COP23: le proteste intorno alla conferenza internazionale sul clima a Bonn (Germania).

Dal 6 al 17 Novermbre 2017 si terrà a Bonn, ex capitale della Repubblica Federale Tedesca e tuttora città ospitante uffici dell’ONU, una conferenza mondiale sul clima organizzata da quest’ultima. Come si evince dal nome, la conferenza COP23 è la 23ma di questo tipo, i suoi obiettivi non sono dissimili da quelli di analoghe conferenze precedenti e i risultati attesi non sono migliori di quelli già visti in passato. Tanto per sgomberare il campo da equivoci e illusioni, durante il vertice dei G20 ad Amburgo tenutosi nel Luglio scorso, gli Stati partecipanti (responsabili del 75% delle emissioni di CO2 su scala mondiale), riferendosi esplicitamente agli accordi di Parigi, hanno apertamente annunciato di voler combattere i cambiamenti climatici anche attraverso l’uso di energia nucleare, fracking e carburanti fossili “puliti”(!). Se a Kyoto nel 1997 sembrava dura, oggi una possibile gestione responsabile ed efficace della crisi climatica da parte degli Stati responsabili dovrebbe risultare impossibile anche ai più fiduciosi. Rispetto ai fallimenti ed alle illusioni del passato riguardo un possibile salvataggio del pianeta da parte delle istituzioni governative, oggi la situazione appare ancor più chiara, ancor più allarmante: non solo perchè aumenta la diffusione di tesi antiscientifiche che negano un cambiamento climatico provocato dalle attività umane (l’attuale presidente degli USA Donald Trump è uno dei più noti esponenti di questa corrente di pensiero menzognero), ma anche e soprattutto perchè il tempo per invertire la rotta si accorcia drammaticamente ogni giorno che passa. La speranza nel cambiamento non può essere lasciata nelle mani di governi complici degli inquinatori capitalisti che in nome del profitto sono disposti a sacrificare il pianeta e il futuro dell’umanità, ma deve diventare prassi concreta dei soggetti e delle comunità che hanno realmente a cuore la salute, nel presente e nel futuro, delle proprie terre, di chi le abita e delle generazioni a venire.

Tanto le conferenze istituzionali sono inutili, quanto la protesta è necessaria. Necessaria a creare consapevolezza, scambiare idee e progetti da applicare poi concretamente, mostrare che coloro i/le quali si interessano sinceramente al destino del nostro pianeta non accettano le finte soluzioni proposte da chi ci governa e propongono alternative che affrontano alla radice la questione del cambiamento climatico. Non solo è necessario cambiare i nostri stili di vita: finchè non cambierà su scala modiale l’intero sistema di produzione e consumo dei Paesi industrializzati e in via di sviluppo i nostri sforzi idividuali (risparmio energetico domestico, consumo critico, riduzione degli sprechi, mobilità ecosostenibile eccetera) risulteranno vani. Anche fra chi scenderà in piazza a Bonn e altrove  nei giorni del summit COP23 non sempre esiste questa consapevolezza, per questo è necessario e urgente crearla partecipando alle proteste, arricchendole di contenuti e proposte radicalmente critiche . Non per chiedere ai governanti misure drastiche che loro mai applicheranno, ma per convincere chi ancora non l’abbia capito che tali misure dobbiamo trovare noi tutti/e il modo di implementarle, nonostante e contro governi e capitale.

Di seguito una lista di siti web (principalmente in lingua tedesca) che contengono appelli e informazioni sulle mobilitazioni che avranno luogo durante il COP23:

Welcome to the Show: alcune riflessioni sul G20 di Amburgo e sulle proteste contro il summit.

