COP23: le proteste intorno alla conferenza internazionale sul clima a Bonn (Germania).

Dal 6 al 17 Novermbre 2017 si terrà a Bonn, ex capitale della Repubblica Federale Tedesca e tuttora città ospitante uffici dell’ONU, una conferenza mondiale sul clima organizzata da quest’ultima. Come si evince dal nome, la conferenza COP23 è la 23ma di questo tipo, i suoi obiettivi non sono dissimili da quelli di analoghe conferenze precedenti e i risultati attesi non sono migliori di quelli già visti in passato. Tanto per sgomberare il campo da equivoci e illusioni, durante il vertice dei G20 ad Amburgo tenutosi nel Luglio scorso, gli Stati partecipanti (responsabili del 75% delle emissioni di CO2 su scala mondiale), riferendosi esplicitamente agli accordi di Parigi, hanno apertamente annunciato di voler combattere i cambiamenti climatici anche attraverso l’uso di energia nucleare, fracking e carburanti fossili “puliti”(!). Se a Kyoto nel 1997 sembrava dura, oggi una possibile gestione responsabile ed efficace della crisi climatica da parte degli Stati responsabili dovrebbe risultare impossibile anche ai più fiduciosi. Rispetto ai fallimenti ed alle illusioni del passato riguardo un possibile salvataggio del pianeta da parte delle istituzioni governative, oggi la situazione appare ancor più chiara, ancor più allarmante: non solo perchè aumenta la diffusione di tesi antiscientifiche che negano un cambiamento climatico provocato dalle attività umane (l’attuale presidente degli USA Donald Trump è uno dei più noti esponenti di questa corrente di pensiero menzognero), ma anche e soprattutto perchè il tempo per invertire la rotta si accorcia drammaticamente ogni giorno che passa. La speranza nel cambiamento non può essere lasciata nelle mani di governi complici degli inquinatori capitalisti che in nome del profitto sono disposti a sacrificare il pianeta e il futuro dell’umanità, ma deve diventare prassi concreta dei soggetti e delle comunità che hanno realmente a cuore la salute, nel presente e nel futuro, delle proprie terre, di chi le abita e delle generazioni a venire.

Tanto le conferenze istituzionali sono inutili, quanto la protesta è necessaria. Necessaria a creare consapevolezza, scambiare idee e progetti da applicare poi concretamente, mostrare che coloro i/le quali si interessano sinceramente al destino del nostro pianeta non accettano le finte soluzioni proposte da chi ci governa e propongono alternative che affrontano alla radice la questione del cambiamento climatico. Non solo è necessario cambiare i nostri stili di vita: finchè non cambierà su scala modiale l’intero sistema di produzione e consumo dei Paesi industrializzati e in via di sviluppo i nostri sforzi idividuali (risparmio energetico domestico, consumo critico, riduzione degli sprechi, mobilità ecosostenibile eccetera) risulteranno vani. Anche fra chi scenderà in piazza a Bonn e altrove  nei giorni del summit COP23 non sempre esiste questa consapevolezza, per questo è necessario e urgente crearla partecipando alle proteste, arricchendole di contenuti e proposte radicalmente critiche . Non per chiedere ai governanti misure drastiche che loro mai applicheranno, ma per convincere chi ancora non l’abbia capito che tali misure dobbiamo trovare noi tutti/e il modo di implementarle, nonostante e contro governi e capitale.

Di seguito una lista di siti web (principalmente in lingua tedesca) che contengono appelli e informazioni sulle mobilitazioni che avranno luogo durante il COP23:

Catalogna: dopo il referendum, lo sciopero generale.

