Un’opinione anarchica sull’indipendentismo catalano.

Che il referendum sul’indipendenza catalana indetto per il prossimo 1 Ottobre abbia successo o meno, a prescindere dal fatto che un suo esito eventualmente positivo non venga riconosciuto dalle istituzioni dello Stato spagnolo, vorrei abbozzare alcune  considerazioni generali, dal mio personale punto di vista di anarchico, sulla questione specifica dell’indipendentismo catalano e, piú diffusamente, sull’indipendentismo in generale, partendo da un presupposto libertario. Premetto che non è facile farsi rapidamente un’idea delle dinamiche che agitano gli animi dei fautori dell’indipendenza catalana e dei loro avversari unionisti. Ritengo che un buon punto di partenza sia la lettura dell’articolo pubblicato sul sito Sollevazione col titolo “La Catalogna, la Spagna e l’Unione Europea” che, da un punto di vista fortemente critico nei confronti dell’indipendenza catalana da una prospettiva di sinistra “radicale” e antieuropeista, spiega in maniera abbastanza approfondita chi e perchè sostiene il referendum sull’indipendenza catalana e chi e perchè vi si oppone, contestualizzando in particolare il rapporto degli indipendentisti con l’Unione Europea. Di articoli su questo tema se ne trovano molti altri, di diverse tendenze, sul web e su carta e, se ci si vuol fare un’opinione con un minimo di fondamento, se ne dovrebbero selezionare, leggere e confrontare parecchi. Due libri segnalati come interessanti che trattano la questione catalana sono:  Elena Marisol Brandolini, Catalunya – España, il difficile incastro, Roma, Ediesse, 2013 e Angelo Attanasio e Claudia Cucchiarato, La questione catalana. Independéncia?, GoWare, 2013 [e-book].

Ed eccomi arrivato alle mie considerazioni sulla faccenda, riassunte schematicamente:

Indipendentismo, una panacea per tutti i mali. La politica dei partiti tradizionali e del governo centrale corrotto, incompetente e distante dai tuoi interessi ti delude? Sei in balia di una crisi economica che mette in dubbio quel che finora sembrava certo? Non ti senti padrone di decidere della tua vita e intorno a te serpeggia il malumore di altri insoddisfatti? La soluzione indipendentista, fermo restando i presupposti storico-culturali (se non ci sono si inventano dal nulla, come in “Padania”), potrebbe fare a caso tuo! Almeno questo è quello che ti raccontano i venditori di fumo interessati a trarre vantaggio dal riassetto istituzionale in questione. Non metto in dubbio che tra i sostenitori di una qualsiasi secessione ci siano anche persone benintenzionate e in buona fede, ma queste persone solitamente antepongono l’emotività al discorso razionale e tendono ad adeguare la realtà alle proprie opinioni e aspettative e non viceversa. Secondo me chiunque ha il diritto di autodeterminarsi, il che va ben oltre qualsiasi dichiarazione di voler rendere indipendente una regione da un’altra. Io intendo l’autodeterminazione come un processo di libero sviluppo della propria persona, di libera scelta riguardo i più disparati aspetti della propria esistenza.

A propugnare l’indipendenza della Catalogna dal resto della Spagna sono partiti di diversa tendenza e ispirazione, ma soprattutto persone di condizione sociale ed economica molto diversa fra loro. Su quest’ultimo aspetto non si può sorvolare. Che interessi comuni hanno il proprietario di una catena di alberghi e un lavapiatti? L’uno è lo sfruttatore dell’altro, lo è oggi anche grazie alle leggi spagnole e lo sarebbe ugualmente in un ipotetico futuro grazie alle leggi di uno Stato catalano. Se gli indipendentisti volessero fare una rivoluzione sociale abolendo il capitalismo e sostituendolo con modelli economici collettivisti/comunitari/solidali (cosa che, a ben guardare, ben pochi tra loro sognano) non perderebbero tempo sperando di vincere un referendum per il riconoscimento legale di un nuovo Stato sottomesso fin dalla sua nascita alle politiche del neoliberismo globale. Alla classe politica non interessa certo perdere i privilegi dei quali gode, né i capitalisti catalani sono smaniosi di rinunciare ai loro profitti perdendo competitività sui mercati, soccombendo alla concorrenza o lasciandosi addirittura togliere i mezzi con i quali sfruttano chi lavora per loro. Combattere al fianco del tuo nemico ha senso solo se tu lo ritieni piuttosto un alleato col quale far causa comune in nome dell’obiettivo principale che persegui, in questo caso un nuovo Stato. Competitivo, forte sui mercati, capace di crescita economica, politicamente e socialmente stabile. Il tutto condito con sangue e sudore dei lavoratori che hanno abdicato alla loro coscienza di sfruttati e oppressi in cambio di nuove catene.