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“A quanto pare ad Amburgo quelli del blocco nero hanno deciso che a Luglio bruceranno le auto senza distinzioni”, racconta un mio amico. Un’altro chiede con una punta d’ironia: “E le biciclette? Ci sono bici che costano più di un’automobile!”. Eravamo sul treno che ci riportava a casa dopo una manifestazione contro un congresso del partito di destra tedesco AfD, ad Aprile. Ci interrogavamo su quanto avesse senso applicare strategie discutibili come la distruzione della proprietà senza distinzioni. “Distruggere l’utilitaria di uno che si alza alle sei del mattino per andare al lavoro non mi pare un gesto rivoluzionario”, dichiaro mentre gli altri annuiscono. “Oltretutto ho la sensazione che sia sempre la stessa storia, uno spettacolo programmato ad uso e consumo del sistema”. Sguardi interrogativi che chiedono un chiarimento. “Non so esattamente cosa accadrà ad Amburgo durante le proteste contro il G20, non credo che finirà come a Genova nel 2001, ma ritengo probabile che sotto alcuni aspetti non ci saranno molte variazioni sul tema. Gli sbirri tenteranno di dividere i buoni dai cattivi, i “cattivi” e quelli che in mezzo a loro si sono mischiati, infiltrati o gente senza arte né parte, sfasceranno un pó di roba, i giornalettisti dei tabloid e della stampa embedded avranno di che scrivere, i politicanti ne approfitteranno per chiedere più polizia e aumentare i controlli, qualche compagno/a verrà arrestato/a e processato/a e per assisterlo/a si dovranno impiegare energie e risorse altrimenti spendibili altrove, si preferirà l’estetica dell’attacco alla proprietà senza distinzione fra quella personale e quella privata a scapito di azioni comunicative che coinvolgano gli sfruttati e gli esclusi dei quartieri amburghesi…”. Al termine del mio monologo tutti ci chiedevamo se sarebbe andata così, se lo spettacolo del G20 sarebbe stato disturbato o se nello spettacolo sarebbero finiti, come io credevo, anche i disturbatori. Al termine degli eventi dei quali si discuteva quel pomeriggio di Aprile non ho una risposta definitiva, ma ho perlomeno la netta sensazione che parte dei miei sospetti si siano avverati. Giovedì 6 Luglio le forze del disordine hanno tentato di dividere i/le manifestanti “pronti all’uso della violenza” da quelli ritenuti pacifici, senza forse immaginare che i/le partecipanti al black bloc si sarebbero frammentati/e scatenando una serie di azioni dirette a macchia di leopardo, mantenendo per ore il controllo di diverse zone della città, impedendo in parte che il summit dei G20 si svolgesse in una città-vetrina come voluto da organizzatori e partecipanti. Divenendo però, come ipotizzavo mesi prima, una parte dello spettacolo a uso e consumo dei massmedia asserviti alle logiche dominanti, delle strutture repressive poliziesche e giudiziarie, dei progetti dei politici a base di giri di vite contro strutture autogestite e promesse di maggiore sicurezza armata. Oltre ad aver lasciato per strada i cocci delle vetrine dei supermercati sfasciati e saccheggiati e le carcasse di decine di automobili bruciate, pezzi di lusso proprietà di persone abbienti così come (danni collaterali?) scassoni vecchi di undici anni appartenenti a quei lavoratori e a quelle lavoratrici che vorremmo dalla nostra parte e che ora sono più lontani/e da noi di quanto probabilmente non lo fossero una settimana fa, i militanti del blocco che ha protestato ad Amburgo sotto lo slogan “Welcome to Hell” sono ora oggetto di caccia all’uomo, alcuni/e già catturati fra le maglie della repressione, altri/e a rischio di fare la stessa fine, in più strumentalizzati dalla campagna elettorale precocemente in corso per il rinnovo del Bundestag. Come al solito fa più rumore un albero che cade di una foresta che cresce, se si voleva attirare l’attenzione lo si è fatto, ma a vantaggio di quelli che vorremmo combattere. Non si dovrebbe dimenticare che le vere decisioni non vengono prese durante le riunioni dei G20, per quanto queste siano una sorta di termometro politico internazionale. D’altra parte è innegabile che il programma di un incontro fra i potenti della Terra in una città-salotto, magari con qualche corteo ammaestrato di finto dissenso riformista tanto per non far sembrare il tutto troppo irreale, è saltato. Le azioni del black bloc hanno dimostrato, ancora una volta, che le forze del disordine di Stato non sono imbattibili e che queste se la prendono volentieri con chi meno sa o può difendersi. A riprova di ciò basta citare le cariche a freddo di Sabato contro manifestanti pacifici/che, avventori/trici di locali e persone potenzialmente “sospette” nei pressi del centro sociale amburghese Rote Flora, che adesso molti politici, soprattutto di centro e di destra, vorrebbero immediatamente sgomberato. Un cerotto da mettere sulla ferita aperta di una città messa sottosopra dagli scontri? Piuttosto l’ennesima scusa per implementare politiche autoritarie, un mediocre specchietto per le allodole per distrarre l’opinione pubblica da contraddizioni e divergenze apparentemente insuperabili allo stato attuale emerse durante il summit fra i  governi dei vari Paesi. Contraddizioni e divergenze, queste sí, che dovrebbero attirare la nostra attenzione e sulle quali dovremmo concentrare la nostra azione.

1 Maggio: appello per una mobilitazione internazionale.

Il 1 Maggio è una giornata internazionale di lotte e rivendicazioni lavorative, durante la quale si svolgono in numerosissime città del mondo cortei e altre iniziative di militanza politica e sindacale. Il sindacato di base tedesco di ispirazione anarchica FAU lancia per il 1 Maggio 2017 la proposta di una giornata di azione e lotta sul tema lavoro e migrazione, ovunque vi siano le condizioni e la volontà per realizzarla. Sul sito della FAU è possibile consultare l’appello alla mobilitazione, tradotto in diverse lingue. La versione qui sotto è una mia traduzione, elaborata ancor prima che comparisse quella fornita sul sito della FAU – ciascuno/a usi la traduzione che preferisce… Ovviamente potete stampare, copiaincollare, diffondere l’appello come preferite, anzi vi invito a farlo e ad aderire ad un 1 Maggio di lotta e solidarietà senza confini!

“Le lotte lavorative non conoscono confini!

Se i segni del tempo non ci ingannano, ci troviamo di fronte ad una fase del populismo che non abbiamo ancora conosciuto nei decenni passati. Le persone vengono aizzate le une contro le altre e lo sfruttamento di lavoratori/trici ed esclusi/e viene portato avanti sotto il segno del nazionalismo e del razzismo. Contro il progetto di un mondo pieno di nuovi muri, ai confini e nelle menti, abbiamo bisogno di un progetto che sia in grado di abbattere tutti i muri, creando al loro posto legami fra noi lavoratori e lavoratrici, solidarietà e aiuto reciproco. Non abbiamo più tempo di coltivare ciò che ci divide – vogliamo invece cercare ciò che ci unisce nella lotta per condizioni di vita migliori e, in senso anarcosindacalista, combattere per un mondo senza dominio né sfruttamento.

La FAU chiama tutte le singole persone, i collettivi, i sindacati di base e le altre iniziative sociali a partecipare alla giornata internazionale di azione sul tema “Lavoro e migrazione”. Il 1 Maggio vogliamo esprimere solidarietà di classe con i/le migranti, mobilitare al di là delle frontiere contro xenofobia, razzismo e nazionalismo dominanti, che sono le armi degli Stati e del capitalismo. Una lotta coerente contro il razzismo significa per noi anche una lotta contro il sistema capitalista, che si basa su disuguaglianze estreme e che per mantenersi in piedi deve ricorrere alle divisioni sociali.

