Terrorismo islamico e responsabilità dell’Occidente.

A seguito dei diversi attentati di matrice islamica che negli ultimi anni hanno insanguinato l’Europa, numerosi politici, giornalisti e commentatori vari hanno spesso relativizzato le responsabilità dei Paesi occidentali nell’insorgere del fenomeno terroristico, sottilineandone le caratteristiche autoctone e intrinsecamente legate alla natura stessa della religione islamica e alla cultura dei luoghi dove tale culto viene professato.  Pur con le dovute differenze, questi commentatori, solitamente dichiarandosi lontani da qualsiasi intento islamofobo, hanno in comune la tendenza a voler fornire un’alibi alla coscienza del lettore medio, dimenticando come se nulla fosse secoli di politiche coloniali e di imperialismo, di dominio e sfruttamento economico e violenza militare praticate in giro per il mondo da parte delle potenze occidentali. Gli argomenti principali vertono, in maniera più o meno esplicita, sulla presunta incapacità da parte dei Paesi cosiddetti sottosviluppati di Medio Oriente, Nordafrica, eccetera, di fornire stabilità, sicurezza e benessere ai propri abitanti, rimanendo impelagati in conflitti regionali alimentati da governi corrotti e despotici che non concedono ai propri cittadini i diritti liberali ai quali noi siamo abituati da secoli. Concetti quali “Loro non sono passati attraverso la Rivoluzione Francese” e “Nella religione musulmana non esiste separazione fra Stato e Chiesa” vengono ampiamente usati come argomenti a sostegno della discolpa nostrana. Gli opinionisti più progressisti evidenziano come, certamente, vi siano differenze fra diverse concezioni dell’Islam, ma in fin dei conti riconducono la responsabilità delle violenze a logiche in gran parte indipendenti dall’azione svolta storicamente dall’Occidente nelle aree nelle quali il fenomeno ha origine.

Mi sono spesso imbattuto nelle dicharazioni di esponenti della destra tedesca, che, pur non inneggiando apertamente al Terzo Reich, intendevano ridimensionare le responsabilità storiche  della popolazione tedesca, a lor dire soggiogata da pochi individui, di fronte agli orrori della Shoah e del secondo conflitto mondiale. “Es ist Schnee von gestern”, ripetevano, acqua passata come si dice in Italia, un’espressione a metà strada fra il menefreghismo e il colpo di spugna, pronunciata con  leggerezza criminale, con la consapevolezza di chi mette in conto la reiterazione delle nefandezze che relativizza. Nel caso dei rapporti fra Occidente e Medioriente si vorrebbero scordare o perlomeno far slittare in secondo piano fatti storici quali ad esempio l’accordo di Sykes-Picot, tanto per citarne uno fra i più rilevanti, ovvero la creazione di Stati quali Iraq e Siria da parte delle potenze europee Francia e Gran Bretagna per motivi d’interesse economico, politico e strategico. Una dimenticanza univoca visto che un paio d’anni fa lo Stato Islamico, dalle colonne della sua rivista Dabiq, affermava con la sua nascita di infrangere quell’accordo. Allo stesso modo si vorrebbero gettare nell’oblio le politiche del “divide et impera” praticate  da Assad e da altri dittatori  comodi a questa o a quell’altra superpotenza mondiale, in Siria come altrove, sulle popolazioni di Stati creati a tavolino; si vogliono far dimenticare sia il colonialismo esplicito di ieri quanto la dominazione economica di oggi da parte di chi detiene il potere economico e di conseguenza politico, un potere libero di sterminare intere popolazioni devastandone i territori e le economie tradizionali in nome del libero mercato e della crescita economica  senza che si sollevi la stessa ondata di indignazione  alla quale assistiamo dopo ogni attentato compiuto in Europa dagli accoliti del Califfato. Le dinamiche interne al terrorismo islamico esistono, è innegabile. Qualsiasi libro sacro può essere interpretato nel più svariato dei modi, l’oscurantismo fondamentalista e violento è uno dei tanti possibili. Esistono e sono esistiti in passato gruppi terroristici buddisti e cristiani, induisti ed ebraici, musulmani e scintoisti. Quel che ci si deve chiedere è come certi gruppi potrebbero essere sconfitti e, al tempo stesso, come alcuni di essi non lo siano ancora stati. L’invasione dell’Iraq da parte degli eserciti di USA&Co. e le strategie politiche ivi applicate non hanno certo aiutato a far fuori un gruppetto composto originariamente da poche decine di fanatici, né l’opportunistico sostegno statunitense a guerriglieri jihadisti in Afghanistan in funzione anti-sovietica ha contribuito alla stabilità del Paese e alla sicurezza a livello internazionale. Il problema centrale rimane quello di sempre, la logica del dominio: quello che l’Occidente per mezzo dei suoi tentacoli economici, politici e militari esercita nelle aree “povere” e “sottosviluppate” del mondo e quello che alcune forze che vi si oppongono per interessi specifici, oscurantiste e sanguinarie, esercitano in diverse regioni o aspirano ad esercitare. La stessa logica di dominio non guarda in faccia le potenziali vittime degli attentati terroristici di matrice fondamentalista islamica in Occidente, le considera danni collaterali alla stregua di quelli provocati dagli interventi militari in altre aree del pianeta e al tempo stesso si nutre delle paure e delle insicurezze delle persone che in Occidente ci vivono. Chi ha paura è più facilmente disposto a rinunciare ad una parte della propria libertà (già di per sé condizionale!) in cambio di sicurezza almeno apparente. Ed è così che gli strateghi nelle stanze dei bottoni prendono non due, ma interi stormi di piccioni con una sola fava. La paura che rende docili e irrazionali, la richiesta di interventi decisi da parte dei governi, il braccio armato che dovrebbe mettere a tacere il pericolo esterno che si rivolge all’occorrenza contro i “nemici” interni che dissentono, la delega delle soluzioni a chi i problemi consapevolmente li crea, la reiterazione di politiche di dominio, appunto, su scala locale e mondiale. Il terrorismo islamico diviene un’ottima scusa, benzina nel motore del dominio, mentre il terrorismo che ha fatto comodo in passato e fa tuttora comodo al mantenimento dell’ordine costituito e del dominio da parte degli Stati nei quali viviamo viene mascherato, legittimato, giustificato, male che vada negato o attribuito ad altri. I “nostri” sono combattenti per la libertà, mica gente che mette bombe nelle piazze e nei treni o spara sulla folla o rade al suolo interi villaggi!

E noi dovremmo dimenticare, smetterla di indagare le responsabilità dei nostri governi, raccontarci a vicenda menzogne per rendere la realtà accettabile mettendo a tacere le nostre coscienze. Interrogarci sulle logiche profonde di questo sanguinoso circolo vizioso per potervi porre fine? Macchè, è tutta colpa di barbari sottosviluppati nelle cui terre va esportata a suon di bombe la democrazia che nemmeno noi conosciamo, il resto non conta. Torniamo a dormire, tanto sappiamo cosa provoca il sonno della Ragione. Anzi, no, ce lo siamo scordato: roba vecchia, acqua passata.

Michel Onfray, “Pensare l’Islam”.

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Michel Onfray, “Pensare l’Islam” , Ponte alle Grazie, 2016, ISBN 9788868335038.