“Ma abbiamo le stesse radici culturali!”, mi son sentito dire parecchie volte da indipendentisti di varia provenienza. Che differenza fa se a picchiarti è un bastone rosso o un bastone nero?, rispondo io riecheggiando Bakunin. E che differenza fa se chi ti spreme via tempo, forze e intelligenza a proprio vantaggio è nato nella tua stessa città, parla la tua stessa lingua, se amate gli stessi piatti tipici, professate lo stesso culto religioso e festeggiate le stesse ricorrenze? A parte il fatto che la cultura si crea e si modifica, non mi sembra un requisito fondamentale sul quale costruire alleanze o peggio in nome del quale scannarsi.

Eppure, un tempo si parlava di popoli e nazioni oppresse. Almeno in campo marxista era un dato di fatto indiscusso, come ricorda Steven Forti in un articolo ripreso da “A-Rivista Anarchica” del Dicembre 2013-Gennaio 2014: “In Irlanda, per il Marx maturo, non c’era una questione sociale al di fuori di una questione nazionale. Anche l’ultimo Engels sottolineò in più occasioni come l’internazionalismo del proletariato era possibile solo se esistevano nazioni indipendenti. La posizione di Lenin, ribadita più chiaramente nel Congresso dei popoli oppressi tenutosi a Baku nel 1920, era stata resa esplicita già nel 1916: “Credere che la rivoluzione sociale sia immaginabile senza le insurrezioni delle piccole nazioni nelle colonie e in Europa (…) significa rinnegare la rivoluzione sociale”.
Anche Mao, almeno a partire dalla Lunga Marcia iniziata nel 1934, dimostra posizioni orientate ancora di più in questa direzione: “nella lotta nazionale, la lotta di classe assume la forma di lotta nazionale; e in questa forma si manifesta l’identità tra le due lotte”. Ovvero: “Nella guerra di liberazione nazionale, il patriottismo è perciò un’applicazione dell’internazionalismo”. Lasciando da parte sia le ovvie considerazioni riguardo l’incoerenza dei pessimi epigoni di Marx nell’applicare il principio di autodeterminazione dei popoli, sia le funeste conseguenze degli ossimorici “socialismi di Stato”, mi chiedo se nel caso della Catalogna si tratti di una lotta di liberazione dallo stato centrale e non, come invece sembrerebbe, un caso di sciovinismo bell’e buono. La Catalogna infatti è fra le regioni più benestanti della Spagna, parte degli indipendentisti ritengono che starebbero meglio economicamente se avessero un loro Stato (lo conferma lo studio di un’associazione imprenditoriale catalana favorevole all’indipendenza, lo smentiscono tutte le fonti vicine al governo di Madrid). Perciò via i pesi morti, avanti i più forti. Il tutto in un’ottica borghese di sciovinismo del benessere, mentre la solidarietà e le lotte comuni con qualsiasi sfruttato ed oppresso spagnolo, immigrato o che vive, lavora e lotta altrove vanno a farsi friggere.

Mentre pure un’organizzazione che era marxista e autoritaria come il PKK ha cambiato da diversi anni visione e obiettivi  e tenta oggi di realizzare, insieme ad altre forze politiche, sociali e militari non l’indipendenza di uno Stato-nazione, ma l’autonomia di una regione, il Rojava, in chiave multietnica e sotto la bandiera del confederalismo democratico di ispirazione libertaria, devo tristemente constatare che altrove c’è chi ancora si attacca all’idea di Stato. C’è da riflettere anche sulle affermazioni fatte da un militante catalano del sindacato anarchico spagnolo CNT durante un’intervista di due anni fa, pubblicata da Umanità Nova. Se da un lato rimane inamovibile il rifiuto di qualsiasi Stato, d’altra parte si lascia intravedere la possibilità circa un miglioramento delle condizioni di lavoro e di vita sociale in un nuovo Stato catalano. Da dove scaturisca quest’ottimismo non è dato saperlo. Di certo, se i presagi non ingannano, comunque vada il referendum sull’indipendenza catalana, le istituzioni spagnole non sono disposte a riconoscerlo e già fanno di tutto per sabotarlo, incluso minacciare di portare in tribunale i sindaci catalani che ne autorizzeranno lo svolgimento nei loro comuni. Resta da vedere fino a che livello si innalzerà lo scontro fra Madrid e i separatisti e se questo offrirà spazi per l’espressione di forme di conflittualità che vadano oltre le mere rivendicazioni sovraniste.