Nella nostra società i lavoratori e le lavoratrici particolarmente colpiti/e dallo sfruttamento e dalla privazione dei diritti sono i/le migranti, che soffrono a causa di politiche migratorie razziste, rapporti di lavoro illegali, proibizione o costrizione al lavoro. Principalmente operanti nell’edilizia, nella gastronomia e nel settore delle pulizie, con uno scarso livello organizzativo o senza alcun tipo di organizzazione sindacale, hanno ben poche possibilità di lottare contro la crescente precarizzazione dei rapporti lavorativi. I sindacati più affermati, dediti alla concertazione, mostrano dal canto loro solo un limitato interesse nell’organizzare i migranti illegalizzati o nel sostenerli nelle lotte contro ostacoli giuridici ed espulsioni. Piuttosto l’attenzione di questi sindacati si concentra su clientele abituali ben consolidate (con contratti di lavoro a tempo indeterminato) e sulla logica delle divisioni sociali a vantaggio degli interessi economici nazionali.

A questa situazione penosa è necessario opporre solidarietà ed autoorganizzazione – come nel caso dei nostri colleghi rumeni, impiegati nel cantiere del centro commerciale “Mall of Berlin” e costretti a vivere e lavorare in condizioni scandalose, sfruttati, imbrogliati sul salario e minacciati: la loro organizzazione nella FAU e la comune lotta in questa vertenza lavorativa hanno fatto diventare il centro commerciale berlinese, ribattezzato “Mall of Shame” (“centro commerciale della vergogna”), un simbolo di sfruttamento dei/lle migranti in Germania. In questo modo abbiamo potuto rispondere al clima di persecuzione in particolare contro lavoratori/trici migranti dal Sud-Est europeo con un esempio di resistenza efficace. Anche nell’attuale tentativo di obbligare i profughi al lavoro sottopagato noi vediamo il procedere di pari passo di emarginazione e abbassamento degli standard nei diritti lavorativi, che riguardano conseguentemente tutti i lavoratori e le lavoratrici. In quanto classe lavoratrice dovremmo mostrarci solidali e opporre resistenza, lottando non solo per la libertà di movimento di ogni persona, ma anche contro lo sfruttamento legittimato dal razzismo. Le lotte lavorative non conoscono confini!

In linea con la tradizione del 1 Maggio, invitiamo alla solidarietà con i lavoratori e le lavoratrici migranti, per protestare insieme contro le condizioni lavorative precarie, lo sfruttamento capitalista, il regime razzista delle frontiere. Non importa quali forme assumono queste proteste – scioperi, manifestazioni, comizi, azioni informative, performance; non importa se locali o interregionali; non importa se verranno organizzate da lavoratori/trici, disoccupati/e, studenti/esse, pensionati/e, migranti o profughi/e, l’importante è che ci sia per tutti e tutte la possibilità di organizzarsi contro lo sfruttamento. Solo con la solidarietà internazionale e con una pratica sindacalista che superi le frontiere possiamo difenderci dal capitalismo. Unitevi a noi, per mettere in pratica una giornata comune di azione per il 1 Maggio sotto lo slogan “Le lotte lavorative non conoscono confini!”. Insieme costruiremo ponti laddove altri vogliono erigere muri.

Il Comitato Internazionale della FAU (Freie ArbeiterInnen Union – Unione dei/lle Liberi/e Lavoratori e Lavoratrici).

P.S. Contattateci se avete domande. Siamo aperti a suggerimenti, idee, osservazioni o alternative. Saremo felici per qualsiasi adesione alla giornata di mobilitazione.”

Dialogo con un cittadino tedesco qualunque su richiedenti asilo e immigrazione.

Solitamente non sono il primo a iniziare certi discorsi, ma per un motivo o per un altro mi capita di frequente di parlare di argomenti politici e sociali col mio prossimo. Una conversazione fra le tante è quella svoltasi un mese fa circa con un tizio che conosco di vista, una persona “del posto”, quindi tedesco (di nascita e di origine, anche se non ho a disposizione un’albero genealogico che mi dica da dove discendono i suoi antenati, hahaha!) , tra i cinquanta e i sessanta, di professione tassista, definibile in modo molto approssimativo come il classico cittadino tedesco qualunque. Non ricordo come si sia iniziato a parlare di immigrazione, richiedenti asilo e profughi, quel che ricordo lo riporto di seguito, non alla lettera, ma con la volontà di non omettere o modificare nulla -memoria permettendo. Il mio interlocutore è contrassegnato dall’abbreviazione CTQ, cittadino tedesco qualunque, io sono BB, Blackblogger.

CTQ: Mia figlia lavora per un’impresa di pulizie ed è stata incaricata di pulire un centro di accoglienza per richiedenti asilo. Quando lei e le colleghe hanno visto in che condizioni era il posto si sono rifiutate, hanno detto “un conto è pulire, ma spalare via l’immondezza è un’altra cosa!”. Questa gente vive così, ma non gliene frega nulla?

BB: A nessuno piace vivere in mezzo allo sporco. Gli immigrati che da alcuni anni a questa parte arrivano qui in Germania vengono accolti in strutture organizzate in fretta e furia, a volte decenti ma più spesso inadeguate o addirittura pessime. Ho parlato con un paio di persone che lavorano tra il personale addetto alla gestione delle strutture. Mi hanno raccontato di come queste strutture siano carenti, di come a ogni persona costretta a stare là dentro venga dato un tot di cibo, di carta igienica, di shampoo al giorno. Ci sono persone che hanno subíto traumi di natura psicologica, altre che hanno bisogno di cure mediche, molti di loro hanno lasciato amici e familiari nel Paese d’origine, tutti si chiedono quale sia il proprio futuro, ma devono stare tutto il giorno lì senza far nulla con persone che non conoscono e che spesso non parlano la loro lingua, non possono lavorare anche se vorrebbero, devono solo star calme e aspettare. Solo che stare calmi in situazioni del genere è difficile. Io mi stuferei presto…

CTQ: Eh, ma non possiamo mica accoglierli tutti! Vogliono venire tutti in Germania, stanno venendo tutti qui, ma come facciamo?

