Gerusalemme capitale e la strategia imperialista degli USA in Medioriente.

Trump and NetanyahuLa decisione presa dal presidente USA Donald Trump di riconoscere la città contesa di Gerusalemme come capitale dello Stato di Israele e di spostare in quella città l’ambasciata statunitense in Israele ha scatenato non solo una serie di proteste formali da parte dei governi di mezzo mondo, ma hanche rinfocolato un conflitto, quello fra Israele e Palestina, che non necessitava certo di questa nuova doccia di benzina su un fuoco che arde ormai da almeno ottant’anni. Perchè Trump abbia deciso di sposare l’idea di Gerusalemme capitale se lo chiedono in molti, diversi analisti e commentatori hanno provato a dare una risposta al quesito. Forse che, fallito per ora lo scontro nucleare col rivale nordcoreano Kim Jong “Bimbominkia” Un, Donald “Er Pannocchia” Trump si consoli seminando l’ennesimo casino in Medioriente per poter trascorrere le feste natalizie in modo un pò meno noioso del solito? Battute a parte, le ragioni di questa mossa andrebbero principalmente cercate nella volontà statunitense di recuperare terreno nella competizione imperialista in Medioriente rispetto alla Russia, Paese che finora sembra aver guadagnato più punti d’influenza in seguito all’esito del conflitto militare in (e intorno alla) Siria.

Infatti la scelta di Trump di riconoscere Gerusalemme capitale d’Israele non solo mira a rafforzare l’appoggio della destra religiosa e filo-sionista in politica interna, ma è soprattutto un regalo agli alleati per eccellenza degli Stati Uniti d’America. Un secondo regalo potrebbe essere l’inclusione d’Israele fra gli Stati coinvolti nella spartizione di alcuni territori appartenenti alla Siria al termine del conflitto in corso: la cessione al controllo israeliano per volontà statunitense di un’area demilitarizzata della Siria contigua alle Alture del Golan. In una costellazione di poteri imperialisti locali e internazionali complessa, nella quale la Turchia volta le spalle agli USA rivolgendosi alla Russia, l’Arabia Saudita è in difficoltà nella guerra in Yemen contro i ribelli sciiti filo-iraniani e l’Iran sembra essere lo Stato mediorientale che ha guadagnato di più dal risultato del conflitto siriano, vedendo riconfermato Assad al potere in Siria e affermando la propria influenza in ampie aree dell’Iraq, Israele si rivelerebbe un efficace grimaldello nelle mani del potere statunitense per contrastare l’egemonia della Russia e dei suoi alleati.

In questo contesto il governo statunitense abbandona, almeno per il momento, la soluzione dei due Stati in Israele/Palestina, sostenuta in passato peraltro solo a parole, gettando Gerusalemme capitale come pomo della discordia sul piatto della bilancia degli equilibri mediorientali. D’altronde, se non in maniera strumentale, l’idea di due Stati come soluzione del conflitto israeliano-palestinese non interessa realmente a nessun governo mediorientale né internazionale, ma se anche fosse: due Stati non fanno nemmeno mezza soluzione – tutt’altro! E mentre in questi giorni si riaccende la violenza fra israeliani e palestinesi, in un futuro non troppo lontano la situazione potrebbe addirittura peggiorare trascinando nei conflitti utili alle potenze imperialiste un gran numero di persone che con quegli interessi nulla hanno a che spartire, strumenti di un gioco al massacro al quale ci si deve assolutamente opporre a prescindere da quale potere possa esserne il vincitore.

Comunicato anarchico sulla manifestazione dell’11 Febbraio a Milano per la liberazione dei prigionieri politici in Turchia.

Il seguente comunicato è tratto dal sito di Umanità Nova. L’iniziativa milanese si inserisce nel più ampio contesto europeo di iniziative per i prigionieri e le prigioniere politici in Turchia. In particolare, dal 1 all’11 Febbraio, ha luogo una lunga marcia dal Lussemburgo a Strasburgo: ulteriori informazioni possono essere consultate qui: http://www.uikionlus.com/invito-alla-lunga-marcia-liberta-per-ocalan-status-per-il-kurdistan-01-11-febbraio-2017/

“Milano: spezzone anarchico al corteo nazionale per la liberazione delle prigioniere e dei prigionieri politici in Turchia

febbraio 10 @ 14:0020:00

s1640201CONTRO IL SILENZIO COMPLICE

SOLIDARIETÀ INTERNAZIONALISTA!

SABATO 11 FEBBRAIO 2017

CORTEO NAZIONALE per la liberazione

delle prigioniere e dei prigionieri politici in turchia

ORE 14.00 PORTA VENEZIA – MILANO

SPEZZONE ANARCHICO ROSSO/NERO

Le Costituzioni borghesi valgono più della carta su cui sono state scritte, o dell’inchiostro per scriverle? Niente come l’attuale involuzione dello Stato turco – sino a pochi anni fa, modello di “democrazia” per il Medio Oriente – può rispondere oggi a questa domanda. Né la costituzione del 1995, né il diritto internazionale, com’è ovvio, potevano proteggere i lavoratori turchi dalla macelleria sociale promossa nel 2012 dall’allora paladino del fondo monetario internazionale Recep Tayyip Erdoğan. Né potevano tutelare i manifestanti di piazza Taksim e di Gezi Park dalla spietata repressione dell’anno dopo, costata 9 morti e migliaia di feriti e arrestati, né le cittadine minorenni dall’infame consuetudine che in Turchia ancor oggi consente ai colpevoli di abusi sessuali l’opzione del matrimonio riparatore. Sbotta l’opinione pubblica occidentale, sbottano gli uffici stampa degli uomini delle istituzioni. Poi il silenzio. E il silenzio è calato anche sull’incarcerazione e la tortura di migliaia di militari di leva, ignari complici del cosiddetto golpe del luglio 2016; è calato il silenzio sulle città del Kurdistan Bakur colpite dall’artiglieria e dall’aviazione turche nel 2015 e nel 2016, sulle migliaia di civili, donne e bambini uccisi a Cizre, Nusaybin, Mardin, Amed, colpevoli di essere Kurdi, ma soprattutto di avere scelto l’autogoverno laico come alternativa all’islamo-fascismo capitalista del nuovo duce di Ankara; è calato il silenzio sulle militanti anti-fasciste catturate dalle squadracce paramilitari dell’AKP, torturate stuprate e trascinate nude per le strade, vergognosi trofei del trionfo del maschio oppressore, portabandiera del regime; è calato il silenzio sugli aiuti, copiosi, in denaro e armi, prestati dal governo turco alle milizie dello Stato Islamico, lasciato libero dalla NATO di smerciare il proprio petrolio attraverso Israele e la Turchia, in cambio di quei dollari che ogni giorno producono nuovi omicidi, nuovi stupri, nuove bombe, nuova oppressione. A nulla vale la legge, quando il potere del tiranno poggia sull’interesse e sul timore: e nel caso di Erdoğan l’interesse è quello del blocco atlantico, preoccupato di rinsaldare le sue file nella nuova competizione per procura col colosso russo; e il timore è quello dei vertici UE dell’arrivo in Europa dei profughi in fuga dalla guerra suscitata in Siria dall’appetito degli imperialismi (a partire da quello statunitense) e dall’appetito del capitalismo internazionale. Sotto i nostri occhi, miliardi di euro versati dalla UE nelle casse di Ankara per compiacere la gretta xenofobia europea finanziano orridi campi di concentramento al confine turco-siriano, dove le famiglie sono imprigionate in condizioni disumane, gli uomini sfruttati quale manodopera a basso costo, i bambini prostituiti. Ma finanziano anche quell’alleanza tra Erdoğan, lo Stato Islamico e l’imperialismo regionale arabo saudita responsabile degli attentati terroristici in Europa, quegli attentati in cui ad essere colpiti saremo sempre e solo noi, quelli che non contano, e non certo i centri reali del potere. Unione Europea e NATO, dunque, garantiscono a dispetto del diritto pieno sostegno al macellaio dei corpi e delle coscienze di centinaia di migliaia di turchi, di kurdi, di siriani. La loro quiescenza ha consentito al governo di Ankara brogli e intimidazioni in sede elettorale, l’incarcerazione di migliaia di oppositori – inclusi parlamentari e sindaci –, la chiusura dei giornali dissidenti – e tra questi il foglio anarchico Meydan –, la repressione violenta del dissenso. Su questi e molti altri crimini contro l’umanità, i governi del mondo hanno scelto il silenzio. Noi crediamo e affermiamo che il silenzio è il più viscido complice dell’oppressore. Noi crediamo e affermiamo che l’individuo ha dei diritti sino a che è in grado di difenderli, non solo per sé e non solo dove vive, ma per chiunque e in ogni parte del mondo. Noi crediamo e affermiamo che l’unica forza capace di tutelare la dignità di ogni essere umano è quella che proviene dall’unità delle sfruttate e degli sfruttati, delle oppresse e degli oppressi, emancipati da ogni servitù e liberi di autogovernarsi secondo i principi dell’uguaglianza e della solidarietà libertaria.