Erdogan cavalca la tigre (di carta) del golpe.

Il golpe dilettantesco tentato lo scorso 15 Luglio in Turchia, durato una sola notte e sventato senza troppe difficoltà anche grazie all’appoggio dei sostenitori del presidente Recep Tayyip Erdogan scesi per strada al comando del loro amato padrone, sta avendo strascichi pesanti nel Paese e apre scenari inquietanti sia dal punto di vista dei diritti umani (il che non è una novità), sia per quanto riguarda gli scenari geopolitici che si profilano dopo quest’evento. Dal punto di vista della politica interna, più di 60mila persone tra militari, poliziotti, magistrati, insegnanti, giornalisti sono stati epurati, di questi almeno 13mila sono stati arrestati; “a caldo”, nelle ore immediatamente successive al fallimento del colpo di Stato, numerosi militari golpisti sono stati malmenati dalla folla, presi a calci e cinghiate sotto gli occhi dei poliziotti che li tenevano in custodia, alcuni sono stati addirittura linciati; manifestazioni filogovernative accompagnate da violenze contro elementi realmente o presumibilmente ostili al governo hanno avuto luogo in tutto il Paese, i sostenitori di Erdogan hanno invocato la pena di morte per i “traditori della Patria”. Ad essere accusati ufficialmente del golpe sono settori dell’esercito vicini al predicatore islamico Fethullah Gülen, ma diversi commentatori e analisti parlano anche di un coinvolgimento più o meno velato da parte degli Stati Uniti. Faccio subito notare che Gülen è stato, fino alla brusca rottura dei rapporti nel 2013, un gran sostenitore del partito di Erdogan, l’AKP, aiutandone l’ascesa al potere. Va altresì rilevato che quegli ufficiali conivolti nel tentato golpe e definiti ora “traditori della Patria” e accusati di terrorismo sono stati, fino a pochi giorni prima degli eventi in questione, impiegati nelle operazioni di controguerriglia nel Kurdistan turco, quindi fedeli esecutori della strategia di terrore dello Stato contro la minoranza curda. Ed è così che un personaggio difficilmente accostabile al seppur discutibile concetto di democrazia parlamentare, uno che manda l’esercito a massacrare civili nei villaggi curdi, che fa reprimere con la massima violenza le manifestazioni di dissenso, che sbatte in galera giornalisti e avvocati e attivisti politici e per i diritti umani quando direttamente non li fa ammazzare, che ha appoggiato a sua volta i terroristi e fondamentalisti di Daesh, che usa i fascisti del MHP per le operazioni sporche, oggi si presenta all’opinione pubblica mondiale senza alcuna vergogna come sincero paladino della democrazia, solo per aver regolato i conti con gli ultimi fedeli del suo ex complice Gülen, insorti in modo affrettato e male organizzato prima di venir definitivamente rimossi dai vertici dell’esercito. Se ciò non fosse estremamente tragico ci sarebbe da ridere.