BB: Interessante, a sentire molti italiani sembra che tutti gli immigrati arrivino in Italia e ci rimangano! Eppure sono i primi a sentire gli effetti della crisi economica: tra il 2008 e il 2012 un milione di stranieri ha lasciato l’Italia (nota: dati riportati da Horaczek/Wiese, “Gegen Vorurteile”, 2015, pag. 27). Pensaci un attimo: la Germania è oggi uno degli Stati più ricchi al mondo. Dopo la Seconda Guerra Mondiale la Germania accolse 10 milioni di profughi (nota: in realtà furono circa 12 milioni!), cacciati dai territori occupati sotto il nazismo. Un Paese devastato dalle bombe, dalla guerra, hai presente le foto di Colonia nel ’45?, che accoglie tutta quella gente. E oggi, con tutti i mezzi a disposizione? Che scusa vogliamo togliere fuori? Certo, non è solo una faccenda tedesca. Si parla tanto di quest’ Europa solidale, ma vediamo che Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e altri Paesi, non solo dell’Est, luoghi di emigrazione per eccellenza, rifiutano di accogliere gli immigrati…sembra che si ricordino che esiste l’Unione Europea solo quando c’è da chiedere qualcosa. Ognuno dovrebbe fare la sua parte, per me è una questione di umanità e di solidarietà.

CTQ: Però io li vedo, molti di loro hanno lo smartphone e non arrivano qui vestiti di stracci. Non sono certo tutti poveri.

BB: Chi fugge dalle zone di guerra non è sempre povero, le bombe non guardano in faccia nessuno. Il fatto che una persona non sia povera non significa che non meriti accoglienza di fronte alle catastrofi. E poi, avere uno smartphone non è segno di ricchezza oggigiorno,alcuni modelli costano un centinaio di Euro… Cos’è, non dirmi che non conosci gente qui che compra cose che non gli servono urgentemente e che non può permettersi, a rate, indebitandosi!

CTQ: Sì, in effetti…

BB: Ci sono anche immigrati che vengono qui perchè a casa loro non hanno un lavoro, né prospettive di trovarne uno decente e non hanno prospettive di ottenere il diritto di asilo. Io penso che tutti abbiano il diritto a rimanere. Anche io se vogliamo posso definirmi un Wirtschaftsflüchtling, sono andato via dal mio Paese per via della disoccupazione e delle condizioni di lavoro che sapevo essere peggiori che qui, solo che io in quanto cittadino di uno Stato dell’UE sono privilegiato rispetto ad un cittadino kosovaro o nordafricano, nessuno mi caccia via di qua, ma non perchè sono migliore degli altri, solo perchè ho un passaporto “fortunato”. Non penso di meritare accoglienza più di chiunque altro solo perchè sono italiano!

CTQ: Gli italiani qui però sono venuti per lavorare, personalmente non ho mai avuto problemi con loro. Ne conosco tanti, lo sai.

BB: Sono venuti qui come gastarbeitern, per lavorare, come i portoghesi, i turchi, i greci e tutti gli altri, grazie a convenzioni con i rispettivi Stati di provenienza, perchè faceva comodo all’economia tedesca. Serviva manodopera. Il benessere economico di questo Paese è stato raggiunto anche grazie allo sfruttamento di quegli immigrati, che oltretutto erano spesso vittime di pregiudizi e discriminazioni da parte di istituzioni e popolazione locale, non dimentichiamolo. I tedeschi vanno in giro per il mondo, non solo in vacanza, ma a studiare o a trascorrere la vecchiaia, ma anche per migliorare la loro condizione economica…hai presente “Goodbye Deutschland”(Nota: programma stile reality nel quale cittadini/e tedeschi/e vengono seguiti nel cercare fortuna in altri Paesi)? È pieno di tedeschi o cittadini di origine tedesca negli USA, in Australia, in Svizzera, Argentina, Austria, Scandinavia… Perchè loro possono e altri no?  È solo una questione di leggi fatte per soddisfare interessi economici, a rimetterci, a pagare spesso con la vita, sono gli esseri umani meno privilegiati. Quel che accade ora in Siria, Iraq, Afghanistan, è anche colpa delle politiche e degli interessi dei Paesi occidentali.

CTQ: Ma io vedo al tg che quelli che arrivano sono uomini giovani…io non lascerei mai indietro la mia famiglia!

BB: No, non sono solo uomini giovani. Magari lo sono più spesso nel caso degli immigrati “economici”, vengono qui con l’obiettivo di trovare un lavoro e farsi raggiungere in seguito dalla famiglia o spedire i soldi ai familiari nel loro Paese, oppure tornare indietro dopo alcuni anni coi risparmi. Tui che conosci tanti italiani qui in Germania, sai che anche molti di loro hanno fatto così. Ognuno ha una storia diversa alle spalle e ci sono diversi motivi per i quali si emigra da soli, sempre che questo sia il caso. Oltretutto quel che vedi in tivú spesso non è autentico e genuino, ci viene mostrato solo quello che si vuole mostrare. Quello che vorrei farti capire è che se non abbiamo informazioni corrette non possiamo farci un’opinione valida, che poggia su basi reali. E se ci dimentichiamo di essere solidali e umani perdiamo qualità preziose che ci aiutano a costruire una società migliore e a convivere in armonia.

