Dialogo con un cittadino tedesco qualunque su richiedenti asilo e immigrazione.

Solitamente non sono il primo a iniziare certi discorsi, ma per un motivo o per un altro mi capita di frequente di parlare di argomenti politici e sociali col mio prossimo. Una conversazione fra le tante è quella svoltasi un mese fa circa con un tizio che conosco di vista, una persona “del posto”, quindi tedesco (di nascita e di origine, anche se non ho a disposizione un’albero genealogico che mi dica da dove discendono i suoi antenati, hahaha!) , tra i cinquanta e i sessanta, di professione tassista, definibile in modo molto approssimativo come il classico cittadino tedesco qualunque. Non ricordo come si sia iniziato a parlare di immigrazione, richiedenti asilo e profughi, quel che ricordo lo riporto di seguito, non alla lettera, ma con la volontà di non omettere o modificare nulla -memoria permettendo. Il mio interlocutore è contrassegnato dall’abbreviazione CTQ, cittadino tedesco qualunque, io sono BB, Blackblogger.

CTQ: Mia figlia lavora per un’impresa di pulizie ed è stata incaricata di pulire un centro di accoglienza per richiedenti asilo. Quando lei e le colleghe hanno visto in che condizioni era il posto si sono rifiutate, hanno detto “un conto è pulire, ma spalare via l’immondezza è un’altra cosa!”. Questa gente vive così, ma non gliene frega nulla?

BB: A nessuno piace vivere in mezzo allo sporco. Gli immigrati che da alcuni anni a questa parte arrivano qui in Germania vengono accolti in strutture organizzate in fretta e furia, a volte decenti ma più spesso inadeguate o addirittura pessime. Ho parlato con un paio di persone che lavorano tra il personale addetto alla gestione delle strutture. Mi hanno raccontato di come queste strutture siano carenti, di come a ogni persona costretta a stare là dentro venga dato un tot di cibo, di carta igienica, di shampoo al giorno. Ci sono persone che hanno subíto traumi di natura psicologica, altre che hanno bisogno di cure mediche, molti di loro hanno lasciato amici e familiari nel Paese d’origine, tutti si chiedono quale sia il proprio futuro, ma devono stare tutto il giorno lì senza far nulla con persone che non conoscono e che spesso non parlano la loro lingua, non possono lavorare anche se vorrebbero, devono solo star calme e aspettare. Solo che stare calmi in situazioni del genere è difficile. Io mi stuferei presto…

CTQ: Eh, ma non possiamo mica accoglierli tutti! Vogliono venire tutti in Germania, stanno venendo tutti qui, ma come facciamo?

BB: Interessante, a sentire molti italiani sembra che tutti gli immigrati arrivino in Italia e ci rimangano! Eppure sono i primi a sentire gli effetti della crisi economica: tra il 2008 e il 2012 un milione di stranieri ha lasciato l’Italia (nota: dati riportati da Horaczek/Wiese, “Gegen Vorurteile”, 2015, pag. 27). Pensaci un attimo: la Germania è oggi uno degli Stati più ricchi al mondo. Dopo la Seconda Guerra Mondiale la Germania accolse 10 milioni di profughi (nota: in realtà furono circa 12 milioni!), cacciati dai territori occupati sotto il nazismo. Un Paese devastato dalle bombe, dalla guerra, hai presente le foto di Colonia nel ’45?, che accoglie tutta quella gente. E oggi, con tutti i mezzi a disposizione? Che scusa vogliamo togliere fuori? Certo, non è solo una faccenda tedesca. Si parla tanto di quest’ Europa solidale, ma vediamo che Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e altri Paesi, non solo dell’Est, luoghi di emigrazione per eccellenza, rifiutano di accogliere gli immigrati…sembra che si ricordino che esiste l’Unione Europea solo quando c’è da chiedere qualcosa. Ognuno dovrebbe fare la sua parte, per me è una questione di umanità e di solidarietà.

CTQ: Però io li vedo, molti di loro hanno lo smartphone e non arrivano qui vestiti di stracci. Non sono certo tutti poveri.

BB: Chi fugge dalle zone di guerra non è sempre povero, le bombe non guardano in faccia nessuno. Il fatto che una persona non sia povera non significa che non meriti accoglienza di fronte alle catastrofi. E poi, avere uno smartphone non è segno di ricchezza oggigiorno,alcuni modelli costano un centinaio di Euro… Cos’è, non dirmi che non conosci gente qui che compra cose che non gli servono urgentemente e che non può permettersi, a rate, indebitandosi!

CTQ: Sì, in effetti…

BB: Ci sono anche immigrati che vengono qui perchè a casa loro non hanno un lavoro, né prospettive di trovarne uno decente e non hanno prospettive di ottenere il diritto di asilo. Io penso che tutti abbiano il diritto a rimanere. Anche io se vogliamo posso definirmi un Wirtschaftsflüchtling, sono andato via dal mio Paese per via della disoccupazione e delle condizioni di lavoro che sapevo essere peggiori che qui, solo che io in quanto cittadino di uno Stato dell’UE sono privilegiato rispetto ad un cittadino kosovaro o nordafricano, nessuno mi caccia via di qua, ma non perchè sono migliore degli altri, solo perchè ho un passaporto “fortunato”. Non penso di meritare accoglienza più di chiunque altro solo perchè sono italiano!

CTQ: Gli italiani qui però sono venuti per lavorare, personalmente non ho mai avuto problemi con loro. Ne conosco tanti, lo sai.

BB: Sono venuti qui come gastarbeitern, per lavorare, come i portoghesi, i turchi, i greci e tutti gli altri, grazie a convenzioni con i rispettivi Stati di provenienza, perchè faceva comodo all’economia tedesca. Serviva manodopera. Il benessere economico di questo Paese è stato raggiunto anche grazie allo sfruttamento di quegli immigrati, che oltretutto erano spesso vittime di pregiudizi e discriminazioni da parte di istituzioni e popolazione locale, non dimentichiamolo. I tedeschi vanno in giro per il mondo, non solo in vacanza, ma a studiare o a trascorrere la vecchiaia, ma anche per migliorare la loro condizione economica…hai presente “Goodbye Deutschland”(Nota: programma stile reality nel quale cittadini/e tedeschi/e vengono seguiti nel cercare fortuna in altri Paesi)? È pieno di tedeschi o cittadini di origine tedesca negli USA, in Australia, in Svizzera, Argentina, Austria, Scandinavia… Perchè loro possono e altri no?  È solo una questione di leggi fatte per soddisfare interessi economici, a rimetterci, a pagare spesso con la vita, sono gli esseri umani meno privilegiati. Quel che accade ora in Siria, Iraq, Afghanistan, è anche colpa delle politiche e degli interessi dei Paesi occidentali.

CTQ: Ma io vedo al tg che quelli che arrivano sono uomini giovani…io non lascerei mai indietro la mia famiglia!

BB: No, non sono solo uomini giovani. Magari lo sono più spesso nel caso degli immigrati “economici”, vengono qui con l’obiettivo di trovare un lavoro e farsi raggiungere in seguito dalla famiglia o spedire i soldi ai familiari nel loro Paese, oppure tornare indietro dopo alcuni anni coi risparmi. Tui che conosci tanti italiani qui in Germania, sai che anche molti di loro hanno fatto così. Ognuno ha una storia diversa alle spalle e ci sono diversi motivi per i quali si emigra da soli, sempre che questo sia il caso. Oltretutto quel che vedi in tivú spesso non è autentico e genuino, ci viene mostrato solo quello che si vuole mostrare. Quello che vorrei farti capire è che se non abbiamo informazioni corrette non possiamo farci un’opinione valida, che poggia su basi reali. E se ci dimentichiamo di essere solidali e umani perdiamo qualità preziose che ci aiutano a costruire una società migliore e a convivere in armonia.

CTQ (Dopo una lunga pausa di silenzio, accompagnata da uno sguardo in parte insicuro, in parte indagatore-così almeno lo interpreto io): Sai una cosa? Dovresti fare il politico! Parli bene e hai un sacco di buone idee!

BB (Risata): A me i politici non piacciono. Hanno già i loro piani, non ascoltano certo quelli come me. Non aspettiamoci nulla da loro, dobbiamo essere noi a fare qualcosa. La risposta che stanno dando alla questione dei richiedenti asilo è parte del problema, non una soluzione.

Dopodiché la conversazione cambia argomento e io mi allontano. Non so se sia riuscito a intaccare i luoghi comuni del mio interlocutore, un cittadino tedesco qualunque con gli stessi dubbi, le stesse insicurezze, le stesse frasi di tanti altri. Di sicuro l’ho lasciato senza argomenti, il che capita spesso a chi discute con me, ma non significa granché: forse il giorno dopo ha avuto una discussione sullo stesso tema e ha ripetuto le stesse cose che aveva detto a me, o forse nel frattempo si è dimenticato addirittura che il nostro colloquio abbia mai avuto luogo. Non l’ho più incontrato finora, perciò non lo posso sapere, ma in fondo non ha importanza. Esporre le mie opinioni, che nel corso del tempo sono cambiate almeno in parte, in modo più o meno netto, è quel che faccio da almeno vent’anni a questa parte, quasi quotidianamente. Quel che mi preme è mostrare un’altra prospettiva, spesso in ombra a causa della cattiva informazione, delle paure ataviche, dell’ignoranza, dell’egemonia ideologica del sistema di dominio imperante; mi interessa mettere in dubbio quel che fino ad un momento prima sembrava essere una certezza, far capire che si deve scavare più a fondo per afferrare la sostanza di quel che accade intorno a noi, per poter mettere in discussione tutto, anche se ciò può spaventarci. Non so se ho mai convinto qualcuno/a, sempre che convincere sia la cosa più importante. Di sicuro so che non smetterò.

 

Andrés Ruggeri, “Le fabbriche recuperate”.

Cover

Andrés Ruggeri, “Le fabbriche recuperate. Dalla Zanon alla RiMaflow. Un’esperienza concreta contro la crisi”, edizioni Alegre, 2014, ISBN 978-88-98841-07-3

Andrés Ruggeri, antropologo presso la facoltà di Lettere e filosofia di Buenos Aires, analizza in questo libro il fenomeno delle imprese recuperate dai/lle lavoratori/trici in Argentina, principalmente a partire dalla crisi economica del 2001 fino ad un paio di anni fa. Abbandonate dai padroni, occupate e rimesse in funzione dai/lle lavoratori/trici in un contesto spesso difficilissimo, le cosiddette fabbriche recuperate in Argentina sono più di 300 e consentono di lavorare a più di 15mila persone: una goccia nel mare dell’economia nazionale, forse, ma secondo l’autore di questo libro un esempio concreto e funzionante di come democrazia di base, mutuo appoggio, autogestione e soddisfacimento dei propri bisogni possano affermarsi anche nei momenti più difficili, in controtendenza rispetto al paradigma capitalista fondato su accumulo del capitale, massimizzazione dei profitti, sfruttamento, precarizzazione, predazione delle risorse e autoritarismo. Ne “Le fabbriche recuperate” vengono analizzati diversi elementi fondamentali, utili a comprendere il fenomeno in questione. Viene illustrato il contesto socio-economico nel quale nascono queste imprese, la loro tipologia, il loro sviluppo negli anni, il ruolo dei sindacati e dei diversi movimenti di lotta ma anche il rapporto spesso difficile o addirittura conflittuale con le istituzioni locali e nazionali, le strategie dei/lle lavoratori/trici e i loro obiettivi, la struttura e l’economia interna delle aziende recuperate ed il loro rapporto con il mercato, il ruolo delle tecnologie. Il tutto senza imbellettare la realtà e senza risparmiare critiche, parlando chiaramente di limiti ed errori, ma sempre sottolineando la genuinità, l’importanza e le potenzialità insite nell’autogestione operaia. Chi peró fosse interessato/a a conoscere meglio le esperienze di autogestione lavorativa in altri Paesi, ad esempio in Italia, dovrà procurarsi altri testi: nel titolo italiano del libro si cita infatti la fabbrica recuperata milanese RiMaflow, ma il libro in questione si concentra quasi esclusivamente sulla realtà argentina. Il che, secondo me, non è un limite e serve anche ad evitare che i contenuti risultino troppo dispersivi, mentre l’analisi di Ruggeri si presenta centrata e sintetica pur offrendo al tempo stesso un quadro generale di solide basi sulle imprese recuperate nel suo Paese e sul movimento, le idee e le forze che hanno permesso che un’aspirazione collettiva divenisse realtà tangibile.