Quel che preoccupa i rappresentanti politici dell’Occidente, però, non è tanto la repressione interna in Turchia: mica hanno fatto una piega, lorsignori e lorsignore, di fronte al genocidio culturale e materiale dei curdi (ricordo che in Germania il genocidio del popolo armeno è stato ufficialmente riconosciuto come tale solo pochi mesi fa, con cent’anni di ritardo!), né sono andati oltre le frasi retoriche di condanna ai tempi della repressione a Gezi Park e altrove, e nemmeno hanno mai accusato chiaramente il governo dell’AKP, pur di fronte all’evidenza, di aver sostenuto milizie di fondamentalisti islamici in Siria adottando una qualche contromisura, né hanno difficoltà ad accettare la proclamazione dello stato d’emergenza (né in Turchia, né tantomeno in Francia!). Ad impensierire i vertici dei Paesi UE, Germania in testa, è la possibilità che salti l’accordo blocca-profughi, con il quale la Turchia s’impegna a evitare che chi fugge dalla guerra civile siriana raggiunga i confini dell’UE, in cambio di denaro, riconoscimento politico e facilitazioni nell’ottenimento di permessi di soggiorno per cittadini turchi in Germania. Un’accordo su quest’ultimo punto però, insieme all’avanzamento delle pratiche per l’ingresso della Turchia nell’Unione Europea, sembrerebbe compromesso allo stato attuale delle cose. Ancor di più preoccupa l’avvicinamento di Erdogan alla Russia, nemico storico e potenza contrapposta agli interessi strategici della NATO nell’area mediorientale. La possibile alleanza trasversale tra Erdogan e Putin scombinerebbe non poco gli assetti strategici e politici che fanno comodo agli USA e alle altre potenze del Patto Atlantico. D’altra parte, permeata com’è la società turca di nazionalismo, turanismo, sciovinismo e revanchismo, il pensiero di uno spostamento dell’asse degli interessi turchi verso Oriente non dovrebbe stupire più di tanto. Quel che è certo è che le potenze occidentali non resteranno a guardare mentre i loro interessi vengono messi in pericolo, così come è certo che si prospettano tempi sempre più bui per chiunque, per un motivo o per un altro, non si trovi in linea con i progetti del sultano di Ankara, che può contare su una rinnovata credibilità interna anche grazie alla nuova patina di “salvatore della Patria e della democrazia”. Una vera e propria dittatura della maggioranza della quale a far le spese è e sarà una nutrita minoranza di persone, schiacciate tra l’incudine dell’autoritarismo sanguinario del governo turco e il martello dell’opportunismo ipocrita e assassino delle potenze occidentali.

“Ucraina- tra l’incudine russa e il martello occidentale”

Fonte: Anarchaos.

Ucraina – tra l’incudine russa e il martello occidentale

 

TRA L’INCUDINE RUSSA E IL MARTELLO OCCIDENTALE

 

 

La crisi in Ucraina assomiglia troppo a quella che negli anni novanta devastò la Jugoslavia.

In Jugoslavia l’ultimo atto della guerra venne rappresentato dall'”operazione tempesta” nella Krajina croata e vide l’espulsione in massa della popolazione serba che abitava quelle regioni da secoli.

Analogia nel nome, questione etimologica si, ma che cela la sostanza delle vicende comuni ad una zona appunto di frontiera, Ucraina come Krajina hanno lo stesso significato, terra di confine, frontiera.

Da sempre terre e popoli facili preda di nazionalismi e di una etnicizzazione dirompente nei rapporti sociali, paradosso di una storia che in Europa come negli USA si vorrebbe passata.

La visuale eurocentrica non aiuta a comprendere quanto accade e quanto è accaduto in passato nelle terre di confine. Qualche nostalgico neofascista ha voluto farci credere che l’abbattimento delle statue di Lenin o in Croazia di Tito aprissero al mondo strade nuove e felici ai popoli coinvolti, ma così non è stato, mai.

La crisi Ucraina nasce in un paese che non è mai stato uno Stato-nazione, da sempre attraversato da lingue, culture e popoli diversi, ed ora attraversato letteralmente da oleodotti e metanodotti che portano nella EU gli idrocarburi russi.

Contrariamente a quanto vogliono far credere i seguaci del “complottismo”, sempre pronti a cercare le cause delle rivolte sociali nelle influenze esterne, l’esplosione di rivolte a cui partecipano ampie fette di popolazione hanno sempre delle cause interne di varia natura economica, sociale e politica, su cui inoltre si innescano rivendicazioni etniche e/o religiose. Su queste poi cercano di far leva gli interessi politici ed economici delle classi borghesi nazionali e gli interessi economici e strategico-politici degli Stati imperialisti, che cercano di utilizzare gli eventi a loro favore.

In Ucraina si scontrano le differenze economiche ed etniche di due settori geo-politici: quello occidentale e centrale a prevalenza etnica ucraina, caratterizzato da una bassa industrializzazione e da un enorme bacino agricolo sotto sfruttato, storicamente più legato alle Nazioni che confinano ad occidente (e quindi più tendenzialmente all’Europa), e quello orientale e meridionale, a prevalenza etnica russa, caratterizzato da una più forte, anche se obsoleta, industrializzazione, storicamente ed economicamente più legato alla grande madre Russia.

La rivolta esplode nel settore centro occidentale ed assume, per le peculiarità sopra esposte, caratteristiche anti-Russe. Ha origini politiche, prevalentemente nelle classi medie e negli studenti che si ribellano contro la corruzione dell’apparato statale del filo russo Yanukovich, e origini socio-economiche in seguito alle illusioni delle classi lavoratrici, tradite dalle oligarchie dirigenti susseguitesi dopo la caduta del muro di Berlino e tradite dagli effetti dell’ultima crisi capitalista.

