La neutralità di Internet in un sistema di parte.

Si tratta di una questione fondamentale su temi quali accesso all’informazione, tecnologie, libertà, diritti dei consumatori, ma se ne sta parlando poco, almeno in Italia. Ci si potrebbe ironizzare sopra, immaginando che per molti/e la recente notizia di una minaccia ufficiale e molto concreta, proveniente dagli USA, alla cosiddetta neutralità di Internet, non sia importante quanto l’oltraggio dei due centesimi da pagare per le bustine di plastica per frutta e verdura nei supermercati, o forse non renda abbastanza in termini di ritorno d’immagine ai partiti politici impegnati in una precoce quanto insopportabile campagna elettorale. Ma la faccenda va presa sul serio: lo scorso Dicembre l’agenzia statunitense delle telecomunicazioni (Federal Communication Commission), ha abrogato la legge che garantiva la neutralità di Internet, ovvero che garantiva che tutti i dati in circolazione sulla rete fossero trattati allo stesso modo, senza poter rallentare o accelerare la velocità dell’uno o dell’altro. La legge ora abrogata assicurava che, come su un’autostrada, i dati viaggiassero alla stessa velocità e non in base ad un qualche “privilegio”, né le aziende potessero “comprare” l’accelerazione dei propri contenuti o il rallentamento o addirittura il blocco di quelli della concorrenza. Ora le cose potrebbero drasticamente cambiare, almeno stando alla nuova decisione presa dalla FCC, come viene spiegato in un ottimo post sull’argomento che ho letto nei giorni scorsi. Siamo ancora agli inizi, la mossa della FCC non è rimasta senza risposta da parte di chi negli USA vuole difendere la neutralità di Internet, perciò di questo argomento sentiremo porbabilmente parlare ancora a lungo – ma ancora troppo poco? Non posso però evitare di esprimere un paio di brevi considerazioni, in particolare su quanto sia “neutrale” l’accesso alle risorse, ai servizi e ai diritti e su quanto “neutrale” sia Internet tuttora, anche senza la fine dell’era della sua presunta neutralità.

Mi alzo la mattina di un giorno festivo e decido di andare a trovare un amico che vive in una città vicina. Prendo il treno e, visto che non ho molti soldi a disposizione, scelgo un regionale e non un Inter City, viaggio in seconda classe e, quando arrivo dal mio amico, andiamo a pranzo in una specie di trattoria più che in un ristorante, scegliendo il piatto del giorno perchè più economico degli altri. Una situazione classica, che sarà capitata a moltissime persone, nulla di strano vero? Quando vado a prendere un appuntamento da un medico specialista non lo ottengo più in fretta di chi ha un’assicurazione sanitaria privata (situazione tedesca). Quando cerco un appartamento in affitto, se dispongo di una buona busta paga, sono single e libero professionista ho più chance di trovarne uno. E se decido di volare con alcune compagnie aeree low cost, in cambio di un sovrapprezzo vengo imbarcato prima di altri passeggeri, posso trasportare bagagli più pesanti e sedere più comodamente. Tutto regolare, cose alle quali siamo abituati, come pagare per usufruire di un servizio e pagare di più per usufruire di un servizio -almeno presumibilmente- migliore. Com’è allora che ci si stupisce di un’Internet a doppia velocità, di aziende fornitrici di banda che incassano soldi da altre aziende fornitrici di contenuti per permettere che i contenuti di tali aziende siano più veloci di quelli della concorrenza, del fatto che l’utente finale debba sborsare più quattrini se vuole più contenuti, più servizi, più velocità? O del fatto che chi paga di più abbia maggior accesso ad un servizio o accesso a più servizi, in molti casi anche quando si tratta di servizi fondamentali? Il 12% della popolazione mondiale non ha accesso all’acqua potabile, molti altri devono pagarla a prezzi difficilmente sostenibili, eppure l’acqua è una risorsa vitale. Più che stupirci dovremmo incazzarci ed opporci a ciò, ma questo avviene troppo raramente, troppo debolmente, troppo tardi. Se mai avviene…

Non dovremmo nemmeno sorprenderci del fatto che Internet sia stata concepita dai suoi “padri fondatori” con uno spirito diverso da quello di chi vorrebbe ora privarla della sua cosiddetta neutralità. Un sacco di progetti sono nati con nobili intenti, sotto ottimi auspici, per poi venire inghiottiti dalla macchina del profitto, della concorrenza, della legge del più forte, lasciando dello spirito originario solo un lontano ricordo. Di sicuro chi si impegna per avere una rete attraverso la quale scambiare liberamente e gratuitamente idee, contenuti, informazioni e cutura ha già abbastanza da fare per denunciare e combattere censura, controllo, manipolazione e mercificazione del web. La possibile fine della neutralità di Internet non entusiasma nemmeno le grandi corporations, ma se la cosa dovesse andare avanti in questa direzione le più forti sui mercati la spunterebbero comunque. A perderci sarebbero in primo luogo i sostenitori della pluralità, del libero accesso alle risorse, chi vede la rete come un luogo il cui utilizzo va garantiro come diritto fondamentale. Si spera che questi non siano troppo pochi o troppo deboli, altrimenti dovremo presto abituarci alle corsie preferenziali, a pagare per quel che ci spetterebbe di diritto come già facciamo fin troppo spesso, abituati fin troppo in fretta ad una normalità assurda.

Verità e giustizia per Santiago Maldonado!