Le immagini della violenza poliziesca scatenata per ordine del governo centrale spagnolo il 1 Ottobre in Catalogna hanno fatto il giro del mondo e non verranno dimenticate facilmente nemmeno dai mandanti dei pestaggi. Mentre più del 42% degli/lle aventi diritto al voto in Catalogna sono riusciti/e a recarsi ai seggi, votando con una maggioranza del 90% a favore dell’indipendenza della regione dal resto della Spagna, altri/e sono stati/e dissuasi/e dal comportamento professionale e adeguato – questa la definizione ufficiale usata dai governanti spagnoli del PPE- della Guardia Civil. Tale professionalissimo e adeguatissimo (ad un regime fascista, s’intende) comportamento ha significato manganellate a raffica e proiettili di gomma su persone disarmate che hanno opposto nella quasi totalità dei casi solo resistenza passiva e ha prodotto quasi 900 feriti. Le reazioni da parte di governi e istituzioni straniere variano dallo sdegno all’imbarazzo (un esempio per quanto riguarda la stampa: il quotidiano conservatore tedesco Die Welt  parla di catalani  bastonati a sangue dalla Guardia Civil di fronte ai seggi elettorali), mentre quelle interne sono sfociate in uno sciopero generale in Catalogna, indetto per il 3 Ottobre, e in manifestazioni di solidarietà nel resto della Spagna e all’estero. Numerose organizzazioni anarchiche e in particolare anarcosindacaliste hanno partecipato attivamente allo sciopero, non in quanto sostenitrici della creazione di uno Stato catalano separato dal resto della Spagna, ma per mostrare la loro avversione nei confronti dell’occupazione e della violenza poliziesca, per riaffermare il diritto all’autodeterminazione, per riportare al centro del discorso la questione di classe, contro lo sfruttamento capitalista e l’oppressione statale, come si legge in un comunicato congiunto firmato da sette organizzazioni di area libertaria. I sindacati maggioritari e concertativi UGT e CCOO, dopo aver rifiutato di aderire allo sciopero, hanno ripiegato su una giornata di protesta simbolica contro la violenza poliziesca.

Gli/le scioperanti hanno bloccato strade e autostrade, paralizzato i trasporti pubblici, incrociato le braccia nelle fabbriche, negli uffici, nelle scuole, nei mercati, nei porti e nei magazzini. Lavoratori/trici, studenti/esse, pensionat/e e disoccupati/e hanno occupato le strade e le piazze, protestando di fronte alle sedi della polizia e del Partito Popolare. Molti negozi sono rimasti chiusi. Proteste anche da parte del personale radio-televisivo in sciopero per la vergognosa manipolazione delle notizie sulla repressione del 1 Ottobre. E non solo in Catalogna si è scioperato,  anche in molte città spagnole hanno avuto luogo manifestazioni e presidi di solidarietà con una forte partecipazione anarchica. Per un resoconto più esteso dello sciopero, delle proteste e delle reazioni, corredato di numerose foto: http://www.alasbarricadas.org/noticias/node/39004

Lunedì il governo regionale catalano potrebbe già proclamare l’indipendenza. Lo sciopero generale del 3 Ottobre ha dimostrato che è possibile andare oltre le semplici rivendicazioni indipendentiste.

Contra tot Estat. Per la llibertat. Per la revolució social!

Contra todo Estado. Por la libertad. ¡Por la revolución social!

Salvini a Napoli. Come ci si comporta coi razzisti.

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A Napoli il messaggio è stato chiaro. Circa 10mila persone hanno pesantemente disturbato il siparietto del babbeo leghista Matteo Salvini, accorso ieri nel capoluogo partenopeo per raccattare consensi tra quella popolazione che lui e il suo partito hanno per decenni diffamato e insultato facendo ricorso ai più vergognosi stereotipi razzisti e antimeridionalisti. Alla fine Matteo il twitterolo, sempre impegnato a scrivere idiozie sui social network invece di andare al lavoro a Bruxelles (città che conosce più per le cartoline che per averla vista dal vivo), è riuscito a presentarsi al Palacongressi napoletano, precedentemente occupato dai/lle contestatori/trici, solo grazie all’ingente schieramento di guardie a sua protezione, esibendosi di fronte a qualche centinaio di personaggi della sua stessa risma. Per le strade si sono verificati scontri, con cariche della polizia, lacrimogeni e alcuni fermati.

