e aumento dell’IVA, aumento delle imposte sulla navigazione e altre misure che ricadono sulle spalle dei consumatori, dei lavoratori salariati e dei pensionati. La spesa militare invece non è stata ridotta e la Grecia, obbediente membro della NATO, continua ad acquistare armi da guerra, peraltro obsolete, col denaro che invece potrebbe venir indirizzato altrove.

Andare avanti accettando le condizioni della Troika sarebbe stato alla lunga impossibile, soprattutto avrebbe significato per Syriza fare la fine del socialdemocratico PASOK, partito storicamente forte ridotto ora a forza politica insignificante, pertanto è stato indetto il referendum consultivo che ha visto la vittoria del “no” e quindi un appoggio all’azione di governo. Di appoggio Tsipras ha incassato anche quello di altri tre partiti che in parlamento hanno scelto ora di sostenere la sua linea, mentre ha scaricato il ministro Varoufakis, al centro di critiche e campagne diffamatorie da parte della stampa mainstream europea, sostituendolo con un economista dal look più presentabile ma che porta avanti sostanzialmente le stesse idee in materia politico-economica. I portavoce delle istituzioni politiche ed economiche transnazionali non si sono scomposti ed hanno mantenuto inalterate le loro richieste e condizioni.  Il voto referendario non ha perciò cambiato nulla di sostanziale, le trattative tra governo greco e UE, BCE e FMI proseguiranno nei prossimi giorni…

Osservando questo scenario molti/e si chiedono innanzitutto quand’è che la Grecia riuscirà finalmente ad uscire dalla moneta unica. Questa sembra per molti una soluzione, introdurre una sorta di Nuova Dracma come valuta potrebbe attirare investimenti internazionali, permettere la gestione delle risorse con maggiore autonomia rispetto alle istituzioni finanziarie e politiche transnazionali, aumentare esportazioni e afflusso turistico ora in calo, favorire nuovi accordi commerciali con Paesi al di fuori dell’UE, Russia in primis. Il fatto è che non è detto che la Grecia esca dall’Euro, e anche se ciò dovesse accadere non si dovrebbe essere troppo ottimisti sulla condizione sociale di lavoratori/trici dipendenti, pensionati/e, disoccupati/e e inabili al lavoro in un Paese con un basso costo del lavoro che tenta disperatamente di uscire dalla crisi economica presentandosi appetibile ai mercati internazionali ed agli investitori che non hanno certo scrupoli né tantomeno intenti caritatevoli. Voglio ricordare per un attimo dov’é nato il problema: le crisi economiche nel sistema capitalista sono cicliche. Non è un dogma marxista, è un fatto osservabile. Quest’ultima crisi è partita con l’esplosione della bolla finanziaria delle ipoteche sugli immobili negli USA (2007/08), ha colpito prima di tutto chi aveva richiesto prestiti per gli immobili mandando in rovina parecchie famiglie del ceto medio-basso, ha coinvolto le banche che, negli USA e negli Stati europei ad economia più solida (Germania innanzitutto), sono state “salvate” col denaro dei contribuenti e dei risparmiatori, ha portato sull’orlo del baratro le economie dei Paesi più deboli. Le “manovre speculative di pochi incoscienti”, come le hanno definite alcuni, non sono altro che un sintomo della necessità del capitale di espandersi, rinnovarsi, conquistare nuovi mercati, spingere per un’ ulteriore crescita che richiede sempre maggiori investimenti; non sono altro che un sintomo della necessità del denaro di riprodurre se stesso. Ogni soluzione di stampo capitalista alla crisi porta con se nuove conseguenze -sia essa l’immissione sul mercato di nuovi titoli, la riduzione di salari e stipendi, il taglio alla spesa pubblica, la delocalizzazione delle imprese-, perpetuando al tempo stesso quel sistema che le crisi le genera.