Per questo noi scenderemo in piazza l’11 febbraio: insieme alla comunità kurda e agli altri movimenti della nostra città, porteremo la nostra solidarietà internazionalista alle compagne e ai compagni detenuti nelle carceri turche e a tutti i gruppi – dalle anarchiche e anarchici del D.A.F., ai promotori del Confederalismo Democratico – che oggi proseguono in Turchia e in Siria la lotta per la liberazione di genere, la lotta armata contro l’islamo-fascismo, la lotta per una società laica e pluralista, la lotta anti-razzista e anti-nazionalista, la lotta di classe contro il Capitale, percorsi irrinunciabili e non negoziabili verso l’Avvenire Libertario.

Viva la Rivoluzione Sociale!

Viva l’Anarchia!

FEDERAZIONE ANARCHICA – MILANO

viale Monza, 255 – Milano

Qui la mozione del convegno della FAI di sostegno alla DAF e al loro giornale Meydan

Qui la mozione del convegno della FAI di appoggio allo spezzone promosso dalla Fed.Anarchica Milanese “

Dialogo con un cittadino tedesco qualunque su richiedenti asilo e immigrazione.

Solitamente non sono il primo a iniziare certi discorsi, ma per un motivo o per un altro mi capita di frequente di parlare di argomenti politici e sociali col mio prossimo. Una conversazione fra le tante è quella svoltasi un mese fa circa con un tizio che conosco di vista, una persona “del posto”, quindi tedesco (di nascita e di origine, anche se non ho a disposizione un’albero genealogico che mi dica da dove discendono i suoi antenati, hahaha!) , tra i cinquanta e i sessanta, di professione tassista, definibile in modo molto approssimativo come il classico cittadino tedesco qualunque. Non ricordo come si sia iniziato a parlare di immigrazione, richiedenti asilo e profughi, quel che ricordo lo riporto di seguito, non alla lettera, ma con la volontà di non omettere o modificare nulla -memoria permettendo. Il mio interlocutore è contrassegnato dall’abbreviazione CTQ, cittadino tedesco qualunque, io sono BB, Blackblogger.

CTQ: Mia figlia lavora per un’impresa di pulizie ed è stata incaricata di pulire un centro di accoglienza per richiedenti asilo. Quando lei e le colleghe hanno visto in che condizioni era il posto si sono rifiutate, hanno detto “un conto è pulire, ma spalare via l’immondezza è un’altra cosa!”. Questa gente vive così, ma non gliene frega nulla?

BB: A nessuno piace vivere in mezzo allo sporco. Gli immigrati che da alcuni anni a questa parte arrivano qui in Germania vengono accolti in strutture organizzate in fretta e furia, a volte decenti ma più spesso inadeguate o addirittura pessime. Ho parlato con un paio di persone che lavorano tra il personale addetto alla gestione delle strutture. Mi hanno raccontato di come queste strutture siano carenti, di come a ogni persona costretta a stare là dentro venga dato un tot di cibo, di carta igienica, di shampoo al giorno. Ci sono persone che hanno subíto traumi di natura psicologica, altre che hanno bisogno di cure mediche, molti di loro hanno lasciato amici e familiari nel Paese d’origine, tutti si chiedono quale sia il proprio futuro, ma devono stare tutto il giorno lì senza far nulla con persone che non conoscono e che spesso non parlano la loro lingua, non possono lavorare anche se vorrebbero, devono solo star calme e aspettare. Solo che stare calmi in situazioni del genere è difficile. Io mi stuferei presto…

CTQ: Eh, ma non possiamo mica accoglierli tutti! Vogliono venire tutti in Germania, stanno venendo tutti qui, ma come facciamo?

BB: Interessante, a sentire molti italiani sembra che tutti gli immigrati arrivino in Italia e ci rimangano! Eppure sono i primi a sentire gli effetti della crisi economica: tra il 2008 e il 2012 un milione di stranieri ha lasciato l’Italia (nota: dati riportati da Horaczek/Wiese, “Gegen Vorurteile”, 2015, pag. 27). Pensaci un attimo: la Germania è oggi uno degli Stati più ricchi al mondo. Dopo la Seconda Guerra Mondiale la Germania accolse 10 milioni di profughi (nota: in realtà furono circa 12 milioni!), cacciati dai territori occupati sotto il nazismo. Un Paese devastato dalle bombe, dalla guerra, hai presente le foto di Colonia nel ’45?, che accoglie tutta quella gente. E oggi, con tutti i mezzi a disposizione? Che scusa vogliamo togliere fuori? Certo, non è solo una faccenda tedesca. Si parla tanto di quest’ Europa solidale, ma vediamo che Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e altri Paesi, non solo dell’Est, luoghi di emigrazione per eccellenza, rifiutano di accogliere gli immigrati…sembra che si ricordino che esiste l’Unione Europea solo quando c’è da chiedere qualcosa. Ognuno dovrebbe fare la sua parte, per me è una questione di umanità e di solidarietà.

CTQ: Però io li vedo, molti di loro hanno lo smartphone e non arrivano qui vestiti di stracci. Non sono certo tutti poveri.

BB: Chi fugge dalle zone di guerra non è sempre povero, le bombe non guardano in faccia nessuno. Il fatto che una persona non sia povera non significa che non meriti accoglienza di fronte alle catastrofi. E poi, avere uno smartphone non è segno di ricchezza oggigiorno,alcuni modelli costano un centinaio di Euro… Cos’è, non dirmi che non conosci gente qui che compra cose che non gli servono urgentemente e che non può permettersi, a rate, indebitandosi!

CTQ: Sì, in effetti…

BB: Ci sono anche immigrati che vengono qui perchè a casa loro non hanno un lavoro, né prospettive di trovarne uno decente e non hanno prospettive di ottenere il diritto di asilo. Io penso che tutti abbiano il diritto a rimanere. Anche io se vogliamo posso definirmi un Wirtschaftsflüchtling, sono andato via dal mio Paese per via della disoccupazione e delle condizioni di lavoro che sapevo essere peggiori che qui, solo che io in quanto cittadino di uno Stato dell’UE sono privilegiato rispetto ad un cittadino kosovaro o nordafricano, nessuno mi caccia via di qua, ma non perchè sono migliore degli altri, solo perchè ho un passaporto “fortunato”. Non penso di meritare accoglienza più di chiunque altro solo perchè sono italiano!

CTQ: Gli italiani qui però sono venuti per lavorare, personalmente non ho mai avuto problemi con loro. Ne conosco tanti, lo sai.

BB: Sono venuti qui come gastarbeitern, per lavorare, come i portoghesi, i turchi, i greci e tutti gli altri, grazie a convenzioni con i rispettivi Stati di provenienza, perchè faceva comodo all’economia tedesca. Serviva manodopera. Il benessere economico di questo Paese è stato raggiunto anche grazie allo sfruttamento di quegli immigrati, che oltretutto erano spesso vittime di pregiudizi e discriminazioni da parte di istituzioni e popolazione locale, non dimentichiamolo. I tedeschi vanno in giro per il mondo, non solo in vacanza, ma a studiare o a trascorrere la vecchiaia, ma anche per migliorare la loro condizione economica…hai presente “Goodbye Deutschland”(Nota: programma stile reality nel quale cittadini/e tedeschi/e vengono seguiti nel cercare fortuna in altri Paesi)? È pieno di tedeschi o cittadini di origine tedesca negli USA, in Australia, in Svizzera, Argentina, Austria, Scandinavia… Perchè loro possono e altri no?  È solo una questione di leggi fatte per soddisfare interessi economici, a rimetterci, a pagare spesso con la vita, sono gli esseri umani meno privilegiati. Quel che accade ora in Siria, Iraq, Afghanistan, è anche colpa delle politiche e degli interessi dei Paesi occidentali.