C’è chi, di fronte a eventi come questo, afferma che la “violenza” non è mai giustificabile e si appella alla libertà di parola per tutti. “Ma lasciatelo parlare, anche lui ne ha diritto!”, ho sentito ripetere in diverse occasioni, di fronte alle contestazioni espresse ai peggiori personaggi sul mercato del politicume professionista. Io sono innanzitutto per la libertà di pensiero prima che per quella di parola. Ciò significa che, in una società nella quale ognuno sputa fuori senza riflettere le prime assurdità che gli passano per la testa senza minimamente curarsi delle conseguenze, sarebbe necessario riappropriarsi dell’arte del pensiero, per quanto ciò sia faticoso e scoraggi i più. Inoltre, della libertà di parola (senza pensiero) i personaggi in questione fanno quotidianamente ricorso e si avvalgono pure di casse di risonanza non indifferenti, dai TG ai talk show, dai quotidiani ai siti internet a pagamento ai social network. Ne abbiamo quindi abbastanza di sentire ogni giorno opinioni non supportate da argomenti logici, senza un vero contraddittorio, ma soprattutto insulti e malignità contro persone già fin troppo bistrattate da una realtà che le pone ai margini del sistema sociale ed economico e le costringe a condurre esistenze precarie, di sacrifici e sofferenze, mentre il bue che le insulta mangia a sbafo e si circonda di ladri e corrotti dando del cornuto all’asino, invocando ruspe e barconi a ogni pié sospinto, forse senza nemmeno interrogarsi realmente su cosa ciò veramente significhi, con la leggerezza tipica degli stolti. Ma la leggerezza può diventare pesante, e nessuno è tenuto a sopportare in eterno. Il caso di Salvini a Napoli lo dimostra chiaramente.

Sulla riforma del lavoro in Francia.

Il seguente articolo, che analizza la legge sulla riforma del lavoro proposta dall’attuale governo francese e le lotte sociali che ad essa si oppongono, è tratto dal sito di Umanità Nova. Segnalo anche un altro articolo pubblicato su Z-Net Italy, che affronta lo stesso argomento da una prospettiva non anarchica, soffermandosi maggiormente sull’aspetto governativo-istituzionale-parlamentare-partitico. Buona lettura!

” Blocchiamo tutto!

loi_travail-35-2“L’obiettivo è quello di adattarsi ai bisogni delle imprese”
Myriam El- 

Da un’intervista al settimanale Les Echos del 19 febbraio 2016
Chi, in Italia, si prendesse la pena di leggere cosa comporta il disegno di legge proposto da Myriam El Khomri, la giovane (ha solo 38 anni) ministra del Lavoro, che presentandolo si è conquistato un ruolo nella storia nazionale della , farebbe una scoperta a ben vedere nemmeno troppo sorprendente: fatto salvo che i nostri fratelli d’oltralpe non chiamerebbero mai una legge con termini inglesi, è assolutamente simile all’italianissimo Jobs Act.
Le questioni che vengono affrontate con toni, per la verità, non dissimili da quelli ai quali ci ha abituato l’attuale governo, sono infatti:

Possibilità per gli accordi aziendali di andare in deroga ai contratti di categoria e allo stesso codice del lavoro. Un apologeta ingenuo, o sedicente tale, della democrazia diretta e del federalismo radicale potrebbe far rilevare che si deve lasciare ai lavoratori ed alle lavoratrici la possibilità di peggiorare liberamente le proprie condizioni di vita e di lavoro. Noi che siamo di animo cattivo, siamo portati a ritenere che una liberalizzazione del genere in un contesto capitalistico non possa che produrre una esasperazione ulteriore della concorrenza fra gruppi di lavoratori sottoposti, a livello nazionale e internazionale, alla pressione della minaccia delle delocalizzazioni se non della chiusura dell’azienda.

Maggiore possibilità di licenziare, sia per ragioni “economiche”, sia per ragioni disciplinari; indebolimento del ruolo della magistratura del lavoro che ha in Francia caratteristiche specifiche assai diverse da quella italiana, visto che si tratta di giudizi eletti dai lavoratori e dalle imprese; riduzione secca delle cifre che si possono percepire nel caso di licenziamenti ingiustificati.
Taglio rilevante del sussidio di disoccupazione che andrebbe a colpire sia la massa crescente dei lavoratori precari, che piombano regolarmente nella condizione di disoccupato, che i lavoratori a tempo indeterminato più facilmente licenziabili. Insomma si riducono contemporaneamente i diritti dei lavoratori e quelli dei disoccupati.
Estensione della giornata lavorativa e taglio degli straordinari. L’ipotesi contenuta nella legge è di rendere possibili giornate di 12 ore lavorative (ora il tetto è di 10), di permettere che le settimane lavorative di 46 ore in un anno possano essere 16 e non più 12, di tagliare lo straordinario retribuito non con un 25%, come nella precedente legislazione, ma con un 10% in più. Un’ipotesi devastante soprattutto nel settore della grande distribuzione come ben sappiamo in Italia.