Ma davvero abbiamo bisogno di tutto questo? Davvero i/le greci/che e noi tutti/e dovremmo sacrificarci per salvare un sistema nel quale veniamo usati e sfruttati e che per le sue dinamiche interne può precipitarci nella miseria e  nell’emarginazione privandoci di qualsiasi prospettiva? È da ormai troppo tempo che studiamo in funzione del nostro futuro lavoro, lavoriamo per pagare i costi e le spese che sosteniamo quotidianamente ed in prospettiva della pensione, viviamo in base ai ritmi imposti dal lavoro ed alle esigenze di consumo più o meno subdolamente imposte dai mercati, avvalliamo la morte e lo sfruttamento ancor più brutale di milioni di persone in tutto il mondo, solo perchè non siamo in grado di immaginare e creare una realtà diversa da quella presente. Sarebbe ora di farla finita, in Grecia e ovunque, coi sacrifici per il bene dell’economia, sarebbe ora di creare reti e strutture autogestite che nascono nei quartieri, nelle fabbriche, negli uffici, per sottrarre le ricchezze dalle mani di pochi, per riorganizzare la produzione secondo le reali esigenze di chi finora è stato/a sfruttato/a, riappropriandosi dei mezzi di produzione e decidendo di comune accordo cosa e come produrre, liberandoci del superfluo, abolendo le strutture gerarchiche, prendendoci la responsabilità delle nostre azioni e del nostro presente senza delegare ad altri la promessa di un futuro migliore. Gruppi e strutture autogestiti ne esistono già, vanno moltiplicati e rafforzati, resi più efficaci con contributi concreti, idee e partecipazione diretta. Sarebbe ora di agire in modo solidale e non competitivo, per costruire o riappropriarsi di beni e risorse comuni, evitando le guerre tra poveri, comprendendo che ognuno/a di noi non è solo/a in questa lotta, che ogni singolo individuo vale più di quanto non ci abbiano mai fatto credere e che ciascuno/a di noi è in grado di prendere decisioni libere riguardo la propria vita ed il proprio futuro, è padrone del proprio tempo e della propria intoccabile integrità fisica e psichica e dovrebbe prendere ciò di cui ha bisogno dando allo stesso tempo ciò che può, senza costrizioni, senza diktat né politiche di lacrime e sangue. Facciamo in modo, con la nostra volontà e con la determinazione delle nostre lotte consapevoli, che stavolta a piangere siano i burattinai ai vertici del sistema, i vampiri ai quali succhiare il sangue degli strati sociali ridotti allo stremo non basta, che ricorrono alla propaganda più infima per dipingere gente che s’è rotta la schiena lavorando una vita intera come “sfaticati che hanno voluto vivere al di sopra delle loro possibilità”. Voltiamo le spalle alle negoziazioni farlocche tra Stati, organizziamoci fra diretti/e interessati/e, dal basso e orizzontalmente…altrimenti finiremo per giaciere davvero orizzontali o supini, ancora vittime di chi ci sfrutta e gioca col nostro destino e col nostro presente.

Sulla condizione della classe lavoratrice in Romania.

 

Fonte: Anarkismo.

"Perdonateci, per favore: non riusciamo a produrre tanto quanto rubate!”
“Perdonateci, per favore: non riusciamo a produrre tanto quanto rubate!”


” La classe lavoratrice rumena: come anatre inermi sotto il fuoco del capitalismo


Ci sono oggi circa 5 milioni di lavoratori in Romania. Altri 3 milioni (un quarto della forza-lavoro locale) lavorano in altri paesi dell’Unione Europea, per lo più in Spagna ed Italia. Il tasso ufficiale dei disoccupati è stimato al 6,7%, ma non è un dato affidabile. Questo dato riguarda solo le persone che sono registrate come disoccupati e non considera il totale di persone che potrebbe lavorare ma viene escluso. Per cui il numero reale dei disoccupati in realtà non è noto (o non viene reso noto dal governo), ma in base a logiche deduzioni, ci sarebbe da contare un ulteriore milione di persone.

Un quarto dei disoccupati ufficiali sono giovani laureati. Il 53% dei disoccupati registrati hanno esaurito il periodo nel quale hanno titolo a ricevere il sussidio (il 75% del loro salario) ed attualmente non hanno alcun reddito. I lavoratori, per dirla in modo gentile, sono in una situazione terribile. Più dei 2/3 dei 5 milioni di lavoratori sono occupati nel settore privato. Non sono sindacalizzati: ci vorrà una grande solidarietà tra i lavoratori unitamente a dure lotte contro la classe dominante (la classe dei padroni, protetta dallo Stato), per spezzare la loro opposizione e consentire che ci siano i sindacati nel settore privato.