CTQ (Dopo una lunga pausa di silenzio, accompagnata da uno sguardo in parte insicuro, in parte indagatore-così almeno lo interpreto io): Sai una cosa? Dovresti fare il politico! Parli bene e hai un sacco di buone idee!

BB (Risata): A me i politici non piacciono. Hanno già i loro piani, non ascoltano certo quelli come me. Non aspettiamoci nulla da loro, dobbiamo essere noi a fare qualcosa. La risposta che stanno dando alla questione dei richiedenti asilo è parte del problema, non una soluzione.

Dopodiché la conversazione cambia argomento e io mi allontano. Non so se sia riuscito a intaccare i luoghi comuni del mio interlocutore, un cittadino tedesco qualunque con gli stessi dubbi, le stesse insicurezze, le stesse frasi di tanti altri. Di sicuro l’ho lasciato senza argomenti, il che capita spesso a chi discute con me, ma non significa granché: forse il giorno dopo ha avuto una discussione sullo stesso tema e ha ripetuto le stesse cose che aveva detto a me, o forse nel frattempo si è dimenticato addirittura che il nostro colloquio abbia mai avuto luogo. Non l’ho più incontrato finora, perciò non lo posso sapere, ma in fondo non ha importanza. Esporre le mie opinioni, che nel corso del tempo sono cambiate almeno in parte, in modo più o meno netto, è quel che faccio da almeno vent’anni a questa parte, quasi quotidianamente. Quel che mi preme è mostrare un’altra prospettiva, spesso in ombra a causa della cattiva informazione, delle paure ataviche, dell’ignoranza, dell’egemonia ideologica del sistema di dominio imperante; mi interessa mettere in dubbio quel che fino ad un momento prima sembrava essere una certezza, far capire che si deve scavare più a fondo per afferrare la sostanza di quel che accade intorno a noi, per poter mettere in discussione tutto, anche se ciò può spaventarci. Non so se ho mai convinto qualcuno/a, sempre che convincere sia la cosa più importante. Di sicuro so che non smetterò.

 

Germania: NSU, Stato e politiche sull’immigrazione. Un articolo per approfondire.

Il gruppo terroristico tedesco NSU (National-Sozialistischer Untergrund, ovvero “Sottosuolo Nazionalsocialista” o “Clandestinità Nazionalsocialista”), composto da Uwe Böhnhardt, Uwe Mundlos e Beathe Zschäpe, è stato responsabile tra il 1998 e il 2008 di dieci omicidi, tre attentati dinamitardi e numerose rapine. La carriera terroristica del trio è terminata solo con la morte di Böhnhardt e Mundlos, presumibilmente suicidatisi dopo un tentativo fallito di rapina, e col successivo arresto della Zschäpe. È stato allora che l’opinione pubblica è venuta a conoscenza dell’esistenza di questa cellula terroristica neonazista, che è stata capace di uccidere otto persone di origine turca, una di origine greca, una poliziotta tedesca e di compiere attentati e rapine mentre i suoi membri, già noti alle autorità, si muovevano senza temere troppo di essere scoperti e le indagini sugli omicidi e sulle bombe prendevano più che altro di mira le vittime e il loro presunto coinvolgimento in giri malavitosi gestiti da connazionali. Con l’inizio del processo a Beathe Zschäpe è emerso come diversi apparati polizieschi e servizi segreti abbiano insabbiato le indagini, fatto sparire prove, taciuto e coperto gli assassini, mentre ottenevano informazioni da diversi neonazisti in cambio di denaro, a sua volta utilizzato per finanziare le sanguinose attività dell’NSU. Ufficialmente si è parlato di panne, cattivo coordinamento tra le forze di sicurezza e concorrenza tra i diversi reparti, al più di incompetenza individuale. La realtà invece è molto peggiore. Quella che può sembrare una teoria complottista, lo Stato -o alcuni settori che ne fanno parte- che usa gli estremisti di destra come braccio armato illegale per perseguire obiettivi politici e strategici che devono rimanere perlopiù estranei alla conoscenza dell’opinione pubblica, non è una fantasia. Chi pensasse diversamente farebbe bene a ricordare Piazza Fontana, Piazza della Loggia e il treno Italicus in Italia, le rapine e gli attentati del Brabante in Belgio, i colpi di stato in Grecia e Turchia- solo per citare alcuni esempi, i più noti e documentati fra i tanti. Rimane solo da chiedersi cosa ancora non sappiamo riguardo quelle strutture messe in piedi con l’inizio della Guerra Fredda, quanto queste siano ancora funzionanti e quale sia il loro attuale impiego e raggio d’azione al di là dei casi noti.

Nel caso tedesco, il ruolo dello Stato nell’ “affare NSU” èstato trattato approfonditamente in un articolo firmato dal collettivo tedesco Wildcat e ripubblicato in lingua inglese sulla rivista Viewpoint Magazine, del quale trovate qui sotto il link. Pur preferendo la segnalazione e la diffusione di articoli in italiano su questo blog, ritengo l’argomento particolarmente importante e l’articolo altamente informativo e corretto (al di là di qualche dettaglio sul quale dibattere o avere dubbi), quindi invito chiunque non abbia molta dimestichezza con l’inglese ma sia comunque interessato/a a saperne di più a fare uno sforzo nella lettura!

The Deep State: Germany, Immigration, and the National Socialist Underground.

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A Erdogan non piace il diritto di satira.