Va detto però che, se le riforme del diritto del lavoro italiana e francese sono, per ovvie ragioni, simili, la reazione delle lavoratrici e dei lavoratori hanno avuto caratteristiche tanto diverse che, probabilmente (purtroppo) esagerando, vi è stato chi ha parlato di un nuovo maggio francese.
Anche una valutazione più prudente non può tuttavia sottovalutare il fatto che, da più di un mese, la Francia vede un susseguirsi di scioperi e manifestazioni, una dialettica sindacale vivace come non si vedeva da anni, e la discesa in campo di parti del mondo intellettuale, e che ciò avviene contro un governo di sinistra e, per la verità, più di sinistra – ammesso che il termine abbia ancora un senso preciso – di quello italiano.
Non si tratta di esultare per l’ennesima riprova dell’impotenza del riformismo, sappiamo bene che i fallimenti del Partito Socialista Europeo nel suo pretendersi altro rispetto alla destra non aprono meccanicamente la strada ad ipotesi e pratiche sovversive, ma di prendere atto del fatto che, piaccia o meno, sul terreno della politica intesa come attività separata e professionale, non vi sono spazi degni di nota per scelte diverse rispetto a quelle dettate dagli interessi delle effettive élites del potere.
Una giovane ministra, una ministra socialista che potrebbe essere guardata con istintiva simpatia da chi si batte contro le discriminazioni su base sessuale ed etnica, propone una legge che devasta il diritto del lavoro, che apre lo spazio al pieno dispiegarsi, mi si consenta il gioco di parole, del dispotismo aziendale, e non lo fa perché “tradisca” qualcosa o qualcuno ma perché il ruolo assegnatole è quello ed a lei, come ai suoi sodali, sta solo applicare quanto viene deciso altrove.

D’altro canto, sul terreno della soggettività, la situazione libera energie ed apre percorsi. Riporto parte di un documento interessante, l’appello “Blocchiamo tutto!”, firmato da oltre 500 militanti sindacali che vanno dai maggioritari ed istituzionali CGT, Force Oubriere, FSU a sindacati di opposizione come SUD e CNT:

“Il disegno di legge El Khomri è un insulto al mondo del lavoro. Raramente l’attacco è stato altrettanto pesante. Con l’inversione della gerarchia delle norme che permette agli accordi locali o aziendali al ribasso, ottenuti sotto ricatto, di sostituirsi agli accordi nazionali di categoria; lanciando l’offensiva contro lo strumento sindacale, tramite la promozione di referendum-bidone nelle singole imprese; organizzando e generalizzando la precarietà, la flessibilità e facilitando i licenziamenti, è una degradazione ulteriore del tempo e delle condizioni di lavoro di milioni di salariati quello a cui il Governo si sta preparando attivamente […]
La riduzione dell’orario di lavoro a 32 ore settimanali, senza riduzioni salariali, senza flessibilità, senza sconti o prese in giro, come sono effettivamente state in molti settori le “35 ore-Aubry”: ecco per esempio cosa è prioritario fare per contrastare il deterioramento delle condizioni di lavoro e imporre la creazione di veri posti di lavoro.

È insieme che andiamo alla lotta, è insieme che vinceremo!”