Gli unici sindacati esistenti in Romania sono quelli  “gialli” – una sinistra farsa – all’interno di alcuni settori dello Stato (nella polizia, in parte dell’istruzione e della sanità) o all’interno delle aziende di Stato e di quelle aziende ex-statali che sono state privatizzate. Questi sindacati non fanno altro che tradire sistematicamente i loro iscritti. Le uniche lotte efficaci che questi sindacati hanno condotto sono state quelle per ottenere gli avanzamenti di carriera a livello dirigenziale nell’apparato statale per i loro funzionari. Ecco alcuni casi esemplari: un primo ministro della fine degli anni ‘90 era un sindacalista (nel 1999 giunse a licenziare 100.000 minatori in una notte su indicazione del FMI, portando intere regioni alla rovina e ad una indicibile situazione di povertà), poi ex-ministri, diversi membri di partito e legislatori che erano stati dirigenti sindacali, alcuni dei rumeni che compaiono nella classifica Forbes delle 500 persone più ricche sono ex-dirigenti sindacali.

In mancanza di organizzazioni sindacali, il livello di vulnerabilità della classe lavoratrice rumena è il più alto in Europa, e questo comporta tragiche conseguenze sull’intera società, come è clamorosamente emerso nel corso degli ultimi 3 anni di feroce attacco capitalista contro i lavoratori. Nel 2009, lo Stato rumeno fu il primo nell’Unione Europea ad imporre al popolo le ricette dell'”austerity”, appoggiato dal FMI, dalla Commissione Europea e dalla Banca Mondiale. Nel volgere di una notte, il governo raddoppiò intenzionalmente il numero dei disoccupati costringendo alla bancarotta centinaia di migliaia di piccole imprese. Si trattava di piccole imprese, spesso a conduzione familiare, con pochi dipendenti. Di fatto il governo le mise deliberatamente in ginocchio, imponendo loro una tassa che sapeva che non avrebbero potuto pagare. “Le imprese che non possono pagare la tassa di €500 devono chiudere”, disse l’allora ministro delle finanze, Gheorghe Pogea.

Questo ha portato al raddoppio dei disoccupati del settore privato. Fu il primo passo di una chiara guerra capitalista guidata dallo Stato contro i lavoratori. Il secondo atto contro i lavoratori compiuto dallo Stato – il quale pubblicamente ha ammesso di essere dalla parte delle imprese – fu quello di cambiare la legislazione sul lavoro, togliendo ai lavoratori persino quella fragile ed apparente protezione contro il chiaro e totale sfruttamento padronale. Sono stati resi possibili i licenziamenti a volontà, la demolizione dei contratti di lavoro a tempo indeterminato,  il ripristino dell’apprendistato, con cui si rendono i giovani lavoratori vittime vere  e proprie degli abusi legali da parte dei datori di lavoro. Gli annunci di lavoro ora chiedono apertamente disponibilità al lavoro “volontario” per fare “esperienza” – il che significa schiavitù, lavoro non pagato ed è un fenomeno drammaticamente diffuso. E come se non bastasse, i guru delle imprese vogliono altri cambiamenti nella legislazione del lavoro per rendere i lavoratori ancora più vulnerabili. Le aziende sono libere di militarizzare il lavoro a volontà, rivolgendosi alla polizia e spiando legalmente i dipendenti.