Più di mille parole.

Ci sono immagini capaci di comunicare verità e spiegare situazioni più di quanto possano fare mille parole. Eppure i discorsi, tanto nella loro profondità e complessità quanto riassunti finchè possibile in poche parole, sono indispensabili, anche se non sempre vengono recepiti. C’è chi antepone paure irrazionali, pregiudizi e informazioni sbagliate e non verificate a fatti e analisi, rifiuta il confronto ed è sordo a qualsiasi argomento. Con queste persone spesso accade di discutere fino allo sfinimento, sempre che stiano ad ascoltare, per poi accorgersi di aver parlato al vento. Si può spiegar loro come tutte le “culture” siano in fondo multiculture, non siano monolitiche, si evolvano col tempo, siano soggette a cambiamenti e commistioni e come la “nostra” non sia necessariamente migliore di altre; si può far presente che le cause che costringono le persone ad abbandonare i luoghi nelle quali sono nate hanno solitamente origini sociali, politiche ed economiche e che per far sì che nessuno/a sia costretto/a ad emigrare è indispensabile risolvere il problema alla radice in un’ottica emancipatoria, egualitaria ed antiautoritaria; si può far presente che gli/le immigrati/e, in determinate circostanze, fanno comodo al capitalismo e quando non fanno più comodo vengono criminalizzati, deportati o costretti comunque a tornare da dove sono venuti o ghettizzati nel Paese nel quale si trovano; si può ricordare come colonialismo e imperialismo abbiano gettato le basi per le tragedie odierne che hanno luogo in Siria, Iraq, Mali, Nigeria, Somalia, Libia, Afghanistan e altrove, si può far presente come ancora oggi ai potenti nostrani faccia comodo supportare dittature, tacere sulle violazioni dei diritti umani, fomentare divisioni etnico-tribali, esportare armi ed evitare la via diplomatica per risolvere i conflitti ricorrendo a interventi militari quando conviene; si può smontare ogni menzogna diffusa dal primo ignorante di passaggio sui privilegi concessi agli/lle immigrati/e e sui danni che essi provocherebbero alla nostra economia/cultura/nazione… Si può, si deve. Costi quel che costi, col rischio di farsi disprezzare o peggio da chi sputa veleno e sentenze senza conoscere i fatti, senza interrogarsi, senza avere un briciolo di umanità né di solidarietà. Prima o poi qualcuno dei/lle nostri/e interlocutori/trici drizzerà le orecchie, aprirà gli occhi, accenderà il cervello. Vale la pena tentare: con le immagini, le parole, la musica, coi fatti concreti, sempre e comunque.

Lyrics:

Wrong place of birth, wrong papers, wrong accent
“Your presence here is unacceptable accident“
They turn backs on them, puppetry level’s excellent
They’re spitting lies in their eyes and never hesitate

You know what I’m saying, it’s time to spare your prayers
They look the other way for terrorists, smugglers and slavers
But if you’re running for your life, trying to escape the slaughter
They’ll let your wife die and feast on your sons and daughters

Poison the water, the feast of legalized murder
Their lies about human rights don’t cost a quarter
They bomb your home, let the beast roam, close the border
And feed the world another tale by double-tongued reporter

Forward to the past, Can I ask? Do you remember
How the allies were sending people back to gas chamber?
Beware the beast, at least you know what to expect
The circle closes and the history repeats itself

Hook 2x:
Papers, please! They get you on your knees
Straight face, race to the death, Deaf to your pleas
Who’s the real illegal people, who’s the real disease?
We’re all immigrants, We’re all refugees.

The circle closes and the history repeats itself
Like 80 years ago abandoning those to the death
Who happened to be born on the wrong side of the fence
Ignoring obvious atrocities and cries for help

Not all was apathy – fallacy, lost humanity
Progressive wanna-be society begets another malady
No remedy, humanitarian calamity
another people denied the right to live with vanity

Another Human race catastrophe,
Another instance of entitled masses showing lack of empathy
Authorities are waging war, you people lie in idleness
Refuse to take responsibility for leaders’ violence

Communities of hypocrites reveal their rotten values
“Civilized world” devoid of basic principles of kindness
Close minded, close the borders: entry denied
The price of economic comfort is their innocent lives

Hook 2x:
Papers, please! They get you on your knees
Straight face, race to the death, Deaf to your pleas
Who’s the real illegal people, who’s the real disease?
We’re all immigrants, We’re all refugees.

Face the facts, no thanks, “Your passport lacks stamps
Please go back for war, torture and the death camps”
Join the ranks, labeled as illegal people
Cursed by those who suck blood from golden calf’s nipple

Broken families, tragedies, who the devil is
They put another spiked wall on the land they’ve seized
Barbed wire, peace expires, lost evidence
Infection of the whole soul, unknown genesis

Uscire dal capitalismo, non dall’Euro!

Quando la coalizione di sinistra Syriza vinse lo scorso Gennaio le elezioni politiche in Grecia, le forze progressiste e quelle antieuropeiste di tutta Europa, anche reazionarie e di destra, accolsero il voto popolare come fosse stato un referendum contro la permanenza nell’Euro. Molti/e greci/che avevano votato Syriza senza troppa fiducia né speranze, consapevoli del fatto che gli aiuti economici provenienti dalla Troika venivano elargiti ad un prezzo troppo alto da pagare in termini sociali e di mera sopravvivenza. Licenziamenti, tagli agli stipendi ed alle pensioni, privatizzazioni e tagli alla spesa pubblica ed ai servizi sociali hanno significato impoverimento per gran parte della popolazione greca, per alcuni la caduta nel baratro della miseria nera. Dal punto di vista psicologico sembrava importante avere ancora una speranza di poter contrastare non solo la miseria ma anche l’umiliazione, si chiedeva semplicemente che un nuovo governo di rottura con i partiti tradizionali, che avevano fallito negli anni passati, ristabilisse la sovranità nazionale greca rispetto ai ricatti di organismi finanziari transnazionali, recuperasse il terreno perduto sul piano delle conquiste sociali introducendo misure urgenti e di vitale importanza per la sopravvivenza dei ceti meno abbienti, negoziasse condizioni realisticamente accettabili per il pagamento del debito senza ricorrere a misure di massacro sociale. Purtroppo le ultime speranze affidate mesi fa alla compagine capitanata da Alexis Tsipras sono andate via via sfumando col passare delle settimane, è risultato evidente che nemmeno questa aveva un piano concreto per uscire nel modo meno doloroso possibile dalla crisi economica. Spulciando fra i tanti discorsi contraddittori fatti dai membri del governo di Syriza mi è sembrato di capire che, oltre a voler guadagnare tempo, il ministro dell’economia Janis Varoufakis puntasse ad un recupero della competitività sui mercati piuttosto che ad una politica di tagli e privatizzazioni indiscriminati. Nei fatti però il governo, a parte riaprire l’emittente televisiva pubblica chiusa dal governo precedente e strappare concessioni a dir poco risibili su misure di risparmio sulla spesa sociale comunque messe in atto, ha accettato tagli alle pensioni e aumento dell’IVA, aumento delle imposte sulla navigazione e altre misure che ricadono sulle spalle dei consumatori, dei lavoratori salariati e dei pensionati. La spesa militare invece non è stata ridotta e la Grecia, obbediente membro della NATO, continua ad acquistare armi da guerra, peraltro obsolete, col denaro che invece potrebbe venir indirizzato altrove.

Andare avanti accettando le condizioni della Troika sarebbe stato alla lunga impossibile, soprattutto avrebbe significato per Syriza fare la fine del socialdemocratico PASOK, partito storicamente forte ridotto ora a forza politica insignificante, pertanto è stato indetto il referendum consultivo che ha visto la vittoria del “no” e quindi un appoggio all’azione di governo. Di appoggio Tsipras ha incassato anche quello di altri tre partiti che in parlamento hanno scelto ora di sostenere la sua linea, mentre ha scaricato il ministro Varoufakis, al centro di critiche e campagne diffamatorie da parte della stampa mainstream europea, sostituendolo con un economista dal look più presentabile ma che porta avanti sostanzialmente le stesse idee in materia politico-economica. I portavoce delle istituzioni politiche ed economiche transnazionali non si sono scomposti ed hanno mantenuto inalterate le loro richieste e condizioni.  Il voto referendario non ha perciò cambiato nulla di sostanziale, le trattative tra governo greco e UE, BCE e FMI proseguiranno nei prossimi giorni…

Osservando questo scenario molti/e si chiedono innanzitutto quand’è che la Grecia riuscirà finalmente ad uscire dalla moneta unica. Questa sembra per molti una soluzione, introdurre una sorta di Nuova Dracma come valuta potrebbe attirare investimenti internazionali, permettere la gestione delle risorse con maggiore autonomia rispetto alle istituzioni finanziarie e politiche transnazionali, aumentare esportazioni e afflusso turistico ora in calo, favorire nuovi accordi commerciali con Paesi al di fuori dell’UE, Russia in primis. Il fatto è che non è detto che la Grecia esca dall’Euro, e anche se ciò dovesse accadere non si dovrebbe essere troppo ottimisti sulla condizione sociale di lavoratori/trici dipendenti, pensionati/e, disoccupati/e e inabili al lavoro in un Paese con un basso costo del lavoro che tenta disperatamente di uscire dalla crisi economica presentandosi appetibile ai mercati internazionali ed agli investitori che non hanno certo scrupoli né tantomeno intenti caritatevoli. Voglio ricordare per un attimo dov’é nato il problema: le crisi economiche nel sistema capitalista sono cicliche. Non è un dogma marxista, è un fatto osservabile. Quest’ultima crisi è partita con l’esplosione della bolla finanziaria delle ipoteche sugli immobili negli USA (2007/08), ha colpito prima di tutto chi aveva richiesto prestiti per gli immobili mandando in rovina parecchie famiglie del ceto medio-basso, ha coinvolto le banche che, negli USA e negli Stati europei ad economia più solida (Germania innanzitutto), sono state “salvate” col denaro dei contribuenti e dei risparmiatori, ha portato sull’orlo del baratro le economie dei Paesi più deboli. Le “manovre speculative di pochi incoscienti”, come le hanno definite alcuni, non sono altro che un sintomo della necessità del capitale di espandersi, rinnovarsi, conquistare nuovi mercati, spingere per un’ ulteriore crescita che richiede sempre maggiori investimenti; non sono altro che un sintomo della necessità del denaro di riprodurre se stesso. Ogni soluzione di stampo capitalista alla crisi porta con se nuove conseguenze -sia essa l’immissione sul mercato di nuovi titoli, la riduzione di salari e stipendi, il taglio alla spesa pubblica, la delocalizzazione delle imprese-, perpetuando al tempo stesso quel sistema che le crisi le genera.