La richiesta delle 32 ore senza caratteristiche negative delle 35 ore concesse anni addietro per addomesticare l’opposizione sociale, quali la flessibilità e le deroghe, non è, di per sé, “rivoluzionaria”, ma pone al centro dell’agenda politico sindacale, contemporaneamente, la necessità di andare all’attacco e quella di una proposta capace di tenere assieme il mondo del lavoro salariato.
Soprattutto siamo di fronte ad un percorso unitario, non prodotto da alchimie organizzative, da trattative fra gruppi dirigenti, da operazioni di partito o, almeno, non principalmente da dinamiche di questa natura, ma dallo sviluppo del conflitto di classe.
La stessa considerazione, e ciò ha un valore ancora maggiore, va fatta sulla presenza massiccia, nella mobilitazione, di lavoratori e studenti di origine magrebina o dell’africa sub sahariana, in un paese segnato drammaticamente dal terrorismo Jihadista, da derive securitarie, da una tradizione nazionalista insopportabile.
C’è, in altre parole, da prendere atto del fatto che quando si verifica una mobilitazione con piattaforme chiare, sia in negativo (NO alla “riforma” del lavoro), sia in positivo, in quanto ricca di potenzialità sui temi dell’orario e dell’organizzazione del lavoro, sul salario, e sui diritti, la partita capitale-lavoro risulta oggi pienamente aperta, non nelle periferie del sistema mondo, ma in una nazione di medio rilievo situata nel cuore della fortezza Europa come la Francia.
La Francia gioca, insomma, oggi, un ruolo centrale, già immaginato da un famoso letterato tedesco dell’800 che ebbe ad affermare con tono oracolare:

“La filosofia non può realizzarsi senza l’eliminazione del proletariato, il proletariato non può realizzarsi senza la realizzazione della filosofia. Quando tutte le condizioni interne saranno adempiute, il giorno della ‘resurrezione tedesca’ sarà annunziato dal ‘canto del gallo francese’”

In ogni caso, il ‘canto del gallo francese’ andrà ascoltato con grande attenzione anche da questa parte delle Alpi oltre che al di là del Reno.

Sulle rivolte in Bulgaria.

Fonte: Infoaut.

” Rivolta in Bulgaria: la seconda ondata supera i 40 giorni.

Termometro sociale rovente in Bulgaria

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Aggiornamento: nella notte in migliaia hanno impedito ai parlamentari di poter andare via dall’edificio, respingendo alcuni tentativi di forzare i blocchi. Anche il bus del premier, scortato da un grosso schieramento di celere è stato bloccato dai manifestanti mentre tentava di imboccare una via secondaria.
Fatti indietreggiare da ripetute cariche della celere, i manifestanti hanno cominciato ad ergere barricate tutto intorno al Parlamento.

Guarda il video dell’inizio dell’assedio al Parlamento.

Le proteste bulgare contro i monopoli energetici e non, sono partite con manifestazioni di massa contro l’aumento delle tariffe di luce e gas, la prima a Blagovevgrad il 28 gennaio. La rivolta si estese a macchia d’olio in 30 città e il governo di Boiko Borisov rassegnò le dimissioni il 20 Febbraio.

Originato dalla rabbia per il dissennato aumento dei costi dell’energia, il movimento popolare di massa ha presto esteso la sua radicalità critica indirizzandola contro il sistema dei partiti. Non sono mancati casi eclatanti di nichilismo, con sette immolazioni pubbliche, ma anche tanta freschezza, e un fortissimo sentimento di ripudio delle lobbies politiche che ha portato anche a numerose forme di protesta inaspettate e totalmente auto-organizzate.

La concatenazione dei meccanismi decennali di svendita delle risorse energetiche a grosse compagnie monopolistiche estere, la vendita a queste delle stesse infrastrutture statali, e lo svuotamento delle Commissioni addette all’Osservazione del comportamento delle multinazionali in questione, si è condensata con tutte le sue profonde ambiguità nel momento in cui l’inflazione ha fatto schizzare i prezzi degli stock energetici, sia per l’uso domestico che per quanto riguardava l’approvvigionamento industriale. In un paese dove il salario medio si trova al di sotto dei 400 euro mensili, e il costo dei beni primari è elevatissimo, proporzionalmente agli altri paesi dell’Unione Europea, la maggior parte dei nuclei familiari si è trovata negli ultimi anni a dilapidare le proprie entrate economiche solamente per coprire le spese essenziali. L’aumento folle di luce e gas è stato dunque il detonatore di una situazione già di per sé difficilmente sostenibile, dove i giochi di corruzione e speculazione della classe politica neoliberista hanno fatto il bello (per loro) e il cattivo tempo (per tutti gli altri). Da questo punto di vista la Bulgaria incarna esemplarmente, a pochi passi dai colossi socialdemocratici europei, la dicotomia sociale 1 vs 99%.