Lo sfruttamento e le misere condizioni di lavoro portano ad un alto numero di incidenti sul lavoro – 4.000 nel 2012, di cui 215 mortali. Anche in questo caso, il numero reale è probabilmente più alto, dal momento che molti di questi incidenti non vengono nemmeno registrati come “incidenti sul lavoro” (poiché il datore di lavoro verrebbe costretto a pagare i danni ai lavoratori o alle loro famiglie). Di nuovo, questo succede perché la classe lavoratrice non è sindacalizzata, succede a causa della spaventosa corruzione e della fraterna combutta tra Stato e classe padronale. (Alcuni media sono riusciti a far emergere come funziona questa fraterna combutta: nel 2010, è venuto fuori che alcuni alti funzionari dell’Ispettorato del Lavoro hanno preso mazzette dalle imprese a nome del partito al governo per coprire degli abusi contro i dipendenti). Il fatto è che il piano di austerità imposto dallo Stato è stato un attacco brutale contro i lavoratori, dal momento che ha artificialmente creato un tasso di disoccupazione che viene usato per spaventare i lavoratori ed indurli a lavorare di più ed ha reso più facili i licenziamenti per garantire più alti profitti, cosa che consente alle imprese di assumere poi altri dipendenti a salari pesino più bassi. Questo artificiale tasso di disoccupazione, creato dallo Stato a beneficio della classe padronale, diventa un potente strumento disciplinare che impedisce ai lavoratori di sindacalizzarsi e mette nella mani dei datori di lavoro i mezzi per tenere i salari al più basso livello possibile.

Lo scopo della “austerity” nel creare un alto tasso di disoccupazione era anche quello di paralizzare ogni possibile resilienza popolare nel momento in cui ci sarebbero stati ulteriori tagli agli stipendi nel settore pubblico ed in quello privato, sui redditi degli insegnanti, dei dottori, degli studenti, dei pensionati, contemporaneamente ad un brutale aumento dell’IVA di 5 punti fino al tetto del 24% su tutti i beni ed i servizi.  Tutti provvedimenti giustificati “in nome della crisi”, tramite una montagna di bugie ed una furiosa propaganda ideologica da parte dei media controllati dal padronato, sebbene ad un certo punto nel marzo 2009, il presidente rumeno, che aveva guidato l’attacco al mondo del lavoro, giunse ad ammettere che il paese aveva bisogno di un grosso prestito (€20 miliardi, cioè un 1/5 del PIL, quasi 4 volte di più di quanto realmente necessario, come riconosciuto da alcuni banchieri) allo scopo  “di dare alle banche ed alle imprese una chance”. Tutte queste misure contro il mondo del lavoro e contro i salari hanno in ultima analisi portato alle stelle il costo della vita, che tradotto significa che oggi metà del paese vive in condizioni di povertà. Le statistiche indicano che 1/5 dei lavoratori dipendenti non riesce più a vivere col proprio salario e vive in assoluta povertà, sebbene la realtà potrebbe essere persino peggiore.

Inoltre, lo Stato ha chiuso d’ufficio almeno 1.300 scuole (su 3.000 chiusure pianificate) ed 1/4 degli ospedali, per creare le condizioni verso una totale privatizzazione dell’istruzione e della sanità. I trasporti pubblici sono quasi tutti privatizzati, lo Stato sta ora cercando di vendere anche le Ferrovie e le Poste. I servizi sono quasi tutti privatizzati, senza che per questo si sia creato nulla di quella promessa di “libera competizione di mercato per abbassarne i prezzi”, invece i prezzi dei servizi sono in costante crescita, visto che lo Stato ha effettivamente creato monopoli privati territorialmente separati. Durante questa povertà pianificata imposta dallo Stato, che viene chiamata “austerity”, i prezzi hanno continuato a crescere in modo insostenibile, specialmente quelli degli alimentari e dei servizi, rendendo il costo della vita insostenibile e costringendo le persone a fare più lavori o a lavorare strenuamente. Il tasso dei suicidi è cresciuto drammaticamente. Nel 2011, uno studio dell’UNICEF su 30 paesi ha rivelato che la Romania ha il più alto tasso di bambini che vivono in povertà.

La propaganda di Stato, per far passare sui lavoratori la povertà pianificata, è stata incentrata un giorno sì ed un giorno no sulla stigmatizzazione dei lavoratori: i politici li hanno accusati senza sosta di essere “pigri”, mentre lor signori si concedono più spesa pubblica per finanziare i loro sponsors nel settore privato e per far sì che gli apparati della polizia antisommossa e dei servizi segreti siano ben retribuiti. L’intera situazione può ben essere illustrata dal tormentone scandito dal popolo che ha protestato nelle strade, per settimane di fila, durante il duro inverno del 2012, contro gli abusi, contro la corruzione diffusa e contro la povertà indotta: “Perdonateci per favore: noi non riusciamo a produrre tanto quanto voi rubate”. La realtà è che la classe lavoratrice rumena è la più sfruttata d’Europa: per il più alto numero di ore lavorate (legalmente dovrebbero essere 8 ore al giorno, ma tutti gli studi parlano di 10-12 ore effettive di lavoro, a volte anche durante la fine settimana), e per i peggiori salari in Europa, mentre il costo della vita è comparabile (se non più alto in certe zone) con quello dell’Europa Occidentale.