Ma davvero abbiamo bisogno di tutto questo? Davvero i/le greci/che e noi tutti/e dovremmo sacrificarci per salvare un sistema nel quale veniamo usati e sfruttati e che per le sue dinamiche interne può precipitarci nella miseria e  nell’emarginazione privandoci di qualsiasi prospettiva? È da ormai troppo tempo che studiamo in funzione del nostro futuro lavoro, lavoriamo per pagare i costi e le spese che sosteniamo quotidianamente ed in prospettiva della pensione, viviamo in base ai ritmi imposti dal lavoro ed alle esigenze di consumo più o meno subdolamente imposte dai mercati, avvalliamo la morte e lo sfruttamento ancor più brutale di milioni di persone in tutto il mondo, solo perchè non siamo in grado di immaginare e creare una realtà diversa da quella presente. Sarebbe ora di farla finita, in Grecia e ovunque, coi sacrifici per il bene dell’economia, sarebbe ora di creare reti e strutture autogestite che nascono nei quartieri, nelle fabbriche, negli uffici, per sottrarre le ricchezze dalle mani di pochi, per riorganizzare la produzione secondo le reali esigenze di chi finora è stato/a sfruttato/a, riappropriandosi dei mezzi di produzione e decidendo di comune accordo cosa e come produrre, liberandoci del superfluo, abolendo le strutture gerarchiche, prendendoci la responsabilità delle nostre azioni e del nostro presente senza delegare ad altri la promessa di un futuro migliore. Gruppi e strutture autogestiti ne esistono già, vanno moltiplicati e rafforzati, resi più efficaci con contributi concreti, idee e partecipazione diretta. Sarebbe ora di agire in modo solidale e non competitivo, per costruire o riappropriarsi di beni e risorse comuni, evitando le guerre tra poveri, comprendendo che ognuno/a di noi non è solo/a in questa lotta, che ogni singolo individuo vale più di quanto non ci abbiano mai fatto credere e che ciascuno/a di noi è in grado di prendere decisioni libere riguardo la propria vita ed il proprio futuro, è padrone del proprio tempo e della propria intoccabile integrità fisica e psichica e dovrebbe prendere ciò di cui ha bisogno dando allo stesso tempo ciò che può, senza costrizioni, senza diktat né politiche di lacrime e sangue. Facciamo in modo, con la nostra volontà e con la determinazione delle nostre lotte consapevoli, che stavolta a piangere siano i burattinai ai vertici del sistema, i vampiri ai quali succhiare il sangue degli strati sociali ridotti allo stremo non basta, che ricorrono alla propaganda più infima per dipingere gente che s’è rotta la schiena lavorando una vita intera come “sfaticati che hanno voluto vivere al di sopra delle loro possibilità”. Voltiamo le spalle alle negoziazioni farlocche tra Stati, organizziamoci fra diretti/e interessati/e, dal basso e orizzontalmente…altrimenti finiremo per giaciere davvero orizzontali o supini, ancora vittime di chi ci sfrutta e gioca col nostro destino e col nostro presente.

Greed economy.

Alcuni giorni fa sono venuto con piacere a sapere dell’ultima operazione compiuta dagli hacktivisti di Anonymous Italia, che si sono schierati contro la costruzione di rigassificatori e la conseguente devastazione ambientale da essi provocata. I motivi del sabotaggio di alcuni siti internet legati alla costruzione dei rigassificatori sono ben spiegati nel comunicato pubblicato sul sito ufficiale di Anonymous Italia.


Nonostante i motivi di natura ambientale (e di conseguenza quelli legati alla salute ed alla sicurezza umana) siano -giustamente- posti in primo piano da chi si oppone alla costruzione dei rigassificatori, l’aspetto tra quelli elencati dagli hacktivisti di Anonymous che ha maggiormente attratto la mia attenzione è di natura economica. Cito:
Forte rischio economico: i costi di costruzione sono esosi, fino a 500 milioni di euro. Gran parte delle spese relative al progetto di rigassificazione è sostenuto dallo Stato il quale è intervenuto per la copertura di gran parte della spesa. Con la delibera 178/2005 (finalizzata ad aiutare la competizione), lo Stato ha incentivato la costruzione degli impianti di rigassificazione azzerando il rischio di impresa per le società che vogliono investire in tale ambito. In caso di mancato utilizzo dell’impianto, ad esempio per mancanza di GNL da acquistare sul mercato, o per eccesso di domanda, i gestori godrebbero comunque di un introito minimo: lo Stato interverrebbe prelevando i fondi dalle bollette degli utenti.” 

Ma come, lo Stato deve aiutare la competizione economica?!?! Ma allora dov’è la “mano invisibile”, dov’è la magica dote del capitalismo che si regola da se??? Domanda retorica, ovviamente. Così come è retorico chiedersi come mai, in una fase di crisi economica come quella attuale, lo Stato debba correre il rischio di far accollare ai contribuenti già tartassati gli eventuali costi di un’operazione economica potenzialmente fallimentare: basterebbe leggere alcuni documenti prodotti ad esempio dal movimento No TAV per capire cosa significhi concretamente il termine “socializzazione delle perdite”- un pò come giocare a poker coi soldi altrui mettendo in tasca il ricavato di un’eventuale vincita senza essere obbligati a restituire la somma giocata in partenza, anzi facendo pagare ad altri gli eventuali debiti contratti in caso di perdita. Ci si potrebbe anche chiedere cosa ne sia stato di tutti gli strombazzati discorsi retorici sulla green economy…oppure ci si potrebbe finalmente rendere conto che nel capitalismo l’unico verde che conta è quello di certe banconote. Greed, not green.

7 Novembre: proteste a Cagliari.

Ieri 7 Novembre ha avuto luogo a Cagliari una grossa manifestazione organizzata dalla cosiddetta Consulta Rivoluzionaria. L’iniziativa, definita dagli organizzatori come “Assemblea generale del Popolo Sardo” e che ha visto la partecipazione di alcune migliaia di persone, è nata dopo mesi di incontri e dibattiti tra le diverse componenti della Consulta. I motivi della protesta sono molteplici e non suoneranno certo nuovi a chi conosce la realtá sarda: gli alti tassi di disoccupazione, ormai cronica, e la chiusura di realtá produttive spesso avviate in modo avventuristico da multinazionali che lasciano dietro di sé persone senza lavoro, danni ambientali e distruzione dell’economia locale spinge molti giovani ad emigrare da una terra che è stata sempre gestita con piglio colonialista dallo stato centrale italiano, grazie anche al supporto della locale classe dirigente. Un’isola che è in parte laboratorio di pratiche repressive e in parte “pattumiera”, da un lato occupata da carceri- anche “speciali”- e da numerose installazioni militari dove si stoccano armamenti nucleari ( La Maddalena) e si sperimenta con i proiettili all’uranio impoverito (Teulada e Quirra), dall’altro cementificata e deturpata per gli interessi dei più ricchi e potenti e a favore del turismo d’élite, una terra alla quale la classe dirigente preferisce elargire qualche briciola di assistenzialismo piuttosto che allentare la morsa delle banche e delle sanguisughe di Equitalia, dove ad essere senza prospettive ed a sentirsi disperati sono tanto gli studenti quanto i pastori, gli agricoltori, i piccoli imprenditori ed artigiani, i lavoratori che rischiano di perdere il loro impiego (come quelli dell’ Alcoa o della Carbosulcis, per citare i due casi più recenti e più noti) e quelli che un impiego lo hanno già perso o non lo trovano affatto. Sono proprio questi soggetti e queste realtá ad aver partecipato alla manifestazione tenutasi sotto il palazzo della Regione Sardegna nella centralissima Via Roma a Cagliari, un’iniziativa preceduta da una serie di misure di sicurezza grottesche messe in atto dalle autoritá evidentemente timorose che l’esasperazione dei/lle partecipanti potesse trasformarsi in concrete esplosioni di rabbia. Come aspetto “coreografico” non si poteva fare a meno di notare alcuni cappi con nodi scorsoi, appesi accanto ai nomi delle istituzioni ritenute maggiormente colpevoli dell’attuale situazione: Regione, Governo centrale, Equitalia, banche, INPS, agenzia delle entrate…

Da sottolineare la forte adesione da parte di organizzazioni indipendentiste, che si rispecchia anche nelle rivendicazioni tese all’autodeterminazione in materia economica dell’isola ed alla valorizzazione della cultura e dell’identitá sarda. Ma sará veramente una soluzione quella dell’indipendenza? Serve a molto avere un proprio Stato con governanti della propria terra che stilano documenti nelle lingue locali quando poi continuano ad esistere disuguaglianze sociali e sfruttamento del lavoro salariato? Ci si può sentire liberi sapendo che comunque il capitale che comanda è quello internazionale e che, se anche così non fosse, il capitale nazionale o locale non è cosa migliore? Queste sono solo alcune delle contraddizioni con le quali la Consulta Rivoluzionaria e chi la appoggia dovranno fare i conti, fermo restando le sacrosante ragioni di fondo che animano l’iniziativa e le potenzialitá insite nelle proposte finora avanzate e nei loro eventuali sviluppi. Tra chi era in piazza c’é chi ha la consapevolezza di rappresentare in qualche modo un’avanguardia, con la convinzione che in molti si uniranno in un futuro prossimo alle lotte. Lo sviluppo degli eventi mostrerà se questi hanno avuto ragione, se finalmente si è innescato un processo di reale ribellione nei confronti di uno stato di cose intollerabile che permane da troppo tempo e quali saranno i frutti di questo processo.

La vera natura della crisi economica.