In questo clima, la prima ondata di proteste è stata a dir poco travolgente, portando addirittura i manifestanti a bruciare i propri soldi e ad assaltare varie vetture utilitarie di rappresentanti delle compagnie energetiche. Il 13 febbraio il ministro dell’economia è stato inseguito e bersagliato a palle di neve. Da lì a poco la rivolta si è fatta dilagante, con blocchi congiunti delle principali arterie di comunicazione, scontri nelle vicinanze delle sedi delle principali compagnie energetiche e dei palazzi ministeriali, oggetto di bottigliate e lanci di pietre per diversi giorni. Il 18 e il 19 febbraio sono stati i giorni più intensi, con blindati dalle fiamme, e feriti tra le fila dei manifestanti come tra quelle della Gendarmeria (la polizia bulgara). Un clima di sommossa generalizzata pressoché ingovernabile si è registrato a Varna, la città più popolosa del Mar Nero.

Dopo le dimissioni governative, il movimento ha proseguito il suo processo di radicalizzazione ,con l’espulsione di membri filo-partitici dalle assemblee autoconvocate, e il travalicamento dei confini nazionali con presidi e manifestazioni in consolati e ambasciate di molti paesi europei. Le proteste di massa sono fisiologicamente diminuite, dopo un mese pressoché ininterrotto.

Marzo e Aprile hanno visto un governo provvisorio che si è impegnato a revocare la licenza della principale compagnia monopolistica operante sul territorio, la ceca CEZ; il vento bulgaro ha spirato sino alla non lontana Slovenia, laddove per motivi congiunturalmente simili si è arrivati a far capitolare un governo praticamente negli stessi mesi, e in Estonia, dove alla fine di Febbraio si sono registrate manifestazioni contro il caro-elettricità

bulgaria_4_luglio_2013A Maggio le elezioni hanno realizzato percentuali..bulgare di astensionismo. A giovarne il partito Socialista che è sensibilmente cresciuto in percentuale di votanti e seggi parlamentari. I manifestanti dell’inverno appena alle spalle di certo non si sono aspettati sostanziali cambiamenti dall’alto, tant’è che quasi in concomitanza con la rivolta che infiammava attorno a Piazza Taksim ad Istanbul, il vento della protesta a ripreso a soffiare come e più di prima, giungendo alle oltre cinque settimane odierne, culminate giovedì scorso con la paralisi del traffico al grido di “mafia” e “dimissioni”, e invocando lo scioglimento delle camere e nuove elezioni; la polizia si è schierata a protezione del Parlamento, circondandolo con grosse transenne ferrate e il clima non si è di certo raffreddato in questo fine settimana: in migliaia sotto il Parlamento contro il neo-governo Oresharski, ma più in concreto conto la corruzione endemica a questo esecutivo come a quello precedente di Borisov.

Non a caso il focolaio di rabbia e protesta si è ravvivato il 14 Giugno non appena l’ambiguo magnate mediatico Delyan Peevski è stato nominato capo della Pubblica Sicurezza. La nomina è stata subito revocata, ma le proteste si sono allargate puntando il dito contro la corruzione del Governo in carica da poco più di due mesi.

Un vero e proprio “Qué se vayan todos!” di lunga durata si agita nel piccolo paese dei Balcani orientali. “

Argentina: crisi economica, lotte ed esperienze di autogestione.

Tre documentari sulla crisi economica che colpì l’Argentina alla fine degli anni ’90 del secolo scorso e sulle lotte dei ceti sociali vittime di tale crisi.

Diario del saccheggio, di Fernando E. Solanas, 2005. Narra le vicende della crisi economica in Argentina fino al Dicembre del 2001, data della caduta del governo di De La Rùa. Un vero e proprio atto di accusa nei confronti del genocidio sociale compiuto da politici, banche e multinazionali, supportato da una mole di informazioni rese però accessibili da un montaggio efficace e da una narrazione semplice e diretta. E, a proposito di “diretta”, a molti sembrerà di viverci dentro, a questo film: le analogie con molti aspetti  dell’attuale situazione italiana si sprecano.