La classe lavoratrice non è sindacalizzata, nel settore privato i sindacati non esistono, e quelli nel settore statale sono esclusivamente sindacati “gialli”. I sindacati “gialli” sono altamente responsabili dello stato di disaffezione che si sta diffondendo tra i lavoratori rumeni. Sebbene sia un fattore cruciale, non è questo il fattore più pernicioso nella terribile situazione della classe lavoratrice. Ancora peggio della mancanza di sindacati è la mancanza di coscienza dei lavoratori della loro condizione reale: una condizione di persone costrette a lavorare per un salario, di cui i 2/3 se ne vanno per la mera sopravvivenza. Tuttavia, la maggior parte dei lavoratori si identifica nella condizione di consumatori, nel tentativo di sfuggire alla generale denigrazione della classe lavoratrice, quale risultante da decenni di propaganda statale, politica, mediatica e culturale. Quanto prima le persone prenderanno coscienza della loro condizione di lavoratori, di schiavi salariati, e ne coglieranno le cause, tanto prima dissolveranno la cortina fumogena delle illusioni imposte loro dal capitalismo e meglio riusciranno a cercarsi ed a trovarsi l’un l’altro, ad organizzarsi ed a ribellarsi, nella solidarietà, nella lotta per l’emancipazione. Cosa difficile, perché la propaganda capitalista domina su tutti i media, ma non impossibile. Ci sono i modi per informarsi sulla vera storia della classe lavoratrice e delle sue lotte, per informarsi sugli sviluppi in corso tra le classi lavoratrici di altri paesi, sui modi migliori per sindacalizzarsi ed organizzarsi. Non c’è nessun altro modo per la classe lavoratrice per sollevarsi, organizzarsi e lottare per se stessa.

IASR – Iniziativa Anarco-Sindacalista di Romania

Traduzione a cura di FdCA-Ufficio Relazioni Internazionali

Verwandter Link: http://iasromania.wordpress.com

Un morto e almeno 50 arresti durante lo sciopero generale del 18 Ottobre in Grecia.

Il 18 Ottobre scorso in Grecia ha avuto luogo uno sciopero generale promosso dai sindacati riformisti Gsee e Adedy, al quale hanno partecipato, secondo le diverse fonti, dalle 25000 a più di 40000 persone, per protestare contro le nuove misure di austerità richieste dalla troika in cambio di nuovi aiuti finanziari al Paese (31,5 mld di €). Ad Atene, prima e durante i cortei di protesta degli scioperanti, la polizia ha operato arresti preventivi e attaccato gli assembramenti nei pressi di piazza Syntagma, facendo uso massiccio di granate assordanti e gas lacrimogeni ed impedendo l’accesso delle ambulanze sul luogo. Un manifestante di 65 anni, Xenophon Lougaris, lavoratore portuale disoccupato ed iscritto al sindacato stalinista PAME, è morto presumibilmente per arresto cardiaco provocato dalla massiccia quantità di gas lacrimogeni inalati. Diversi scontri sono scoppiati a seguito delle cariche poliziesche nel centro di Atene, a fine giornata si registravano un totale di almeno 50 arresti in tutto il Paese (nella capitale sono stati confermati 7 arresti a fronte di 103 fermi iniziali), diversi manifestanti hanno riportato ferite a seguito della violenza poliziesca, 5 di loro sono rimasti feriti in modo grave. Da segnalare la presenza di agenti in borghese cammuffati tra le file degli scioperanti e di neonazisti/neofascisti, accolti con slogan minacciosi e confrontazioni fisiche sopratutto da parte degli anarchici/antiautoritari.