CTQ: Ma io vedo al tg che quelli che arrivano sono uomini giovani…io non lascerei mai indietro la mia famiglia!

BB: No, non sono solo uomini giovani. Magari lo sono più spesso nel caso degli immigrati “economici”, vengono qui con l’obiettivo di trovare un lavoro e farsi raggiungere in seguito dalla famiglia o spedire i soldi ai familiari nel loro Paese, oppure tornare indietro dopo alcuni anni coi risparmi. Tui che conosci tanti italiani qui in Germania, sai che anche molti di loro hanno fatto così. Ognuno ha una storia diversa alle spalle e ci sono diversi motivi per i quali si emigra da soli, sempre che questo sia il caso. Oltretutto quel che vedi in tivú spesso non è autentico e genuino, ci viene mostrato solo quello che si vuole mostrare. Quello che vorrei farti capire è che se non abbiamo informazioni corrette non possiamo farci un’opinione valida, che poggia su basi reali. E se ci dimentichiamo di essere solidali e umani perdiamo qualità preziose che ci aiutano a costruire una società migliore e a convivere in armonia.

CTQ (Dopo una lunga pausa di silenzio, accompagnata da uno sguardo in parte insicuro, in parte indagatore-così almeno lo interpreto io): Sai una cosa? Dovresti fare il politico! Parli bene e hai un sacco di buone idee!

BB (Risata): A me i politici non piacciono. Hanno già i loro piani, non ascoltano certo quelli come me. Non aspettiamoci nulla da loro, dobbiamo essere noi a fare qualcosa. La risposta che stanno dando alla questione dei richiedenti asilo è parte del problema, non una soluzione.

Dopodiché la conversazione cambia argomento e io mi allontano. Non so se sia riuscito a intaccare i luoghi comuni del mio interlocutore, un cittadino tedesco qualunque con gli stessi dubbi, le stesse insicurezze, le stesse frasi di tanti altri. Di sicuro l’ho lasciato senza argomenti, il che capita spesso a chi discute con me, ma non significa granché: forse il giorno dopo ha avuto una discussione sullo stesso tema e ha ripetuto le stesse cose che aveva detto a me, o forse nel frattempo si è dimenticato addirittura che il nostro colloquio abbia mai avuto luogo. Non l’ho più incontrato finora, perciò non lo posso sapere, ma in fondo non ha importanza. Esporre le mie opinioni, che nel corso del tempo sono cambiate almeno in parte, in modo più o meno netto, è quel che faccio da almeno vent’anni a questa parte, quasi quotidianamente. Quel che mi preme è mostrare un’altra prospettiva, spesso in ombra a causa della cattiva informazione, delle paure ataviche, dell’ignoranza, dell’egemonia ideologica del sistema di dominio imperante; mi interessa mettere in dubbio quel che fino ad un momento prima sembrava essere una certezza, far capire che si deve scavare più a fondo per afferrare la sostanza di quel che accade intorno a noi, per poter mettere in discussione tutto, anche se ciò può spaventarci. Non so se ho mai convinto qualcuno/a, sempre che convincere sia la cosa più importante. Di sicuro so che non smetterò.

 

4 Novembre 2016: sciopero generale!

https://anarcomedia.files.wordpress.com/2016/10/manifesto_sciopero_web-21.jpeg?w=215&h=300https://www.cub.it/images/img-pdf/volantini16/locandina-web.jpg

I sindacati USI-AIT e CUB hanno proclamato uno sciopero generale su tutto il territorio italiano per l’ intera giornata del 4 Novembre 2016, al quale ha aderito anche il sindacato SGB. A Milano si svolgerà un corteo, nel resto d’Italia sono previste numerose iniziative locali. Le ragioni di questo sciopero vengono, tra l’altro, spiegate in un articolo apparso sul periodico Umanità Nova: “Il 4 Novembre per uno sciopero non sottomesso alle politiche di palazzo”. Altre informazioni sono disponibili sui siti delle organizzazioni sindacali USI-AIT e CUB. Appoggiamo e diffondiamo!

Cosa vuol dire sconfiggere lo Stato Islamico?

La domanda che mi ronza in testa da tempo è: “come si può sconfiggere lo Stato Islamico?”. A interrogarmi su tale questione non sono solo, infatti ho potuto leggere chilometri di articoli, analisi, interviste e altro ancora tra quanto è stato pubblicato in rete e su carta sull’argomento da due anni a questa parte, non tanto alla ricerca di una risposta definitiva ad un problema oltremodo complesso e in continua evoluzione, quanto nella speranza di poter avere una maggiore comprensione della natura dello Stato Islamico e delle possibili vie percorribili per raggiungere la sua sconfitta. Di certo la volontà di un ritorno ad un passato ideale, quello della comunità di fedeli islamici (umma) del VII secolo o giù di lì, da contrapporre all’islam odierno che i seguaci della branca salafita-jihadista rappresentata dall’IS considerano corrotto, non è nata ieri e non morirà in tempi brevi, se mai morirà. L’IS ha avuto l’astuzia e la perfidia di fomentare conflitti e divisioni di natura etnico-tribale-religiosa già presenti nelle zone nelle quali agisce, compiendo ad esempio, dopo il 2003, attentati in Iraq contro gli sciiti, che si vendicavano sui sunniti spingendo questi ultimi a cercare protezione tra le file dei combattenti di quella che all’epoca si chiamava Jamāʿat al-tawḥīd wa l-jihād, ribattezzata poi “al-Qaeda nel Paese dei due Fiumi”- un sodalizio, quello con al-Qaeda, che dura solo fino al 2006, quando l’organizzazione cambia nuovamente nome in “Mujaheddin del Consiglio della Shura” e, pochi mesi dopo, in “Stato Islamico in Iraq” (al-Dawla al-Islamiyya fi l-‘Iraq, in breve ISI), per divenire nell’Aprile del 2013 al-Dawla al-Islamiyya fi-l-‘Iraq wa-l-Sham, “Stato Islamico in Iraq e Siria (ISIS)” o “Stato Islamico in Iraq e Levante (ISIL)” e infine, con la fondazione del califfato nel Giugno 2014, semplicemente “Stato Islamico” (IS). Considerando solo i continui cambi di nome del gruppo e le diverse alleanze fatte e disfatte nel corso di pochi anni ci si accorge di trovarsi di fronte ad un’organizzazione versatile, che non ha, come al-Qaeda, solo l’obiettivo di un jihad globale, né tantomeno vuole (come ad esempio Hamas) circoscrivere il proprio potere ad un territorio delimitato,  ma ha l’ambizione di impore il proprio potere su tutti i territori da essa controllati militarmente stabilendovi subito la legge islamica (sharia) senza tener conto di confini statali esistenti e differenze di nazionalità: l’idea di Stato di questi personaggi rispetto alla concezione occidentale moderna di Stato-nazione è molto differente e va tenuta sempre presente. Lo Stato Islamico si fa portavoce di un ritorno all’essenza dell’islam e si richiama alla tradizione del califfato abbàside e della discendenza diretta da Maometto del nuovo califfo al-Baghdadi, rifiuta la modernità ma usa gli ultimi ritrovati della tecnologia per propagandare le proprie idee con strategie pubblicitarie degne di un’azienda leader sul mercato, dichiara guerra all’Occidente ma massacra più musulmani/e di chiunque altro, fa proprio il concetto di “scontro delle civiltà” di Samuel Huntington riadattandolo secondo le proprie esigenze. L’IS ostenta la propria crudeltà per intimorire gli avversari e allo stesso tempo applica nei territori sotto il suo controllo misure paternalistiche e caritatevoli atte a tenere a bada il malcontento della popolazione che, più per paura e mancanza di alternative che per convinzione, non sa opporsi efficacemente al potere totalitario del califfato. La forza dello Stato Islamico non si limita solo alla capacità di trarre vantaggi dalle divisioni etnico-religiose (ironia della sorte, uno degli acronimi ufficiosi del gruppo è Daesh, che in arabo significa qualcosa come “portatore di discordia”), ma è anche data dalla propria abilità propagandistica e dalla sua forza economica. Quest’ultima poggia solo in piccola parte su offerte di denaro dall’estero, le entrate principali derivano dal traffico di beni artistici e archeologici e da quello di esseri umani (donne in primis, ridotte a schiave del sesso), dal saccheggio di villaggi e città occupati e dalla rapina (ad es. banca di Mossul), dalle tasse imposte alla popolazione, ma soprattutto dalla vendita di petrolio. Ad essere reclutati per la “guerra santa” sono soprattutto volontari provenienti dall’estero, mercenari a tutti gli effetti.