La dignità degli ultimi, di Fernando E. Solanas, 2005. La prosecuzione ideale del documentario precedente (stavolta l’arco di tempo è dal 2001 al 2004), incentrato però maggiormente su storie personali di uomini e donne che hanno deciso di unirsi e resistere alla miseria, ai soprusi ed all’ingiustizia del potere. Toccante ma non stucchevole, a tratti poetico: le storie raccolte da Solanas hanno molto da insegnare e ridanno significato pieno a termini troppo spesso abusati e svuotati quali solidarietà, dignità, umanità e coraggio.

The Take- La Presa, di Avi Lewis (sceneggiatura di Naomi Klein), 2004. Il documentario è incentrato sull’occupazione delle fabbriche dismesse compiuta degli/lle ex operai/e rimasti disoccupati in seguito alla crisi economica ed alla fuga dei padroni. Estremamente formativo: quello che gli anarchici vanno ripetendo da sempre viene messo in pratica negli anni della crisi in Argentina da persone spinte dalla necessità e prive di preparazione teorica, che mettono in pratica principi quali autogestione, azione diretta, democrazia di base, mutuo appoggio, nonostante le difficoltà quotidiane e la reazione del capitale e dei suoi sgherri.

Minatori Carbosulcis in lotta, barricati sottoterra e “pronti a tutto”.

Il 26 Agosto è iniziata la protesta estrema dei minatori sardi della Carbosulcis che, a fine turno lavorativo, hanno occupato la miniera di Nuraxi Figus nel territorio di Gonnesa, Sulcis-Iglesiente. Alcuni minatori si sono barricati a 400 metri di profondità e minacciano di far saltare la miniera con l’esplosivo in loro possesso (400 kg secondo quanto riportato dal quotidiano “La Nuova Sardegna”, 690 kg secondo TMnews, mentre stando a quanto affermato dalle forze dell’ordine i minatori non avrebbero con sé esplosivo) se questa venisse chiusa, condannandoli ad un futuro di disoccupazione. Intanto, per tenere in vita la miniera, proseguono la produzione di carbone. I  minatori chiedono che il governo italiano sblocchi il progetto di rilancio per la miniera che darebbe la possibilità di estrarre e immagazzinare il Co2 nel sottosuolo producendo così energia “pulita”, utilizzando sia il carbone estratto sia l’energia che verrebbe venduta a prezzi convenienti alle industrie del polo di Portovesme, tra cui l’Alcoa minacciata a sua volta di chiusura. Ció richiederebbe l’investimento di circa 200 milioni di € all’anno per 8 anni, ma creerebbe anche 1500 nuovi posti di lavoro. Se ciò non dovesse avvenire, i 463 lavoratori attualmente impiegati nella miniera rimarrebbero disoccupati a partire dal Gennaio 2013. Per evitare quest’ultima possibilità i minatori si dicono pronti a tutto, anche a gesti estremi.

Intanto a Cagliari anche gli operai dell’ Alcoa sono tornati a protestare contro il possibile licenziamento di un totale di 800 lavoratori/trici a causa della fine della produzione di alluminio in Italia da parte della multinazionale americana: hanno occupato una banchina del porto, bloccato una nave e sono stati caricati dalla polizia. Il loro futuro occupazionale verrà deciso il 3 Settembre.

Azioni di protesta in Polonia durante l’apertura di EURO 2012.

“L’8 Giugno si é aperto a Varsavia il campionato europeo di calcio. La città era piena di polizia, militari e tifosi. Il sindacato anarchico polacco ZSP-IAA e il comitato di difesa degli/lle inquilini/e hanno organizzato proteste contro la politica dell’evento. L’azione ha avuto luogo nei pressi dello stadio, in modo che migliaia di persone potessero prenderne atto. Abbiamo parlato del denaro speso per gli europei di calcio e del fatto che dell’evento profittano solo la UEFA (che é stata esentata dal pagamento delle tasse) e un pugno di inprenditori. Circa 26 miliardi di Euro sono stati spesi dallo Stato per l’evento – denaro che proviene dalle tasche dei lavoratori e delle lavoratrici. Mentre la Polonia spende somme impressionanti per i giochi, i bambini soffrono la fame, le caffetterie delle scuole vengono privatizzate, i servizi sociali decurtati e i prezzi delle merci aumentati.