Fonte: anarresinfo.noblogs.org

“Il 18 di Ottobre nel rio Chabut è stato ripescato il corpo di Santiago Maldonado.
Era scomparso il 1 Agosto.
Desaparecido. Scomparso. Questa parola viene usata solo in spagnolo, perché solo in questa lingua assume il significato che hanno saputo imprimerle i regimi autoritari che negli anni Settanta hanno insanguinato l’America Latina.
Durante la dittatura di Videla sparirono circa 30.000 persone. Sequestrate, torturate per settimane, mesi, infine gettate in mare ancora vive da aerei militari.
I figli delle prigioniere incinta nacquero in galere segrete come l’ESMA, vennero presi dagli aguzzini dei loro genitori che li spacciarono per propri.
Pochi sanno che nei decenni trascorsi dalla fine della dittatura ci sono stati 310 desaparecidos. Desaparecidos della democrazia. Di loro non si sa più nulla.
Anche Santiago Maldonado sarebbe entrato a far parte della lunga lista di desaparecidos se centinaia di migliaia di persone non fossero scese in piazza in Argentina e nel mondo per chiedere di rivederlo e di rivederlo vivo.
Santiago partecipava alla lotta dei Mapuche della Patagonia argentina e cilena contro la multinazionale italiana Benetton.
Oltre 960.000 ettari di terre mapuche, sfruttate in passato da compagnie inglesi, dal 1990 sono di proprietà di Benetton, che le ha trasformate in enormi pascoli per pecore da lana, bovini e cavalli a loro volta sfruttati intensivamente.
Uno dei tanti casi di land grabbing, furto legale di enormi porzioni di territorio, sottratte alle popolazioni che ci vivevano. La forma “moderna” del colonialismo.
Contro Benetton e lo Stato argentino ampi settori della comunità mapuche conducono una dura e lunga lotta. In questi anni si sono moltiplicate le occupazioni, i piccoli sabotaggi, le azioni di blocco.
Santiago è stato inghiottito da un potere che non guarda in faccia nessuno, pur di continuare a fare affari.
Il primo agosto si trovava a Pu lof en Resistencia a Cushamen, quando un centinaio di poliziotti in assetto antisommossa hanno fatto irruzione, sparando proiettili di gomma e di piombo.
La gente è fuggita attraversando il fiume per ripararsi dalle pallottole. Santiago non è riuscito a guadagnare l’altra sponda e si è nascosto dietro ad un albero. Qui i suoi compagni hanno sentito i poliziotti gridare che ne avevano preso uno. Poi lo hanno gettato su un mezzo della polizia. La polizia ha negato di averlo arrestato ed ha cominciato le “indagini” solo a metà Agosto.
Soraya Maicoño quel giorno si trovava per strada ed è stata fermata e trattenuta per sei ore sulla ruta 40, mentre la Gendarmeria reprimeva la comunità Pu Lof en Resistencia di Cushamen. Ha visto Pablo Noceti, capo di Gabinetto del Ministero di Sicurezza della Nazione, passare più volte di lì.
Ha anche notato che tra i pick-up che si dirigevano a Pu Lof c’erano anche quelli della tenuta Leleque di Benetton. Entravano nel commissariato, tornavano a Leleque, andavano a Pu Lof. Anche loro davano ordini, indicazioni. Erano al corrente di quello che succedeva. Era già successo il 10 gennaio, quando Ronald McDonald, amministratore generale delle tenute di Benetton, prestò il camion del ranch per trasportare i cavalli che avevano sequestrato ai mapuche.
Prima di entrare nel governo di Mauricio Macrì, Pablo Noceti era stato l’avvocato dei militari accusati di aver partecipato alle torture e alle sparizioni degli oppositori politici e sociali argentini durante la dittatura. Noceti aveva messo in dubbio le prove giudiziarie definendole “una vendetta politica” e mettendo in discussione l’impossibilità della prescrizione per tali crimini.
L’uomo giusto al posto giusto, pronto ad accusare di terrorismo le organizzazioni mapuche, mentre Santiago Maldonado era vittima del terrorismo di Stato. In vesti democratiche.
Il giorno prima del sequestro di Santiago, il 31 luglio, membri delle comunità mapuche protestavano davanti al tribunale federale di Bariloche per l’arresto arbitrario di Facundo Jones Huala: sono stati colpiti dalla Gendarmeria Nazionale e dal reparto di Assalto Tattico della polizia aeroportuale di sicurezza, con proiettili di gomma sparati ad altezza d’uomo. Nove persone sono state arrestate e molte altre sono state ferite.
Il primo settembre centocinquantamila persone hanno attraversato il centro di Buenos Aires, mostrando cartelli e gridando a gran voce “Donde esta Santiago Maldonado?”, “Dov’è Santiago Maldonado?” “Lo abbiamo salutato vivo, vogliamo rivederlo vivo.” Le piazze si sono nuovamente riempite il primo ottobre.
A metà settembre fonti anonime della polizia federale avevano fatto filtrare la notizia che Santiago era morto per le torture subite durante la detenzione.
Un mese dopo il suo corpo viene fatto trovare nel fiume Chabut. Trecento metri più a monte del luogo dove erano passati i mapuche in fuga dalle pallottole della polizia. Come ha fatto a risalire la corrente?
Secondo il quotidiano La Nacion ci sarebbe persino un testimone, anonimo e pagato per la sua testimonianza, che avrebbe dichiarato di aver visto Santiago nel fiume. Una testimonianza costruita per screditare i compagni di Santiago, che hanno assistito alla sua cattura. Un modo per assolvere lo Stato.
Nessuno crede a questa storia confezionata per sottrarre alle proprie responsabilità il governo argentino e la la multinazionale Benetton.
Vi ricordate il Rana Plaza?
Il Rana Plaza era uno stabilimento in cui si produceva per diversi marchi internazionali, tra cui Benetton. Siamo in Bangladesh dove “diritti umani”, “tutela dei lavoratori” sono lussi che i padroni non concedono ai loro dipendenti, sfruttati ferocemente per paghe da fame. Ne morirono mille nel crollo di quella fabbrica fatta di carta e sputi. Vuoti a perdere. Come i mapuche. Ma qualcuno dice no, alza la testa, sceglie di lottare per la propria vita e per la propria dignità.
Nella lunga storia della lotta Mapuche per la propria terra, chiare sono le responsabilità dei governi che si sono succeduti.
Altrettanto chiare le responsabilità del gruppo Benetton. Dietro alla facciata antirazzista, gay friendly, ci sono i feroci colonialisti del nuovo millennio.
Le maglie colorate di Benetton si sono macchiate del sangue di tanta gente che lottava. Come Santiago Maldonado.”

Neofascisti: teste di legno e teste di cazzo.

Al più tardi dai tempi dello scandalo di “Mafia Capitale” anche i più distratti si sarebbero dovuti rendere conto di quali siano i veri ideali e i veri interessi delle organizzazioni neofasciste. In realtà ci si sarebbe dovuti accorgere da tempo di come stanno realmente le cose, sulla base di parecchi fatti analoghi, ma tant’è, meglio tardi che mai. E visto che nemmeno oggi è troppo tardi, ecco l’ennesima notizia a riprova che al di sopra di qualsiasi altro valore professato dai  patridioti orfani del duce ce n’è uno che conta più di tutti: il denaro. Anche a costo di fottere i propri camerati.

Questa, se il resto non fosse sufficiente, è l’ennesima prova di quale sia la natura di certe organizzazioni e dei personaggi che le compongono. Già dai tempi della loro fuga  in Gran Bretagna nel 1980 per sfuggire ai processi e alle condanne per reati di terrorismo comminate dai tribunali italiani, Roberto Fiore e Massimo Morsello, da bravi terzaposizionisti, scelsero la posizione che maggiormente gli faceva gola: quella degli affari. Con l’aiuto dell’amichetto xenofobo Nick Griffin crearono l’agenzia Meeting Point, collegata con l’italiana Easy London, iniziando a riempirsi le tasche nel loro esilio dorato, mentre Fiore lavorava per la tanto odiata perfida albione in qualità di agente dei servizi segreti dell’MI6. Rientrati comodamente in Italia con la calorosa accoglienza di diversi deputati del centrodestra, i due si occupano del neofondato partito Forza Nuova, il cui leader indiscusso rimane fino a oggi Roberto Fiore (Morsello morirà di malattia nel 2001). Occuparsi del partito significa non solo promuovere iniziative razziste, sessiste, omofobe, anticomuniste, antisemite e antiziganiste che vanno dagli insulti agli attentati dinamitardi (come quello compiuto nel 2000 da Andrea Insabato, simpatizzante di FN, contro la sede del quotidiano Il Manifesto) ai pestaggi per i quali ci si serve di adolescenti senza bussola né valori, manipolati a dovere. Tra un corteo “Prima gli italiani!”, un commento razzista victim blaming e un attacchinaggio di manifestini d’insulto a froci negri, si trova anche il tempo di fare affari. E siccome pecunia non olet, gli affari si fanno un pò con tutti, tanto col Vaticano quanto con la Russia, anche usando militanti ignari come prestanome. Con tutta una serie di belle aziendine dai nomi anglofoni molto cool e trendy è certamente più facile occuparsi delle esigenze degli italiani poveri ai quali banche, immigrati e massoni avrebbero tolto tutto, difendere la famiglia tradizionale da aborto, gay e educazione sessuale e promuovere i sani valori dell’anticomunismo e della supremazia della razza bianca. Magari i vertici forzanovisti negheranno l’evidenza (tanto sono allenati a negare, vedi l’Olocausto), ma i fatti sono sotto gli occhi di tutti. Alla prossima occasione in cui li vedrete sfilare nella vostra città al grido di “Tutto per la Patria!” forse avrete occasione di chiedergli quanto sia patriottica la loro modalità di fare politica. Intanto accontentatevi della genuinità delle loro meravigliose idee che, in una società decente, costerebbero badilate sul grugno a chi le professa e non indifferenza e spallucce.

Naomi Klein, “Una rivoluzione ci salverà. Perché il capitalismo non è sostenibile”.

Naomi Klein, “Una rivoluzione ci salverà. Perché il capitalismo non è sostenibile”, 2014 (prima edizione in italiano 2015), ISBN 978-88-17-08511-3

L’autrice canadese Naomi Klein, nota al pubblico internazionale per i suoi testi critici su globalizzazione, neoliberismo e shock economy, torna con quello che probabilmente è il miglior libro che abbia mai scritto ad occuparsi di un tema controverso, attualissimo e d’importanza vitale: il futuro ecologico del nostro pianeta. Senza girarci intorno, sulla base di quanto sostenuto dal 97% dei climatologi su scala planetaria, ovvero che il cambiamento climatico provocato dall’Uomo è già in corso e provoca disastri e vittime, e constatando i fallimenti delle conferenze sul clima degli anni passati, incapaci di raggiungere i seppur insufficienti obiettivi stabiliti sulla carta per ridurre il surriscaldamento globale, Kein invita a ripensare completamente il modello economico capitalista, la stessa idea di crescita e di sviluppo. Dobbiamo fare una scelta netta fra gli interessi dell’ élite economica e politica e la salvezza del pianeta Terra e dell’intera umanità. Rivoluzione o estinzione, per dirla bruscamente.