Michel Onfray, filosofo ateo e “libero pensatore”, espone nel libro “Pensare l’Islam” le sue idee riguardanti la religione musulmana in rapporto alla società francese e, in generale, occidentale, anche alla luce degli interventi militari in Iraq, Afghanistan, Libia, Mali e Siria susseguitisi nel corso degli ultimi decenni fino ad oggi e della risposta terroristica da parte di gruppi fondamentalisti islamici concretizzatasi anche con gli attentati del Gennaio e del Novembre 2015 a Parigi. Onfray illustra nella lunga intervista rilasciata alla giornalista algerina Asma Kouar -intervista che rappresenta la parte centrale del libro- la sua opinione sull’Islam, tanto religione di pace quanto di guerra a seconda di quali sure del Corano o passaggi della biografia di Maometto vengano presi in considerazione. Per Onfray è auspicabile cercare il dialogo con l’Islam che sceglie di far propri i valori compatibili con quelli della Repubblica francese e della sua storia forgiata dalla Rivoluzione e dall’Illuminismo, mentre le cause della reazione terroristica dei fondamentalisti islamici, appunto una reazione, va cercata nelle politiche neocoloniali delle potenze occidentali. Onfray attacca senza mezzi termini la politica francese, i massmedia e chi costruisce l’opinione nel mondo della cultura in Francia, scagliandosi contro l’omologazione delle reazioni susseguitesi agli attentati di Parigi, costruite ad arte sull’onda emotiva e sulla mancata volontà o capacità di riflettere razionalmente e sinceramente su quei tragici fatti; prende di mira la sinistra istituzionale moderata, quella dei Mitterrand e degli Hollande, sempre più simile alla destra, divenuta liberista almeno dal 1983, accusata di aver rafforzato e usato il Front National come strumento per spaccare la destra repubblicana e per ottenere quindi consensi elettorali, ma non risparmia nemmeno parte della sinistra “radicale” e “anticapitalista”, rea di correr dietro all’islam con l’intento di usarlo come ariete per sfondare, in chiave antiimperialista, laddove le masse “ignoranti” risultino impermeabili al verbo marxista e al contempo più inclini a recepire un messaggio di tipo religioso; condanna l’Europa unita dominata da interessi economici, priva di etica e morale, omologatrice, regno della mediocrità e del non-pensiero.

Nei dibattiti pubblici e sui media francesi Michel Onfray è stato accusato di tutto: di islamofobia e di complicità con lo Stato Islamico, di “sputare sui morti del Bataclan” e di fare il gioco di Marine Le Pen, il tutto a uso e consumo dello spettacolo mediatico e di chi si spartisce il potere politico. Ma se il pensiero di Onfray è quello esposto in “Pensare l’Islam”, queste accuse secondo me risultano infondate: Onfray non è una specie di Oriana Fallaci, non ragiona in modo viscerale, non è uno xenofobo, né un islamofobo. È un intellettuale ateo che critica razionalmente la religione musulmana, affermando che una religione può essere interpretata in diversi modi da ciascun credente, che deve decidere se recepire i messaggi di amore, fratellanza, pace e solidarietà contenuti nelle sacre scritture e nelle diverse tradizioni, oppure quelli spesso prevalenti che incitano a guerra e violenza, discriminazioni e conquista, oppressione e terrore. Per quanto io mi possa trovare in disaccordo con alcune sue osservazioni (una a caso, la confusione fra antisemitismo e antisionismo dei quali egli accusa parte della sinistra francese: quella sinistra potrà pur essere entrambe le cose, ma le due cose sono tra loro molto diverse) o considerarne altre di portata limitata (una volta per tutte: per me tutto ciò che non mette in discussione concetti e prassi legati al dominio è di portata limitata), apprezzo le critiche alla società del profitto, alle guerre di aggressione neocoloniale (e imperialista, aggiungo io), al pensiero unico dominante promosso da massmedia e pseudoesperti legati a interessi personali e di casta, ai politicanti di mestiere a caccia di voti e disposti a tutto pur di ottenerli. E a quel clima di omologazione al discorso retorico preconfezionato e utile al potere di turno che impedisce dibattiti sulle idee, privilegiando invece lo spettacolo, uno spettacolo al quale il filosofo francese dichiara di volersi sottrarre e dal quale non intende farsi strumentalizzare.

Cosa vuol dire sconfiggere lo Stato Islamico?

La domanda che mi ronza in testa da tempo è: “come si può sconfiggere lo Stato Islamico?”. A interrogarmi su tale questione non sono solo, infatti ho potuto leggere chilometri di articoli, analisi, interviste e altro ancora tra quanto è stato pubblicato in rete e su carta sull’argomento da due anni a questa parte, non tanto alla ricerca di una risposta definitiva ad un problema oltremodo complesso e in continua evoluzione, quanto nella speranza di poter avere una maggiore comprensione della natura dello Stato Islamico e delle possibili vie percorribili per raggiungere la sua sconfitta. Di certo la volontà di un ritorno ad un passato ideale, quello della comunità di fedeli islamici (umma) del VII secolo o giù di lì, da contrapporre all’islam odierno che i seguaci della branca salafita-jihadista rappresentata dall’IS considerano corrotto, non è nata ieri e non morirà in tempi brevi, se mai morirà. L’IS ha avuto l’astuzia e la perfidia di fomentare conflitti e divisioni di natura etnico-tribale-religiosa già presenti nelle zone nelle quali agisce, compiendo ad esempio, dopo il 2003, attentati in Iraq contro gli sciiti, che si vendicavano sui sunniti spingendo questi ultimi a cercare protezione tra le file dei combattenti di quella che all’epoca si chiamava Jamāʿat al-tawḥīd wa l-jihād, ribattezzata poi “al-Qaeda nel Paese dei due Fiumi”- un sodalizio, quello con al-Qaeda, che dura solo fino al 2006, quando l’organizzazione cambia nuovamente nome in “Mujaheddin del Consiglio della Shura” e, pochi mesi dopo, in “Stato Islamico in Iraq” (al-Dawla al-Islamiyya fi l-‘Iraq, in breve ISI), per divenire nell’Aprile del 2013 al-Dawla al-Islamiyya fi-l-‘Iraq wa-l-Sham, “Stato Islamico in Iraq e Siria (ISIS)” o “Stato Islamico in Iraq e Levante (ISIL)” e infine, con la fondazione del califfato nel Giugno 2014, semplicemente “Stato Islamico” (IS). Considerando solo i continui cambi di nome del gruppo e le diverse alleanze fatte e disfatte nel corso di pochi anni ci si accorge di trovarsi di fronte ad un’organizzazione versatile, che non ha, come al-Qaeda, solo l’obiettivo di un jihad globale, né tantomeno vuole (come ad esempio Hamas) circoscrivere il proprio potere ad un territorio delimitato,  ma ha l’ambizione di impore il proprio potere su tutti i territori da essa controllati militarmente stabilendovi subito la legge islamica (sharia) senza tener conto di confini statali esistenti e differenze di nazionalità: l’idea di Stato di questi personaggi rispetto alla concezione occidentale moderna di Stato-nazione è molto differente e va tenuta sempre presente. Lo Stato Islamico si fa portavoce di un ritorno all’essenza dell’islam e si richiama alla tradizione del califfato abbàside e della discendenza diretta da Maometto del nuovo califfo al-Baghdadi, rifiuta la modernità ma usa gli ultimi ritrovati della tecnologia per propagandare le proprie idee con strategie pubblicitarie degne di un’azienda leader sul mercato, dichiara guerra all’Occidente ma massacra più musulmani/e di chiunque altro, fa proprio il concetto di “scontro delle civiltà” di Samuel Huntington riadattandolo secondo le proprie esigenze. L’IS ostenta la propria crudeltà per intimorire gli avversari e allo stesso tempo applica nei territori sotto il suo controllo misure paternalistiche e caritatevoli atte a tenere a bada il malcontento della popolazione che, più per paura e mancanza di alternative che per convinzione, non sa opporsi efficacemente al potere totalitario del califfato. La forza dello Stato Islamico non si limita solo alla capacità di trarre vantaggi dalle divisioni etnico-religiose (ironia della sorte, uno degli acronimi ufficiosi del gruppo è Daesh, che in arabo significa qualcosa come “portatore di discordia”), ma è anche data dalla propria abilità propagandistica e dalla sua forza economica. Quest’ultima poggia solo in piccola parte su offerte di denaro dall’estero, le entrate principali derivano dal traffico di beni artistici e archeologici e da quello di esseri umani (donne in primis, ridotte a schiave del sesso), dal saccheggio di villaggi e città occupati e dalla rapina (ad es. banca di Mossul), dalle tasse imposte alla popolazione, ma soprattutto dalla vendita di petrolio. Ad essere reclutati per la “guerra santa” sono soprattutto volontari provenienti dall’estero, mercenari a tutti gli effetti.