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È iniziato tutto con una satira del comico Jan Böhmermann sul premier turco Recep Tayyip Erdogan andata in onda sul canale televisivo tedesco ZDF durante il programma “Neo Magazin Royale”, che ha fatto infuriare il governo turco che ha convocato a colloquio addirittura l’ambasciatore tedesco in Turchia. Per spiegare la differenza fra satira e volgare offesa, Böhmermann ha recitato nella puntata successiva della trasmissione una poesia da lui stesso definita diffamatoria, infarcita di insulti personali rivolti direttamente al presidente turco Erdogan, che lo ha denunciato e pretende la sua condanna non solo per diffamazione, ma addirittura per il reato di lesa maestà (ancora previsto dal codice penale tedesco), in quanto offendere il rappresentante di uno Stato è più grave che offendere un comune cittadino. Ora la vicenda si è trasformata in un caso diplomatico che spacca l’opinione pubblica tedesca e crea dissapori all’interno della Grosse Koalition al governo, con la cancelliera Merkel pragmaticamente conscia dell’importanza della Turchia nell’arginare i flussi migratori verso l’Europa che accoglie la richiesta a procedere per vie legali per il capo d’imputazione più grave. Fin qui i fatti esposti stringatamente. Ora una riflessione: partendo dal presupposto che la satira deve sempre e comunque attaccare il potere facendo ridere e al tempo stesso riflettere, Böhmermann ha esagerato? E la sua volgare poesia ( qui il testo, c’è pure la traduzione in francese!) è satira o oltraggio?  Proverò a rispondere…

Böhmermann ha affermato che Erdogan si chiava le capre e opprime le minoranze mentre guarda film pedopornografici. A parte la faccenda delle minoranze, il resto sono pure illazioni. Il passaggio sulla pedopornografia è pura confusione, si riferiva forse alla puntata sul Vaticano, mentre le capre le lascerei stare, meglio non far incazzare i vegani. Ora che Erdogan attacca per l’ennesima volta e così ferocemente la libertà di stampa ha trovato nuovi amici in Europa, se oggi il suo Paese entrasse nell’EU sarebbe in buona compagnia: Salvini, Le Pen, Orbán, AfD- più punti di vista in comune che differenze. E poi in Turchia la tortura non esiste: chissà cosa direbbe Giovanardi di tutti quei drogati anoressici morti in carcere laggiù. Anche la volontà dei curdi viene rispettata: “hai un’ultimo desiderio da esprimere?”. E pensare che ieri erano tutti Charlie Hebdo, si vede che la colpa più grande di Böhmermann è quella di non essere stato ammazzato in redazione da qualche jihadista. Ora il comico tedesco se la fa sotto dalla paura per le possibili conseguenze e non parla: cambierà idea fra un paio di scosse elettriche. I suoi amici raccontano che non ha più sul volto quella sua solita espressione da ebete sorridente, ora sembra solo un ebete preoccupato, mentre il suo avvocato dice che è talmente costernato per l’accaduto da essere gà andato a comprare corda e sapone. D’altra parte Erdogan, mentre sottolinea le libertà garantite in Turchia (“Certo che esiste il diritto di riunione, li raduniamo tutti in quel campo laggiù! E il diritto di parola, naturalmente parlano tutti, basta interrogarli nel modo giusto!”),  vuole la sua testa e esercita pressioni diplomatiche non indifferenti, ha anche assunto un avvocato (Carlo Taormina era già impegnato) che in passato ha difeso un movimento islamico reazionaro, un negazionista dell’olocausto e un complottista di destra: il presidente turco non poteva mancargli alla collezione. Un’altro fatto triste è che tra chi si schiera dalla parte di Böhmermann ci sono anche gli islamofobi di PEGIDA, che evidentemente non hanno mai visto le puntate della trasmissione dedicate a quelli come loro. Beh, non ci resta che aspettare per scoprire chi avrà la meglio, se la libertà di espressione o la ripicca personale del presidente di uno Stato membro della NATO che ha dalla sua parte leggi obsolete ma tuttora valide e che tiene per le palle l’Europa sulla questione del controllo dei flussi migratori…voi che ne dite?

Ecco, forse questa è satira. Fatta da un dilettante, ma almeno non trabocca di offese a sfondo razzista e sessista, è indirizzata nei confronti del potere, fa sorridere ma anche riflettere (almeno spero). D’altra parte sono cittadino di un Paese democratico che vive in un’altro Paese democratico, pertanto, fiducioso nel rispetto dei miei diritti fondamentali tra cui quello di espressione, mi sento di poter concludere affermando che Recep Tayyp Erdogan secondo me è un

“Projekt A”, ovvero l’anarchia che esiste.

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“Projekt A” è un documentario realizzato  nel 2015 dai registi indipendenti tedeschi Moritz Springer e Marcel Seehuber. Il documentario, vincitore del premio del pubblico alla Filmfest München, racconta attraverso un viaggio in giro per l’Europa diverse esperienze anarchiche al di là dei cliché su caos e violenza erroneamente legati al concetto di anarchia. Dall’incontro anarchico internazionale svoltosi nel 2012 a Saint-Imier in Svizzera al movimento anti-nucleare tedesco, passando per il sindacato anarchico spagnolo CNT, il progetto Parko Narvarinou ad Atene e il collettivo Kartoffelkombinat di Monaco di Baviera, il film mostra e spiega esempi pratici di anarchia vissuta, forme di autogestione e creazione di progetti solidali, ecologici e collettivi nonostante e contro il dirigismo statale, le logiche di profitto e sfruttamento e le insanabili contraddizioni che affliggono la società nella quale viviamo. La morale può esser riassunta con uno dei miei slogan preferiti: “L’anarchia è ordine senza dominio“. Projekt A viene attualmente proiettato nelle sale cinematografiche di innumerevoli città tedesche e austriache (qui la lista completa).

Contro il razzismo, il sessismo e tutte le forme di oppressione.