Qual’è la vera natura della crisi economica attraversata attualmente dal sistema capitalista? Di sicuro molti di voi avranno sentito innumerevoli spiegazioni a riguardo, tesi diverse e spesso contrastanti a seconda di chi le propone, in buona fede o meno. È colpa della natura umana, dell’egoismo e dell’istinto predatorio? Oppure le istituzioni preposte al controllo ed alla regolamentazione del mercato e della finanza non hanno agito come avrebbero dovuto ed ora occorre riformarle per evitare nuovi disastri? Hanno ragione gli economisti keynesiani-trattino-socialdemocratici, quando dicono che lo Stato dovrebbe avere più controllo sull’economia, o i loro avversari neoliberisti, che sostengono che le cause della crisi siano da ricercare nell’intromissione degli Stati in quello che dovrebbe essere un mercato veramente libero e deregolamentato basato interamente sull’iniziativa dei privati? Le radici della crisi risiedono nella cultura e nella mentalitá di questo o quell’altro Paese? A mio parere nessuna di queste spiegazioni può ritenersi soddisfacente, anche se ognuna di esse potrebbe contenere un fondo di veritá. Quello che sfugge ai piú, o che non si vuole ammettere perché significherebbe ammettere il fallimento dell’attuale sistema economico nel suo insieme, è che non solo questa crisi, ma LE crisi economiche sono un fattore ciclico del sistema capitalista. Riscoprire Marx? In effetti l’analisi che l’economista tedesco fece a suo tempo del sistema capitalista è tutt’ora in gran parte valida ed è difficile negare, onestamente, che egli abbia avuto ragione su molte cose- così come, a mio modesto parere, ha avuto torto su altre. Ed è proprio basandosi su un’analisi di tipo marxista che il sociologo britannico esperto di geopolitica David Harvey tenta di spiegare la crisi, come si può vedere nel video animato che trovate qui sotto in italiano. Un’analisi su basi piú solide non l’ho trovata- ma esiste? Intanto capire l’attuale situazione di crisi é anche e soprattutto la condizione essenziale per poter elaborare e proporre soluzioni e risposte ad essa ed al sistema che l’ha generata, rifiutando di subire passivamente un corso degli eventi devastante ed annichilente.

Intervista con l’anarchico nigeriano Sam Mbah.

Fonte: Anarkismo.

Sam Mbah

“Nigeria, Marzo 2012

Intervista con Sam Mbah


Intervistatore: E’ con grande piacere che presento Sam Mbah, autore dell’innovativo libro African Anarchism, avvocato, giornalista, attivista. Questa intervista è stata realizzata a Enugu, in Nigeria, nel marzo 2012. Sam, ti ringrazio moltissimo per aver trovato il tempo per questa intervista.

Sam: Il piacere è il mio, Jeremy.

Sono passati 15 anni dalla pubblicazione del tuo libro sulle prospettive dell’anarchismo in Africa. C’è forse qualcosa che oggi aggiungeresti o che cambieresti?

Sì, ci sono delle idee che aggiungerei, ma senza fare dei cambiamenti. In questi anni ho raccolto del materiale aggiuntivo in cui mi sono imbattuto nel corso delle mie ricerche.

Penso che si possano fare delle integrazioni al libro, ma senza cambiamenti né riduzioni. C’è spazio per fare delle aggiunte ed è qualcosa che ho già iniziato a fare con l’edizione spagnola del 2000, la quale è più ampia e contiene degli approfondimenti su alcuni punti trascurati nella edizione originale. Ho cercato di andare più a fondo su quelle società africane che condividono medesime caratteristiche, come gli Igbo, i Tiv, gli Efik, i Tallensi nonché quella molteplicità di tribù e di gruppi sociali che abbiamo in Nigeria e che avevo già menzionato nell’edizione originale. Ho provato anche ad esplorare altri gruppi in altre parti del mondo come l’America Latina, riuscendo poi a tracciare dei parallelismi tra le rispettive esistenze sociali e sistemi di organizzazione sociale, relativamente alle caratteristiche ed alle peculiarità dell’anarchismo, per come lo intendo io.

Per coloro che non hanno letto il libro, puoi riassumere cosa intendi per anarchismo e come lo leghi ad alcuni aspetti intrinseci della cultura africana?

OK, nel libro ho messo in evidenza fin dall’inizio in maniera molto esplicita come l’anarchismo in quanto ideologia, in quanto corpus ideologico ed in quanto movimento sociale sia lontano dall’Africa. Ma l’anarchismo in quanto forma di organizzazione sociale, in quanto base delle società organizzate – non è affatto lontano per noi. E’ invece parte integrante della nostra esistenza in quanto popolo. Mi riferisco al sistema comunitario di organizzazione sociale che esisteva ed ancora esiste in diverse parti deIl’Africa, dove le persone vivono le loro vite in comunità e si percepiscono come parte integrante delle loro comunità, a cui contribuiscono immensamente per la loro sopravvivenza in quanto unità. Ho messo in evidenza gli aspetti della solidarietà, della coesione sociale e dell’armonia che esisteva in tante società comunitarie in Africa ed ho cercato di trovare dei collegamenti con i precetti dell’anarchismo, compreso il mutuo appoggio, compreso lo sviluppo autonomo di piccole unità ed un sistema che non è fondato sulla monetizzazione dei mezzi di produzione e delle forze produttive della società. Così, mi guardo indietro ed avverto, come dicevo prima, che se su questi aspetti si sviluppassero ulteriori ricerche, queste potrebbero portare ad ulteriori acquisizioni su come queste società fossero in grado di sopravvivere. Ma, con l’avvento del colonialismo e con l’integrazione delle economie e delle società africane all’interno dell’orbita globale del capitalismo, alcune di queste cose sono oggi cambiate. Abbiamo così iniziato ad avere delle classi ricche, ad avere una classe politica dominante che sta sopra e controlla ogni persona. Abbiamo iniziato ad avere una società altamente militarizzata in cui lo Stato e coloro che lo controllano hanno il monopolio degli strumenti di violenza e sono pronti ad usarli contro la gente comune. Questo è il loro business.

Negli ultimi anni abbiamo visto un aumento del potere autoritario in diverse parti del mondo, le misure di austerità, sia all’indomani dell’attacco terroristico dell’11 settembre agli USA sia più di recente con la crisi finanziaria globale. Come vedi quello che sta accadendo e come influisce sull’Africa e sulle lotte qui?

Quando scrissi African Anarchism con un mio amico, avevamo sullo sfondo tre decenni, quasi quattro, di governo militare, in Nigeria. Il governo militare era una forma di governo che centralizzava oltremodo i poteri e che si configurava come una dittatura, quale era, e come una emanazione del capitalismo. Se allora la società nigeriana e gran parte dell’Africa erano sotto la stretta dei governi militari e dell’autoritarismo militare, oggi abbiamo una amministrazione nominalmente civile, una democrazia nominalmente civile. Alcuni l’hanno chiamata democrazia di governo, altri l’hanno chiamata democrazia disfunzionale, tutti i tipi di definizione, nel tentativo di cogliere il fatto che fosse qualcosa di ben lontano dalla democrazia. Per me, ad esempio, si tratta di una estensione del governo militare. Questa è nei fatti una fase di governo militare. Perché se si guarda alle democrazie in Nigeria e nel resto dell’Africa, coloro i quali stanno dando forma e futuro a queste democrazie sono in modo predominante ex-militari di governo nonché i loro apologeti e collaboratori all’interno della classe civile.

Ora, guardando a livello globale, il capitalismo è in crisi. In ogni caso, il capitalismo non può esistere veramente senza crisi. La crisi è la salute del capitalismo. Questa crisi è proprio quella di cui molti filosofi, da Marx ad Hegel, da Lenin a Kropotkin, da Emma Goldman fino ad oggi a Noam Chomsky hanno trattato in modo estensivo: cioè la tendenza alla crisi insita nel capitalismo. Quindi, tra l’uscita di African Anarchism e l’oggi, abbiamo avuto l’11 settembre, la cosiddetta “guerra al terrore”, la crisi finanziaria del 2007-2008, e oggi dobbiamo affrontare una crisi economica ancora più grande che ci ricorda la grande depressione degli anni ’30. E non vi è assolutamente nessuna garanzia che, se anche l’economia globale uscisse dalla crisi, non si ricada in un’altra crisi, perché la tendenza alla crisi è parte integrante del capitalismo. Per noi, qui, questi sviluppi storici hanno avuto un grave impatto sulla nostra società, sulla nostra economia, sul nostro governo.

Se poniamo come inizio l’incidente dell’11 settembre, vediamo che oggi il mondo è stretto nella morsa sia del terrorismo che dell’anti-terrorismo. Qui in Nigeria nel corso di un anno, tutto il paese è stato oggetto di attacchi dinamitardi, esplosioni, ogni giorno c’è una bomba messa da qualche parte. E come reagisce lo Stato nigeriano? Reagisce con sempre maggiore forza, e facendo così produce danni collaterali e vittime dovunque. Dunque neanche noi siamo immuni dalle ondate di terrorismo e dalla “guerra al terrorismo” in cui l’Occidente ci ha imbarcato dopo l’11 settembre. Anche il nostro paese è sottoposto alla stretta del terrorismo. Ed è ironico che ogni volta che una bomba esploda in qualche posto, il governo si metta a sbraitare: “Questo è terrorismo! Questo è terrorismo!”. Ma c’è la tendenza alla linea dura da parte del governo e delle agenzie di Stato che fanno ricorso ad una forza e ad una violenza inadeguate a risolvere una questione che potrebbe essere risolta altrimenti senza perdita di vite – cosa su cui si sorvola come se fosse normale. Ogni volta che una bomba viene messa in qualche posto, il governo risponde dicendo che si tratta di terrorismo. Vorrei dire che sono piuttosto i governi e gli Stati in Africa la maggiore fonte del terrore. Lo Stato in Africa è la maggiore fonte di terrorismo. Credo che la società non potrebbe che stare meglio se lo Stato cessasse di agire insieme alle sue agenzie quali strumenti di terrore contro la popolazione comune e la gente normale.

Dunque, la crisi economica globale, la crisi globale del capitalismo, ha avuto un impatto negativo sulle economie africane, compresa la Nigeria – dato che noi siamo parte e componente del sistema capitalistico globale, sebbene noi siamo partners disuguali nello scambio capitalistico globale. La nostra economia dipende dalle materie prime. La nostra economia è a mono-coltura. Qualunque cosa accada al petrolio ha subito un effetto di crisi si di noi. E questa è una delle ragioni per cui i nigeriani e lo stato nigeriano sono in una situazione di stallo dagli inizi del 2012, in seguito alla vicenda delle sovvenzioni fantasma che il governo aveva detto di voler rimuovere incontrando la resistenza popolare.

Potresti spiegare meglio come funziona la tassa/sovvenzione sul carburante in Nigeria?

OK. La tassa sulla benzina, o “sovvenzione alla benzina” come la chiama il governo nigeriano, vuol dire che il governo sta sovvenzionando il costo della benzina per i cittadini. E cioè che i nigeriani non pagano un valore realistico per la benzina. Ma il contro-argomento è che noi siamo un paese produttore di petrolio, e non c’è nessuna ragione per cui il costo della benzina dovrebbe far riferimento al mercato globale o internazionale. Noi abbiamo le raffinerie, le quali tutte insieme hanno una capacità di raffinazione di 500.000 barili al giorno. Ma si scopre che negli ultimi 20 anni queste raffinerie non hanno funzionato. E non hanno funzionato a causa della corruzione. Non hanno funzionato perché i poteri forti che ci sono nel paese non sono interessati a che queste raffinerie funzionino. L’unica ragione per cui queste raffinerie non funzionano è perché c’è la corruzione ed un sacco di gente nel governo, nell’esercito e nella burocrazia, trae vantaggio dall’intera importazione di prodotti della raffinazione del petrolio. La Nigeria è forse l’unico paese dell’OPEC che importa il 100% dei suoi bisogni di petrolio raffinato.