Un’altro aspetto che gioca a favore dell’IS è la mancanza di unità d’intenti tra i diversi Stati nel trovare una soluzione al conflitto in corso, visto che ciascuna potenza, internazionale o regionale, si impegna a difendere i propri interessi nella regione a scapito di altri Stati e, manco a dirlo, a prescindere dai reali interessi di chi abita la regione nella quale divampa il conflitto: l’Iran (e le milizie hezbollah, sua diretta emanazione in Libano) è legato da decenni alla dittatura della famiglia Assad, lo stesso vale per la Russia, che ha forti interessi economici (come la Cina) e strategici in Siria. La potenze occidentali della NATO sono intenzionate invece a rovesciare il regime di Damasco e in tale ottica hanno foraggiato i gruppi del Libero Esercito Siriano (FSA), tra cui spiccano numerose milizie islamiche, salvo poi bombardare l’IS quando questo ha palesato la propria volontà di conquista a scapito degli interessi occidentali e ha effettuato attacchi terroristici sul territorio europeo e statunitense. La Turchia, pur essendo un Paese NATO, segue invece una propria agenda politica imperialista e, come Arabia Saudita, Kuwait e Qatar, sostiene le fazioni islamiche anti-Assad più che quelle laiche, inoltre impiega le proprie energie principalmente nella repressione anti-curda. I quattro Paesi in questione hanno aiutato in modo più o meno intenso l’IS e continuano tuttora a farlo.

Quali misure sarebbero quindi efficaci per sconfiggere il califfato in Siria e Iraq e il gruppo islamico che lo ha fondato? Serve realmente a qualcosa trattare con Assad, considerato fino a poco tempo fa il problema principale? I Paesi uniti (incollati con lo sputo, direi senza ricorrere a eufemismi) nella lotta contro l’IS dovrebbero inviare truppe di terra o continuare a bombardare? Pensiamo per un attimo agli interessi divergenti tra le potenze in gioco, ai rapporti tra Russia e Turchia, al destino dell’Iraq dopo l’invasione USA nel 2003 (i militari al servizio del dittatore decaduto saddam Hussein, licenziati dagli americani, finirono in gran parte tra le nuove reclute di Jamāʿat al-tawḥīd wa l-jihād, non dimentichiamolo), al fatto che le armi vendute da Paesi europei come la Germania ad Arabia Saudita e Qatar finiscano poi nelle mani dei mercenari del califfato e all’evidenza che i bombardamenti, anche quando non massacrano civili e colpiscono realmente obiettivi militari nemici, non servono a scalfire lo Stato Islamico (due predecessori di Abu Bakr al-Baghdadi, al-Zarqawi e Abu Omar al-Baghdadi, furono uccisi durante attacchi aerei statunitensi)…cosa si potrebbe realisticamente contrapporre alle milizie dello Stato Islamico, ma soprattutto, cosa significa veramente sconfiggere il califfato? Quella dell’IS è una visione del mondo manicheista, come già detto incentrata sullo scontro tra quell’islam definito autentico e il resto del mondo: sconfiggere lo Stato Islamico significa soprattutto sconfiggere questa visione. Alimentare l’odio, la disgregazione sociale e la contrapposizione violenta è fondamentale per creare artificialmente uno scontro di civiltà: rifiutarsi di prestare il fianco a questa logica è un atto di resistenza fondamentale contro i progetti jihadisti. Chi oggi in Europa si batte per l’accoglienza dei profughi, contro l’islamofobia e le logiche delle destre estreme e populiste sta automaticamente rifiutandosi di fare il pieno al serbatoio dello Stato Islamico. Occorrerebbe inoltre provocare diffuse proteste contro l’ipocrisia degli Stati coinvolti per procura nel conflitto, denunciare senza sosta le connivenze, le forniture d’armi, l’acquisto di petrolio, l’apertura mirata delle frontiere per far passare rifornimenti ai miliziani di al-Baghdadi, l’ambiguità e l’inefficacia delle soluzioni militari tanto quanto il fallimento pianificato di quelle diplomatiche. Inoltre ritengo fondamentale l’importanza dell’appoggio a quello che è un progetto politico, sociale ed economico diametralmente contrapposto alla visione del mondo di Daesh, ovvero al “modello Rojava”. In Rojava è in corso una rivoluzione dai tratti libertari che sta cambiando profondamente il volto della regione, una rivoluzione che ha come cardini la parità tra i sessi e tra le diverse etnie e religioni, il benessere collettivo, l’ecologismo, la democrazia di base, l’autogestione, l’antiautoritarismo. Un incubo non solo per l’IS, cacciato dalle milizie popolari volontarie del Rojava da Kobane e da altre città che aveva conquistato o che tentava di conquistare, ma anche per le potenze mondiali che vedono minacciati i propri interessi particolari nella regione da un progetto autonomo, creato dal basso nell’interesse di chi lo vive. La rivoluzione in Rojava avanza nonostante si trovi di fronte a difficoltà non indifferenti di varia natura, ma ha bisogno di tutto l’appoggio possibile, non solo in nome della lotta senza quartiere contro la barbarie di daesh, ma anche per la libertà e l’autodeterminazione di persone- altrimenti destinate ad essere sfruttate, discriminate, oppresse e soggiogate se non direttamente massacrate da poteri locali o esterni- che hanno deciso di alzare la testa e decidere del proprio futuro costruendolo con le proprie mani.

“La NATO contro i Curdi: la Battaglia per A’zaz”.

Fonte: Anarkismo.