Un’altro aspetto che gioca a favore dell’IS è la mancanza di unità d’intenti tra i diversi Stati nel trovare una soluzione al conflitto in corso, visto che ciascuna potenza, internazionale o regionale, si impegna a difendere i propri interessi nella regione a scapito di altri Stati e, manco a dirlo, a prescindere dai reali interessi di chi abita la regione nella quale divampa il conflitto: l’Iran (e le milizie hezbollah, sua diretta emanazione in Libano) è legato da decenni alla dittatura della famiglia Assad, lo stesso vale per la Russia, che ha forti interessi economici (come la Cina) e strategici in Siria. La potenze occidentali della NATO sono intenzionate invece a rovesciare il regime di Damasco e in tale ottica hanno foraggiato i gruppi del Libero Esercito Siriano (FSA), tra cui spiccano numerose milizie islamiche, salvo poi bombardare l’IS quando questo ha palesato la propria volontà di conquista a scapito degli interessi occidentali e ha effettuato attacchi terroristici sul territorio europeo e statunitense. La Turchia, pur essendo un Paese NATO, segue invece una propria agenda politica imperialista e, come Arabia Saudita, Kuwait e Qatar, sostiene le fazioni islamiche anti-Assad più che quelle laiche, inoltre impiega le proprie energie principalmente nella repressione anti-curda. I quattro Paesi in questione hanno aiutato in modo più o meno intenso l’IS e continuano tuttora a farlo.

Quali misure sarebbero quindi efficaci per sconfiggere il califfato in Siria e Iraq e il gruppo islamico che lo ha fondato? Serve realmente a qualcosa trattare con Assad, considerato fino a poco tempo fa il problema principale? I Paesi uniti (incollati con lo sputo, direi senza ricorrere a eufemismi) nella lotta contro l’IS dovrebbero inviare truppe di terra o continuare a bombardare? Pensiamo per un attimo agli interessi divergenti tra le potenze in gioco, ai rapporti tra Russia e Turchia, al destino dell’Iraq dopo l’invasione USA nel 2003 (i militari al servizio del dittatore decaduto saddam Hussein, licenziati dagli americani, finirono in gran parte tra le nuove reclute di Jamāʿat al-tawḥīd wa l-jihād, non dimentichiamolo), al fatto che le armi vendute da Paesi europei come la Germania ad Arabia Saudita e Qatar finiscano poi nelle mani dei mercenari del califfato e all’evidenza che i bombardamenti, anche quando non massacrano civili e colpiscono realmente obiettivi militari nemici, non servono a scalfire lo Stato Islamico (due predecessori di Abu Bakr al-Baghdadi, al-Zarqawi e Abu Omar al-Baghdadi, furono uccisi durante attacchi aerei statunitensi)…cosa si potrebbe realisticamente contrapporre alle milizie dello Stato Islamico, ma soprattutto, cosa significa veramente sconfiggere il califfato? Quella dell’IS è una visione del mondo manicheista, come già detto incentrata sullo scontro tra quell’islam definito autentico e il resto del mondo: sconfiggere lo Stato Islamico significa soprattutto sconfiggere questa visione. Alimentare l’odio, la disgregazione sociale e la contrapposizione violenta è fondamentale per creare artificialmente uno scontro di civiltà: rifiutarsi di prestare il fianco a questa logica è un atto di resistenza fondamentale contro i progetti jihadisti. Chi oggi in Europa si batte per l’accoglienza dei profughi, contro l’islamofobia e le logiche delle destre estreme e populiste sta automaticamente rifiutandosi di fare il pieno al serbatoio dello Stato Islamico. Occorrerebbe inoltre provocare diffuse proteste contro l’ipocrisia degli Stati coinvolti per procura nel conflitto, denunciare senza sosta le connivenze, le forniture d’armi, l’acquisto di petrolio, l’apertura mirata delle frontiere per far passare rifornimenti ai miliziani di al-Baghdadi, l’ambiguità e l’inefficacia delle soluzioni militari tanto quanto il fallimento pianificato di quelle diplomatiche. Inoltre ritengo fondamentale l’importanza dell’appoggio a quello che è un progetto politico, sociale ed economico diametralmente contrapposto alla visione del mondo di Daesh, ovvero al “modello Rojava”. In Rojava è in corso una rivoluzione dai tratti libertari che sta cambiando profondamente il volto della regione, una rivoluzione che ha come cardini la parità tra i sessi e tra le diverse etnie e religioni, il benessere collettivo, l’ecologismo, la democrazia di base, l’autogestione, l’antiautoritarismo. Un incubo non solo per l’IS, cacciato dalle milizie popolari volontarie del Rojava da Kobane e da altre città che aveva conquistato o che tentava di conquistare, ma anche per le potenze mondiali che vedono minacciati i propri interessi particolari nella regione da un progetto autonomo, creato dal basso nell’interesse di chi lo vive. La rivoluzione in Rojava avanza nonostante si trovi di fronte a difficoltà non indifferenti di varia natura, ma ha bisogno di tutto l’appoggio possibile, non solo in nome della lotta senza quartiere contro la barbarie di daesh, ma anche per la libertà e l’autodeterminazione di persone- altrimenti destinate ad essere sfruttate, discriminate, oppresse e soggiogate se non direttamente massacrate da poteri locali o esterni- che hanno deciso di alzare la testa e decidere del proprio futuro costruendolo con le proprie mani.

“La NATO contro i Curdi: la Battaglia per A’zaz”.

Fonte: Anarkismo.

“La NATO contro i Curdi: la Battaglia per A’zaz

TRADUZIONE A CURA DI ALTERNATIVA LIBERTARIA/FDCA – UFFICIO RELAZIONI INTERNAZIONALI

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La NATO contro i Curdi: la Battaglia per A’zaz
Più si chiude l’accerchiamento contro la reazione fondamentalista armata in Siria, più il regime di Ankara, che l’ha generosamente sponsorizzata per cinque anni di carneficina, inizia a innervosirsi. La Turchia vede vanificarsi i suoi sforzi dopo l’irruzione sulla scena dei guerriglieri curdi delle YPG contro lo Stato islamico, dopo l’intervento russo e dopo il forte coinvolgimento delle milizie Hezbollah nella lotta contro questa alleanza eterogenea di opportunisti e fondamentalisti in armi che non cercano altro che di rovesciare Assad e porre fine alle milizie curde. Ecco dunque che la Turchia ha provveduto a intensificare i suoi bombardamenti contro i Curdi che operano nel nord, mentre appaiono sempre più evidenti da parte turca i segni di tentare un intervento diretto nel conflitto siriano, per allungare la durata di una avventura militare criminale che non ha fatto altro che portare dolore e morte.

E’ a questo punto che cadono le maschere. La NATO, rappresentata dallo stato turco, da due giorni sta bombardando senza pietà le unità di difesa popolare curde YPG che stanno avanzando a nord di Aleppo nelle città di A’zaz e Tal Rifaat [1]. I bombardamenti, che hanno ucciso almeno 23 civili [2] si sono concentrati sulla base aerea di Menagh, conquistata nel 2013 da una coalizione di “ribelli”, tra cui Al Qaeda (il Fronte Al-Nusra) ed altri che poi sono confluiti nello Stato islamico. Menagh è un obiettivo strategico per i rifornimenti alla “ribellione” al servizio delle petrol-teocrazie e degli interessi di USA e UE. Ahmet Davutoglu ha detto che di questi bombardamenti è stato informato il vicepresidente USA Joe Biden, che anche se non approva pubblicamente l’intervento militare, non lo ha condannato né ha provveduto a frenare lo Stato turco, che non agirebbe mai senza l’assoluta certezza del sostegno USA. Ricordiamo che la NATO aveva detto, nel bel mezzo della crisi con la Russia, che avrebbe difeso a spada tratta la “integrità territoriale” dello Stato turco, argomento che il regime di Ankara usa per attaccare i Curdi, dicendo che sono una minaccia per il loro concetto monolitico di unità nazionale. Questo potrebbe essere solo il preludio ad un intervento diretto da parte delle truppe di terra turche, eventualità che Erdoğan aveva già minacciato la scorsa settimana. La facciata della presunta unità contro lo Stato islamico è una farsa: lo Stato turco, e con esso la NATO, puntano alla destabilizzazione e all’estensione del bagno di sangue siriano, e contemporaneamente alla lotta contro il movimento libertario curdo.