Quindi all’inizio del 2012…

Allora la gente comune in Nigeria dice, se le nostre raffinerie lavorassero e raffinassero il nostro greggio, il governo dovrebbe dirci qual è il costo del greggio e dei prodotti raffinati. E sulla base di questi costi stabilire un prezzo. Se invece non sei in grado di far funzionare le raffinerie e fissi il costo dei prodotti petroliferi sulla base del prezzo sui mercati internazionali, allora state commettendo un grave errore. Perché il costo della vita in Nigeria è diverso dal costo della vita negli Stati Uniti. Allora il governo dice: “Paghiamo molto gli importatori di prodotti petroliferi sottoforma di sovvenzioni” – cioè la differenza tra il prezzo all’importazione e quello di vendita dei prodotti raffinati. Ma poi scopri che persino quelli che stanno al governo, persino i ministri del petrolio, se ne escono dicendo che gran parte di quello che paghiamo come sovvenzione si basa su una corruzione documentata, su cui il governo non indaga e su cui non intende fare chiarezza, che coinvolge dirigenti di lunga carriera degli organismi e delle agenzie che si suppone debbano regolamentare l’industria del petrolio. Costoro sono quelli che pagano a se stessi ed alle loro compagnie enormi somme. Faccio un esempio per far capire il concetto di sovvenzioni petrolifere. Il governo nigeriano consente ad una molteplicità di operatori di commerciare in prodotti petroliferi. Questi comprano i prodotti petroliferi da una molteplicità di operatori internazionali, quando nei fatti la National Petroleum Corporation – la NPC – che è la nostra compagnia petrolifera nazionale, può fare accordi con le raffinerie all’estero ed acquistare direttamente da loro i prodotti raffinati. Invece questi preferiscono ricorrere a dei mediatori che procurano i prodotti raffinati dalle raffinerie estere e li vendono alla NPC a tassi esorbitanti.

Allora cosa è accaduto agli inizi del 2012?

All’inizio di quest’anno il governo intendeva deregolamentare il settore alla pompa dell’industria del petrolio. E la società civile insieme ai lavoratori hanno protestato e fatto resistenza. In breve venne indetto uno sciopero di 2 settimane. In queste due settimane, la gente non andava a lavorare e protestava nelle strade di Lagos, di Kaduna, di Port Harcourt, di Kano, di Ibadan, in diverse parti del paese. E siccome il governo aveva capito la determinazione dei nigeriani nel resistere a questi aumenti arbitrari, fece marcia indietro, portando l’aumento del prezzo dei prodotti petroliferi dal 100% in più al 30% in più. E naturalmente il mondo sindacale in pratica si ritenne soddisfatto, mentre la società civile e la massa della popolazione era pronta a proseguire la protesta ed a rifiutarsi di pagare l’aumento del 30%, ma i sindacati erano d’accordo ed ora siamo a questo punto.

Insomma è una lotta non conclusa. Io credo che il governo intenda ancora raggiungere l’obiettivo dell’aumento del 100% del prezzo dei prodotti petroliferi. Ma se nel governo c’è ancora qualcuno che pensa con la sua testa e che sia mosso da un qualche senso di obiettività, si renderebbero subito conto del fatto che non sarà facile placare i nigeriani i quali sono determinati a resistere a questi aumenti arbitrari basati su false analisi relative allo strumento delle sovvenzioni. La gente si sta mobilitando. Proprio mentre il governo sta studiando altre strategie con cui aumentare subdolamente il prezzo del petrolio, la gente si reincontra e cerca di capire come sostenere la propria causa.

In queste mobilitazioni di massa così foriere di speranze, ci sono elementi che riflettono il movimento globale che abbiamo visto di recente in azione, fino ad usare in certi casi il nome “Occupy Nigeria”. Abbiamo visto l’esplosione dell’Occupy movement e della primavera araba, cosa ne pensi?

Sì, sì, Occupy movement in azione in alcune parti dell’America e dell’Europa ha davvero ispirato un sacco di gente in Nigeria. La determinazione ed il coraggio che hanno caratterizzato Occupy movement in diverse parti dell’America e nelle capitali europee, è un indicatore delle infinite possibilità che si aprono quando il popolo decide di lottare. La primavera araba da parte sua è stata una delle più innovative esperienze per tutti noi in Africa. Infatti, ne ho parlato con i miei amici e secondo me la primavera araba sarebbe dovuta verificarsi nell’Africa sub-sahariana, piuttosto che nel mondo arabo, poiché le brutte condizioni di vita in Africa sono peggiori degli standards di vita relativamente avanzati nella maggior parte dei paesi arabi e dei nostri vicini in nord-Africa. Sì, la primavera araba sarebbe dovuta succedere nell’Africa sub-sahariana. Questo è quello che credo. Ma perché non è successo? Perché non siamo stati capaci di trasformare la nostra rabbia in determinazione, non siamo stati capaci di costruire la necessaria coscienza sociale, tale da spingere a sostenere una simile lotta.

Ma sulla base di ciò che è successo di recente in Nigeria, non ho dubbi che la gente sta iniziando a trarre lezione da quello che è accaduto nel mondo arabo. E si pone delle domande – se è potuto succedere nel mondo arabo, perché non anche da noi? Se persone che stanno meglio di noi possono scegliere di lottare, di protestare nelle strade per giorni e mesi, come mai noi non abbiamo nemmeno la luce? La luce in Nigeria è un lusso. La nostra economia si basa sui generatori. [L’energia elettrica di Stato funziona molto poco; i ricchi usano generatori privati di elettricità] Ognuno deve pensare a procurarsi l’acqua per sè, a procurarsi la propria sicurezza. Qui non funziona niente. Non è come in Libia. Non ci sono mai stato, ma ho letto storie sulla Libia, sull’Egitto, sulla Tunisia. Queste sono società meglio organizzate, dove i servizi pubblici funzionano. Ma qui nell’Africa sub-sahariana non c’è nulla che funzioni. Allora, posso dire senza paura di essere smentito che le proteste di gennaio in Nigeria, sono state ispirate dall’Occupy movement di America ed Europa, come pure dalla primavera araba. Allora, non so se le nostre proteste sono giunte al punto di poterle chiamare “primavera nigeriana”, ma scommetto che la primavera nigeriana deve ancora venire.

Sam, i cambiamenti climatici sono un’altra grande minaccia per i nigeriani, come per chiunque sulla Terra. Quali sono le questioni ambientali qui? Quale coscienza esiste sulla giustizia ambientale e sullo sviluppo sostenibile?

Risponderò alla tua domanda da due prospettive. Prima sul piano generale e poi su un piano più personale. La minaccia dei cambiamenti climatici è reale. Noi, in questa parte di mondo, non ne siamo immuni. Se ci guardiamo intorno ci accorgiamo che stanno salendo i livelli di umidità. Recentemente, nel posto in cui vivo (un piccolo bungalow di 3 stanze), se non c’è luce [senza elettricità, niente ventilatori], non riesco a dormire. I miei figli non riescono a dormire, tranne che durante la stagione delle piogge. A peggiorare la situazione il fatto che la nostra erogazione di elettricità è saltuaria. Mi sono accorto che negli ultimi 3 anni, tra i mesi di aprile e marzo, prima che inizino di nuovo le piogge, sudo come non ho mai sudato in vita mia. La temperatura si è alzata a livelli che non ho mai visto da piccolo e nemmeno negli anni ’80 e ’90. Negli ultimi 5 anni, bisogna abituarsi a vivere a temperature altissime. E non bisogna andare a cercarne le cause tanto lontano.

Basta guardare le foreste intorno a noi… Nel mio villaggio, c’erano fitte foreste dove persino i bambini più piccoli facevano fatica ad entrare. Oggi la maggior parte di quelle foreste non ci sono più. Sui piccoli alberi e sulle mini-foreste non c’è nessuna forma di controllo quotidiano. Nei villaggi, il controllo si fa a livelli davvero ridicoli. Non c’è nessuna agenzia governativa in questa parte del paese che faccia qualcosa per regolamentarlo, per ridurlo, per ridurlo al minimo. Allora gli alberi vengono tagliati come non era mai successo prima e nessuno fa niente per rimpiazzarli. La superficie delle foreste è andata decrescendo costantemente in questa parte del paese dove la densità abitativa è probabilmente la più alta in Africa a parte il Delta del Niger, e dove le attività umane stanno avendo un grave impatto negativo sull’ambiente. La gente costruisce senza controlli, si fanno le strade e si bruciano i cespugli. C’è una deforestazione altissima. Ed una delle conseguenze della deforestazione in questa parte del paese è l’erosione del suolo, i calanchi, in certi posti ci sono strade spezzate in due. Poi per forza i torrenti, i fiumi ed i ruscelli che avevano una notevole presenza di vita acquatica sono oggi in secca. C’è un torrente a 200 metri dal mio villaggio. Quando ero piccolo non l’ho mai visto in secca. Negli ultimi 10 anni, se per caso non piove tra febbraio-marzo-aprile, va in secca.

E cosa ne pensa la gente? Vogliono lo sviluppo, ma come lo giustificano a fronte della sostenibilità?

La gente comune non ha una chiara coscienza di quello che sta succedendo. Se la prendono con le forze del male, con mani invisibili e con tutti gli oggetti metafisici per quello che succede. Ed infatti spetta al governo informare la gente sulla conseguenze negative della deforestazione, dello squilibrio nell’utilizzo delle risorse, sui benefici derivanti da uno sviluppo sostenibile e pianificato – sia a livello individuale che sociale in maniera più ampia. Ma il governo non sta facendo molto qui. C’è proprio una assenza totale di azione pubblica e di coscientizzazione sui principi di base.

E poi succede che anche nei nostri villaggi, i terreni che erano di solito fertili, non producano più molto cibo, né raccolti abbondanti come una volta. Queste sono le conseguenze dei cambiamenti climatici.

Certo, a livello di elite, di minoranze illuminate, c’è il realizzare che sì, c’è qualcosa di sbagliato. Ma a livello di gente comune, non c’è nessuna coscienza, nessuno sforzo per capire che è nel loro interesse far sì che l’ambiente sia protetto.

Hai citato il Delta del Niger. Si tratta di un’area in cui la lotta ambientale e sul petrolio è stata particolarmente acuta, con fuoriuscite massicce di petrolio ma anche attività militanti che hanno avuto un impatto reale sulla produzione cercando di rivendicare per il popolo parte della ricchezza derivata dal petrolio. Qual è il tuo punto di vista su queste attività militanti nel Delta del Niger?

Queste attività militanti non devono essere considerate come un fatto isolato. Esse sono la conseguenza dello sfruttamento messo in atto dalle compagnie petrolifere che operano nel Delta del Niger, dove non applicano i migliori regolamenti internazionali che invece osservano in qualsiasi altra parte del mondo. In Nigeria, questo succede perché vi è complicità tra queste compagnie, lo Stato nigeriano ed il governo locale, per cui fanno quello che vogliono. Come se il domani non esistesse. Possono farlo perché nessuno le richiama all’ordine, nessuno che le richiami alle loro responsabilità. Allora l’emergere dei gruppi militanti nel Delta del Niger è conseguente a queste pratiche e tendenze sfruttatrici, nonché all’assoluta mancanza di cura per l’ambiente nell’esplorazione, perforazione e produzione da parte della maggior parte delle compagnie petrolifere che operano nel Delta del Niger.