“La NATO contro i Curdi: la Battaglia per A’zaz

TRADUZIONE A CURA DI ALTERNATIVA LIBERTARIA/FDCA – UFFICIO RELAZIONI INTERNAZIONALI

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[Castellano] [Català] [English]

La NATO contro i Curdi: la Battaglia per A’zaz
Più si chiude l’accerchiamento contro la reazione fondamentalista armata in Siria, più il regime di Ankara, che l’ha generosamente sponsorizzata per cinque anni di carneficina, inizia a innervosirsi. La Turchia vede vanificarsi i suoi sforzi dopo l’irruzione sulla scena dei guerriglieri curdi delle YPG contro lo Stato islamico, dopo l’intervento russo e dopo il forte coinvolgimento delle milizie Hezbollah nella lotta contro questa alleanza eterogenea di opportunisti e fondamentalisti in armi che non cercano altro che di rovesciare Assad e porre fine alle milizie curde. Ecco dunque che la Turchia ha provveduto a intensificare i suoi bombardamenti contro i Curdi che operano nel nord, mentre appaiono sempre più evidenti da parte turca i segni di tentare un intervento diretto nel conflitto siriano, per allungare la durata di una avventura militare criminale che non ha fatto altro che portare dolore e morte.

E’ a questo punto che cadono le maschere. La NATO, rappresentata dallo stato turco, da due giorni sta bombardando senza pietà le unità di difesa popolare curde YPG che stanno avanzando a nord di Aleppo nelle città di A’zaz e Tal Rifaat [1]. I bombardamenti, che hanno ucciso almeno 23 civili [2] si sono concentrati sulla base aerea di Menagh, conquistata nel 2013 da una coalizione di “ribelli”, tra cui Al Qaeda (il Fronte Al-Nusra) ed altri che poi sono confluiti nello Stato islamico. Menagh è un obiettivo strategico per i rifornimenti alla “ribellione” al servizio delle petrol-teocrazie e degli interessi di USA e UE. Ahmet Davutoglu ha detto che di questi bombardamenti è stato informato il vicepresidente USA Joe Biden, che anche se non approva pubblicamente l’intervento militare, non lo ha condannato né ha provveduto a frenare lo Stato turco, che non agirebbe mai senza l’assoluta certezza del sostegno USA. Ricordiamo che la NATO aveva detto, nel bel mezzo della crisi con la Russia, che avrebbe difeso a spada tratta la “integrità territoriale” dello Stato turco, argomento che il regime di Ankara usa per attaccare i Curdi, dicendo che sono una minaccia per il loro concetto monolitico di unità nazionale. Questo potrebbe essere solo il preludio ad un intervento diretto da parte delle truppe di terra turche, eventualità che Erdoğan aveva già minacciato la scorsa settimana. La facciata della presunta unità contro lo Stato islamico è una farsa: lo Stato turco, e con esso la NATO, puntano alla destabilizzazione e all’estensione del bagno di sangue siriano, e contemporaneamente alla lotta contro il movimento libertario curdo.

Scommettendo sulla strategia dell’incudine e martello, mentre colpisce i Curdi in territorio siriano e rifornisce i gruppi reazionari armati per distruggere le milizie YPG, lo Stato turco colpisce anche i Curdi nel proprio territorio, cercando di schiacciare il loro spirito ribelle. Sono mesi che è stato imposto lo stato di emergenza nei territori curdi dentro lo stato turco, che si susseguono operazioni militari di carattere repressivo, che si bombardano le città. Mentre i media occidentali sono rimasti scioccati dalla distruzione del patrimonio culturale, storico e archeologico messa in atto dallo Stato Islamico in luoghi come Palmyra (Siria) e l’hanno denunciato ai quattro venti, sono rimasti muti davanti alla distruzione sistematica del patrimonio mondiale che lo Stato turco sta compiendo nella regione curda ai suoi confini: in base alle informazioni del Comune di Diyarbakir (02/10/16) il quartiere Sur della città è stato bombardato e le sue mura storiche, patrimonio dell’UNESCO, sono state gravemente danneggiate. E’ stato colpito il 70% degli edifici di questa parte della città antica, mentre 50.000 persone che abitavano nel Sur sono state sfollate dalle loro case dalla violenza e dal terrore di stato.

L’Occidente credeva di poter utilizzare i Curdi per opporsi ai settori fondamentalisti “incontrollabili”, ma non ha fatto i conti con il loro ritorno di fiamma. I Curdi sono un attore politico maturo, con molta esperienza di lotta per poter essere tenuti a rimorchio ed essere considerati come semplici marionette al servizio delle grandi potenze. Quando gli Stati Uniti hanno dato inizio alla loro strategia di ridefinizione del Medio Oriente, immaginando che sarebbero sorti ovunque regimi fantoccio, associati alle teocrazie del Golfo e disposti a dare via il loro petrolio per nulla, non avevano fatto i conti con i Curdi, nè col loro progetto socialista libertario di democrazia radicale; né hanno tenuto conto delle enormi forze popolari che si sarebbero scatenate in seguito alla loro strategia interventista. È vero, non è ancora finita la fioritura di un Medio Oriente libertario annunciato dal potere popolare che proviene dal Kurdistan e che si irradia a tutta la regione; ma è anche vero che gli Stati Uniti non sono stati in grado di imporsi, la loro egemonia nella regione è stata erosa ed ora i loro alleati sono nudi: non c’è stato un momento negli ultimi decenni in cui gli sceicchi sono stati più nervosi di quanto lo siano ora. Da qui nasce la violenza dell’improvvisato califfo di Ankara contro i Curdi.

Così come la battaglia per Kobanê è stata la chiave per invertire l’avanzata dello Stato Islamico, oggi, la battaglia per A’zaz è la chiave per sradicare il fondamentalismo armato e per difendere l’espansione, il consolidamento e il diritto di esistere del progetto di autonomia curdo, libertario e confederale.

José Antonio Gutiérrez D.
15 Febbraio 2016


[1] http://www.aljazeera.com/news/2016/02/turkey-shells-kurdish-held-airbase-syria-aleppo-160213160929706.html
[2] http://aranews.net/2016/02/dozens-of-civilian-casualties-reported-under-turkish-bombardment-northern-syria/ “

Come e perchè la Turchia supporta l’ISIS.

I movimenti politico-religiosi islamici sono stati usati dalle potenze occidentali in diversi luoghi e occasioni, soprattutto dall’inizio della guerra fredda tra USA e URSS, come diga all’espansione di idee comuniste, socialiste o semplicemente progressiste, come strumento di controllo sociale e politico sulle popolazioni locali e come bacino di reclutamento anche per forze paramilitari e terroristiche. La Turchia in particolare non è nuova a questo genere di cose, in bilico fin dai tempi della fondazione della repubblica ad opera di Kemal Atatürk tra severo laicismo e spinte alla (re)islamizzazione, ha attraversato fasi durante le quali le frange islamiche più radicali sono state foraggiate dai potenti del Paese con il benestare degli USA e della CIA. Tanto gli Hezbollah sono stati impiegati nella guerra contro le popolazioni curde in Turchia accanto ai fascisti del partito MHP, quanto movimenti come quello di Fetullah Gülen (che si presenta come democratico e moderato, ma ad un’analisi attenta si rivela essere uno dei motori della nuova ondata di islamizzazione in Turchia) hanno ricevuto sostegno e legittimazione non solo dal partito di Erdogan, ma anche da autorità politiche e religiose internazionali. Il problema per le potenze occidentali, insomma, nasce solo quando lo strumento, in questo caso il fondamentalismo islamico, sfugge al controllo e/o non adempie più alle funzioni richieste da chi si erge, a volte con troppe pretese, al ruolo di burattinaio. L’articolo che segue, tratto da Z-Net Italy, illustra alcuni aspetti dell’appoggio offerto dal governo dell’AKP di Erdogan all’organizzazione terroristica Daesh (ISIS):

 “Il segreto di Pulcinella della collaborazione tra la Turchia e lo Stato Islamico

rojava

Di Yasin Sunca

29 Novembre 2015

L’espansione del gruppo terrorista denominato Stato Islamico è sostenuto dall’appoggio risoluto della Turchia, insieme ad alcuni altri stati.