Scommettendo sulla strategia dell’incudine e martello, mentre colpisce i Curdi in territorio siriano e rifornisce i gruppi reazionari armati per distruggere le milizie YPG, lo Stato turco colpisce anche i Curdi nel proprio territorio, cercando di schiacciare il loro spirito ribelle. Sono mesi che è stato imposto lo stato di emergenza nei territori curdi dentro lo stato turco, che si susseguono operazioni militari di carattere repressivo, che si bombardano le città. Mentre i media occidentali sono rimasti scioccati dalla distruzione del patrimonio culturale, storico e archeologico messa in atto dallo Stato Islamico in luoghi come Palmyra (Siria) e l’hanno denunciato ai quattro venti, sono rimasti muti davanti alla distruzione sistematica del patrimonio mondiale che lo Stato turco sta compiendo nella regione curda ai suoi confini: in base alle informazioni del Comune di Diyarbakir (02/10/16) il quartiere Sur della città è stato bombardato e le sue mura storiche, patrimonio dell’UNESCO, sono state gravemente danneggiate. E’ stato colpito il 70% degli edifici di questa parte della città antica, mentre 50.000 persone che abitavano nel Sur sono state sfollate dalle loro case dalla violenza e dal terrore di stato.

L’Occidente credeva di poter utilizzare i Curdi per opporsi ai settori fondamentalisti “incontrollabili”, ma non ha fatto i conti con il loro ritorno di fiamma. I Curdi sono un attore politico maturo, con molta esperienza di lotta per poter essere tenuti a rimorchio ed essere considerati come semplici marionette al servizio delle grandi potenze. Quando gli Stati Uniti hanno dato inizio alla loro strategia di ridefinizione del Medio Oriente, immaginando che sarebbero sorti ovunque regimi fantoccio, associati alle teocrazie del Golfo e disposti a dare via il loro petrolio per nulla, non avevano fatto i conti con i Curdi, nè col loro progetto socialista libertario di democrazia radicale; né hanno tenuto conto delle enormi forze popolari che si sarebbero scatenate in seguito alla loro strategia interventista. È vero, non è ancora finita la fioritura di un Medio Oriente libertario annunciato dal potere popolare che proviene dal Kurdistan e che si irradia a tutta la regione; ma è anche vero che gli Stati Uniti non sono stati in grado di imporsi, la loro egemonia nella regione è stata erosa ed ora i loro alleati sono nudi: non c’è stato un momento negli ultimi decenni in cui gli sceicchi sono stati più nervosi di quanto lo siano ora. Da qui nasce la violenza dell’improvvisato califfo di Ankara contro i Curdi.

Così come la battaglia per Kobanê è stata la chiave per invertire l’avanzata dello Stato Islamico, oggi, la battaglia per A’zaz è la chiave per sradicare il fondamentalismo armato e per difendere l’espansione, il consolidamento e il diritto di esistere del progetto di autonomia curdo, libertario e confederale.

José Antonio Gutiérrez D.
15 Febbraio 2016


[1] http://www.aljazeera.com/news/2016/02/turkey-shells-kurdish-held-airbase-syria-aleppo-160213160929706.html
[2] http://aranews.net/2016/02/dozens-of-civilian-casualties-reported-under-turkish-bombardment-northern-syria/ “

Più di mille parole.

Ci sono immagini capaci di comunicare verità e spiegare situazioni più di quanto possano fare mille parole. Eppure i discorsi, tanto nella loro profondità e complessità quanto riassunti finchè possibile in poche parole, sono indispensabili, anche se non sempre vengono recepiti. C’è chi antepone paure irrazionali, pregiudizi e informazioni sbagliate e non verificate a fatti e analisi, rifiuta il confronto ed è sordo a qualsiasi argomento. Con queste persone spesso accade di discutere fino allo sfinimento, sempre che stiano ad ascoltare, per poi accorgersi di aver parlato al vento. Si può spiegar loro come tutte le “culture” siano in fondo multiculture, non siano monolitiche, si evolvano col tempo, siano soggette a cambiamenti e commistioni e come la “nostra” non sia necessariamente migliore di altre; si può far presente che le cause che costringono le persone ad abbandonare i luoghi nelle quali sono nate hanno solitamente origini sociali, politiche ed economiche e che per far sì che nessuno/a sia costretto/a ad emigrare è indispensabile risolvere il problema alla radice in un’ottica emancipatoria, egualitaria ed antiautoritaria; si può far presente che gli/le immigrati/e, in determinate circostanze, fanno comodo al capitalismo e quando non fanno più comodo vengono criminalizzati, deportati o costretti comunque a tornare da dove sono venuti o ghettizzati nel Paese nel quale si trovano; si può ricordare come colonialismo e imperialismo abbiano gettato le basi per le tragedie odierne che hanno luogo in Siria, Iraq, Mali, Nigeria, Somalia, Libia, Afghanistan e altrove, si può far presente come ancora oggi ai potenti nostrani faccia comodo supportare dittature, tacere sulle violazioni dei diritti umani, fomentare divisioni etnico-tribali, esportare armi ed evitare la via diplomatica per risolvere i conflitti ricorrendo a interventi militari quando conviene; si può smontare ogni menzogna diffusa dal primo ignorante di passaggio sui privilegi concessi agli/lle immigrati/e e sui danni che essi provocherebbero alla nostra economia/cultura/nazione… Si può, si deve. Costi quel che costi, col rischio di farsi disprezzare o peggio da chi sputa veleno e sentenze senza conoscere i fatti, senza interrogarsi, senza avere un briciolo di umanità né di solidarietà. Prima o poi qualcuno dei/lle nostri/e interlocutori/trici drizzerà le orecchie, aprirà gli occhi, accenderà il cervello. Vale la pena tentare: con le immagini, le parole, la musica, coi fatti concreti, sempre e comunque.

Lyrics:

Wrong place of birth, wrong papers, wrong accent
“Your presence here is unacceptable accident“
They turn backs on them, puppetry level’s excellent
They’re spitting lies in their eyes and never hesitate

You know what I’m saying, it’s time to spare your prayers
They look the other way for terrorists, smugglers and slavers
But if you’re running for your life, trying to escape the slaughter
They’ll let your wife die and feast on your sons and daughters

Poison the water, the feast of legalized murder
Their lies about human rights don’t cost a quarter
They bomb your home, let the beast roam, close the border
And feed the world another tale by double-tongued reporter

Forward to the past, Can I ask? Do you remember
How the allies were sending people back to gas chamber?
Beware the beast, at least you know what to expect
The circle closes and the history repeats itself

Hook 2x:
Papers, please! They get you on your knees
Straight face, race to the death, Deaf to your pleas
Who’s the real illegal people, who’s the real disease?
We’re all immigrants, We’re all refugees.

The circle closes and the history repeats itself
Like 80 years ago abandoning those to the death
Who happened to be born on the wrong side of the fence
Ignoring obvious atrocities and cries for help

Not all was apathy – fallacy, lost humanity
Progressive wanna-be society begets another malady
No remedy, humanitarian calamity
another people denied the right to live with vanity

Another Human race catastrophe,
Another instance of entitled masses showing lack of empathy
Authorities are waging war, you people lie in idleness
Refuse to take responsibility for leaders’ violence

Communities of hypocrites reveal their rotten values
“Civilized world” devoid of basic principles of kindness
Close minded, close the borders: entry denied
The price of economic comfort is their innocent lives

Hook 2x:
Papers, please! They get you on your knees
Straight face, race to the death, Deaf to your pleas
Who’s the real illegal people, who’s the real disease?
We’re all immigrants, We’re all refugees.