Ogni giorno, in Europa, le donne vengono fatte oggetto di violenze fisiche e psicologiche, partendo dalle battute da ubriachi al bar e finendo con stupri e omicidi. Ma basterebbe dire che ogni giorno, in Europa, le donne vengono fatte oggetto, punto. Oggetti sul mercato del lavoro, tra le mura domestiche, negli spettacolini televisivi per decerebrati, negli spot pubblicitari. Richiami sessuali, carne sul banco della macelleria capitalista, stereotipi, pallide ombre di se stesse e di ciò che potrebbero realmente essere. Eppure non si assite a ondate di indignazione come quella alla quale ci troviamo di fronte dopo gli episodi di violenza collettiva avvenuti a Colonia, in Germania, nella notte di Capodanno, quando numerose donne sono state derubate e molestate sessualmente da gruppi di uomini nei pressi della stazione centrale. La cosa che sembra interessare maggiormente chi discute dell’argomento è l’origine “straniera” di gran parte degli aggressori, una parte dei quali sarebbero addirittura profughi. Dall’indignazione all’isteria collettiva il passo è breve:ancora un passo e siamo alla strumentalizzazione politica. Partiti e movimenti razzisti, insieme ai vertici degli Stati europei che fanno il possibile per accogliere il minor numero di profughi rendendo loro la vita talmente difficile da spingerli ad andarsene senza nemmeno dover fare la fatica di espellerli, parlano di emergenza, “jihad sessuale”, chiudere le frontiere, cacciare i musulmani. Come sempre la strategia del criminalizzare intere categorie di persone in base a singoli episodi funziona, la gente ha paura, le masse sono irrazionali, tanto quelle degli aggressori di Capodanno quanto quelle che vomitano commenti razzisti ad ogni occasione e che scendono per strada in forme organizzate, come Pegida NRW e Ho.Ge.Sa. Con lo slogan “Pegida protegge”, un miscuglio di circa 1700 tra hooligans, neonazisti e razzisti della porta accanto hanno tentato di manifestare a Colonia lo scorso 9 Gennaio. Scrivo “tentato” non perchè il loro corteo sia stato impedito dalla contemporanea mobilitazione antirazzista di 1300 persone nella stessa città, ma perchè, dopo aver come sempre faticato a formare un servizio d’ordine interno al loro corteo composto da persone che non avessero consumato alcool e che non avessero precedenti penali, i razzisti sono stati fermati e riaccompagnati ai loro treni dalla polizia appena hanno iniziato a lanciare contro di essa bottiglie e petardi. Un grande successo, insomma. D’altra parte non ci si poteva aspettare altro da personaggi xenofobi, omofobi e maschilisti che parlano delle “nostre donne da difendere” come se le donne fossero una proprietà, come se le donne non fossero in grado di difendersi non solo fisicamente ma mettendo innanzitutto in discussione i meccanismi di oppressione e dominio sessista ancora vivi nella nostra società, meccanismi che non vengono “da fuori”, ma sono parte integrante della cultura di dominio patriarcale che finora non è certo stata sconfitta, ma ha solo in parte cambiato forma. La strumentalizzazione securitaria delle violenze sulle donne serve solo a rafforzare i meccanismi di controllo e repressione tanto nelle stazioni quanto alle frontiere, la strumentalizzazione razzista delle violenze sulle donne usa la sofferenza di alcune vittime trasformandola in un’arma contro altre vittime: ad esempio, quelle che fuggono dal terrore delle milizie di ISIS/Daesh che hanno fatto del femminicidio e della distruzione di qualsiasi forma seppur minima di emancipazione femminile la propria bandiera. E chi si oppone con maggior fervore alle orde di Daesh, non solo militarmente ma anche progettando concretamente una società liberata dal patriarcato, sono proprio le donne, in Rojava e altrove. Ciò dovrebbbe insegnare qualcosa di fondamentale a noi tutti/e, al di là dell’indiscutibile diritto all’autodifesa: se non si cambia la struttura delle società nelle quali viviamo non si affronta la radice dei problemi che ci affliggono, siano essi razzismo, sessismo, sfruttamento sul lavoro o negazione e repressione dei nostri desideri e delle nostre esistenze. La lotta dei soggetti oppressi è comune, non ha frontiere, sarà sempre in salita, ma è la più degna e necessaria che si possa combattere.

Irie Révoltés.

Non è sempre facile catalogare una band in base al genere musicale, nel caso degli Irie Révoltés è praticamente impossibile. Nato nel 2000 a Heidelberg, in Germania, il gruppo composto da 9 eclettici musicisti propone un mix di hip-hop, reggae, dancehall, musica elettronica, pop, punk e ska con testi politici scritti in tedesco e francese (il padre dei fratelli Charlemoine, entrambe cantanti, è di origine francese). È proprio l’impegno politico, oltre all’originalità musicale, il segno distintivo degli Irie Révoltés, che nel corso degli anni hanno collaborato a numerose campagne sociali, antifasciste, antirazziste e messo in piedi diversi progetti. Notevole è l’iniziativa a sostegno di persone affette da disabilità fisica in Senegal, avviata nel 2004, attraverso la quale vengono inviati nel Paese africano deambulatori, sedie a rotelle e stampelle, così come l’appoggio ad un progetto, sostenuto tra l’altro dalla squadra di calcio FC Sankt Pauli, per l’accesso all’acqua potabile nelle zone più povere del mondo. Nonostante il discreto successo raggiunto negli ultimi anni soprattutto a livello nazionale, i numerosi concerti tenuti anche all’estero e il numero crescente di estimatori, i membri del gruppo rimangono fedeli a se stessi e portano avanti l’obiettivo di sempre: coniugare musica allegra e ricca d’energia con contenuti politici che non rimangono lettera morta ma vengono costantemente tradotti in impegno personale e che sono mirati a suscitare riflessioni che portino gli/le ascoltatori/trici ad agire per cambiare la società.