Fin dall’inizio della guerra civile in Siria, il governo turco dell’AKP (Partito per la Giustizia e lo Sviluppo)  ha cercato di perseguire una politica estera informata e motivata dalla sua mentalità esclusoria riguardo alle sue comunità etniche e religiose e anche ai gruppi progressisti e rivoluzionari in Turchia. Il governo dell’AKP, allo scopo di reprimere e contrastare qualsiasi  successo politico  dei Curdi che stanno costruendo un progetto politico radical-democratico in Siria, appoggia qualsiasi tipo di gruppo estremista, compresi il gruppo Stato Islamico, il Fronte al-Nusra, ecc.

Il motivo per cui la Turchia appoggia il Gruppo Stato Islamico

La rinascita dell’approccio neo-Ottomano del governo dell’AKP, che fondamentalmente implica il diventare una regione egemone, e oltre alle questioni socio-politiche della Turchia storicamente radicate, ha spinto il  governo verso una politica regressiva strategicamente programmata che alcuni indicano sia sull’orlo del collasso.

Prima della cosiddetta “Primavera Araba”  il primo ministro allora in carica,  Ahmet Davutoğlu, aveva introdotto una nuova, più aggressiva politica estera intesa a dominare la regione. Ma considerando se stesso come il “grande fratello” della regione, l’AKP credeva che la Turchia potesse essere uno stato egemonico per coordinare l’area insieme alle potenze imperialiste occidentali. In base a questo ragionamento, l’AKP ha attuato una politica a due facce. Da una parte, la Turchia è intervenuta nei paesi della regione attraverso una serie di organizzazioni islamiste, che andavano da diversi rami della Fratellanza Musulmana alle organizzazioni estremiste jihadiste, per rimodellare la formazione della regione nel loro migliore interesse,  dal 2007 in poi. D’altra parte, il governo dell’AKP tentava di costruire buoni rapporti con i poteri regionali allo scopo di far avanzare l’influenza economica e culturale della Turchia, che è stata definita come “soft power turco” dall’attuale   primo ministro Davutoğlu, nel suo controverso libro intitolato “Strategic Depth” (Stratejik Derinlik) , “Profondità strategica”. Questa politica del governo dell’AKP è stata  appoggiata dalle potenze imperialiste occidentali fino alla fine del 2012, poiché cercavano un’alternativa all’Islam politico radicale nel paese.

Tuttavia, per prima cosa gli sviluppi in Egitto e in Tunisia nel contesto della cosiddetta “Primavera Araba” e, secondo, la guerra civile in Siria, hanno cambiato moltissimo tutto per l’AKP nella regione e anche nei loro rapporti con le potenze imperialiste, rendendo visibile il loro impegno/collaborazione con le organizzazioni terroriste/jihadiste.

La Turchia ha eccessivamente appoggiato, facilitato e collaborato con vari gruppi jihadisti, compreso lo Stato Islamico, allo scopo di dare forma al futuro della Siria in linea con i suoi interessi. Per ironia, la collaborazione tra la Turchia e lo Stato Islamico è emersa  in parte grazie alla divisione delle potenze occidentali in schieramenti diversi riguardo alla guerra in  Siria. Durante il vertice del G20 tenutosi in Turchia, il presidente russo Vladimir Putin, che non vuole perdere il suo ultimo alleato nella zona del Mediterraneo, cioè Bashar Assad, ha citato circa 40 nazioni che sostengono  Daesh (ISIS), una delle quali, come il mondo ha appreso in seguito, è la Turchia.

Come detto sopra, la questione curda in Turchia è un fattore determinante per la politica estera della Turchia dalla formazione  della repubblica. Perciò la diplomazia turca è stata orientata a impedire categoricamente qualsiasi genere di progresso politico curdo. Questo si può osservare sia nel Kurdistan iracheno in seguito all’invasione statunitense dell’Iraq che nel Rojava (Kurdsitan Occidentale, Siria Settentrionale), dove i Curdi hanno ottenuto l’attenzione internazionale grazie alla loro eroica resistenza seguita da una vittoria storica contro il gruppo Stato Islamico a Kobanê. Dal momento che qualsiasi progresso politico dei Curdi altrove, catalizzerebbe la lotta dei Curdi nel Kurdistan Settentrionale (Turchia Orientale) contro la Turchia, il blocco dei Curdi a livello internazionale è diventata una delle massime priorità per lo stato turco.

A questo riguardo, il primo aspetto della resistenza curda contro lo Stato Islamico di fronte alla collaborazione tra la Turchia e tale gruppo estremista, è che il governo dell’AKP ha fatto una guerra per procura contro i Curdi del Rojava tramite il gruppo terrorista islamista allo scopo di bloccare o almeno di contenere un successo curdo in Siria. Il governo dell’AKP è anche responsabile degli attacchi dello Stato Islamico contro i Curdi e le persone di sinistra in Turchia e di non aver condotto un’effettiva indagine, malgrado tutte le prove. Lo Stato Islamico ha compiuto tre attacchi con le bombe: a Diyarbakir durante una manifestazione elettorale del partito di sinistra filo-curdo HDP; a Suruç, una città sul confine tra Turchia e Siria, e ad Ankara, durante una dimostrazione pacifista.

Il secondo aspetto è che     la resistenza curda nel  Rojava ha smascherato questa sporca collaborazione, specialmente durante la guerra a Kobanê. Infatti, la collaborazione della Turchia con i gruppi jihadisti e il loro utilizzo, specialmente contro i Curdi, non era iniziata con lo Stato Islamico e non era venuta fuori dal nulla. La Turchi l’ha fatto nell’ambito del suo approccio interventista al Medio Oriente che si può far risalire all’inizio del 2011 quando  appoggiava un altro gruppo jihadista, il Fronte Nusra, il ramo siriano di Al-Qaida che non è meno crudele del gruppo Stato Islamico. In seguito a una divisione interna nel Fronte Nusra, questo è stato rimpiazzato dallo Stato Islamico che fin da allora ha continuato a fare attacchi contro la terra curda liberata,  con l’aiuto del governo AKP. La collaborazione tra AKP e lo Stato Islamico continuerà fino a che uno avrà bisogno dell’altro. Ma c’è ora un equilibrio del terrore per la Turchia, creato dalla Turchia. Nel caso che questo paese interrompa la collaborazione con il gruppo Stato Islamico, e alquanto probabile che il gruppo terrorista gli  si rivolterà contro, dal momento che l’unica porta per le sue necessità logistiche è il confine turco.

In che modo la  Turchia appoggia il Gruppo Stato Islamico

La Turchia è in  collaborazione con lo Stato Islamico sia politicamente che ideologicamente e questa si espande in molti canali come è stato elencato in dettaglio

Da David L. Phillips sull’Huffington Post. Lo  Stato Islamico ha servito gli interessi turchi militarmente combattendo i Curdi, mentre il governo dell’AKP facilitava logisticamente e finanziariamente  la campagna omicida dello Stato Islamico. Il governo dell’AKP forniva anche equipaggiamento militare allo Stato Islamico. Tre camion carichi di armi si sono fermati nella regione di Adana il 19 gennaio 2014. Malgrado la smentita del governo, era chiaro che queste armi sarebbero state consegnate allo Stato Islamico. Secondo molti documenti venuti alla luce e in base alla copertura dei media, oltre a questi tre, ci sono stati molti altri camion di armi consegnate allo Stato Islamico, cosa confermata anche da video e foto fatte dai combattenti curdi dell’YPG (Unità di Difesa del Popolo)  e dell’YPJ (Unità di Difesa delle Donne). Inoltre il suolo turco era usato dai Sauditi per il trasporto di armi all’IS.