Un nostro compagno della ZSP ha anche ricordato nel suo intervento che un’impresa che ha costruito lo Stadio Nazionale di Varsavia ha dichiarato bancarotta a inizio settimana a causa del mancato ricevimento di pagamenti. Ciò significa che una quantità di ditte subappaltatrici e di dipendenti non hanno ricevuto le loro paghe. Questi hanno minacciato di bloccare il campionato europeo, ma non l’hanno fatto. I lavoratori e le lavoratrici impiegati nello stadio sono stati anch’essi truffati, poichè riceveranno paghe inferiori a quelle promesse. Anche loro hanno minacciato uno sciopero, senza però attuarlo. Questa situazione, nella quale le masse lavoratrici disorganizzate vengono sconfitte dal disfattismo in un Paese dove i sindacati sono concilianti con i nemici della classe lavoratrice, crea sempre più numerosi problemi sociali. I manifestanti invitano all’autoorganizzazione per potersi difendere contro questi abusi.

Una ghigliottina (Finta!,ndt) é stata esposta dai dimostranti, che hanno spiegato che, se la classe politica continuerà a tagliare la spesa sociale, saranno le teste dei politici a dover essere tagliate. Dopo la manifestazione alcuni compagni si sono recati nei pressi della stazione di polizia per protestare contro l’arresto di attiviste di Femen che avevano inscenato altre azioni di protesta allo stadio.”

Qui l’ articolo originale in inglese e qui la versione in tedesco. Traduzione in italiano mia (blackblogger).

Proteste studentesche di massa in Quebec.

È ormai dallo scorso Febbraio che circa 160mila studenti e studentesse protestano nella provincia canadese del Quebec contro l’aumento dellle tasse universitarie proposto dal premier Jean Charest, boicottando le lezioni e inscenando manifestazioni che hanno assunto in parte carattere violento anche a causa della scarsa volontá di aprire trattative sulla sostanza e non sulla forma degli aumenti delle tasse da parte del premier, impegnato a raccogliere consensi in vista della prossima tornata elettorale. Le proteste non si limitano però al tema delle tasse universitarie, ma hanno piuttosto assunto un carattere di contestazione generale nei confronti del governo della regione, soprattutto contro il cosiddetto Plan Nord che prevede ingenti investimenti per lo sviluppo del settore energetico e minerario in un’area di 1,2 milioni di km quadrati nel nord della provincia. Il piano, che promette la creazione di mezzo milione di posti di lavoro, non tiene conto della sostenibilità ambientale, è una potenziale svendita delle risorse del Quebec ed é fonte di corruzione per politici che promettono a potenziali investitori di lucrare sul progetto in cambio di “favori”, come recentemente è saltato fuori da uno scoop giornalistico dell’emittente in lingua francese CBC. Un’altro tema di contestazione è la legge discriminatoria proposta dal ministro federale dell’immigrazione Kenney, che limita l’accesso alla regione per chi non parla inglese o francese. Sia Charest che Kenney sono stati contestati da alcuni studenti mentre tenevano discorsi a porte chiuse sulle proposte in questione, mentre per le strade, oltre alle proteste in forma pacifica, avvenivano scontri tra alcuni studenti e la polizia in assetto antisommossa pronta a usare manganelli, spray al pepe e perfino pallottole di gomma contro il dissenso. Dal canto loro gli studenti hanno reagito con lanci di pietre ed altri oggetti, barricate e con azioni dirette contro veicoli della polizia e simboli del governo e del potere capitalista.

Quebec protests reach rowdy new level (with updates)

Per un report più completo in lingua inglese consiglio di visitare il relativo articolo su Libcom, che contiene aggiornamenti continui nello spazio riservato ai commenti così come numerose foto e video delle proteste.