Allora, se li inquadriamo in questo contesto, i gruppi militanti stanno rispondendo ad una minaccia ben chiara e presente nei confronti della sopravvivenza delle comunità che vivono nel Delta. Quando eravamo piccoli, siamo cresciuti sapendo che la maggior parte dei villaggi, delle tribù e dei gruppi sociali del Delta erano essenzialmente pescatori. Ma con la costante estrazione di petrolio, la spoliazione dell’ambiente, la scomparsa della fauna e della vita acquatica del Delta, gran parte dell’industria collegata alla pesca è scomparsa. Molte delle attività industriali ed agricole che si facevano sono ora scomparse.

Allora, quando hai rubato ad un popolo il suo ambiente, come ci si può aspettare, in buona coscienza, che possa sopravvivere o continuare ad esistere come popolo? Vedi, il nostro popolo ha un detto per cui la natura ha messo a disposizione di ogni gruppo i mezzi per la sopravvivenza. Ti faccio un esempio. Nel sud-est, nella terra degli Igbo per esempio, il nostro popolo vive soprattutto di terra. Sopravviviamo grazie alle nostre palme, facciamo olio di palma, coltiviamo, questa è la base della nostra sussistenza. Se vai a nord, lì non ci sono le palme. Sopravvivono con altri tipi di agricoltura, piantano cipolle, patate, fanno pastorizia. Se vai nel Delta del Niger, i mezzi di base per la sopravvivenza sono la pesca ed alcune forme di agricoltura e di coltivazione. Allora se siamo d’accordo che la natura ha disposto per ogni gruppo certe forme di sussistenza, siamo testimoni di una situazione in cui i mezzi di sussistenza in gran parte del Delta del Niger sono stati spazzati via. Per colpa delle attività delle compagnie petrolifere che non badano a nessuna forma di interesse e responsabilità sociale.

Allora, questo è il contesto in cui collocare i militanti che sono insorti nel Delta del Niger dalla fine degli anni ’90 in poi. Sì, la maggior parte di questi gruppi sono coinvolti in varie forme di criminalità ed anche di banditismo, che non servono affatto agli interessi dei nigeriani abitanti comuni del Delta. E questo va condannato, ma non inficia in nessun modo il peccato originale che li ha spinti a peccare ulteriormente.

D’accordo. Parlando di peccato, la Nigeria è una società molto religiosa. La religione qui è molto radicata. E spesso assume forme molto conservatrici ed a volte violente. Qual è la tua opinione e cosa comporta questo per l’anarchismo e per l’organizzarsi nel senso più più ampio?

Ti dirò che la religione e le pratiche religiose sono entrate in una nuova fase in Nigeria. Prima del colonialismo, la nostra gente era per lo più di religiosità africana, con l’adorazione dei nostri piccoli dei- dei del tuono, del fiume e così via. Con l’arrivo del colonialismo, le due principali religioni globali – l’Islam ed il Cristianesimo – sono diventate le forze predominanti nelle vite dei nigeriani.

La rivalità e la competizione tra le due religioni portava a non considerare il fatto che non tutti i nigeriani erano musulmani o cristiani. Anche nel centro-nord, ci sono tribù pagane con diverse forme di religiosità africana. Ma oggi la Nigeria viene presentata e stereotipata con un sud cristiano ed un nord musulmano. Eppure se vai nel nord ci trovi tanti che non aderiscono all’Islam, se vai al sud troverai tanti che non aderiscono al cristianesimo.

Ma direi che negli ultimi 20-30 anni la singola influenza del cristianesimo o dell’Islam ha assunto una valenza negativa nella società nel senso che entrambe le religioni sono diventate fonti di manipolazione, manipolazione politica della gente comune. Quando senti che ci sono disordini religiosi nel nord, disordini religiosi ad Est, e poi vai ad analizzare i fatti, si scopre che non hanno una base religiosa. I politici usano la religione per manipolare la gente comune nelle lotte per la conquista di posizioni politiche e per assoggettarla alle elite.

La religione è divenuta uno strumento di manipolazione, di sfruttamento, di inganno, una sorta di bendaggio sugli occhi su larga scala della gente comune in Nigeria. E’ uno degli elementi militanti contro la coscienza sociale e lo sviluppo di una classe operaia, in quanto classe, in Nigeria. Contro lo sviluppo di una classe dei deprivati, degli oppressi, degli emarginati, che sentano e condividano interessi comuni e siano pronti a lottare per questi comuni interessi. La religione viene posta in mezzo come un cuneo, come una fonte di conflitti tra gente comune. Come ha detto Karl Marx, la religione diventa l’oppio delle società. Ad ogni piccola cosa viene dato un significato ed una colorazione religiosa che in realtà non ha. Si tratta di una tremenda remora allo sviluppo della coscienza sociale in Nigeria e in tutta l’Africa.

Sì. L’hai già detto, ma queste divisioni religiose sono spesso collegate (ma non solo collegate) a divisioni etniche, razziali e di genere per dividere le persone le une dalle altre. Cosa ne pensi?

Beh, il problema che sta di fronte a noi non è la razza come tale, quanto la religione, l’etnicità. La religione in Nigeria ed in Africa è una questione geografica. Trovi che quella religione tende a conformarsi in certi confini etnici. Quando si parla di un Fulani, si pensa ad un musulmano. Quando si parla di un Igbo, si immagina un cristiano cattolico. Quando si parla di uno della cintura centrale della Nigeria, pensi ad un cristiano evangelico. Allora, molte differenze religiose sono diventate differenze geografiche in natura, nel senso che certi confini etnici coincidono con certe religioni. La gente è stata portata a vedere queste differenze come caratteristiche permanenti di vita, e non come cose che si possono superare. La verità è che prima della mercificazione dello scambio e dei mezzi di sussistenza nella nostra società, prima della monetizzazione dell’economia, la gente si relazionava reciprocamente e non badava alle differenze religiose. Ognuno pensava che la religione dell’altro dovesse essere una sua questione personale. Ma con la politicizzazione della religione, per come la vediamo oggi, le differenze sociali sono state esaltate dai politici, che le usano per manipolare e controllare la massa della popolazione.

E che ci dici della questione di genere? Ci sono dei cambiamenti nella lotta di liberazione delle donne?

La lotta per la liberazione delle donne in Nigeria e nel resto dell’Africa deve fare un lungo cammino. Nel senso che, la nostra società, che è naturalmente patriarcale, pone l’enfasi sul ruolo dell’uomo. In molte società africane, come ho cercato di far vedere nel mio libro, il ruolo delle donne è diminuito, ridotto quasi a note a piè pagina. Ma la verità è che persino nelle tradizionali società africane, se uso la tradizionale società degli Igbo come esempio, il ruolo delle donne è decisivo, è centrale nella creazione di equilibrio ed armonia sociale. Ma è in gran parte un ruolo misconosciuto.

Stai parlando del ruolo di leaders che le donne svolgono?

Sì. Non ci crederesti, ma lascia che ti dica una cosa – una delle meno ovvie manifestazioni della società africana. Nelle tradizionali società africane, nella tradizionale società Igbo, per esempio, una donna che non riesca a dare figli a suo marito, si trova -nel caso il marito muoia- nella situazione di non poter dare continuità alla discendenza del defunto, per cui è cosa comune per le donne che si trovino in questa situazione, sposare un altro uomo. Allora quando gli africani dicono che il lesbismo o le donne che sposano altre donne, o uomini che sposano altri uomini sono cose che non fanno parte della nostra tradizione, qualsiasi analista politico con le idee chiare, qualsiasi antropologo o sociologo africano, dovrebbe sapere che nella società degli Igbo era cosa comune per una donna sposarsi con un’altra donna, quando si trovava a far fronte ad una situazione di vedovanza, ed essere considerata moglie di una donna più anziana. La quale poteva anche portare a casa un uomo che giacesse con la donna più giovane e fare figli alla memoria dell’ultimo marito.

La tradizionale società africana sarebbe squilibrata e disarmonica senza il ruolo delle donne. Il cui ruolo era decisivo per la risoluzione di dispute. Tra gli Igbo, la risoluzione delle dispute per le terre, nelle famiglie e nei casi di difficili questioni sociali, lo sguardo delle donne, specialmente di quelle che avevano fatto qualche emancipazione materiale, veniva costantemente consultato dagli uomini nelle tradizionali società africane.

Spostandoci dalla tradizionale società africana ai giorni nostri, l’istruzione è stata la forza decisiva per la liberazione delle donne. Le donne vanno a scuola, nei territori degli Igbo ci sono oggi più donne che uomini a frequentare le scuole. Perché gli uomini vanno in giro a fare affari, si dedicano al tradizionale commercio. Sempre più spesso, in molte scuole primarie e secondarie il numero delle studentesse supera quello degli studenti. Molte famiglie hanno capito che se le donne sono istruite, se ne giova tutto il paese, se mandi a scuola un uomo, in certi casi, stai solo formando un individuo.

L’importanza delle donne nella nostra società viene costantemente riconosciuta. I tribunali hanno svolto un certo ruolo nel cercare di liberare le donne dallo stato di inferiorità sociale. In passato tra gli Igbo, le donne non potevano ereditare gli immobili paterni, anche se erano le uniche figlie dei loro genitori. Ora c’è una sentenza di tribunale che dice che un uomo può fare testamento e lasciare le sue proprietà ai figli ed alle figlie in modo uguale. Nei casi in cui non ci sono figli maschi, l’eredità può andare alle figlie.

Quindi c’è stato un qualche progresso. Non c’è un corso di laurea nelle università in cui non ci siano donne – a medicina, ingegneria, geologia, informatica, e non solo materie umanistiche o artistiche. Le donne sono ovunque, persino nell’esercito. Ma devo dire comunque, che dato il fatto che la nostra società è divisa al 50% tra uomini e donne, c’è ancora molto spazio per l’emancipazione delle donne. E’ una lotta continua. Non è qualcosa che ha un termine. In questo momento siamo ad un punto tale da poter prevedere un futuro molto luminoso per la liberazione delle donne e per l’uguaglianza di genere nella nostra società.

Sam, tu hai avuto un ruolo importante nella Awareness League, che era una organizzazione anarchica nigeriana attiva negli anni ’90. Puoi raccontarci della sua ascesa e del suo declino?

E’ con una certa nostalgia che ne parlo, perché la Awareness League era un’idea romantica. Quando siamo andati all’università nei primi anni ’80, abbiamo trovato gruppi socialisti, un insegnamento socialista, un insegnamento più che altro marxista. E fummo attratti dal marxismo, nel senso che esso parlava di una nuova alba futura nella società, e per estensione, nel continente africano. Fummo completamente coinvolti dalle prospettive del marxismo e dalla critica al capitalismo fatta da Marx e dal marxismo. Non ci volle molto perché ci definissimo marxisti all’interno del campus, e continuammo ad esserlo anche dopo l’università. Mi sono laureato con una tesi in economia politica sul debito estero della Nigeria costruita con gli strumenti dell’analisi marxista. Come quello per cui Marx dice che l’economia si pone come un asse attorno a cui girano gli altri aspetti della società, siano essi politici o culturali. Parlai anche della tendenza del capitalismo alla crisi. Queste erano le idee che mi coinvolgevano. Ma anche l’idea della rivoluzione. Marx diceva che la storia di tutte le società esistenti era la storia della lotta di classe, e che la rivoluzione era la levatrice della nuova società, dando alla luce quella nuova.