Il governo dell’AKP ha anche facilitato l’attraversamento del confine per i membri dello Stato islamico di recente reclutati, secondo un documento firmato dal ministro dell’Interno , Muammer Güler il 13 giugno 2014. E’ stato anche affermato dai media internazionali che il governo di Erdoğan  ha chiuso un occhio sulla “entrata per la jihad” attraverso il confine del pese con la Siria. Molti emendamenti ufficiali e domande nel Parlamento della Turchia proposti dai partiti di opposizione per avere una risposta ufficiale del governo riguardo alle facilitazioni per l’attraversamento del confine date ai jihadisti, sono rimaste senza risposta. Tra  molte di queste domande, il Membro del Parlamento del partito filo-curdo HDP, Ibrahim Ayhan, ha chiesto al ministro se il governo forniva rifugio ai membri dello Stato Islamico nel campo profughi di Akçakale.

Il gruppo dei combattenti  dello Stato Islamico, compresi i comandanti di alto rango, hanno ricevuto assistenza medica e sono stati curati negli ospedali delle città di confine della Turchia. Il giornalista turco Fehim Taştekin sostiene che il governo ha permesso l’acquisto e la vendita di petrolio proveniente dal territorio dello Stato Islamico. Inoltre, secondo altre fonti, alcuni dei membri della famiglia del presidente

Erdoğan, sono coinvolti nel commercio del petrolio dello Stato Islamico.

Nel trattare di questo, è fondamentale tenere a mente che un intervento militare internazionale non servirà a nulla se non al rafforzamento dello Stato Islamico e ad analoghi gruppi terroristi. Invece, appoggiare le forze di terra che combattono per la loro terra e per la loro libertà sarebbe del massimo rendimento.

Infine, essere di continuo solidali con l’esperienza unica  radical-democratica nel Rojava, al centro di una regione piena di violenza e di atrocità, è una responsabilità per tutto il globo e il modo migliore per andare avanti.

Yasin Sunca  è un attivista politico curdo e ricercatore indipendente. Seguitelo su Twitter @kurdeditir

Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo”

 

Noi contro tutte le guerre, tutte le guerre contro di noi.

Quello che segue è il discorso pronunciato da Gino Strada, chirurgo fondatore di Emergency, durante la cerimonia di consegna dei Right Livelihood Awards, i cosiddetti “Premi Nobel alternativi” il 30 Novembre a Stoccolma:

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«Io sono un chirurgo. Ho visto i feriti (e i morti) di vari conflitti in Asia, Africa, Medio Oriente, America Latina e Europa. Ho operato migliaia di persone, ferite da proiettili, frammenti di bombe o missili.

A Quetta, la città pakistana vicina al confine afgano, ho incontrato per la prima volta le vittime delle mine antiuomo. Ho operato molti bambini feriti dalle cosiddette “mine giocattolo”, piccoli pappagalli verdi di plastica grandi come un pacchetto di sigarette. Sparse nei campi, queste armi aspettano solo che un bambino curioso le prenda e ci giochi per un po’, fino a quando esplodono: una o due mani perse, ustioni su petto, viso e occhi. Bambini senza braccia e ciechi. Conservo ancora un vivido ricordo di quelle vittime e l’aver visto tali atrocità mi ha cambiato la vita.

Mi è occorso del tempo per accettare l’idea che una “strategia di guerra” possa includere prassi come quella di inserire, tra gli obiettivi, i bambini e la mutilazione dei bambini del “paese nemico”. Armi progettate non per uccidere, ma per infliggere orribili sofferenze a bambini innocenti, ponendo a carico delle famiglie e della società un terribile peso. Ancora oggi quei bambini sono per me il simbolo vivente delle guerre contemporanee, una costante forma di terrorismo nei confronti dei civili.

Alcuni anni fa, a Kabul, ho esaminato le cartelle cliniche di circa 1200 pazienti per scoprire che meno del 10% erano presumibilmente dei militari. Il 90% delle vittime erano civili, un terzo dei quali bambini. È quindi questo “il nemico”? Chi paga il prezzo della guerra?

Nel secolo scorso, la percentuale di civili morti aveva fatto registrare un forte incremento passando dal 15% circa nella prima guerra mondiale a oltre il 60% nella seconda. E nei 160 e più “conflitti rilevanti” che il pianeta ha vissuto dopo la fine della seconda guerra mondiale, con un costo di oltre 25 milioni di vite umane, la percentuale di vittime civili si aggirava costantemente intorno al 90% del totale, livello del tutto simile a quello riscontrato nel conflitto afgano.

Lavorando in regioni devastate dalle guerre da ormai più di 25 anni, ho potuto toccare con mano questa crudele e triste realtà e ho percepito l’entità di questa tragedia sociale, di questa carneficina di civili, che si consuma nella maggior parte dei casi in aree in cui le strutture sanitarie sono praticamente inesistenti.

Negli anni, Emergency ha costruito e gestito ospedali con centri chirurgici per le vittime di guerra in Ruanda, Cambogia, Iraq, Afghanistan, Sierra Leone e in molti altri paesi, ampliando in seguito le proprie attività in ambito medico con l’inclusione di centri pediatrici e reparti maternità, centri di riabilitazione, ambulatori e servizi di pronto soccorso.

L’origine e la fondazione di Emergency, avvenuta nel 1994, non deriva da una serie di principi e dichiarazioni. È stata piuttosto concepita su tavoli operatori e in corsie d’ospedale. Curare i feriti non è né generoso né misericordioso, è semplicemente giusto. Lo si deve fare.

In 21 anni di attività, Emergency ha fornito assistenza medico-chirurgica a oltre 6,5 milioni di persone. Una goccia nell’oceano, si potrebbe dire, ma quella goccia ha fatto la differenza per molti. In qualche modo ha anche cambiato la vita di coloro che, come me, hanno condiviso l’esperienza di Emergency.

Ogni volta, nei vari conflitti nell’ambito dei quali abbiamo lavorato, indipendentemente da chi combattesse contro chi e per quale ragione, il risultato era sempre lo stesso: la guerra non significava altro che l’uccisione di civili, morte, distruzione. La tragedia delle vittime è la sola verità della guerra.

Confrontandoci quotidianamente con questa terribile realtà, abbiamo concepito l’idea di una comunità in cui i rapporti umani fossero fondati sulla solidarietà e il rispetto reciproco.

In realtà, questa era la speranza condivisa in tutto il mondo all’indomani della seconda guerra mondiale. Tale speranza ha condotto all’istituzione delle Nazioni Unite, come dichiarato nella Premessa dello Statuto dell’ONU: “Salvare le future generazioni dal flagello della guerra, che per due volte nel corso di questa generazione ha portato indicibili afflizioni all’umanità, riaffermare la fede nei diritti fondamentali dell’uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nell’uguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne e delle nazioni grandi e piccole”.