Face the facts, no thanks, “Your passport lacks stamps
Please go back for war, torture and the death camps”
Join the ranks, labeled as illegal people
Cursed by those who suck blood from golden calf’s nipple

Broken families, tragedies, who the devil is
They put another spiked wall on the land they’ve seized
Barbed wire, peace expires, lost evidence
Infection of the whole soul, unknown genesis

Come e perchè la Turchia supporta l’ISIS.

I movimenti politico-religiosi islamici sono stati usati dalle potenze occidentali in diversi luoghi e occasioni, soprattutto dall’inizio della guerra fredda tra USA e URSS, come diga all’espansione di idee comuniste, socialiste o semplicemente progressiste, come strumento di controllo sociale e politico sulle popolazioni locali e come bacino di reclutamento anche per forze paramilitari e terroristiche. La Turchia in particolare non è nuova a questo genere di cose, in bilico fin dai tempi della fondazione della repubblica ad opera di Kemal Atatürk tra severo laicismo e spinte alla (re)islamizzazione, ha attraversato fasi durante le quali le frange islamiche più radicali sono state foraggiate dai potenti del Paese con il benestare degli USA e della CIA. Tanto gli Hezbollah sono stati impiegati nella guerra contro le popolazioni curde in Turchia accanto ai fascisti del partito MHP, quanto movimenti come quello di Fetullah Gülen (che si presenta come democratico e moderato, ma ad un’analisi attenta si rivela essere uno dei motori della nuova ondata di islamizzazione in Turchia) hanno ricevuto sostegno e legittimazione non solo dal partito di Erdogan, ma anche da autorità politiche e religiose internazionali. Il problema per le potenze occidentali, insomma, nasce solo quando lo strumento, in questo caso il fondamentalismo islamico, sfugge al controllo e/o non adempie più alle funzioni richieste da chi si erge, a volte con troppe pretese, al ruolo di burattinaio. L’articolo che segue, tratto da Z-Net Italy, illustra alcuni aspetti dell’appoggio offerto dal governo dell’AKP di Erdogan all’organizzazione terroristica Daesh (ISIS):

 “Il segreto di Pulcinella della collaborazione tra la Turchia e lo Stato Islamico

rojava

Di Yasin Sunca

29 Novembre 2015

L’espansione del gruppo terrorista denominato Stato Islamico è sostenuto dall’appoggio risoluto della Turchia, insieme ad alcuni altri stati.

Fin dall’inizio della guerra civile in Siria, il governo turco dell’AKP (Partito per la Giustizia e lo Sviluppo)  ha cercato di perseguire una politica estera informata e motivata dalla sua mentalità esclusoria riguardo alle sue comunità etniche e religiose e anche ai gruppi progressisti e rivoluzionari in Turchia. Il governo dell’AKP, allo scopo di reprimere e contrastare qualsiasi  successo politico  dei Curdi che stanno costruendo un progetto politico radical-democratico in Siria, appoggia qualsiasi tipo di gruppo estremista, compresi il gruppo Stato Islamico, il Fronte al-Nusra, ecc.

Il motivo per cui la Turchia appoggia il Gruppo Stato Islamico

La rinascita dell’approccio neo-Ottomano del governo dell’AKP, che fondamentalmente implica il diventare una regione egemone, e oltre alle questioni socio-politiche della Turchia storicamente radicate, ha spinto il  governo verso una politica regressiva strategicamente programmata che alcuni indicano sia sull’orlo del collasso.

Prima della cosiddetta “Primavera Araba”  il primo ministro allora in carica,  Ahmet Davutoğlu, aveva introdotto una nuova, più aggressiva politica estera intesa a dominare la regione. Ma considerando se stesso come il “grande fratello” della regione, l’AKP credeva che la Turchia potesse essere uno stato egemonico per coordinare l’area insieme alle potenze imperialiste occidentali. In base a questo ragionamento, l’AKP ha attuato una politica a due facce. Da una parte, la Turchia è intervenuta nei paesi della regione attraverso una serie di organizzazioni islamiste, che andavano da diversi rami della Fratellanza Musulmana alle organizzazioni estremiste jihadiste, per rimodellare la formazione della regione nel loro migliore interesse,  dal 2007 in poi. D’altra parte, il governo dell’AKP tentava di costruire buoni rapporti con i poteri regionali allo scopo di far avanzare l’influenza economica e culturale della Turchia, che è stata definita come “soft power turco” dall’attuale   primo ministro Davutoğlu, nel suo controverso libro intitolato “Strategic Depth” (Stratejik Derinlik) , “Profondità strategica”. Questa politica del governo dell’AKP è stata  appoggiata dalle potenze imperialiste occidentali fino alla fine del 2012, poiché cercavano un’alternativa all’Islam politico radicale nel paese.

Tuttavia, per prima cosa gli sviluppi in Egitto e in Tunisia nel contesto della cosiddetta “Primavera Araba” e, secondo, la guerra civile in Siria, hanno cambiato moltissimo tutto per l’AKP nella regione e anche nei loro rapporti con le potenze imperialiste, rendendo visibile il loro impegno/collaborazione con le organizzazioni terroriste/jihadiste.

La Turchia ha eccessivamente appoggiato, facilitato e collaborato con vari gruppi jihadisti, compreso lo Stato Islamico, allo scopo di dare forma al futuro della Siria in linea con i suoi interessi. Per ironia, la collaborazione tra la Turchia e lo Stato Islamico è emersa  in parte grazie alla divisione delle potenze occidentali in schieramenti diversi riguardo alla guerra in  Siria. Durante il vertice del G20 tenutosi in Turchia, il presidente russo Vladimir Putin, che non vuole perdere il suo ultimo alleato nella zona del Mediterraneo, cioè Bashar Assad, ha citato circa 40 nazioni che sostengono  Daesh (ISIS), una delle quali, come il mondo ha appreso in seguito, è la Turchia.

Come detto sopra, la questione curda in Turchia è un fattore determinante per la politica estera della Turchia dalla formazione  della repubblica. Perciò la diplomazia turca è stata orientata a impedire categoricamente qualsiasi genere di progresso politico curdo. Questo si può osservare sia nel Kurdistan iracheno in seguito all’invasione statunitense dell’Iraq che nel Rojava (Kurdsitan Occidentale, Siria Settentrionale), dove i Curdi hanno ottenuto l’attenzione internazionale grazie alla loro eroica resistenza seguita da una vittoria storica contro il gruppo Stato Islamico a Kobanê. Dal momento che qualsiasi progresso politico dei Curdi altrove, catalizzerebbe la lotta dei Curdi nel Kurdistan Settentrionale (Turchia Orientale) contro la Turchia, il blocco dei Curdi a livello internazionale è diventata una delle massime priorità per lo stato turco.

A questo riguardo, il primo aspetto della resistenza curda contro lo Stato Islamico di fronte alla collaborazione tra la Turchia e tale gruppo estremista, è che il governo dell’AKP ha fatto una guerra per procura contro i Curdi del Rojava tramite il gruppo terrorista islamista allo scopo di bloccare o almeno di contenere un successo curdo in Siria. Il governo dell’AKP è anche responsabile degli attacchi dello Stato Islamico contro i Curdi e le persone di sinistra in Turchia e di non aver condotto un’effettiva indagine, malgrado tutte le prove. Lo Stato Islamico ha compiuto tre attacchi con le bombe: a Diyarbakir durante una manifestazione elettorale del partito di sinistra filo-curdo HDP; a Suruç, una città sul confine tra Turchia e Siria, e ad Ankara, durante una dimostrazione pacifista.