                                            Antifascista

 [Rit.] Sono nato così, rimarrò così finchè non muoio! Sono nato così: antifascista! Per sempre! Per sempre! Sono nato così, rimarrò così finchè non muoio! Sono nato così: radicale! Radicale! Radi-radicale!

Vedo propaganda nazista, gira ovunque in rete- Si sente a suo agio in parlamento, nelle nuove leggi sull’ingresso [immigrazione]- Nel giro di clienti abituali nei locali, dove si aizza contro l’apparente ondata di stranieri, si sente a casa- È ben piantata nelle menti- Senza intelligenza, con armi e denti affilati- A innumerevoli persone viene data la caccia fino alla loro morte- Punta su razza, condottiero e madrepatria- Quest’ideologia ha fatto a brandelli così tante vite umane.

Mi chiedo come mai così tante persone guardino da un’altra parte- È paura, accettazione o ignoranza?- Io oso, perchè più persone trovano il coraggio di opporsi- più la resistenza è forte [x2]

 [Rit.]

Vogliono diffondere la loro immondezza nel mezzo della società- Con Thor Steinar* si allontanano dallo stile “testa rasata e bomber”- Distribuire cd nei cortili delle scuole, fare a botte negli stadi- Cantautori, rock di destra, ce n’è per tutti i gusti- Ottuse affermazioni di destra si ritrovano in molti partiti- Bruciano le case e idioti gridano “Sieg Heil!”- Qualcuno è scioccato, ma poca gente interviene- Io non starò fermo, io voglio il globo libero dai nazisti.

Mi chiedo come mai così tante persone guardino da un’altra parte- È paura, accettazione o ignoranza?- Io oso, perchè più persone trovano il coraggio di opporsi- più la resistenza è forte [x2]

[Rit.]

Il fascismo è pericoloso- ogno giorno c’è gente che viene uccisa- Il fascismo è maligno- impregna troppe menti [x2]- Quanto a razzismo e xenofobia- qui finisce la mia tolleranza- Nessuna comprensione per questi imbecilli- Non aspetto più, passo all’offensiva- Il mio attacco è potente e dinamico- se necessario mi difendo con calci frontali- Questa è la mia forma di coraggio civile- Resto radicale, resto antifascista.   [Rit.]

(Traduzione mia, blackblogger.  Nota: *Thor Steinar è una marca tedesca di abbigliamento prodotta da neonazisti per neonazisti. L’intera frase si riferisce al cambiamento di look adottato dagli estremisti di destra nel corso degli anni).

Risposte creative alla campagna di reclutamento del Bundeswehr.

“Mach, was wirklich zählt!”, ovvero “Fai ciò che conta veramente!” è il motto di una massiccia campagna pubblicitaria lanciata dall’esercito tedesco (Bundeswehr) dal Novembre scorso per promuovere il reclutamento nelle sue fila. Quando ho visto passando per strada il primo di una lunga serie di manifesti pubblicitari, costati insieme a cartoline, sito web e altri ammennicoli la modica cifra totale di 10,6 milioni di Euro di denaro pubblico, mi sono chiesto subito un paio di cose: quanto fossero idioti i personaggi che hanno scelto gli slogan riportati sui manifesti (“Noi combattiamo anche per far sí che tu sia contro di noi”, “La vera forza non la trovi tra due manubri”, “Credi che sia figo essere soldato/soldatessa?”, eccetera…) , quanto idioti fossimo noi contribuenti nel pagare le tasse che vanno a finanziare certe porcate, ma sopratutto come si potesse rispondere ad una simile oscenità… Non che io non abbia trovato subito un paio di slogan appropriati che sarebbero stati utili per riassumere efficacemente la vera funzione dell’esercito in Germania e altrove, ma non  disponevo a breve termine dei mezzi per poter rispondere in modo esteso ed efficace alla propaganda militarista appena avviata: si fa quel che si può, ma nel mio caso si trattava di troppo poco. Pochi giorni fa sono però venuto a sapere che un pugno di artisti/e e attivisti/e politici/che riuniti/e nel gruppo “Peng-Kollektiv”, con la modica cifra di 100 €, ha messo in ombra, in dubbio e in ridicolo la campagna della Bundeswehr, aprendo un sito con link e grafica simili a quello originale usato per incoraggiare l’arruolamento dove si possono leggere alcune informazioni (verificabili) che ai signori dell’esercito non sarebbe mai passato per la testa di pubblicare, ad esempio il numero di soldati suicidatisi quest’anno o la percentuale di donne che subiscono molestie sessuali nell’esercito. Il sito è diventato in pochi giorni virale e ha dato l’imput sul web ad una serie di osservazioni, commenti e grafiche contro l’iniziativa militarista. Per quanto riguarda invece i manifesti, attivisti/e del collettivo “Abteilung zur sichtbaren und inhaltlichen Verschlimmbesserung unhaltbarer Truppenwerbung (AbtVerschlTruWer)” hanno tappezzato la zona nella quale ha sede il ministero della difesa tedesco con manifesti pubblicitari modificati. Ecco alcune foto dell’adbusting:

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“Bombardare per la pace è come fottere per la verginità”

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“Siamo via: guerra lampo in Siria. Nonno sarebbe stato così orgoglioso.”

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Difendere con la violenza lo sfruttamento. Il vostro esercito”

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“Nessuna idea di niente? Nessun problema! Prendiamo volentieri anche gli stronzi”

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“Anche gli animali combattono per far sì che noi possiamo mangiarli.”

Per completare il quadro segnalo un’altra azione compiuta da ignoti a Berlino, che nella notte del 9 Novembre scorso hanno “ridipinto” la facciata dello showroom dell’esercito tedesco per protestare contro la propaganda per l’arruolamento e contro la “normalizzazione” della guerra.

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