Il legame indissolubile tra diritti umani e pace e il rapporto di reciproca esclusione tra guerra e diritti erano stati inoltre sottolineati nella Dichiarazione universale dei diritti umani, sottoscritta nel 1948. “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti” e il “riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo”.

70 anni dopo, quella Dichiarazione appare provocatoria, offensiva e chiaramente falsa. A oggi, non uno degli stati firmatari ha applicato completamente i diritti universali che si è impegnato a rispettare: il diritto a una vita dignitosa, a un lavoro e a una casa, all’istruzione e alla sanità. In una parola, il diritto alla giustizia sociale. All’inizio del nuovo millennio non vi sono diritti per tutti, ma privilegi per pochi.

La più aberrante in assoluto, diffusa e costante violazione dei diritti umani è la guerra, in tutte le sue forme. Cancellando il diritto di vivere, la guerra nega tutti i diritti umani.

Vorrei sottolineare ancora una volta che, nella maggior parte dei paesi sconvolti dalla violenza, coloro che pagano il prezzo più alto sono uomini e donne come noi, nove volte su dieci. Non dobbiamo mai dimenticarlo.
Solo nel mese di novembre 2015, sono stati uccisi oltre 4000 civili in vari paesi, tra cui Afghanistan, Egitto, Francia, Iraq, Libia, Mali, Nigeria, Siria e Somalia. Molte più persone sono state ferite e mutilate, o costrette a lasciare le loro case.

In qualità di testimone delle atrocità della guerra, ho potuto vedere come la scelta della violenza abbia – nella maggior parte dei casi – portato con sé solo un incremento della violenza e delle sofferenze. La guerra è un atto di terrorismo e il terrorismo è un atto di guerra: il denominatore è comune, l’uso della violenza.

Sessanta anni dopo, ci troviamo ancora davanti al dilemma posto nel 1955 dai più importanti scienziati del mondo nel cosiddetto Manifesto di Russell-Einstein: “Metteremo fine al genere umano o l’umanità saprà rinunciare alla guerra?”. È possibile un mondo senza guerra per garantire un futuro al genere umano?

Molti potrebbero eccepire che le guerre sono sempre esistite. È vero, ma ciò non dimostra che il ricorso alla guerra sia inevitabile, né possiamo presumere che un mondo senza guerra sia un traguardo impossibile da raggiungere. Il fatto che la guerra abbia segnato il nostro passato non significa che debba essere parte anche del nostro futuro.

Come le malattie, anche la guerra deve essere considerata un problema da risolvere e non un destino da abbracciare o apprezzare.
Come medico, potrei paragonare la guerra al cancro. Il cancro opprime l’umanità e miete molte vittime: significa forse che tutti gli sforzi compiuti dalla medicina sono inutili? Al contrario, è proprio il persistere di questa devastante malattia che ci spinge a moltiplicare gli sforzi per prevenirla e sconfiggerla.

Concepire un mondo senza guerra è il problema più stimolante al quale il genere umano debba far fronte. È anche il più urgente. Gli scienziati atomici, con il loro Orologio dell’apocalisse, stanno mettendo in guardia gli esseri umani: “L’orologio ora si trova ad appena tre minuti dalla mezzanotte perché i leader internazionali non stanno eseguendo il loro compito più importante: assicurare e preservare la salute e la vita della civiltà umana”.

La maggiore sfida dei prossimi decenni consisterà nell’immaginare, progettare e implementare le condizioni che permettano di ridurre il ricorso alla forza e alla violenza di massa fino alla completa disapplicazione di questi metodi. La guerra, come le malattie letali, deve essere prevenuta e curata. La violenza non è la medicina giusta: non cura la malattia, uccide il paziente.

L’abolizione della guerra è il primo e indispensabile passo in questa direzione.

Possiamo chiamarla “utopia”, visto che non è mai accaduto prima. Tuttavia, il termine utopia non indica qualcosa di assurdo, ma piuttosto una possibilità non ancora esplorata e portata a compimento.

Molti anni fa anche l’abolizione della schiavitù sembrava “utopistica”. Nel XVII secolo, “possedere degli schiavi” era ritenuto “normale”, fisiologico.
Un movimento di massa, che negli anni, nei decenni e nei secoli ha raccolto il consenso di centinaia di migliaia di cittadini, ha cambiato la percezione della schiavitù: oggi l’idea di esseri umani incatenati e ridotti in schiavitù ci repelle. Quell’utopia è divenuta realtà.
Un mondo senza guerra è un’altra utopia che non possiamo attendere oltre a vedere trasformata in realtà.

Dobbiamo convincere milioni di persone del fatto che abolire la guerra è una necessità urgente e un obiettivo realizzabile. Questo concetto deve penetrare in profondità nelle nostre coscienze, fino a che l’idea della guerra divenga un tabù e sia eliminata dalla storia dell’umanità.

Ricevere il Premio Right Livelihood Award, il “Nobel alternativo”, incoraggia me personalmente ed Emergency nel suo insieme a moltiplicare gli sforzi: prendersi cura delle vittime e promuovere un movimento culturale per l’abolizione della guerra.
Approfitto di questa occasione per fare appello a voi tutti, alla comunità dei colleghi vincitori del Premio, affinché uniamo le forze a sostegno di questa iniziativa.
Lavorare insieme per un mondo senza guerra è la miglior cosa che possiamo fare per le generazioni future».

Il clima che cambia.

Sarà anche corretto e forse utile sottolineare le contraddizioni della sedicente democrazia rappresentativa/parlamentare, ma lo stupore è un altro paio di maniche: lo stato di emergenza e la conseguente limitazione delle libertà garantite dalla legge in Francia dopo gli attentati terroristici del 13 Novembre scorso non sono un caso unico né isolato, in Italia chi non ha la memoria troppo corta si ricorderà quante volte le manifestazioni, specialmente negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, siano state vietate per motivi legati alla “sicurezza”. Anche in altri Paesi europei certe misure di limitazione della “libertà” cortesemente concessa dall’alto non sono nuove, né scandalizzano più di tanto un’opinione pubblica anestetizzata e omologata. Non tutti/e però sono anestetizzati e omologati, anzi si sentono ancor più spronati da limitazioni e divieti a manifestare pubblicamente il proprio dissenso. In un momento nel quale gli eserciti degli Stati nei quali viviamo sono in guerra e ciò viene annunciato come se si trattasse della cosa più normale del mondo, mentre i leader mondiali si riuniscono a Parigi per la “nuova ultima chanche” (non sono l’unico a ricordare che si parlava di “ultima chanche” anche al vertice sul clima di Copenhagen nel 2009…) per ridurre il surriscaldamento globale del pianeta, ad alcuni/e, forse troppo pochi/e ma pur sempre presenti ed esistenti, sono chiari un paio di concetti di fondo imprescindibili: guerra e politiche securitarie e repressive sono due facce della stessa medaglia e le guerre non sono altro che uno strumento per ottenere o rafforzare il dominio su territori e popolazioni, per accaparrarsi nuove risorse, controllare nuovi mercati, incrementare gli affari e lo sviluppo-espansione del capitale che non possono fermarsi di fronte a nulla, nemmeno di fronte alla possibile distruzione del pianeta Terra. I veri accordi vengono stabiliti altrove, non durante gli spettacolini ad uso e consumo dell’opinione pubblica credulona. Nessuna conferenza sul clima è mai servita nel passato a raggiungere accordi soddisfacenti almeno per rallentare considerevolmente la catastrofe, perchè la crescita economica e il profitto vengono prima di tutto. Prima degli ecosistemi, degli esseri umani e di tutte le creature viventi, prima dei diritti revocabili stabiliti sulla carta, della pace e, non te ne meravigliare, della sicurezza di ciascuno/a di noi.