Il secondo aspetto è che     la resistenza curda nel  Rojava ha smascherato questa sporca collaborazione, specialmente durante la guerra a Kobanê. Infatti, la collaborazione della Turchia con i gruppi jihadisti e il loro utilizzo, specialmente contro i Curdi, non era iniziata con lo Stato Islamico e non era venuta fuori dal nulla. La Turchi l’ha fatto nell’ambito del suo approccio interventista al Medio Oriente che si può far risalire all’inizio del 2011 quando  appoggiava un altro gruppo jihadista, il Fronte Nusra, il ramo siriano di Al-Qaida che non è meno crudele del gruppo Stato Islamico. In seguito a una divisione interna nel Fronte Nusra, questo è stato rimpiazzato dallo Stato Islamico che fin da allora ha continuato a fare attacchi contro la terra curda liberata,  con l’aiuto del governo AKP. La collaborazione tra AKP e lo Stato Islamico continuerà fino a che uno avrà bisogno dell’altro. Ma c’è ora un equilibrio del terrore per la Turchia, creato dalla Turchia. Nel caso che questo paese interrompa la collaborazione con il gruppo Stato Islamico, e alquanto probabile che il gruppo terrorista gli  si rivolterà contro, dal momento che l’unica porta per le sue necessità logistiche è il confine turco.

In che modo la  Turchia appoggia il Gruppo Stato Islamico

La Turchia è in  collaborazione con lo Stato Islamico sia politicamente che ideologicamente e questa si espande in molti canali come è stato elencato in dettaglio

Da David L. Phillips sull’Huffington Post. Lo  Stato Islamico ha servito gli interessi turchi militarmente combattendo i Curdi, mentre il governo dell’AKP facilitava logisticamente e finanziariamente  la campagna omicida dello Stato Islamico. Il governo dell’AKP forniva anche equipaggiamento militare allo Stato Islamico. Tre camion carichi di armi si sono fermati nella regione di Adana il 19 gennaio 2014. Malgrado la smentita del governo, era chiaro che queste armi sarebbero state consegnate allo Stato Islamico. Secondo molti documenti venuti alla luce e in base alla copertura dei media, oltre a questi tre, ci sono stati molti altri camion di armi consegnate allo Stato Islamico, cosa confermata anche da video e foto fatte dai combattenti curdi dell’YPG (Unità di Difesa del Popolo)  e dell’YPJ (Unità di Difesa delle Donne). Inoltre il suolo turco era usato dai Sauditi per il trasporto di armi all’IS.

Il governo dell’AKP ha anche facilitato l’attraversamento del confine per i membri dello Stato islamico di recente reclutati, secondo un documento firmato dal ministro dell’Interno , Muammer Güler il 13 giugno 2014. E’ stato anche affermato dai media internazionali che il governo di Erdoğan  ha chiuso un occhio sulla “entrata per la jihad” attraverso il confine del pese con la Siria. Molti emendamenti ufficiali e domande nel Parlamento della Turchia proposti dai partiti di opposizione per avere una risposta ufficiale del governo riguardo alle facilitazioni per l’attraversamento del confine date ai jihadisti, sono rimaste senza risposta. Tra  molte di queste domande, il Membro del Parlamento del partito filo-curdo HDP, Ibrahim Ayhan, ha chiesto al ministro se il governo forniva rifugio ai membri dello Stato Islamico nel campo profughi di Akçakale.

Il gruppo dei combattenti  dello Stato Islamico, compresi i comandanti di alto rango, hanno ricevuto assistenza medica e sono stati curati negli ospedali delle città di confine della Turchia. Il giornalista turco Fehim Taştekin sostiene che il governo ha permesso l’acquisto e la vendita di petrolio proveniente dal territorio dello Stato Islamico. Inoltre, secondo altre fonti, alcuni dei membri della famiglia del presidente

Erdoğan, sono coinvolti nel commercio del petrolio dello Stato Islamico.

Nel trattare di questo, è fondamentale tenere a mente che un intervento militare internazionale non servirà a nulla se non al rafforzamento dello Stato Islamico e ad analoghi gruppi terroristi. Invece, appoggiare le forze di terra che combattono per la loro terra e per la loro libertà sarebbe del massimo rendimento.

Infine, essere di continuo solidali con l’esperienza unica  radical-democratica nel Rojava, al centro di una regione piena di violenza e di atrocità, è una responsabilità per tutto il globo e il modo migliore per andare avanti.

Yasin Sunca  è un attivista politico curdo e ricercatore indipendente. Seguitelo su Twitter @kurdeditir

Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo”

 

Noi contro tutte le guerre, tutte le guerre contro di noi.

Quello che segue è il discorso pronunciato da Gino Strada, chirurgo fondatore di Emergency, durante la cerimonia di consegna dei Right Livelihood Awards, i cosiddetti “Premi Nobel alternativi” il 30 Novembre a Stoccolma:

Risultati immagini per gino strada

«Io sono un chirurgo. Ho visto i feriti (e i morti) di vari conflitti in Asia, Africa, Medio Oriente, America Latina e Europa. Ho operato migliaia di persone, ferite da proiettili, frammenti di bombe o missili.

A Quetta, la città pakistana vicina al confine afgano, ho incontrato per la prima volta le vittime delle mine antiuomo. Ho operato molti bambini feriti dalle cosiddette “mine giocattolo”, piccoli pappagalli verdi di plastica grandi come un pacchetto di sigarette. Sparse nei campi, queste armi aspettano solo che un bambino curioso le prenda e ci giochi per un po’, fino a quando esplodono: una o due mani perse, ustioni su petto, viso e occhi. Bambini senza braccia e ciechi. Conservo ancora un vivido ricordo di quelle vittime e l’aver visto tali atrocità mi ha cambiato la vita.

Mi è occorso del tempo per accettare l’idea che una “strategia di guerra” possa includere prassi come quella di inserire, tra gli obiettivi, i bambini e la mutilazione dei bambini del “paese nemico”. Armi progettate non per uccidere, ma per infliggere orribili sofferenze a bambini innocenti, ponendo a carico delle famiglie e della società un terribile peso. Ancora oggi quei bambini sono per me il simbolo vivente delle guerre contemporanee, una costante forma di terrorismo nei confronti dei civili.

Alcuni anni fa, a Kabul, ho esaminato le cartelle cliniche di circa 1200 pazienti per scoprire che meno del 10% erano presumibilmente dei militari. Il 90% delle vittime erano civili, un terzo dei quali bambini. È quindi questo “il nemico”? Chi paga il prezzo della guerra?

Nel secolo scorso, la percentuale di civili morti aveva fatto registrare un forte incremento passando dal 15% circa nella prima guerra mondiale a oltre il 60% nella seconda. E nei 160 e più “conflitti rilevanti” che il pianeta ha vissuto dopo la fine della seconda guerra mondiale, con un costo di oltre 25 milioni di vite umane, la percentuale di vittime civili si aggirava costantemente intorno al 90% del totale, livello del tutto simile a quello riscontrato nel conflitto afgano.

Lavorando in regioni devastate dalle guerre da ormai più di 25 anni, ho potuto toccare con mano questa crudele e triste realtà e ho percepito l’entità di questa tragedia sociale, di questa carneficina di civili, che si consuma nella maggior parte dei casi in aree in cui le strutture sanitarie sono praticamente inesistenti.

Negli anni, Emergency ha costruito e gestito ospedali con centri chirurgici per le vittime di guerra in Ruanda, Cambogia, Iraq, Afghanistan, Sierra Leone e in molti altri paesi, ampliando in seguito le proprie attività in ambito medico con l’inclusione di centri pediatrici e reparti maternità, centri di riabilitazione, ambulatori e servizi di pronto soccorso.

L’origine e la fondazione di Emergency, avvenuta nel 1994, non deriva da una serie di principi e dichiarazioni. È stata piuttosto concepita su tavoli operatori e in corsie d’ospedale. Curare i feriti non è né generoso né misericordioso, è semplicemente giusto. Lo si deve fare.

In 21 anni di attività, Emergency ha fornito assistenza medico-chirurgica a oltre 6,5 milioni di persone. Una goccia nell’oceano, si potrebbe dire, ma quella goccia ha fatto la differenza per molti. In qualche modo ha anche cambiato la vita di coloro che, come me, hanno condiviso l’esperienza di Emergency.

Ogni volta, nei vari conflitti nell’ambito dei quali abbiamo lavorato, indipendentemente da chi combattesse contro chi e per quale ragione, il risultato era sempre lo stesso: la guerra non significava altro che l’uccisione di civili, morte, distruzione. La tragedia delle vittime è la sola verità della guerra.

Confrontandoci quotidianamente con questa terribile realtà, abbiamo concepito l’idea di una comunità in cui i rapporti umani fossero fondati sulla solidarietà e il rispetto reciproco.