Se lei stessa, nell’introduzione al libro, ammette di aver troppo al lungo ignorato la portata del problema e l’ improrogabilità delle soluzioni adatte a risolverlo, nel primo capitolo ci introduce nel mondo di chi invece nega apertamente il cambiamento climatico provocato da attività umane e ci permette di scoprire come questi Think Tank della destra americana siano preoccupati non solo di negare l’evidenza scientifica, ma anche e soprattutto di possibili cambiamenti radicali in campo sociale ed economico legati alle soluzioni più efficaci alla crisi climatica. Nel secondo capitolo ci viene illustrato come il fondamentalismo del libero mercato abbia contribuito al surriscaldamento del pianeta, nel terzo viene trattato il processo di riacquisizione della gestione energetica da parte del settore pubblico, di delocalizzazione e autosufficienza energetica locale, di come ricostruire e reinventare la sfera pubblica, tema in parte ripreso ne quarto capitolo che analizza tra l’altro successi e limiti dell’azione governativa in diversi Paesi per quanto riguarda le politiche sostenibili nella produzione energetica. Particolarmente interessante per quel che mi riguarda (la collocazione geografica di me medesimo!) è l’esame e la critica della conversione ecologica della Germania, un Paese che punta ancora sull’uso della lignite, carbone particolarmente inquinante. Sempre a proposito di collocazione geografica della propria persona, il tema dell’estrazione di carburanti dalle sabbie bituminose dell’Alberta in Canada (regione di provenienza dell’autrice) ricorre spesso nel libro. Ma si parla anche di luoghi ben più lontani, come l’isola di Nauru nel Pacifico meridionale, che col suo tragico destino di cannibalismo ambientale e di opulenza autodistruttiva ci introduce al quinto capitolo, che mostra come la concezione secondo la quale l’estrattivismo possa essere fonte di ricchezza e benessere si scontri con la natura stessa de nostri ecosistemi e costringa anche i sostenitori del “progresso e benessere per tutti” a dover mettere in discussione le idee legate alla crescita illimitata.

Nella seconda parte di “Una rivoluzione ci salverà”, Naomi Klein si occupa principalmente delle illusioni legate a possibili soluzioni eterodirette della crisi climatica, mostrandoci come molte associazioni ambientaliste si siano fatte corrompere dalla logica del Big Businnes, tradendo i propri -per quanto deboli- obiettivi e intimandoci di non fidarci di pseudo-messia, presunti filantropi milionari, né di “soluzioni” geoingegneristiche maturate secondo la stessa logica che concepisce il nostro pianeta come una “cosa” da modellare secondo le esigenze dell’ Homo oeconumicus, una fonte illimitata di materie prime da sfruttare fino al parossismo per alimentare la megamacchina del Capitalismo.

Se nelle due parti precendenti Naomi Klein non risparmia dati allarmanti, scenari a tinte fosche e critiche a presunte soluzioni calate dall’alto e funzionali alla logica del sistema dominante che creano problemi ancor più gravi di quelli che presumono di risolvere, la terza parte del libro è dedicata maggiormente alla speranza. Non quella illusoria, perchè le alternative al disastro ecologico esistono e vengono implementate attualmente dalle comunità locali e dagli/lle attivisti/e che lottano per la salvaguardia del territorio, per la presenvazione delle biodiversità, per la sopravvivenza di ecosistemi e di intere popolazioni. “Blockadia” è il termine usato dall’autrice per descrivere una comunità fluida, transnazionale, in diversi casi eterogenea, legata nell’azione contro la devastazione ambientale. A questo punto, se qualcuno avesse avuto dei dubbi, risulta inequivocabile come le lotte ecologiste siano anche lotte sociali globali: senza un pianeta che permette la vita qualsiasi altra rivendicazione o battaglia non ha più senso, ma senza rivendicazioni e battaglie globali per il diritto all’autogestione del proprio territorio, alla giustizia sociale, all’uguaglianza, non può esistere nessuna concezione ecologista degna di questo nome. Dalla resistenza contro le minere nella penisola Calcidica greca alle lotte promosse da nativi e altri attivisti contro l’oleodotto nordamericano Keystone XL, passando attraverso l’Amazzonia e la Nigeria sfregiate dalle compagnie petrolifere multinazionali, l’autrice ci parla di resistenza e progettualità, improbabili alleanze e risultati insperati, sbattendoci ancora una volta in faccia la verità nuda e cruda della logica devastatrice capitalista: più sei povero, meno hai potere, meno conti ergo meno diritto hai di vivere. Il messaggio finale vuol essere una sfida a questo paradigma, non lascia spazio alle illusioni ma alla speranza: abbiamo poco tempo a disposizione, dipende da noi invertire la tendenza. Si deve reagire, uniti si può vincere!

Se una critica a quest’opera va espressa, non riguarda certo l’accuratezza del libro: completa il testo una mole impressionante di dati, citazioni e riferimenti bibliografici, a dimostrazione che Naomi Klein e i/le suoi/e collaboratori/trici si sono date veramente da fare nella stesura di quest’opera sotto l’aspetto della ricerca e delle fonti. Anche lo stile dell’autrice rende la lettura scorrevolissima e, nonostante la serietà del tema trattato, a momenti si può perfino sorridere. Si può forse affermare che la giornalista e scrittrice canadese ricada, come spesso è accaduto in passato, nel vecchio tranello del porre al centro del discorso il conflitto fittizio “socialdemocrazia vs. neoliberismo”? Stavolta no, secondo me. La tesi centrale di “Una rivoluzione ci salverà” è quella del cambiamento di stile di vita e di sistema economico, ma soprattutto di paradigma ideologico, che non si ferma di fronte alle promesse dei governi – nonostante su essi, debitamente spinti dai movimenti ecologici a prendere le decisioni necessarie per la salvaguardia dell’ambiente e della nostra salute, la Klein faccia ancora affidamento. Qui si parla di comunità in lotta che costruiscono alternative dal basso, orizzontalmente, unendo ecologia e sociale, senza lasciarsi abbindolare dalle sciocchezze in stile Green Economy, pronte a sfidare il potere economico, politico, legale di chi a scopo di profitto avvelena un pianeta che è di tutti/e. Il messaggio nel’insieme è chiaro, come ho scritto sopra: rivoluzione o estinzione, ecologia sociale o barbarie. Non è Naomi Klein che ci invita ad agire, ma la vita stessa, contro il progetto di morte e devastazione promosso per troppo tempo dal sistema dominante.  La questione è cruciale, la sfida non può essere perduta.

 

 

Un’opinione anarchica sull’indipendentismo catalano.

Che il referendum sul’indipendenza catalana indetto per il prossimo 1 Ottobre abbia successo o meno, a prescindere dal fatto che un suo esito eventualmente positivo non venga riconosciuto dalle istituzioni dello Stato spagnolo, vorrei abbozzare alcune  considerazioni generali, dal mio personale punto di vista di anarchico, sulla questione specifica dell’indipendentismo catalano e, piú diffusamente, sull’indipendentismo in generale, partendo da un presupposto libertario. Premetto che non è facile farsi rapidamente un’idea delle dinamiche che agitano gli animi dei fautori dell’indipendenza catalana e dei loro avversari unionisti. Ritengo che un buon punto di partenza sia la lettura dell’articolo pubblicato sul sito Sollevazione col titolo “La Catalogna, la Spagna e l’Unione Europea” che, da un punto di vista fortemente critico nei confronti dell’indipendenza catalana da una prospettiva di sinistra “radicale” e antieuropeista, spiega in maniera abbastanza approfondita chi e perchè sostiene il referendum sull’indipendenza catalana e chi e perchè vi si oppone, contestualizzando in particolare il rapporto degli indipendentisti con l’Unione Europea. Di articoli su questo tema se ne trovano molti altri, di diverse tendenze, sul web e su carta e, se ci si vuol fare un’opinione con un minimo di fondamento, se ne dovrebbero selezionare, leggere e confrontare parecchi. Due libri segnalati come interessanti che trattano la questione catalana sono:  Elena Marisol Brandolini, Catalunya – España, il difficile incastro, Roma, Ediesse, 2013 e Angelo Attanasio e Claudia Cucchiarato, La questione catalana. Independéncia?, GoWare, 2013 [e-book].