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Quando qualcuno esprime un concetto meglio di quanto io possa fare.

Nelle due o tre ore delle le ultime quarantott’ore che ho speso seduto di fronte al computer ho letto numerosi comunicati sugli attentati di Parigi e su ciò che vi ruota intorno. Avevo compilato una lista di comunicati e riflessioni di organizzazioni anarchiche di vari Paesi che pensavo di riproporre su questo spazio virtuale, poi mi sono imbattuto in uno (anzi due) testi pubblicati su un blog che leggo non dico spesso, ma almeno volentieri e ci ho ritrovato un pò quello che mi passa per la testa in questi giorni. Perchè ripetere allora con parole mie gli stessi concetti di fondo, quando qualcuno li ha già espressi peraltro stilisticamente meglio di quanto io possa fare? L’unica rimostranza che avrei da fare sugli articoli, chiamiamoli così, in questione, è che manca il benchè minimo ottimismo sulla capacità di reazione degli esseri umani che potrebbero, dovrebbero opporsi allo stato di cose esistente. Ma sarebbe un ottimismo motivato?

– “Non-elogio della Follia” e “Guerra santissima“, dal blog di Riccardo Venturi.

P.S: C’è un’altra cosa che continua a passarmi per la testa, non da qualche giorno ma da diversi anni, in svariate occasioni. È una citazione tragicamente attualissima attribuita a Benjamin Franklin, che paradossalmente mette in guardia anche da quelli come lui: “Chi rinuncia alla libertà per raggiungere la sicurezza, non merita né la libertá né la sicurezza”.

Contro tutti i nemici della libertà.

Una giornata di merda. Per chi rispetta la vita umana, per chi ama la libertà che da oggi sarà più limitata che mai, per chi odia i confini degli Stati che verranno chiusi impedendo l’accesso di chi fugge dallo stesso terrorismo che oggi ha colpito gli/le abitanti di Parigi. Un giorno di merda, ma non l’unico, non solo in un posto. Tutti parlano di Parigi, pochi di Beirut, troppi dimenticano i morti sotto le bombe francesi in Libia, Mali, Siria. Qualcuno dice che si tratta della strage più grave avvenuta in Francia dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, altri però ricordano quei morti del 1961, algerini che manifestavano nella capitale contro il colonialismo e che vennero massacrati dalla polizia, i cadaveri gettati nella Senna, più di 200 i morti. La chiamano democrazia, Stato di diritto, ma è retta da interessi economici di pochi, si mantiene con guerre, sfruttamento, controllo ed oppressione, si fonda sulla disuguaglianza, sulle divisioni, sul dominio. C’è chi a quest’ordine di cose vorrebbe sostituire forme ancor peggiori di dominio, oppressione, discriminazione, punizione per chi non accetta l’ordine imposto. E c’è chi si sfrega le mani e ne approfitta per attizzare l’odio razzista e xenofobo. Siamo sotto attacco, è vero: ci attaccano le guerre condotte in altri Paesi e gli attentati terroristici “a casa nostra”, gli Stati con il loro imperialismo, i loro eserciti, le loro polizie, le loro misure “low and order”, le loro frontiere, i loro interessi che non sono i nostri, ci attaccano gli oscurantisti e i fondamentalisti religiosi, i razzisti e i nemici della solidarietà umana. La nostra lotta, non da oggi, la conduciamo su diversi fronti: chiedetelo ai/lle compagne di Ankara e di Kobane, di Damasco e di Parigi e chiedetelo pure a me. Daesh colpisce, gli islamofobi ringraziano, i governi ne approfittano, mentre a pagarne le conseguenze sono coloro i/le quali cadono vittime del terrorismo, di quello che si esprime coi kalashnikov che sparano su persone a caso per le strade e nei locali di una qualisiasi cittá europea o di quello che fa strage sotto forma di interventi militari “liberatori”, in Irak come in Afghanistan, in Libia come in Siria. Chiedetevi da dove nasce il problema, chiedetevi da dove arrivano Al-Qaeda, ISIS, Al-Nusra, Boko Haram, chiedetevi da dove pescano consensi Front National, English Defence League, Pegida e Lega Nord. Riflettete con luciditá anche nei momenti nei quali la ragione viene sopraffatta dalle emozioni e agite di conseguenza, come quei/lle dimostranti che a Lille, durante una manifestazione per le vittime di Parigi, hanno avuto la lucidità e la fermezza necessarie per respingere un gruppo di razzisti che si volevano unire al corteo. Una piccola buona notizia in una giornata di merda come tante, non l’unica, non l’ultima.

Lieber Afrikaner/Cari africani.

Video satirico tedesco del 2011 sullo splendido rapporto di amicizia tra l’Europa ed i popoli africani e sul generoso trattamento riservato agli immigrati nel vecchio continente. La traduzione in italiano è opera mia.

“Caro africano, già in passato noi europei abbiamo diffuso nel tuo continente benessere e felicità e anche oggi mandiamo a te ed ai tuoi governi molti soldi e molti regali. Naturalmente sappiamo che non tutti da te sono pronti per la democrazia, ma noi siamo tolleranti: finché il commercio funziona, noi non ci immischiamo…altri Paesi, altri costumi! Ma, nel caso con il commercio qualcosa non vada per il verso giusto, ti mandiamo volentieri i nostri “aiutanti per l’economia” in soccorso, perché se l’economia va bene anche le persone stanno bene. Così tutti ci guadagnano qualcosa, noi europei riceviamo da te un pó di materie prime e risorse naturali e ti regaliamo in cambio i prodotti della nostra civilizzazione europea…anche la tua numerosa prole ne risulta contenta! Dopo tutta questa nostra generosità comprendiamo il fatto che tu voglia venire in Europa per ringraziarci personalmente, perciò sosteniamo tutti i Paesi attraverso i quali dovrai viaggiare in modo che essi possano costruire le infrastrutture necessarie a rendere il tuo viaggio il più confortevole possibile. E non é tutto, caro africano: se ce l’hai fatta ad arrivare fino al Mediterraneo, verrai aiutato dai nostri amichevoli dipendenti del Frontex, che faranno in modo che tu non ti perda nell’ immensità del Mediterraneo e ti offriranno lezioni gratuite di nuoto. E visto che ogni anno aumentiamo i finanziamenti per Frontex , loro potranno assicurarti che tu abbia sempre abbastanza acqua a bordo e, lavorando contemporaneamente con i tuoi parenti africani, trasformeranno il fondale marino in una bella passerella. Caro africano, quando ( se ) arrivi da noi in Europa, noi teniamo pronta per te una confortevole sistemazione dove puoi finalmente riposarti in pace dopo il faticoso viaggio durato mesi e puoi partecipare alla nostra lotteria per ottenere l’asilo: se vinci puoi rimanere da noi in Europa e guardare ad un roseo futuro. Se però non vinci non devi comunque essere triste, caro africano, perché ricevi comunque come premio di consolazione un biglietto gratuito per il viaggio di ritorno in Africa…e lì il tempo é molto migliore che qui da noi in Europa!”