In genere in Nigeria, dopo la laurea, devi fare un anno di servizio civile. Così fui mandato nella regione di Oyo la cui capitale è Ibadan. E’ stato lì che ho incontrato un paio di giovani socialisti come me, ed iniziammo ad organizzarci ed a parlare di marxismo, socialismo, resistenza di sinistra. Ci siamo definiti essenzialmente come organizzazione di sinistra. In quel periodo alcuni di noi si abbonarono al giornale “The Torch” (La Fiaccola, ndt), che si pubblicava a New York. Fu allora che iniziammo a prendere conoscenza per la prima volta delle prime idee anarchiche. E’ stato così che gradualmente, dopo la fine dell’anno di servizio nazionale, alcuni di noi che vivevano nel sud-est, iniziarono a pensare ad una piattaforma duratura. Anche perché il socialismo stava entrando in una crisi molto seria. La crisi dell’impero sovietico era in corso. Poco tempo dopo, il comunismo collassava in tutta Europa. E fu nel mezzo di questa crisi che noi iniziammo a pendere sempre di più verso posizioni anarchiche. Di conseguenza è nata la Awareness League, e il resto è storia.

La Awareness League trae la sua linfa prima di tutto dalla resistenza contro il governo militare in Nigeria. La continuazione del governo militare funzionava da fertilizzante. Fu una delle ragioni che continuarono a dare ossigeno alla nostra esistenza come Awareness League. E’ ormai storia che tra la fine degli anni ’80 e la fine degli anni ’90, la Nigeria ha vissuto il picco della lotta contro i militari. La Awareness League unì le sue forze con altri gruppi anti-militari nella resistenza alla dittatura in Nigeria. Fu nel corso dei contatti intrapresi con diversi gruppi anarcosindacalisti in tutto il mondo, tra Europa ed America, che insieme ai miei compagni decidemmo di scrivere un libro sull’anarchismo.

La lotta contro il governo militare finì con l’avvento del governo civile nel 1999. Posso dire che l’antagonismo espresso non solo dalla Awareness League ma da tutta la società civile, dai gruppi di quartiere e dalle organizzazioni di sinistra nel paese, virtualmente svanì. Perché i militari erano un fattore di unità, nel senso che ogni persona – anarchico, marxista, socialista, di sinistra – vedeva nei militari un nemico comune a cui resistere, a cui opporsi, da rovesciare se possibile. Con l’avvento del governo civile, non avevamo più quel tipo di nemico comune. Perché alcuni di quei gruppi, alcune individualità di questi gruppi, avevano iniziato a gravitare intorno alla politica borghese. Ma va detto che nella maggior parte dei casi il problema non stava in queste individualità che si avvicinavano alla politica borghese, perché erano tutti i gruppi della società civile insieme alle organizzazioni ed ai gruppi di sinistra che non erano preparati alle conseguenze di un avvento del governo civile. Non analizzammo seriamente quali sarebbero state le conseguenze della fine del governo dei militari e dell’avvento dei civili al loro posto. Demmo per scontato che si trattava della stessa cosa, di affari. Ma, come poi accadde, la fine del governo dei militari singolarmente segnò la fine della maggior parte di questi gruppi di quartiere e della società civile. La maggior parte di questi gruppi, compresa la Awareness League, si frammentarono.

All’alba del nuovo millennio, eravamo poche individualità di sinistra, alle prese con la realtà dell’esistenza sociale e degli sviluppi politici del nostro paese. Alcuni di noi sono ritornati a scuola, prendendo incarichi da insegnante in alcune università, altri sono alle prese con la realtà della sopravvivenza e dell’esistenza nel nostro tipo di società. Io ho dovuto affrontare delle sfide sul piano della salute – cosa di cui preferisco non parlare. Tra il 2007 ed il 2009, ho avuto seri problemi di salute. Per me è impossibile ricostituire la Awareness League nelle circostanze in cui ci troviamo oggi.

Mi dico che non possiamo ricreare la Awareness League, ma forse dobbiamo mantenere qualche forma di interazione tra di noi e con altri nella società civile. Dobbiamo continuare ad impegnarci, anche con quelli che sono coinvolti nella politica istituzionale, in qualche forma di appello a poter contare. Dobbiamo cercare modalità più realistiche per essere più rilevanti nella società e cercare noi di fare la differenza nelle nostre rispettive comunità e nella società in senso più ampio.

Per cui mi sono messo in contatto con un po’ di persone per creare una organizzazione non-governativa nota come Tropical Watch. Che si occupa soprattutto di sviluppo sostenibile e di ambiente, tra cui i cambiamenti climatici. In questo percorso ci siamo imbattuti anche in qualche lotta contro la corruzione. Poiché ci siamo accorti che una della maggiori minacce allo sviluppo sostenibile è proprio la corruzione. Questa rende impossibile allocare le risorse in maniera legale e trasparente. Ne trarrebbero beneficio tutti i settori dell’economia e della società. E’ la corruzione che rende impossibile ad esempio che il governo controlli le foreste in molte comunità. E’ la corruzione che rende impossibile procedere nella costruzione di strade, nella fornitura di acqua, nelle bonifiche. E’ talmente vasta la corruzione che è impossibile creare un equilibrio armonico tra l’utilizzo delle risorse e l’esistenza dell’ambiente e della società. Queste sono alcune delle cose che personalmente, insieme ad altri amici ed individualità, sto cercando di mettere in piedi.

Ma non è stato facile. Perché come ti ho detto quello che è successo alla Awareness League non è un caso unico – è successo ad ogni altro singolo gruppo della società civile, ad ogni altra organizzazione sociale organica nel paese che aveva preso parte alla lotta contro i militari. Ti faccio un esempio. Una delle più grosse ONG degli ultimi 15-20 anni in Nigeria è stata la Civil Liberties Organisation. Era un organismo impegnato nella lotta per i diritti umani, per un governo costituzionale, contro le violenze della polizia e contro tutte le forme di violenza ai danni dei civili, uomini e donne. La Civil Liberties Organisation (CLO) era cresciuta così tanto da avere sedi in diverse parti del paese. Ma ti posso assicurare che nel giro di 7-8 anni la CLO è quasi morta. Infatti, oggi è più o meno una sorta di fantasma, perché non c’è un solo stato della Nigeria in cui abbia una sede aperta e funzionante. Chi faceva il direttore di zona qui a Enugu è stato praticamente lasciato in balìa di se stesso. Non hanno pagato l’affitto della sua sede per 5 anni. Quello che voglio dire è che ciò che è successo alla Awareness League è quello che è capitato alla maggior parte delle altre organizzazioni. Anche la Tropical Watch stenta ancora a stare in piedi da sola.

Ci sono organizzazioni della classe operaia, sindacati, in Nigeria, che possono essere considerati come veicoli per la lotta di classe?

I sindacati in Nigeria sono stati molto attivi nelle prime lotte anti-coloniali. Ti ho già raccontato tempo fa delle lotte del minatori delle miniere di carbone qui a Enugu, che era il centro minerario della Nigeria. Durante le lotte anti-coloniali per l’indipendenza, i padroni coloniali fecero uccidere 49 minatori qui in città, minatori che stavano lottando contro lo sfruttamento. Fu una pietra miliare per lo sviluppo della lotta anti-coloniale in questa parte della Nigeria. Anche nella città di Jos, dove c’era una fiorente industria mineraria, gli operai erano ben organizzati. Le industrie minerarie diventarono un trampolino di lancio per la sindacalizzazione nel paese, compreso il servizio civile regolare. Alla svolta dell’indipendenza, avevamo un consistente sindacalismo operaio nel paese, che è proseguito fino all’arrivo dei militari.

Il governo militare riuscì ad irretire lo sviluppo del sindacalismo nel paese. Ci riuscirono facendo ricorso a sentimenti primordiali, alla religione, al tribalismo ed alle divisioni regionali, come a dire, dividi e governa, per manipolare i lavoratori. Dipende da chi è al governo. Il movimento sindacale nazionale in Nigeria – verso la fine della dittatura militare – cercò di far sentire la sua voce, iniziando ad indire scioperi nazionali sempre più forti ed iniziando a riorganizzarsi su scala nazionale.

Ma ti posso dire che le fortune del sindacalismo sono state ostacolate dal processo di deindustrializzazione che sta avendo luogo nel paese, a partire dagli ultimi giorni della dittatura militare. La maggior parte delle industrie hanno chiuso. Uno dei settori che impiegava più lavoratori nel paese era l’industria tessile ed ora non c’è più. L’industria tessile è stata completamente spazzata via. Ora importiamo prodotti tessili a buon mercato dalla Cina, dai paesi vicini, dall’India. L’industria tessile occupava più di 200mila operai in tutto il paese. Il settore dell’automobile aveva degli impianti di assemblaggio della Anammco qui a Enugu, la Peugeot era a Kaduna, la Peleot era a Bauchi, la Volkswagen era a Lagos. Ora sono tutti chiusi. Avevamo un settore dell’acciaio in diversi posti. Tutti chiusi. Dunque c’è stata una massiccia deindustrializzazione nel paese che nel giro di 20 anni ha colpito le speranze dei lavoratori.

Ora i settori che tirano sono quello pubblico, il settore bancario o l’industria del petrolio. Qui i lavoratori si sentono come dei privilegiati. E quindi fanno fatica a fare attività sindacale, tranne i più giovani. Lo stesso accade nel settore bancario, infatti una delle clausole di impiego è che non si organizzi attività sindacale. Per circa 10-20 anni i lavoratori hanno accettato questa situazione. Ma dopo i primi fallimenti di banche in Nigeria, che sono avvenuti alla fine degli anni ’90, i lavoratori più giovani del settore bancario stanno iniziando a ri-organizzarsi. Ma non sono più così efficaci. Per cui, fondamentalmente, i sindacati che ci sono in Nigeria, sono praticamente quelli del settore pubblico. E sarai d’accordo con me che l’esperienza sindacale industriale si fonda sui luoghi di lavoro dell’industria e non negli uffici con l’aria condizionata ed i colletti bianchi dietro le scrivanie.

Così lo stato delle attività sindacali in Nigeria è deplorevole. E la maggior parte dei dirigenti sindacali guardano alla loro posizione con un occhio alla loro carriera. Pensano alla carriera prima e più di ogni altra cosa. Questo è uno dei fattori chiave che ha influenzato le ultime manifestazioni nazionali, nel senso che i dirigenti del sindacato del Nigerian Labour Congress hanno capitolato all’ultimo minuto.

Lasciami spiegare che i ceti professionali in Nigeria – l’associazione dei medici, degli avvocati, degli architetti, degli ingegneri e professioni simili non sono interessate ad organizzarsi sindacalmente. Questi partono dalla prospettiva di percepirsi come membri privilegiati della società. Anche se le condizioni di una porzione significativa di questi ceti sono oggi a livello dei nigeriani comuni. Per loro non c’è un incentivo ad organizzarsi. Cercano invece come singole persone di sfruttare il gruppo professionale per usare il sistema a loro vantaggio personale o per gli interessi di gruppo.