Ed eccomi arrivato alle mie considerazioni sulla faccenda, riassunte schematicamente:

Indipendentismo, una panacea per tutti i mali. La politica dei partiti tradizionali e del governo centrale corrotto, incompetente e distante dai tuoi interessi ti delude? Sei in balia di una crisi economica che mette in dubbio quel che finora sembrava certo? Non ti senti padrone di decidere della tua vita e intorno a te serpeggia il malumore di altri insoddisfatti? La soluzione indipendentista, fermo restando i presupposti storico-culturali (se non ci sono si inventano dal nulla, come in “Padania”), potrebbe fare a caso tuo! Almeno questo è quello che ti raccontano i venditori di fumo interessati a trarre vantaggio dal riassetto istituzionale in questione. Non metto in dubbio che tra i sostenitori di una qualsiasi secessione ci siano anche persone benintenzionate e in buona fede, ma queste persone solitamente antepongono l’emotività al discorso razionale e tendono ad adeguare la realtà alle proprie opinioni e aspettative e non viceversa. Secondo me chiunque ha il diritto di autodeterminarsi, il che va ben oltre qualsiasi dichiarazione di voler rendere indipendente una regione da un’altra. Io intendo l’autodeterminazione come un processo di libero sviluppo della propria persona, di libera scelta riguardo i più disparati aspetti della propria esistenza.

A propugnare l’indipendenza della Catalogna dal resto della Spagna sono partiti di diversa tendenza e ispirazione, ma soprattutto persone di condizione sociale ed economica molto diversa fra loro. Su quest’ultimo aspetto non si può sorvolare. Che interessi comuni hanno il proprietario di una catena di alberghi e un lavapiatti? L’uno è lo sfruttatore dell’altro, lo è oggi anche grazie alle leggi spagnole e lo sarebbe ugualmente in un ipotetico futuro grazie alle leggi di uno Stato catalano. Se gli indipendentisti volessero fare una rivoluzione sociale abolendo il capitalismo e sostituendolo con modelli economici collettivisti/comunitari/solidali (cosa che, a ben guardare, ben pochi tra loro sognano) non perderebbero tempo sperando di vincere un referendum per il riconoscimento legale di un nuovo Stato sottomesso fin dalla sua nascita alle politiche del neoliberismo globale. Alla classe politica non interessa certo perdere i privilegi dei quali gode, né i capitalisti catalani sono smaniosi di rinunciare ai loro profitti perdendo competitività sui mercati, soccombendo alla concorrenza o lasciandosi addirittura togliere i mezzi con i quali sfruttano chi lavora per loro. Combattere al fianco del tuo nemico ha senso solo se tu lo ritieni piuttosto un alleato col quale far causa comune in nome dell’obiettivo principale che persegui, in questo caso un nuovo Stato. Competitivo, forte sui mercati, capace di crescita economica, politicamente e socialmente stabile. Il tutto condito con sangue e sudore dei lavoratori che hanno abdicato alla loro coscienza di sfruttati e oppressi in cambio di nuove catene.

“Ma abbiamo le stesse radici culturali!”, mi son sentito dire parecchie volte da indipendentisti di varia provenienza. Che differenza fa se a picchiarti è un bastone rosso o un bastone nero?, rispondo io riecheggiando Bakunin. E che differenza fa se chi ti spreme via tempo, forze e intelligenza a proprio vantaggio è nato nella tua stessa città, parla la tua stessa lingua, se amate gli stessi piatti tipici, professate lo stesso culto religioso e festeggiate le stesse ricorrenze? A parte il fatto che la cultura si crea e si modifica, non mi sembra un requisito fondamentale sul quale costruire alleanze o peggio in nome del quale scannarsi.

Eppure, un tempo si parlava di popoli e nazioni oppresse. Almeno in campo marxista era un dato di fatto indiscusso, come ricorda Steven Forti in un articolo ripreso da “A-Rivista Anarchica” del Dicembre 2013-Gennaio 2014: “In Irlanda, per il Marx maturo, non c’era una questione sociale al di fuori di una questione nazionale. Anche l’ultimo Engels sottolineò in più occasioni come l’internazionalismo del proletariato era possibile solo se esistevano nazioni indipendenti. La posizione di Lenin, ribadita più chiaramente nel Congresso dei popoli oppressi tenutosi a Baku nel 1920, era stata resa esplicita già nel 1916: “Credere che la rivoluzione sociale sia immaginabile senza le insurrezioni delle piccole nazioni nelle colonie e in Europa (…) significa rinnegare la rivoluzione sociale”.
Anche Mao, almeno a partire dalla Lunga Marcia iniziata nel 1934, dimostra posizioni orientate ancora di più in questa direzione: “nella lotta nazionale, la lotta di classe assume la forma di lotta nazionale; e in questa forma si manifesta l’identità tra le due lotte”. Ovvero: “Nella guerra di liberazione nazionale, il patriottismo è perciò un’applicazione dell’internazionalismo”. Lasciando da parte sia le ovvie considerazioni riguardo l’incoerenza dei pessimi epigoni di Marx nell’applicare il principio di autodeterminazione dei popoli, sia le funeste conseguenze degli ossimorici “socialismi di Stato”, mi chiedo se nel caso della Catalogna si tratti di una lotta di liberazione dallo stato centrale e non, come invece sembrerebbe, un caso di sciovinismo bell’e buono. La Catalogna infatti è fra le regioni più benestanti della Spagna, parte degli indipendentisti ritengono che starebbero meglio economicamente se avessero un loro Stato (lo conferma lo studio di un’associazione imprenditoriale catalana favorevole all’indipendenza, lo smentiscono tutte le fonti vicine al governo di Madrid). Perciò via i pesi morti, avanti i più forti. Il tutto in un’ottica borghese di sciovinismo del benessere, mentre la solidarietà e le lotte comuni con qualsiasi sfruttato ed oppresso spagnolo, immigrato o che vive, lavora e lotta altrove vanno a farsi friggere.

Mentre pure un’organizzazione che era marxista e autoritaria come il PKK ha cambiato da diversi anni visione e obiettivi  e tenta oggi di realizzare, insieme ad altre forze politiche, sociali e militari non l’indipendenza di uno Stato-nazione, ma l’autonomia di una regione, il Rojava, in chiave multietnica e sotto la bandiera del confederalismo democratico di ispirazione libertaria, devo tristemente constatare che altrove c’è chi ancora si attacca all’idea di Stato. C’è da riflettere anche sulle affermazioni fatte da un militante catalano del sindacato anarchico spagnolo CNT durante un’intervista di due anni fa, pubblicata da Umanità Nova. Se da un lato rimane inamovibile il rifiuto di qualsiasi Stato, d’altra parte si lascia intravedere la possibilità circa un miglioramento delle condizioni di lavoro e di vita sociale in un nuovo Stato catalano. Da dove scaturisca quest’ottimismo non è dato saperlo. Di certo, se i presagi non ingannano, comunque vada il referendum sull’indipendenza catalana, le istituzioni spagnole non sono disposte a riconoscerlo e già fanno di tutto per sabotarlo, incluso minacciare di portare in tribunale i sindaci catalani che ne autorizzeranno lo svolgimento nei loro comuni. Resta da vedere fino a che livello si innalzerà lo scontro fra Madrid e i separatisti e se questo offrirà spazi per l’espressione di forme di conflittualità che vadano oltre le mere rivendicazioni sovraniste.

Terrorismo islamico e responsabilità dell’Occidente.

A seguito dei diversi attentati di matrice islamica che negli ultimi anni hanno insanguinato l’Europa, numerosi politici, giornalisti e commentatori vari hanno spesso relativizzato le responsabilità dei Paesi occidentali nell’insorgere del fenomeno terroristico, sottilineandone le caratteristiche autoctone e intrinsecamente legate alla natura stessa della religione islamica e alla cultura dei luoghi dove tale culto viene professato.  Pur con le dovute differenze, questi commentatori, solitamente dichiarandosi lontani da qualsiasi intento islamofobo, hanno in comune la tendenza a voler fornire un’alibi alla coscienza del lettore medio, dimenticando come se nulla fosse secoli di politiche coloniali e di imperialismo, di dominio e sfruttamento economico e violenza militare praticate in giro per il mondo da parte delle potenze occidentali. Gli argomenti principali vertono, in maniera più o meno esplicita, sulla presunta incapacità da parte dei Paesi cosiddetti sottosviluppati di Medio Oriente, Nordafrica, eccetera, di fornire stabilità, sicurezza e benessere ai propri abitanti, rimanendo impelagati in conflitti regionali alimentati da governi corrotti e despotici che non concedono ai propri cittadini i diritti liberali ai quali noi siamo abituati da secoli. Concetti quali “Loro non sono passati attraverso la Rivoluzione Francese” e “Nella religione musulmana non esiste separazione fra Stato e Chiesa” vengono ampiamente usati come argomenti a sostegno della discolpa nostrana. Gli opinionisti più progressisti evidenziano come, certamente, vi siano differenze fra diverse concezioni dell’Islam, ma in fin dei conti riconducono la responsabilità delle violenze a logiche in gran parte indipendenti dall’azione svolta storicamente dall’Occidente nelle aree nelle quali il fenomeno ha origine.