In questo scenario si inseriscono, come spesso accade a queste longitudini, i tentativi delle organizzazioni di estrema destra e fasciste di aumentare la loro influenza attraverso l’acquisizione di fette di potere politico; è la strada che stanno percorrendo organizzazioni del settore centro-occidentale, fasciste e nazionaliste, come i partiti SvobodaBatkivshchyna e Pravy Sektor, spesso in concorrenza tra loro. Ma le organizzazioni fasciste sono proprie anche del blocco antagonista filo-russo, dove estremisti di destra, stalinisti, Cosacchi e fanatici ortodossi, combattono tutti insieme contro i Banderoviti (soldati di Stepan Bandera, capo militare e politico collaborazionista durante l’occupazione nazista). La sola differenza è la tradizione storica a cui si richiamano.

Ed in questo scenario si innescano anche le mire politico-economiche dei potentati oligarchici locali, in concorrenza tra loro, come quelli rappresentati dalla famiglia Yanukovich o da Yulia Tymoshenko, personaggio falsamente descritto dalla propaganda mediatica occidentale come un’eroina della libertà, quando in realtà è una sorta di Berlusconi ucraina, immischiata in diverse faccende finanziarie.

Ed in questo scenario, e non poteva essere altrimenti, si inseriscono gli interessi degli Stati imperialisti. Interessi che sono strategici, addirittura vitali, come quelli russi che in Crimea hanno una loro fondamentale base militare; politici come quelli nord-americani, che cercano di sfruttare il conflitto per far perdere terreno alla Russia o perlomeno di ostacolare un probabile avvicinamento di interessi tra questa e la UE. Ci sono gli interessi politici ed energetici dell’Europa, visto che l’Ucraina è, come dicevamo sopra, terra di attraversamento di importanti corridoi energetici che trasportano gli idrocarburi russi in territorio europeo. Ed infine ci sono gli interessi economici cinesi, indifferenti alla forma politica dello Stato ucraino, ma profondamente interessati alle potenzialità agricole dello stesso.

Che il conflitto, o la spartizione del paese per evitarlo, sia quindi inevitabile è quasi un dato di fatto: da un lato nazisti galiziani e nazionalisti confusi appoggiati dalla Unione Europea a caccia di mercati e di manodopera a basso costo, con a fianco l’amico/rivale Stati Uniti desideroso di spostare ad Est il fronte NATO, dall’altro la Russia che non è disposta ad essere spodestata dalla propria influenza su territori vitali.

Tutto questo impone una riflessione su quanto sta avvenendo. È fondamentale, a partire dagli strumenti analitici in possesso della prassi antiautoritaria e antimperialista, fare il possibile affinché la classe lavoratrice non sia preda dell’influenza nefasta dell’uno o dell’altro potentato interno e dell’uno o dell’altro polo imperialista. Perché troppo spesso si assiste a fatidici antimperialisti che si schierano con Putin e la Russia, oppure a parte della sinistra “per bene” che si trova a fianco dell’imperialismo americano ed europeo, a rappresentanze politiche che stanno zitte o balbettano confuse, ai seguaci della caduta tendenziale del tasso di profitto e della “comunistizzazione” subito che si perdono in analisi tanto fantasmagoriche quanto inutili.

È importante innanzitutto fare chiarezza sul fatto che il proletariato ucraino non ha governi amici, che siano di colore bruno o arancione, e che il proletariato internazionale non ha Stati amici, che siano borghesi o presunti operai. E che non esistono scorciatoie nazionaliste: l’unica strada percorribile, a corto e a lungo termine, è l’autonomia e l’autodeterminazione delle classi sfruttate a tutte le latitudini e le longitudini. Fare chiarezza su questo aspetto, in questo periodo di grande confusione, è il primo obiettivo, senza il quale non sarà possibile costruire, così come auspichiamo, una ricomposizione del fronte di classe internazionalista.

L’assenza di guerra non è pace, ma ora come ora che per evitare che il maggior numero di proletari rimangano coinvolti in una guerra fratricida, che almeno la ridisegnazione dei confini e degli assetti avvenga senza ulteriori spargimenti di sangue.

Segreteria Nazionale
Federazione dei Comunisti Anarchici

5 marzo 2014 “