In realtà, questa era la speranza condivisa in tutto il mondo all’indomani della seconda guerra mondiale. Tale speranza ha condotto all’istituzione delle Nazioni Unite, come dichiarato nella Premessa dello Statuto dell’ONU: “Salvare le future generazioni dal flagello della guerra, che per due volte nel corso di questa generazione ha portato indicibili afflizioni all’umanità, riaffermare la fede nei diritti fondamentali dell’uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nell’uguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne e delle nazioni grandi e piccole”.

Il legame indissolubile tra diritti umani e pace e il rapporto di reciproca esclusione tra guerra e diritti erano stati inoltre sottolineati nella Dichiarazione universale dei diritti umani, sottoscritta nel 1948. “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti” e il “riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo”.

70 anni dopo, quella Dichiarazione appare provocatoria, offensiva e chiaramente falsa. A oggi, non uno degli stati firmatari ha applicato completamente i diritti universali che si è impegnato a rispettare: il diritto a una vita dignitosa, a un lavoro e a una casa, all’istruzione e alla sanità. In una parola, il diritto alla giustizia sociale. All’inizio del nuovo millennio non vi sono diritti per tutti, ma privilegi per pochi.

La più aberrante in assoluto, diffusa e costante violazione dei diritti umani è la guerra, in tutte le sue forme. Cancellando il diritto di vivere, la guerra nega tutti i diritti umani.

Vorrei sottolineare ancora una volta che, nella maggior parte dei paesi sconvolti dalla violenza, coloro che pagano il prezzo più alto sono uomini e donne come noi, nove volte su dieci. Non dobbiamo mai dimenticarlo.
Solo nel mese di novembre 2015, sono stati uccisi oltre 4000 civili in vari paesi, tra cui Afghanistan, Egitto, Francia, Iraq, Libia, Mali, Nigeria, Siria e Somalia. Molte più persone sono state ferite e mutilate, o costrette a lasciare le loro case.

In qualità di testimone delle atrocità della guerra, ho potuto vedere come la scelta della violenza abbia – nella maggior parte dei casi – portato con sé solo un incremento della violenza e delle sofferenze. La guerra è un atto di terrorismo e il terrorismo è un atto di guerra: il denominatore è comune, l’uso della violenza.

Sessanta anni dopo, ci troviamo ancora davanti al dilemma posto nel 1955 dai più importanti scienziati del mondo nel cosiddetto Manifesto di Russell-Einstein: “Metteremo fine al genere umano o l’umanità saprà rinunciare alla guerra?”. È possibile un mondo senza guerra per garantire un futuro al genere umano?

Molti potrebbero eccepire che le guerre sono sempre esistite. È vero, ma ciò non dimostra che il ricorso alla guerra sia inevitabile, né possiamo presumere che un mondo senza guerra sia un traguardo impossibile da raggiungere. Il fatto che la guerra abbia segnato il nostro passato non significa che debba essere parte anche del nostro futuro.

Come le malattie, anche la guerra deve essere considerata un problema da risolvere e non un destino da abbracciare o apprezzare.
Come medico, potrei paragonare la guerra al cancro. Il cancro opprime l’umanità e miete molte vittime: significa forse che tutti gli sforzi compiuti dalla medicina sono inutili? Al contrario, è proprio il persistere di questa devastante malattia che ci spinge a moltiplicare gli sforzi per prevenirla e sconfiggerla.

Concepire un mondo senza guerra è il problema più stimolante al quale il genere umano debba far fronte. È anche il più urgente. Gli scienziati atomici, con il loro Orologio dell’apocalisse, stanno mettendo in guardia gli esseri umani: “L’orologio ora si trova ad appena tre minuti dalla mezzanotte perché i leader internazionali non stanno eseguendo il loro compito più importante: assicurare e preservare la salute e la vita della civiltà umana”.

La maggiore sfida dei prossimi decenni consisterà nell’immaginare, progettare e implementare le condizioni che permettano di ridurre il ricorso alla forza e alla violenza di massa fino alla completa disapplicazione di questi metodi. La guerra, come le malattie letali, deve essere prevenuta e curata. La violenza non è la medicina giusta: non cura la malattia, uccide il paziente.

L’abolizione della guerra è il primo e indispensabile passo in questa direzione.

Possiamo chiamarla “utopia”, visto che non è mai accaduto prima. Tuttavia, il termine utopia non indica qualcosa di assurdo, ma piuttosto una possibilità non ancora esplorata e portata a compimento.

Molti anni fa anche l’abolizione della schiavitù sembrava “utopistica”. Nel XVII secolo, “possedere degli schiavi” era ritenuto “normale”, fisiologico.
Un movimento di massa, che negli anni, nei decenni e nei secoli ha raccolto il consenso di centinaia di migliaia di cittadini, ha cambiato la percezione della schiavitù: oggi l’idea di esseri umani incatenati e ridotti in schiavitù ci repelle. Quell’utopia è divenuta realtà.
Un mondo senza guerra è un’altra utopia che non possiamo attendere oltre a vedere trasformata in realtà.

Dobbiamo convincere milioni di persone del fatto che abolire la guerra è una necessità urgente e un obiettivo realizzabile. Questo concetto deve penetrare in profondità nelle nostre coscienze, fino a che l’idea della guerra divenga un tabù e sia eliminata dalla storia dell’umanità.

Ricevere il Premio Right Livelihood Award, il “Nobel alternativo”, incoraggia me personalmente ed Emergency nel suo insieme a moltiplicare gli sforzi: prendersi cura delle vittime e promuovere un movimento culturale per l’abolizione della guerra.
Approfitto di questa occasione per fare appello a voi tutti, alla comunità dei colleghi vincitori del Premio, affinché uniamo le forze a sostegno di questa iniziativa.
Lavorare insieme per un mondo senza guerra è la miglior cosa che possiamo fare per le generazioni future».

Il clima che cambia.

Sarà anche corretto e forse utile sottolineare le contraddizioni della sedicente democrazia rappresentativa/parlamentare, ma lo stupore è un altro paio di maniche: lo stato di emergenza e la conseguente limitazione delle libertà garantite dalla legge in Francia dopo gli attentati terroristici del 13 Novembre scorso non sono un caso unico né isolato, in Italia chi non ha la memoria troppo corta si ricorderà quante volte le manifestazioni, specialmente negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, siano state vietate per motivi legati alla “sicurezza”. Anche in altri Paesi europei certe misure di limitazione della “libertà” cortesemente concessa dall’alto non sono nuove, né scandalizzano più di tanto un’opinione pubblica anestetizzata e omologata. Non tutti/e però sono anestetizzati e omologati, anzi si sentono ancor più spronati da limitazioni e divieti a manifestare pubblicamente il proprio dissenso. In un momento nel quale gli eserciti degli Stati nei quali viviamo sono in guerra e ciò viene annunciato come se si trattasse della cosa più normale del mondo, mentre i leader mondiali si riuniscono a Parigi per la “nuova ultima chanche” (non sono l’unico a ricordare che si parlava di “ultima chanche” anche al vertice sul clima di Copenhagen nel 2009…) per ridurre il surriscaldamento globale del pianeta, ad alcuni/e, forse troppo pochi/e ma pur sempre presenti ed esistenti, sono chiari un paio di concetti di fondo imprescindibili: guerra e politiche securitarie e repressive sono due facce della stessa medaglia e le guerre non sono altro che uno strumento per ottenere o rafforzare il dominio su territori e popolazioni, per accaparrarsi nuove risorse, controllare nuovi mercati, incrementare gli affari e lo sviluppo-espansione del capitale che non possono fermarsi di fronte a nulla, nemmeno di fronte alla possibile distruzione del pianeta Terra. I veri accordi vengono stabiliti altrove, non durante gli spettacolini ad uso e consumo dell’opinione pubblica credulona. Nessuna conferenza sul clima è mai servita nel passato a raggiungere accordi soddisfacenti almeno per rallentare considerevolmente la catastrofe, perchè la crescita economica e il profitto vengono prima di tutto. Prima degli ecosistemi, degli esseri umani e di tutte le creature viventi, prima dei diritti revocabili stabiliti sulla carta, della pace e, non te ne meravigliare, della sicurezza di ciascuno/a di noi.

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