Mi sono spesso imbattuto nelle dicharazioni di esponenti della destra tedesca, che, pur non inneggiando apertamente al Terzo Reich, intendevano ridimensionare le responsabilità storiche  della popolazione tedesca, a lor dire soggiogata da pochi individui, di fronte agli orrori della Shoah e del secondo conflitto mondiale. “Es ist Schnee von gestern”, ripetevano, acqua passata come si dice in Italia, un’espressione a metà strada fra il menefreghismo e il colpo di spugna, pronunciata con  leggerezza criminale, con la consapevolezza di chi mette in conto la reiterazione delle nefandezze che relativizza. Nel caso dei rapporti fra Occidente e Medioriente si vorrebbero scordare o perlomeno far slittare in secondo piano fatti storici quali ad esempio l’accordo di Sykes-Picot, tanto per citarne uno fra i più rilevanti, ovvero la creazione di Stati quali Iraq e Siria da parte delle potenze europee Francia e Gran Bretagna per motivi d’interesse economico, politico e strategico. Una dimenticanza univoca visto che un paio d’anni fa lo Stato Islamico, dalle colonne della sua rivista Dabiq, affermava con la sua nascita di infrangere quell’accordo. Allo stesso modo si vorrebbero gettare nell’oblio le politiche del “divide et impera” praticate  da Assad e da altri dittatori  comodi a questa o a quell’altra superpotenza mondiale, in Siria come altrove, sulle popolazioni di Stati creati a tavolino; si vogliono far dimenticare sia il colonialismo esplicito di ieri quanto la dominazione economica di oggi da parte di chi detiene il potere economico e di conseguenza politico, un potere libero di sterminare intere popolazioni devastandone i territori e le economie tradizionali in nome del libero mercato e della crescita economica  senza che si sollevi la stessa ondata di indignazione  alla quale assistiamo dopo ogni attentato compiuto in Europa dagli accoliti del Califfato. Le dinamiche interne al terrorismo islamico esistono, è innegabile. Qualsiasi libro sacro può essere interpretato nel più svariato dei modi, l’oscurantismo fondamentalista e violento è uno dei tanti possibili. Esistono e sono esistiti in passato gruppi terroristici buddisti e cristiani, induisti ed ebraici, musulmani e scintoisti. Quel che ci si deve chiedere è come certi gruppi potrebbero essere sconfitti e, al tempo stesso, come alcuni di essi non lo siano ancora stati. L’invasione dell’Iraq da parte degli eserciti di USA&Co. e le strategie politiche ivi applicate non hanno certo aiutato a far fuori un gruppetto composto originariamente da poche decine di fanatici, né l’opportunistico sostegno statunitense a guerriglieri jihadisti in Afghanistan in funzione anti-sovietica ha contribuito alla stabilità del Paese e alla sicurezza a livello internazionale. Il problema centrale rimane quello di sempre, la logica del dominio: quello che l’Occidente per mezzo dei suoi tentacoli economici, politici e militari esercita nelle aree “povere” e “sottosviluppate” del mondo e quello che alcune forze che vi si oppongono per interessi specifici, oscurantiste e sanguinarie, esercitano in diverse regioni o aspirano ad esercitare. La stessa logica di dominio non guarda in faccia le potenziali vittime degli attentati terroristici di matrice fondamentalista islamica in Occidente, le considera danni collaterali alla stregua di quelli provocati dagli interventi militari in altre aree del pianeta e al tempo stesso si nutre delle paure e delle insicurezze delle persone che in Occidente ci vivono. Chi ha paura è più facilmente disposto a rinunciare ad una parte della propria libertà (già di per sé condizionale!) in cambio di sicurezza almeno apparente. Ed è così che gli strateghi nelle stanze dei bottoni prendono non due, ma interi stormi di piccioni con una sola fava. La paura che rende docili e irrazionali, la richiesta di interventi decisi da parte dei governi, il braccio armato che dovrebbe mettere a tacere il pericolo esterno che si rivolge all’occorrenza contro i “nemici” interni che dissentono, la delega delle soluzioni a chi i problemi consapevolmente li crea, la reiterazione di politiche di dominio, appunto, su scala locale e mondiale. Il terrorismo islamico diviene un’ottima scusa, benzina nel motore del dominio, mentre il terrorismo che ha fatto comodo in passato e fa tuttora comodo al mantenimento dell’ordine costituito e del dominio da parte degli Stati nei quali viviamo viene mascherato, legittimato, giustificato, male che vada negato o attribuito ad altri. I “nostri” sono combattenti per la libertà, mica gente che mette bombe nelle piazze e nei treni o spara sulla folla o rade al suolo interi villaggi!

E noi dovremmo dimenticare, smetterla di indagare le responsabilità dei nostri governi, raccontarci a vicenda menzogne per rendere la realtà accettabile mettendo a tacere le nostre coscienze. Interrogarci sulle logiche profonde di questo sanguinoso circolo vizioso per potervi porre fine? Macchè, è tutta colpa di barbari sottosviluppati nelle cui terre va esportata a suon di bombe la democrazia che nemmeno noi conosciamo, il resto non conta. Torniamo a dormire, tanto sappiamo cosa provoca il sonno della Ragione. Anzi, no, ce lo siamo scordato: roba vecchia, acqua passata.

Dialogo con un cittadino tedesco qualunque su richiedenti asilo e immigrazione.

Solitamente non sono il primo a iniziare certi discorsi, ma per un motivo o per un altro mi capita di frequente di parlare di argomenti politici e sociali col mio prossimo. Una conversazione fra le tante è quella svoltasi un mese fa circa con un tizio che conosco di vista, una persona “del posto”, quindi tedesco (di nascita e di origine, anche se non ho a disposizione un’albero genealogico che mi dica da dove discendono i suoi antenati, hahaha!) , tra i cinquanta e i sessanta, di professione tassista, definibile in modo molto approssimativo come il classico cittadino tedesco qualunque. Non ricordo come si sia iniziato a parlare di immigrazione, richiedenti asilo e profughi, quel che ricordo lo riporto di seguito, non alla lettera, ma con la volontà di non omettere o modificare nulla -memoria permettendo. Il mio interlocutore è contrassegnato dall’abbreviazione CTQ, cittadino tedesco qualunque, io sono BB, Blackblogger.

CTQ: Mia figlia lavora per un’impresa di pulizie ed è stata incaricata di pulire un centro di accoglienza per richiedenti asilo. Quando lei e le colleghe hanno visto in che condizioni era il posto si sono rifiutate, hanno detto “un conto è pulire, ma spalare via l’immondezza è un’altra cosa!”. Questa gente vive così, ma non gliene frega nulla?

BB: A nessuno piace vivere in mezzo allo sporco. Gli immigrati che da alcuni anni a questa parte arrivano qui in Germania vengono accolti in strutture organizzate in fretta e furia, a volte decenti ma più spesso inadeguate o addirittura pessime. Ho parlato con un paio di persone che lavorano tra il personale addetto alla gestione delle strutture. Mi hanno raccontato di come queste strutture siano carenti, di come a ogni persona costretta a stare là dentro venga dato un tot di cibo, di carta igienica, di shampoo al giorno. Ci sono persone che hanno subíto traumi di natura psicologica, altre che hanno bisogno di cure mediche, molti di loro hanno lasciato amici e familiari nel Paese d’origine, tutti si chiedono quale sia il proprio futuro, ma devono stare tutto il giorno lì senza far nulla con persone che non conoscono e che spesso non parlano la loro lingua, non possono lavorare anche se vorrebbero, devono solo star calme e aspettare. Solo che stare calmi in situazioni del genere è difficile. Io mi stuferei presto…

CTQ: Eh, ma non possiamo mica accoglierli tutti! Vogliono venire tutti in Germania, stanno venendo tutti qui, ma come facciamo?

BB: Interessante, a sentire molti italiani sembra che tutti gli immigrati arrivino in Italia e ci rimangano! Eppure sono i primi a sentire gli effetti della crisi economica: tra il 2008 e il 2012 un milione di stranieri ha lasciato l’Italia (nota: dati riportati da Horaczek/Wiese, “Gegen Vorurteile”, 2015, pag. 27). Pensaci un attimo: la Germania è oggi uno degli Stati più ricchi al mondo. Dopo la Seconda Guerra Mondiale la Germania accolse 10 milioni di profughi (nota: in realtà furono circa 12 milioni!), cacciati dai territori occupati sotto il nazismo. Un Paese devastato dalle bombe, dalla guerra, hai presente le foto di Colonia nel ’45?, che accoglie tutta quella gente. E oggi, con tutti i mezzi a disposizione? Che scusa vogliamo togliere fuori? Certo, non è solo una faccenda tedesca. Si parla tanto di quest’ Europa solidale, ma vediamo che Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e altri Paesi, non solo dell’Est, luoghi di emigrazione per eccellenza, rifiutano di accogliere gli immigrati…sembra che si ricordino che esiste l’Unione Europea solo quando c’è da chiedere qualcosa. Ognuno dovrebbe fare la sua parte, per me è una questione di umanità e di solidarietà.

CTQ: Però io li vedo, molti di loro hanno lo smartphone e non arrivano qui vestiti di stracci. Non sono certo tutti poveri.

BB: Chi fugge dalle zone di guerra non è sempre povero, le bombe non guardano in faccia nessuno. Il fatto che una persona non sia povera non significa che non meriti accoglienza di fronte alle catastrofi. E poi, avere uno smartphone non è segno di ricchezza oggigiorno,alcuni modelli costano un centinaio di Euro… Cos’è, non dirmi che non conosci gente qui che compra cose che non gli servono urgentemente e che non può permettersi, a rate, indebitandosi!

CTQ: Sì, in effetti…

BB: Ci sono anche immigrati che vengono qui perchè a casa loro non hanno un lavoro, né prospettive di trovarne uno decente e non hanno prospettive di ottenere il diritto di asilo. Io penso che tutti abbiano il diritto a rimanere. Anche io se vogliamo posso definirmi un Wirtschaftsflüchtling, sono andato via dal mio Paese per via della disoccupazione e delle condizioni di lavoro che sapevo essere peggiori che qui, solo che io in quanto cittadino di uno Stato dell’UE sono privilegiato rispetto ad un cittadino kosovaro o nordafricano, nessuno mi caccia via di qua, ma non perchè sono migliore degli altri, solo perchè ho un passaporto “fortunato”. Non penso di meritare accoglienza più di chiunque altro solo perchè sono italiano!

CTQ: Gli italiani qui però sono venuti per lavorare, personalmente non ho mai avuto problemi con loro. Ne conosco tanti, lo sai.

BB: Sono venuti qui come gastarbeitern, per lavorare, come i portoghesi, i turchi, i greci e tutti gli altri, grazie a convenzioni con i rispettivi Stati di provenienza, perchè faceva comodo all’economia tedesca. Serviva manodopera. Il benessere economico di questo Paese è stato raggiunto anche grazie allo sfruttamento di quegli immigrati, che oltretutto erano spesso vittime di pregiudizi e discriminazioni da parte di istituzioni e popolazione locale, non dimentichiamolo. I tedeschi vanno in giro per il mondo, non solo in vacanza, ma a studiare o a trascorrere la vecchiaia, ma anche per migliorare la loro condizione economica…hai presente “Goodbye Deutschland”(Nota: programma stile reality nel quale cittadini/e tedeschi/e vengono seguiti nel cercare fortuna in altri Paesi)? È pieno di tedeschi o cittadini di origine tedesca negli USA, in Australia, in Svizzera, Argentina, Austria, Scandinavia… Perchè loro possono e altri no?  È solo una questione di leggi fatte per soddisfare interessi economici, a rimetterci, a pagare spesso con la vita, sono gli esseri umani meno privilegiati. Quel che accade ora in Siria, Iraq, Afghanistan, è anche colpa delle politiche e degli interessi dei Paesi occidentali.

CTQ: Ma io vedo al tg che quelli che arrivano sono uomini giovani…io non lascerei mai indietro la mia famiglia!

BB: No, non sono solo uomini giovani. Magari lo sono più spesso nel caso degli immigrati “economici”, vengono qui con l’obiettivo di trovare un lavoro e farsi raggiungere in seguito dalla famiglia o spedire i soldi ai familiari nel loro Paese, oppure tornare indietro dopo alcuni anni coi risparmi. Tui che conosci tanti italiani qui in Germania, sai che anche molti di loro hanno fatto così. Ognuno ha una storia diversa alle spalle e ci sono diversi motivi per i quali si emigra da soli, sempre che questo sia il caso. Oltretutto quel che vedi in tivú spesso non è autentico e genuino, ci viene mostrato solo quello che si vuole mostrare. Quello che vorrei farti capire è che se non abbiamo informazioni corrette non possiamo farci un’opinione valida, che poggia su basi reali. E se ci dimentichiamo di essere solidali e umani perdiamo qualità preziose che ci aiutano a costruire una società migliore e a convivere in armonia.

CTQ (Dopo una lunga pausa di silenzio, accompagnata da uno sguardo in parte insicuro, in parte indagatore-così almeno lo interpreto io): Sai una cosa? Dovresti fare il politico! Parli bene e hai un sacco di buone idee!

BB (Risata): A me i politici non piacciono. Hanno già i loro piani, non ascoltano certo quelli come me. Non aspettiamoci nulla da loro, dobbiamo essere noi a fare qualcosa. La risposta che stanno dando alla questione dei richiedenti asilo è parte del problema, non una soluzione.

Dopodiché la conversazione cambia argomento e io mi allontano. Non so se sia riuscito a intaccare i luoghi comuni del mio interlocutore, un cittadino tedesco qualunque con gli stessi dubbi, le stesse insicurezze, le stesse frasi di tanti altri. Di sicuro l’ho lasciato senza argomenti, il che capita spesso a chi discute con me, ma non significa granché: forse il giorno dopo ha avuto una discussione sullo stesso tema e ha ripetuto le stesse cose che aveva detto a me, o forse nel frattempo si è dimenticato addirittura che il nostro colloquio abbia mai avuto luogo. Non l’ho più incontrato finora, perciò non lo posso sapere, ma in fondo non ha importanza. Esporre le mie opinioni, che nel corso del tempo sono cambiate almeno in parte, in modo più o meno netto, è quel che faccio da almeno vent’anni a questa parte, quasi quotidianamente. Quel che mi preme è mostrare un’altra prospettiva, spesso in ombra a causa della cattiva informazione, delle paure ataviche, dell’ignoranza, dell’egemonia ideologica del sistema di dominio imperante; mi interessa mettere in dubbio quel che fino ad un momento prima sembrava essere una certezza, far capire che si deve scavare più a fondo per afferrare la sostanza di quel che accade intorno a noi, per poter mettere in discussione tutto, anche se ciò può spaventarci. Non so se ho mai convinto qualcuno/a, sempre che convincere sia la cosa più importante. Di sicuro so che non smetterò.

 

Saronno: 3 giorni contro le frontiere.

Per ulteriori informazioni e approfondimenti: https://collafenice.wordpress.com/2016/11/17/3-giorni-contro-le-frontiere/

“Non più la Questione Kurda, ma l’Alternativa Kurda”.

Articolo pubblicato in lingua inglese sul sito Kurdish Question e riproposto tradotto in lungua italiana dal sito Da Kobane a Noi:

“Non più la Questione Kurda, ma l’Alternativa Kurda
di Hawzhin Azeez

È un errore, oppure una violenza simbolica, continuare a sostenere che la “Questione Kurda” resti irrisolta.
Per gli studiosi, gli esperti di politiche nazionali e internazionali e i burocrati la Questione Kurda, con le sue complesse implicazioni politiche intra- e internazionali, resta il dilemma chiave dei tempi moderni. La resistenza epica contro Daesh da parte delle YPG-YPJ ha lanciato la Questione Kurda sotto i riflettori internazionali come mai prima. Si tengono seminari e conferenze, libri e saggi vengono scritti uno dopo l’altro e centinaia di persone attingono in massa a pagini e siti pro-Kurdi in cerca di informazioni.
E forse l’etichetta clinica della Questione Kurda poteva essere utilizzata, perché i Kurdi e il loro ostinato rifiuto di venire assimilati e turchizzati, arabizzati o persianizzati è sfociato in reazioni sempre più violente da parte dello stato per risolvere il “problema”. Di conseguenza, per decenni i Kurdi hanno dovuto far fronte alle pulizie etniche, ricollocamenti etnici, politiche di arabizzazione, genocidi, e la perdita dei diritti umani più elementari a causa degli stati arbitrari e artificiali che a loro volta sono stati prodotti da recinti coloniali istituiti con la violenza. Gli stati artificiali e le loro macchinazione repressive e ideologiche hanno promosso politiche di monoidentità violente, escludenti, oppressive che hanno a loro volta portato alla costruzione di identità nazionali immaginarie e costrutti mitici che inneggiano a “una storia, una nazione, una lingua, una bandiera”. Questa identità intrisa di sangue non appartiene soltanto agli stati post-coloniali, ma è tipica di tutti gli “stati-nazione” moderni.

L’attenzione prevalente, interna ed esterna, sulla cosiddetta, prolungata Questione Kurda comprende questo tipo di discorso: “il sistema internazionale fallisce miseramente nel risolvere questo dilemma, o addirittura nel riconoscere la legittimità della drammatica condizione Kurda, persino di fronte alle continue violenze contro i Kurdi, soprattutto in Turchia, violenza che avvengono su ampia scala e che aumentano in maniera inquietante. Una nuova Ferian, “la missione civilizzatrice”, una logica eurocentrica-orientalista che presume che i disgraziati-soggettificati Kurdi chiedano all’Occidente neoliberista, statocentrico, capitalista di individuare la soluzione del loro “problema” – problemi che questo sistema mantiene alacremente.

I danni tremendi e deliberati ai siti storici come Sur, come Nusaybin e, attualmente, Shex Maqsud sono una prova sufficiente della mancanza di volontà e di interesse da parte di questo Sistema; è vero piuttosto che il sistema intenzionalmente spezza il legame tra l’identità e il passato per indebolire lo spirito dei Kurdi. In quanto Kurdi, il nostro dialogo interno e il discorso con l’Occidente non riesce a registrare in maniera definitiva e non apologetica la fine del “problema” (un termine che implica che la colpa vada addossata a coloro che subiscono la violazione dei diritti umani fondamentali, la cui semplice esistenza si pone come un “problema” per il sistema): in che luogo e modo i Kurdi dovrebbero collocare i loro diritti etnico-religiosi all’interno del Medioriente?
È evidente che le continue violenze commesse contro i Kurdi continuano a dimostrare la supremazia e il fallimento del sistema internazionale, eurocentrico e statocentrico. E, cosa ancora più importante, dimostrano il fallimento della democrazia neoliberista, o parlamentarismo capitalista, quale paradigma supremo del “nuovo ordine mondiale”. La privatizzazione, l’avanzata dei mercati, la deregulation, l’outsourcing, l’indebolimento dei sindacati, la diminuzione delle tasse ai ricchi, la forbice sempre crescente tra ricchi e poveri, la depoliticizzazione, l’anti-intellettualismo, le crisi finanziarie globali, la devastazione ambientale, le guerre neocoloniali con conseguenze disastrose (Iraq, Afghanistan…), l’ascesa dell’ISIS e di altre organizzazioni terroriste che crescono in loco ma i cui semi vengono gettati a livello internazionale, l’industria delle armi che vi è associata: tutti elementi sintomatici dei fallimenti della democrazia neoliberista eurocentrica e statocentrica. Perfino nel momento in cui i Kurdi, e altre minoranze etnico-religiose, grazie al confederalismo democratico, continuano a creare democrazie radicali dal basso, comuni e cooperative, consigli di strada, locali e regionali con l’intento di accrescere l’impegno, la partecipazione e la responsabilità politica; perfino nel momento in cui tentano di rimuovere decenni di conflitti primordiali che si sono trascinati nel tempo, di rimuovere l’odio, e al suo posto far nascere una relazione basata sui valori tipici del comunalismo, la tolleranza e la coesistenza reciproca.

Gli accademici, gli esperti e i decision-makers occidentali continuano faticosamente a cercare di affrontare la Questione Kurda; dovrebbero invece concentrarsi sul fallimento congenito della loro infrastruttura capitalista, macchiata di sangue, il fallimento della sua democrazia neoliberista, della sua incapacità a dare risposte efficaci e a creare un equilibrio adeguato ai diversi bisogni delle sue masse sfruttate, dei gruppi e degli interessi minoritari. Al contrario, la democrazia neoliberista continua a promuovere una omogeneità culturale aggressiva perfino nelle cosiddette società “democratiche” e “multiculturali”.

In Australia, la coesione nazionale viene espressa attraverso uno schema razziale illuminista e le conseguenti politiche identitarie xenofobe, che sono poi sfociate nel disastroso “Tampa affair”. Rispedendo indietro i migranti “sui barconi” o i gruppi di subumani che si trovano in fondo allo schema razziale, John Howard, allora primo ministro, decretò che “siamo noi a decidere chi entra in questo paese e in che circostanza”, un approccio che è stato fatto proprio dai successivi governi laburisti e che ha condotto alla creazione di centri di detenzione sulla terraferma e in mare. Carcerazione, malattie mentali, omicidi, stupri di bambini e donne in condizioni di vulnerabilità che cercavano un luogo sicuro, tentativi di suicidio… ecco alcuni degli effetti collaterali di una detenzione coatta prolungata per mesi, se non per anni di fila. Altre migliaia di persone muoiono in mare tentando di raggiungere porti “sicuri”, porti che nel frattempo lavorano alacremente per costruire muri di acciaio per tenerli fuori. Il corpo senza vita di Alan Kurdi ha espresso questa tremenda verità.
E invece il popolo Kurdo e altre minoranze del Merioriente, potenziate e liberate dalla pratica del confederalismo democratico, stanno aiutando centinaia di migliaia di rifugiati e di sfollati interni. Nella città di Kobane, a sua volta irriconoscibile per i danni inflitti, si trova un campo per gli sfollati interni che ospita più di 5000 persone. I cantoni di Cizire e di Efrin accolgono migliaia di migranti forzati e terrorizzati a sfuggire alla brutalità del regime di Assad, o di Daesh, o di entrambi. Le ideologie sinceramente democratiche potenziano e promuovono le facoltà umane della collettività e alimentano l’umanitarismo, piuttosto che fondarsi su un suo indebolimento.

In America e in Gran Bretagna, la democrazia neoliberista sta marciando verso il declino e in tutti i tre paesi appena nominati i mercati e il processo decisionale politico sono dominati da degli oligarchi, con un conseguente aumento delle disuguaglianze economiche. In Gran Bretagna, la disuguaglianza inaugurata dal Thatcherismo ha portato all’elezione di un governo New Labour che non è riuscito quasi in nessun caso a far fronte alle disuguaglianze insite nel sistema neoliberista; quel che poi si è prodotto durante i successivi governi di centro sinistra e di destra sono state crisi economiche e misure di austerità concepite per rendere i ricchi ancora più ricchi, mentre i poveri stentano ad arrivare a fine mese.
In particolare, in America l’ascesa del Trumpismo ha dimostrato il fallimento del sistema Americano, schiavo di think tanks, PACs (Political Action Committees, sovvenzionatori di campagne, personaggi e partiti politici), lobbies e agglomerati mediatici. Tale indebolimento dei controlli democratici ha condotto all’incapacità di affrontare le questioni insepolte legate alla razza, l’avvento del complesso carcerario-industriale e le violenze della polizia, simboleggiate oggi in maniera massiccia dal movimento Black Lives Matter. Al contempo, la perdita dei diritti delle donne, i continui tentativi di chiudere Planned Parenthood e di ridurre i diritti riproduttivi e l’autonomia delle donne per quel che riguarda il loro corpo perfino in casi di stupro dimostra la natura sfaccettata del modello americano di democrazia neoliberista. Parallelamente, politiche ipercostose e il sostegno incontrollato del mercato e delle lobbies per i candidati alle elezioni ha trasformato il modello democratico americano in un vuoto simulacro, dove i lobbisti manovrano le elezioni democratiche e gli interessi degli elettori. Niente personifica meglio questa tendenza dell’ascesa spettacolare – e preoccupante – del miliardario candidato elle elezioni presidenziali Donald Trump, la cui piattaforma politica è fondata prevalentemente sul fascismo, il razzismo, l’odio verso i rifugiati, e che alimenta un islamofobia già esistente, mentre al di là del mare le guerre neoimperialiste continuano.

Ma neppure l’Europa è al riparo dall’avvizzimento della cosiddetta democrazia capitalista. L’ultimo rapporto della Freedom House ha avvisato che “la crisi dei migranti e gli enormi problemi economici stanno minacciando … la sopravvivenza dell’Unione Europea”. La crescente mancanza di trasparenza e individuazione di responsabilità è sfociata nel declino delle democrazie nascenti nei Balcani, portando a un terribile degrado. Paesi come la Serbia, il Montenegro e la Macedonia hanno utilizzato “uomini forti” in politica per richiedere un atteggiamento meno rigido dall’Unione Europea, unione sempre più defunta di ventotto democrazie capitaliste, la cui deplorevole risposta collettiva alla cosiddetta “crisi dei rifugiati” ha dimostrato il crollo delle radici istituzionali, normative, morali dell’Unione.

Nello stesso tempo, la Turchia ha astutamente sfruttato la crisi dei rifugiati per estorcere più indulgenza dall’UE verso i negoziati per l’entrata nell’Unione, mentre continua ad avere un approccio genocida nei confronti della Questione Kurda. La risposta del sistema capitalista è gettare più soldi alla Turchia, nonostante un recente rapporti di Amnesty International abbia evidenziato in maniera preoccupante il prodursi di ritorni forzati di rifugiati siriani. La democrazia capitalista, sotto la leadership illiberale di Angela Merkel, ha condotto al soffocamento degli elementi chiave della democrazia, come la libertà di parola: i disegnatori satirici tedeschi sbeffeggiano Erdogan ritraendolo imbavagliato e minacciato con sentenze di prigione.

Ci troviamo di fronte a una negazione perenne della legittimità dei diritti delle minoranze impegnate nella propria autodifesa e resistenza attiva, che va da un annacquamento di richieste legittime allo sradicamento bello e buono di richieste di diritti portate avanti per anni, come è avvenuto chiaramente nel caso delle dissoluzione delle Tigri del Tamil nel sistema democratico neoliberista, delle comunità Indigene e Aborigene in Medioriente, America Latina, Asia, Stati Uniti, Canada e Australia, che vengono etichettate come “terroristi”, “dissidenti”, “radicalizzati”, come selvaggi non democratici e non civilizzati.

Il governo dell’AKP in Turchia, nel frattempo, continua a massacrare il popolo Kurdo nel silenzio, che diviene così assenso, della comunità internazionale. Non stupisce che di fronte a tale oppressione cresca la “rivoluzionizzazione” dei giovani – piuttosto che la loro “radicalizzazione”, termine che implica la presenza di uno sguardo eurocentrico-orientalista, dall’alto verso il basso, a svilire la legittimità dei diritti delle minoranza all’autodifesa paragonandola a un generico terrorismo sponsorizzato dallo stato, proprio di un depotenziato gruppo etnico-religioso, per mano del secondo maggior esercito della NATO. Moltissimi giovani vanno in montagna in Kurdistan a cercare rifugio e trovano l’addestramento militare, ma soprattutto ideologico, necessario a combattere le strutture oppressive e genocide dello stato.

La mitica “fine della storia” di Fukuyama, espressa con tanta sicumera dai portavoce accademici e intellettuali del Nuovo Ordine Mondiale, guidato dall’egemonia statunitense, è stata evidentemente svuotata di significato nel momento in cui emerge in Medioriente un modello democratico alternativo, radicale, locale: il confederalismo democratico.
In maniera non dissimile, la profezia di Huntington sullo “scontro di civiltà” era stata predicata tra l’Occidente e l’Islam nel mondo post-11 settembre; non era però in grado di immaginare che lo scontro si sarebbe svolto tra la democrazia neoliberista, il cui decadimento interno dimostra le incoerenze e gli antagonismi intrinseci al capitalismo, e la democrazia radicale, definita come confederalismo democratico e sviluppata da Abdullah Ocalan, ispirata dalle opere di Murray Bookchin.
La democrazia neoliberista eurocentrica e statocentrica non ha mai concepito che il cosiddetto scontro di civiltà si sarebbe svolto con un sistema democratico alternativo. Ha presunto che il suo sistema democratico si sarebbe dimostrato l’unica opzione possibile contro alternative fasciste, terroriste e violente; la sua cecità epistemologica non riusciva a rispondere, né anche solo a tenere in considerazione il razionalismo occidentale. Al contrario, il suo orientalismo inerentemente eurocentrico ha reso miopi i falchi neoliberisti che immaginavano semplicemente un mondo popolato da “terroristi islamici” ad alimentare le proprie perpetue macchine belliche. I neoliberisti hanno continuato a dominare e a riorientare i principali enti ed istituzioni internazionali verso la promozione della sua versione di democrazia capitalista: tra gli altri, le Nazioni Unite, la NATO, la Banca Mondiale, il FMI, l’OCSE. Ma, come ha sottolineato Mohamad Tavakoli-Targhi, gli sviluppi sociali “e i processi alternativi, non europei”, non occidentocentrici “sono stati definiti come assenza di cambiamento e storia non storica”.
Non hanno mai immaginato che una delle comunità più oppresse del Medioriente avrebbe formulato una cosmologia, una filosofia e un approccio per la risoluzione dei diritti delle minoranze di natura complessa, coesiva, inclusiva, multiculturale, antimonopolista e orientata al consenso; quella stessa risoluzione che il loro sistema, nel migliore dei casi, non è stato in grado di affrontare, se non l’ha attivamente repressa nelle forme panottiche dell’utilitarismo di stampo Benthamita, concepito per servire gli interessi delle élites minoritarie.
Ma chi altro avrebbe meglio potuto formulare una soluzione alla condizione degli oppressi se non i più oppressi, i più emarginati?
Ma è giunta l’ora.

È giunta l’ora che gli attivisti e gli accademici Kurdi smettano di crucciarsi riguardo alla “Questione Kurda” che continua ad andare avanti, una questione apparentemente irrisolvibile. Non siamo una questione da risolvere; non siamo una formula matematica! Siamo una collettività di persone fortemente oppresse la cui ideologia di liberazione ha creato un modello per la nostra comunità e per milioni di altri colonizzati; una soluzione che la modernità capitalista è stata incapace di trovare se non attraverso il genocidio e la pulizia etnica. Se non riusciamo a capire realmente che cosa significhi sminuiamo il portato del nuovo paradigma, che si sta dimostrando il più efficace nell’affrontare 5000 anni di sfruttamento statale e patriarcato.
Non più la Questione Kurda, ma l’Alternativa Kurda deve essere l’oggetto della nostra attenzione.
I Kurdi sono riusciti a individuare la soluzione al problema che non sono mai stati.
La vera questione è quanto il sistema democratico neoliberista, eurocentrico e statocentrico lotterà per non accettare la sua spettacolare sconfitta.”

The beautiful game and the horrible gain.

Mancano ormai pochi giorni all’inizio del campionato europeo di calcio in Francia, un Paese che nelle ultime settimane ha fatto notizia più che altro per la dura battaglia contro la riforma della legge sul lavoro portata avanti da movimenti di lotta, sindacati e svariate categorie sociali e individualità che vedono nella loi travail l’ennesimo attacco ai diritti lavorativi e l’avanzamento del neoliberismo. Basta poco però per trovare un nesso tra quel sistema economico messo in discussione nelle piazze francesi e il prossimo grande evento sportivo, perché quello che un tempo era il gioco della classe lavoratrice, the beautiful game, da tempo ormai è occasione per pochi per far profitti da capogiro senza curarsi delle ricadute sociali negative. Propagandati come occasioni di sviluppo, investimenti e lavoro dai massmedia acritici, i grandi eventi sportivi internazionali in realtà portano con sé sfruttamento della manodopera a basso costo ancora più brutale del solito, corruzione e spreco di denaro pubblico, emarginazione, censura e riduzione della libertà di espressione, militarizzazione e violenza nei confronti di poveri, emarginati, dissidenti e di chiunque si senta penalizzato/a e abbia intenzione di farlo pubblicamente presente… il tutto per la gioia di grandi imprese, investitori e pochi burocrati collocati ai piani alti della piramide capitalista, che si accordano tra loro come meglio gli conviene senza aver bisogno di chiedere il permesso, dal momento in cui a dare permessi sono loro. La memoria di molti è breve e la distrazione grande nel pensare ad un pallone che rotola, quindi sarà meglio ricordare un paio di cose tra tante:

…e Francia, Duemilasedici. Stavolta forse non basterà il richiamo al patriottismo da due soldi o alla grande occasione per l’economia per distrarre chi lotta, come non bastò in Brasile due anni fa. Quella volta il potere si fece largo, nel nome dell’orribile guadagno, a suon di ruspe, bastonate, lacrimogeni e pallottole e l’attenzione mediatica si spostò altrove dopo la fine del mondiale. In Francia è più probabile che si faccia leva sull’aspetto securitario a fronte dei recenti attentati di matrice fondamentalista islamica per spaventare ma soprattutto reprimere con la forza qualsiasi forma di dissenso e lotta durante lo svolgimento del teatrino calcistico. È solo una possibilitá, un timore: il futuro comunque è ancora tutto da scrivere.