Sam, quali sono le cose su cui la gente si attiva – gli attivisti di base nel sindacato, o le persone come te in Tropical Watch oppure le organizzazioni della società civile – quali sono le cose per cui la gente cerca di costruire le lotte? Tipo questioni pratiche quotidiane, in cosa le persone impiegano il loro tempo nel cercare di costruire le lotte sociali?

Noi, in quanto attivisti, cerchiamo di vederci. Cerchiamo di fare workshops. Teniamo alcuni workshops che sono sponsorizzati da agenzie di donatori, in cui si riesce a mettere insieme gli attivisti. Abbiamo fatto dei seminari e tenuto workshops sulla brutalità della polizia, sulla violenza della polizia, sulla violenza di genere, sui cambiamenti climatici. Questi seminari e questi workshops puntano a mettere insieme attivisti di tutte le tendenze. E di volta in volta, partendo dai cambiamenti sociali, politici ed economici intorno a noi, cerchiamo di organizzare riunioni tra gruppi ed individualità, e vediamo se riusciamo a trovare un accordo ed a costruire qualcosa.

Ma ad essere sinceri, specialmente nel sud-est non siamo stati capaci di costruire una salda società civile. La gente di Lagos è stata capace di creare modelli migliori perché essenzialmente loro hanno più esperienza in questo campo, che risale agli anni della dittatura militare. La gente di Abuja sta lavorando bene, perché a partire dal movimento per la sede del governo ad Abuja, siamo stati testimoni della concentrazione di attivisti che si organizzano per il riconoscimento governativo in un modo o nell’altro. Ma qui non abbiamo avuto fortuna. Credo che una parte del problema stia nel fatto che la maggior parte delle persone è occupata nella lotta quotidiana per la sopravvivenza. Ma riconosco che questa non è una scusa sufficiente per non essere capaci di organizzarsi.

Ecco l’esperienza di uno dei nostri compagni, Osmond Ugwu, il quale non molto tempo fa è stato vittima di una grande prepotenza di stato. Si era messo ad organizzare i lavoratori nella protesta contro la mancata adozione del salario minimo. Il salario minimo faceva parte del programma politico del governo del PDP (People’s Democratic Party, ndt), ed una legge sul salario minimo nazionale era passata in entrambe le camere della assemblea nazionale. Tutti gli stati del paese erano dunque tenuti ad adottare il salario minimo, a metterlo in pratica nei territori di competenza. Ma qui il governo di Enugu si è rifiutato di applicare la legge o ha cercato di dilazionarne l’applicazione. E quando Osmond ed altri 2 compagni hanno cercato di organizzare i lavoratori, di sensibilizzarli a reagire a questa ingiustizia da parte del governo, è stato messo in prigione. E’ istruttivo osservare che mentre Osmond stava cercando di organizzare i lavoratori, i dirigenti locali del sindacato (il Nigerian Labour Congress, ndt) stavano collaborando con il governo locale e stavano negoziando una attenuazione del diritto dei lavoratori ad organizzarsi. Infine è stato Osmond a pagarne il prezzo restando in carcere e finendo sotto processo. E’ stato rilasciato solo alla fine di gennaio. [2012]. Grazie soprattutto alle proteste sollevate da Amnesty International. Ed oggi deve affrontare delle accuse criminali che sono del tutto ridicole. Questo per capire quali sono le minacce che deve affrontare chi in questo paese intenda lottare per creare una nuova società in questo contesto ambientale.

Un ultima domanda Sam: come potresti definire la solidarietà globale? Cioè, come possono gli attivisti che vivono nei paesi cosiddetti “sviluppati” sostenere le lotte nella maggior parte del mondo e viceversa?

Sì, gli attivisti nel mondo sviluppato possono fare molto per sollecitare la coscienza della gente qui. Ma credo che in fin dei conti deve essere la gente qui ad assumersi la responsabilità per la propria vita, assumersi la responsabilità di resistere ai governi autocratici, assumersi la responsabilità di cercare di portare i governi a rispondere del loro operato.

La gente del mondo metropolitano può assisterci aiutandoci a costruire le nostre capacità. Vedi, i gruppi della società civile qui non se ne stanno a casa ad usare gli strumenti della moderna comunicazione – i social media – quelli che hanno avuto un ruolo molto importante nell’Occupy movement in diverse parti d’Europa e in America, e nella primavera araba. Rimarresti sorpreso se ti dicessi che la protesta nigeriana non è stata sostenuta in modo rilevante dall’uso dei social media. Sì, ci sono stati esempi in cui i social media hanno avuto la loro importanza, ma la nostra nozione di social media qui è quella di usare la posta elettronica o di gestire il tuo profilo su FB. Questa è la nozione media che hanno i nigeriani rispetto ai social networks. Ma ci sono ancora molte difficoltà su come utilizzare twitter o YouTube, come mettere in rete foto e altro, come creare un blog che sia facilmente accessibile agli altri attivisti che sono in rete.

E’ anche vero che qui l’accesso a internet si deve ancora sviluppare. In base ad una mia valutazione siamo sotto il 20% della popolazione. O ancora molto molto meno. Sì, la gente accede alla rete quando usa la posta elettronica, o quando usa Facebook. Ma se si parla di lotta sociale collegata alla rete, l’accesso a Internet scende a meno del 10%.

Così la gente del mondo metropolitano può davvero aiutarci cercando di costruire la capacità di usare gli strumenti della comunicazione dei social media. E’ cruciale fare dei progressi nell’organizzare e nel costruire la solidarietà col mondo esterno. Se avessimo accesso a questi mezzi, sarebbe più facile tenersi in contatto con il resto del mondo, e per quest’ultimo poter conoscere esattamente la vera situazione qui. Le persone qui dovrebbero essere messe nelle condizioni, dovunque si trovino, non solo nelle aree urbane, di poter fare delle foto e metterle in rete per trarne il maggior vantaggio possibile.

Sì. C’è qualcos’altro che vorresti aggiungere prima di chiudere?

Sì, vorrei dire poche cose ai nostri amici anarchici ed ai gruppi che in passato hanno lavorato con noi, che ci hanno aiutato, in un modo o nell’altro, specialmente dall’Europa e dal Nord America. Voglio dir loro che l’anarchismo in Africa non è morto. E’ importante sapere che l’anarchismo come movimento, come movimento politico, come piattaforma ideologica, ha bisogno ancora di un po’ di tempo per potersi cristallizzare qui. E nel frattempo, proseguiamo ad impegnarci del resto della società. Dobbiamo continuare a stanare il governo per costringerlo a dibattere sul nostro terreno. Ecco perché alcuni di noi si sono messi a fare le ONG. Quando qui parli alla gente di anarchismo, ti dicono:”Ah, bene. Cioè? Ah, no no no l’anarchismo è disordine, caos, confusione”. Naturalmente quando fai un’analisi adeguata dell’organizzazione sociale e di come questa [scorretta visione dell’anarchismo] conformi i principi anarchici [su come l’ideologia controlla le persone], capisci qual è il senso.

E’ difficile qui iniziare a costruire un movimento fondato solo sui principi anarchici. Ma possiamo costruire un movimento che chiami il governo alle sue responsabilità, cercando di lottare per l’ambiente, di lottare per l’uguaglianza di genere, per i diritti umani. Perché questi sono i principi minimi su cui una gran parte della popolazione si ritrova, ed ha senso per noi continuare ad interagire ed a interrogare ciò che esiste a livello sociale e di politica pubblica su queste basi. E cercare di far sì che la società civile non si estingua del tutto. Mentre quelli tra noi che continuano sinceramente a credere nell’anarchismo continueranno ad organizzarsi ed a sviluppare gli strumenti organizzativi che un giorno porteranno all’emergere del movimento anarchico.

Sì. Grazie Sam. Ci hai dato tanti spunti su cui riflettere. Credo che con persone come te così a conoscenza delle cose, così critici ed attivi, c’è sicuramente speranza che possa nascere quel movimento di cui ci hai parlato.

Grazie a te Jeremy.

* Questa è una traduzione della trascrizione completa dell’intervista fatta a Sam, nel marzo 2012 a Enugu, in Nigeria. Alcuni estratti sono su questo blog. Si può ascoltare o scaricare il file audio nella sezione audio del blog. L’intervistatore, Jeremy, fa parte del Jura Books Collective – un collettivo anarchico di Sydney in Australia. La traduzione è a cura di FdCA-Ufficio Relazioni Internazionali. “

Massimo Fini, “Il denaro ‘Sterco del demonio'”.

Massimo Fini, “Il denaro ‘Sterco del demonio'”Tascabili Marsilio, 1998 (quarta edizione 2008).

Il libro di Massimo Fini "Il denaro 'Sterco del demonio'"

Massimo Fini é indubbiamente un personaggio difficile da inquadrare nei classici schemi di pensiero o ideologici di “destra” e “sinistra”. Etichettato superficialmente da più parti come “fascista”, in realtà mostra idee poco convenzionali e abbastanza originali, solo in parte frutto di un’eventuale influenza di pensatori dell’estrema destra (vedi il famigerato Julius Evola). Di sicuro, per quanto mi riguarda, mi sento lontano per molti aspetti dal pensiero di Fini, tanto dal suo “elogio della guerra” all’antica o dalla sua difesa del patriarcato o dal suo antimodernismo esasperato e condivisibile solo per alcuni aspetti, quanto dal suo riproporre modelli economici e sociali che si richiamano alla tradizione medioevale europea e che non mettono in discussione concetti quali dominio, gerarchia e autorità. Devo però riconoscere che le sue analisi sono spesso brillanti e per nulla convenzionali, meritevoli di attenzione e, magari, potenziali fonti d’ispirazione come nel caso dell’opera in questione. “Il denaro sterco del demonio” infatti non é solo un’avvincente ricostruzione storica, economica e antropologica su come e quando sia nato il denaro e su come fossero organizzati sistemi economici nei quali la moneta era assente, ma anche e soprattutto una critica devastante e senza mezzi termini al denaro stesso, elevatosi a divinitá dei tempi moderni, una scommessa sul futuro -ovvero sul Nulla. Il denaro condiziona il nostro stile di vita, la nostra esistenza, impedendoci di pensare al presente mentre viviamo in sua funzione ed in funzione di un futuro sempre più lontano ed inafferrabile, ci impone un modello economico, politico e sociale fine a se stesso e non al benessere ed alla felicità dell’umanità, non crea ricchezza reale ma piuttosto sfruttamento. Staccatosi definitivamente col tempo dalla materia, reso ancor più “fantasma” dalle transazioni virtuali, il denaro ha raggiunto la sua perfezione metafisica, ma al tempo stesso si avvicina sempre più alla propria fine, capace solo di riprodurre se stesso teoricamente all’infinito, praticamente fino all’implosione del sistema che ha generato.

Interessante confrontare alcuni concetti chiave sul denaro espressi da Fini in questo suo saggio con le parole pronunciate da David Graeber (alcuni giorni fa ho recensito il suo “Critica della democrazia occidentale”) durante il People’s Economic  Furum nel 2008: