Verità e giustizia per Santiago Maldonado!

Fonte: anarresinfo.noblogs.org

“Il 18 di Ottobre nel rio Chabut è stato ripescato il corpo di Santiago Maldonado.
Era scomparso il 1 Agosto.
Desaparecido. Scomparso. Questa parola viene usata solo in spagnolo, perché solo in questa lingua assume il significato che hanno saputo imprimerle i regimi autoritari che negli anni Settanta hanno insanguinato l’America Latina.
Durante la dittatura di Videla sparirono circa 30.000 persone. Sequestrate, torturate per settimane, mesi, infine gettate in mare ancora vive da aerei militari.
I figli delle prigioniere incinta nacquero in galere segrete come l’ESMA, vennero presi dagli aguzzini dei loro genitori che li spacciarono per propri.
Pochi sanno che nei decenni trascorsi dalla fine della dittatura ci sono stati 310 desaparecidos. Desaparecidos della democrazia. Di loro non si sa più nulla.
Anche Santiago Maldonado sarebbe entrato a far parte della lunga lista di desaparecidos se centinaia di migliaia di persone non fossero scese in piazza in Argentina e nel mondo per chiedere di rivederlo e di rivederlo vivo.
Santiago partecipava alla lotta dei Mapuche della Patagonia argentina e cilena contro la multinazionale italiana Benetton.
Oltre 960.000 ettari di terre mapuche, sfruttate in passato da compagnie inglesi, dal 1990 sono di proprietà di Benetton, che le ha trasformate in enormi pascoli per pecore da lana, bovini e cavalli a loro volta sfruttati intensivamente.
Uno dei tanti casi di land grabbing, furto legale di enormi porzioni di territorio, sottratte alle popolazioni che ci vivevano. La forma “moderna” del colonialismo.
Contro Benetton e lo Stato argentino ampi settori della comunità mapuche conducono una dura e lunga lotta. In questi anni si sono moltiplicate le occupazioni, i piccoli sabotaggi, le azioni di blocco.
Santiago è stato inghiottito da un potere che non guarda in faccia nessuno, pur di continuare a fare affari.
Il primo agosto si trovava a Pu lof en Resistencia a Cushamen, quando un centinaio di poliziotti in assetto antisommossa hanno fatto irruzione, sparando proiettili di gomma e di piombo.
La gente è fuggita attraversando il fiume per ripararsi dalle pallottole. Santiago non è riuscito a guadagnare l’altra sponda e si è nascosto dietro ad un albero. Qui i suoi compagni hanno sentito i poliziotti gridare che ne avevano preso uno. Poi lo hanno gettato su un mezzo della polizia. La polizia ha negato di averlo arrestato ed ha cominciato le “indagini” solo a metà Agosto.
Soraya Maicoño quel giorno si trovava per strada ed è stata fermata e trattenuta per sei ore sulla ruta 40, mentre la Gendarmeria reprimeva la comunità Pu Lof en Resistencia di Cushamen. Ha visto Pablo Noceti, capo di Gabinetto del Ministero di Sicurezza della Nazione, passare più volte di lì.
Ha anche notato che tra i pick-up che si dirigevano a Pu Lof c’erano anche quelli della tenuta Leleque di Benetton. Entravano nel commissariato, tornavano a Leleque, andavano a Pu Lof. Anche loro davano ordini, indicazioni. Erano al corrente di quello che succedeva. Era già successo il 10 gennaio, quando Ronald McDonald, amministratore generale delle tenute di Benetton, prestò il camion del ranch per trasportare i cavalli che avevano sequestrato ai mapuche.
Prima di entrare nel governo di Mauricio Macrì, Pablo Noceti era stato l’avvocato dei militari accusati di aver partecipato alle torture e alle sparizioni degli oppositori politici e sociali argentini durante la dittatura. Noceti aveva messo in dubbio le prove giudiziarie definendole “una vendetta politica” e mettendo in discussione l’impossibilità della prescrizione per tali crimini.
L’uomo giusto al posto giusto, pronto ad accusare di terrorismo le organizzazioni mapuche, mentre Santiago Maldonado era vittima del terrorismo di Stato. In vesti democratiche.
Il giorno prima del sequestro di Santiago, il 31 luglio, membri delle comunità mapuche protestavano davanti al tribunale federale di Bariloche per l’arresto arbitrario di Facundo Jones Huala: sono stati colpiti dalla Gendarmeria Nazionale e dal reparto di Assalto Tattico della polizia aeroportuale di sicurezza, con proiettili di gomma sparati ad altezza d’uomo. Nove persone sono state arrestate e molte altre sono state ferite.
Il primo settembre centocinquantamila persone hanno attraversato il centro di Buenos Aires, mostrando cartelli e gridando a gran voce “Donde esta Santiago Maldonado?”, “Dov’è Santiago Maldonado?” “Lo abbiamo salutato vivo, vogliamo rivederlo vivo.” Le piazze si sono nuovamente riempite il primo ottobre.
A metà settembre fonti anonime della polizia federale avevano fatto filtrare la notizia che Santiago era morto per le torture subite durante la detenzione.
Un mese dopo il suo corpo viene fatto trovare nel fiume Chabut. Trecento metri più a monte del luogo dove erano passati i mapuche in fuga dalle pallottole della polizia. Come ha fatto a risalire la corrente?
Secondo il quotidiano La Nacion ci sarebbe persino un testimone, anonimo e pagato per la sua testimonianza, che avrebbe dichiarato di aver visto Santiago nel fiume. Una testimonianza costruita per screditare i compagni di Santiago, che hanno assistito alla sua cattura. Un modo per assolvere lo Stato.
Nessuno crede a questa storia confezionata per sottrarre alle proprie responsabilità il governo argentino e la la multinazionale Benetton.
Vi ricordate il Rana Plaza?
Il Rana Plaza era uno stabilimento in cui si produceva per diversi marchi internazionali, tra cui Benetton. Siamo in Bangladesh dove “diritti umani”, “tutela dei lavoratori” sono lussi che i padroni non concedono ai loro dipendenti, sfruttati ferocemente per paghe da fame. Ne morirono mille nel crollo di quella fabbrica fatta di carta e sputi. Vuoti a perdere. Come i mapuche. Ma qualcuno dice no, alza la testa, sceglie di lottare per la propria vita e per la propria dignità.
Nella lunga storia della lotta Mapuche per la propria terra, chiare sono le responsabilità dei governi che si sono succeduti.
Altrettanto chiare le responsabilità del gruppo Benetton. Dietro alla facciata antirazzista, gay friendly, ci sono i feroci colonialisti del nuovo millennio.
Le maglie colorate di Benetton si sono macchiate del sangue di tanta gente che lottava. Come Santiago Maldonado.”

Terrorismo islamico e responsabilità dell’Occidente.

A seguito dei diversi attentati di matrice islamica che negli ultimi anni hanno insanguinato l’Europa, numerosi politici, giornalisti e commentatori vari hanno spesso relativizzato le responsabilità dei Paesi occidentali nell’insorgere del fenomeno terroristico, sottilineandone le caratteristiche autoctone e intrinsecamente legate alla natura stessa della religione islamica e alla cultura dei luoghi dove tale culto viene professato.  Pur con le dovute differenze, questi commentatori, solitamente dichiarandosi lontani da qualsiasi intento islamofobo, hanno in comune la tendenza a voler fornire un’alibi alla coscienza del lettore medio, dimenticando come se nulla fosse secoli di politiche coloniali e di imperialismo, di dominio e sfruttamento economico e violenza militare praticate in giro per il mondo da parte delle potenze occidentali. Gli argomenti principali vertono, in maniera più o meno esplicita, sulla presunta incapacità da parte dei Paesi cosiddetti sottosviluppati di Medio Oriente, Nordafrica, eccetera, di fornire stabilità, sicurezza e benessere ai propri abitanti, rimanendo impelagati in conflitti regionali alimentati da governi corrotti e despotici che non concedono ai propri cittadini i diritti liberali ai quali noi siamo abituati da secoli. Concetti quali “Loro non sono passati attraverso la Rivoluzione Francese” e “Nella religione musulmana non esiste separazione fra Stato e Chiesa” vengono ampiamente usati come argomenti a sostegno della discolpa nostrana. Gli opinionisti più progressisti evidenziano come, certamente, vi siano differenze fra diverse concezioni dell’Islam, ma in fin dei conti riconducono la responsabilità delle violenze a logiche in gran parte indipendenti dall’azione svolta storicamente dall’Occidente nelle aree nelle quali il fenomeno ha origine.

Mi sono spesso imbattuto nelle dicharazioni di esponenti della destra tedesca, che, pur non inneggiando apertamente al Terzo Reich, intendevano ridimensionare le responsabilità storiche  della popolazione tedesca, a lor dire soggiogata da pochi individui, di fronte agli orrori della Shoah e del secondo conflitto mondiale. “Es ist Schnee von gestern”, ripetevano, acqua passata come si dice in Italia, un’espressione a metà strada fra il menefreghismo e il colpo di spugna, pronunciata con  leggerezza criminale, con la consapevolezza di chi mette in conto la reiterazione delle nefandezze che relativizza. Nel caso dei rapporti fra Occidente e Medioriente si vorrebbero scordare o perlomeno far slittare in secondo piano fatti storici quali ad esempio l’accordo di Sykes-Picot, tanto per citarne uno fra i più rilevanti, ovvero la creazione di Stati quali Iraq e Siria da parte delle potenze europee Francia e Gran Bretagna per motivi d’interesse economico, politico e strategico. Una dimenticanza univoca visto che un paio d’anni fa lo Stato Islamico, dalle colonne della sua rivista Dabiq, affermava con la sua nascita di infrangere quell’accordo. Allo stesso modo si vorrebbero gettare nell’oblio le politiche del “divide et impera” praticate  da Assad e da altri dittatori  comodi a questa o a quell’altra superpotenza mondiale, in Siria come altrove, sulle popolazioni di Stati creati a tavolino; si vogliono far dimenticare sia il colonialismo esplicito di ieri quanto la dominazione economica di oggi da parte di chi detiene il potere economico e di conseguenza politico, un potere libero di sterminare intere popolazioni devastandone i territori e le economie tradizionali in nome del libero mercato e della crescita economica  senza che si sollevi la stessa ondata di indignazione  alla quale assistiamo dopo ogni attentato compiuto in Europa dagli accoliti del Califfato. Le dinamiche interne al terrorismo islamico esistono, è innegabile. Qualsiasi libro sacro può essere interpretato nel più svariato dei modi, l’oscurantismo fondamentalista e violento è uno dei tanti possibili. Esistono e sono esistiti in passato gruppi terroristici buddisti e cristiani, induisti ed ebraici, musulmani e scintoisti. Quel che ci si deve chiedere è come certi gruppi potrebbero essere sconfitti e, al tempo stesso, come alcuni di essi non lo siano ancora stati. L’invasione dell’Iraq da parte degli eserciti di USA&Co. e le strategie politiche ivi applicate non hanno certo aiutato a far fuori un gruppetto composto originariamente da poche decine di fanatici, né l’opportunistico sostegno statunitense a guerriglieri jihadisti in Afghanistan in funzione anti-sovietica ha contribuito alla stabilità del Paese e alla sicurezza a livello internazionale. Il problema centrale rimane quello di sempre, la logica del dominio: quello che l’Occidente per mezzo dei suoi tentacoli economici, politici e militari esercita nelle aree “povere” e “sottosviluppate” del mondo e quello che alcune forze che vi si oppongono per interessi specifici, oscurantiste e sanguinarie, esercitano in diverse regioni o aspirano ad esercitare. La stessa logica di dominio non guarda in faccia le potenziali vittime degli attentati terroristici di matrice fondamentalista islamica in Occidente, le considera danni collaterali alla stregua di quelli provocati dagli interventi militari in altre aree del pianeta e al tempo stesso si nutre delle paure e delle insicurezze delle persone che in Occidente ci vivono. Chi ha paura è più facilmente disposto a rinunciare ad una parte della propria libertà (già di per sé condizionale!) in cambio di sicurezza almeno apparente. Ed è così che gli strateghi nelle stanze dei bottoni prendono non due, ma interi stormi di piccioni con una sola fava. La paura che rende docili e irrazionali, la richiesta di interventi decisi da parte dei governi, il braccio armato che dovrebbe mettere a tacere il pericolo esterno che si rivolge all’occorrenza contro i “nemici” interni che dissentono, la delega delle soluzioni a chi i problemi consapevolmente li crea, la reiterazione di politiche di dominio, appunto, su scala locale e mondiale. Il terrorismo islamico diviene un’ottima scusa, benzina nel motore del dominio, mentre il terrorismo che ha fatto comodo in passato e fa tuttora comodo al mantenimento dell’ordine costituito e del dominio da parte degli Stati nei quali viviamo viene mascherato, legittimato, giustificato, male che vada negato o attribuito ad altri. I “nostri” sono combattenti per la libertà, mica gente che mette bombe nelle piazze e nei treni o spara sulla folla o rade al suolo interi villaggi!

E noi dovremmo dimenticare, smetterla di indagare le responsabilità dei nostri governi, raccontarci a vicenda menzogne per rendere la realtà accettabile mettendo a tacere le nostre coscienze. Interrogarci sulle logiche profonde di questo sanguinoso circolo vizioso per potervi porre fine? Macchè, è tutta colpa di barbari sottosviluppati nelle cui terre va esportata a suon di bombe la democrazia che nemmeno noi conosciamo, il resto non conta. Torniamo a dormire, tanto sappiamo cosa provoca il sonno della Ragione. Anzi, no, ce lo siamo scordato: roba vecchia, acqua passata.

Cuba: non solo Castro. La storia poco nota del movimento libertario cubano.

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Ieri, apprendendo della morte del líder maximo cubano Fidel Castro, mi è tornato in mente un libro che ho letto quattro o cinque anni fa in tedesco: “Anarchismus auf Cuba”, di Frank Fernández. L’opera mi colpì soprattutto perchè raccontava una storia avventurosa e vivace, entusiasmante nonostante le ripetute sconfitte dei compagni e delle compagne che a Cuba lottarono nel corso dei decenni per la libertà, una storia poco nota anche a chi, come me, pretende di avere una discreta conoscenza del movimento anarchico internazionale dalla sua nascita ad oggi. Originariamente pubblicato in inglese sotto il titolo “Cuban anarchism – the history of a movement”, il volume è stato tradotto in numerose lingue, tra cui anche l’italiano col titolo “Cuba libertaria”. In un articolo di “A-Rivista Anarchica Online” (anno 33 n. 295 dicembre 2003 – gennaio 2004) firmato Lily Litvak, del quale di seguito riporto un’ampio stralcio, viene riassunto il contenuto del libro:

Lotta incessante per la libertà

Oltre all’erudizione che traspare ad ogni pagina, di questo libro attrae lo stile di prosa chiaro, intelligente, controllato, che fa sì che il lettore si senta trascinato dentro gli eventi, quasi ne fosse un testimone oculare. L’opera di Fernández riguarda persone e fatti che lo appassionano e interessano e che, attraverso la sua ricerca, trovano nuove prospettive, nuovi significati e nuova vita. L’autore spiega che si è messo a indagare sull’influenza che hanno avuto le idee libertarie sul popolo cubano per senso del dovere e anche per necessità storica, proprio perché in questo paese gli anarchici hanno combattuto incessantemente per la difesa della libertà e della giustizia. Il primo capitolo copre il periodo coloniale che va dal 1865 al 1898. Vi si analizzano con particolare attenzione le correnti del pensiero anarchico filtrate durante la formazione e lo sviluppo della nazione cubana. Innanzi tutto si nota l’influenza di Pierre-Joseph Proudhon, che ebbe seguaci e discepoli tra artigiani e operai progressisti, soprattutto nel settore del tabacco, la prima industria a Cuba ad avere una coscienza di classe, cui seguì la costituzione della prima società mutua di origine proudhoniana, nel 1857. Si esamina poi l’arco di tempo che va dal primo sciopero del 1856, alla fondazione del settimanale «La Aurora», ad opera dell’asturiano Saturnino Martínez, alla creazione di gruppi di lettura nelle officine dell’industria del tabacco che tanto influirono sulla diffusione delle idee anarchiche.
Fu agli inizi degli anni Ottanta del secolo scorso (il XIX. Ndr) che fecero il loro ingresso a Cuba i concetti sociali provenienti dalla Federación Regional Española, illustrati durante il Congresso di Barcellona del 1881, quando l’adesione alle idee di Michail Bakunin soppiantò l’influenza di Proudhon. Risale anche a quegli anni l’istituzione della Junta Central de Artesanos e del Círculo de Trabajadores de la Habana, mentre cominciava a farsi notare Enrique Roig San Martín, per le idee che diffondeva dalle pagine de «El Productor».
L’autore passa minuziosamente in rassegna i diversi eventi che avevano scandito il consolidamento delle idee libertarie nell’Isola: gli scioperi nel settore del tabacco che avevano paralizzato l’industria, la costituzione della Federación Local de Tabaqueros, che sarebbe divenuta la fonte ideologica dell’anarchismo a Cuba, la prima celebrazione del Primo maggio nel 1890, e infine le continue repressioni da parte del governo.
Viene analizzata scrupolosamente l’importante discussione sorta dalla divergenza di opinioni tra gli anarchici sostenitori dell’indipendenza e quelli che invece cercavano un’altra teoria sociale. Ma Fernández rivela anche come i gruppi rivoluzionari che operavano soprattutto da varie città della Florida costituissero dei nuclei di patrioti libertari separatisti. Nel 1895 scoppiò a Cuba la guerra invocata da José Martí e tra i combattenti vi furono alcuni noti anarchici, soprattutto quelli già emigrati negli Stati Uniti.
Un ambito importante del volume è dedicato all’analisi della relazione tra gli eventi cubani e il movimento in Spagna. L’autore spiega che la crudeltà della guerra favorì il separatismo cubano, grazie anche a libertari come Fernán Salvochea e Pedro Vallina e alle attività di Ramón Betances a Parigi, che aiutarono a fomentare scioperi e proteste. Qui vengono rivisitate alcune delle idee e dei dati esposti da Fernández nella sua opera rivelatrice La sangre de Santa Águeda. Angiolillo, Betances y Cánovas (Miami, Ediciones Universal, 1994). E si può quindi capire fino a che punto l’esecuzione di Antonio Cánovas del Castillo sia stata l’inizio e la causa fondamentale di quello che poi venne chiamato “el desastre” del ’98.

Enrique Roig San Martin

Le ambizioni di Washington

Nel secondo capitolo si studiano le conseguenze di questa guerra e le ripercussioni che ebbero le ambizioni politico-economiche di Washington sull’isola. Cuba era fondamentale negli obiettivi statunitensi per la sua posizione geografica, strategica non solo per le comunicazioni nord-sud del continente, ma anche per essere un punto chiave del già progettato canale che avrebbe collegato i due oceani a Panama. Il risultato fu l’occupazione nordamericana di Cuba, iniziata il primo gennaio del 1899. Il libro racconta cosa accadde nell’ambiente libertario di quegli anni, ricorda alcuni scioperi importanti come quello di Sagua la Grande, la formazione della nuova organizzazione operaia, Liga General de Trabajadores, e la visita di Malatesta sull’isola. Si sofferma anche sulla seconda occupazione americana e sull’eco della rivoluzione sovietica; la costituzione della Federación Obrera de la Habana, e l’arrivo alla presidenza di Gerardo Machado, che sferrò una persecuzione contro gli anarchici.
Il capitolo successivo è dedicato agli eventi che vanno dal 1934 al 1958. È l’inizio di un nuovo governo di taglio izquierdista con accenti nazionalisti, la cui figura di spicco è Fulgencio Batista. Una legge promulgata dal suo governo colpì duramente l’anarchismo a Cuba, poiché impediva di assumere oltre il cinquanta per cento di lavoratori stranieri. Numerosi militanti dovettero abbandonare il paese e trasferirsi in Spagna, dove avrebbero trovato la guerra civile. A partire da questo momento le vicissitudini del movimento anarchico sarebbero state alla mercé dell’allora colonnello Batista, che divenne l’uomo forte di Cuba, colui che instaurò la dittatura ed esercitò un ferreo controllo sulle attività lavorative. Tuttavia alcuni gruppi, come l’associazione Juventud Libertaria de Cuba, riuscirono a trovare un loro spazio.
Veniamo a sapere da queste pagine che, allo scoppio della guerra civile spagnola, gli anarchici cubani avevano aderito alla difesa della Repubblica e avevano fondato a L’Avana una sezione della Solidaridad Internacional Antifascista, che si adoperò per inviare fondi e armi ai compagni della CNT-FAI. Apprendiamo anche che alla fine della guerra, con l’aiuto di militanti libertari, arrivarono a Cuba molti anarchici spagnoli provenienti dalla Francia e dalla Spagna con passaporti cubani.
Gli ultimi capitoli rivelano infine fatti quasi completamente sconosciuti fino ad oggi. Fernández descrive nel dettaglio in che modo gli anarchici parteciparono attivamente alla lotta contro Batista: alcuni dalle guerriglie orientali o da quelle dell’Escambray, altri nella lotta urbana. Già nell’opuscolo Proyecciones Libertarias, del 1956, in cui veniva attaccato Batista, si sottolineava la scarsa fiducia ispirata da Fidel Castro. Nonostante all’inizio si fosse osservato un atteggiamento cauto nei confronti del governo rivoluzionario, ben presto in varie pubblicazioni anarchiche si cominciò a condannare i metodi dittatoriali del regime. Come risposta, il governo rivoluzionario espulse gli anarcosindacalisti dai diversi settori operai. Fin dall’estate del 1960, convinti che Castro propendesse per un governo totalitario di tipo marxista-leninista, gli anarchici diffusero una dichiarazione attraverso l’organo del gruppo sindacalista libertario, in cui ribadivano l’opposizione degli anarchici allo Stato, dichiarandosi invece a favore del lavoro collettivo e cooperativo, ben diverso dal centralismo agrario imposto dal governo, e affermando la propria posizione antinazionalista, antimilitarista e antimperialista. Condannarono altresì il centralismo burocratico e “le tendenze autoritarie che ribollivano nel seno stesso della rivoluzione”.

 

In clandestinità

Questo fu uno dei primi attacchi mossi al regime da un punto di vista ideologico. Da quel momento gli anarchici dovettero rifugiarsi nella clandestinità, accusati di attività controrivoluzionarie. Fernández rende conto delle attività di opposizione di quel periodo, della pubblicazione del bollettino clandestino «Movimento de Acción Sindical» e della partecipazione anarchica a sostegno di centri di guerriglia disseminati nel paese. Dalla metà degli anni Sessanta, i compagni impegnati o meno nell’opposizione violenta dovettero intraprendere la via dell’esilio, mentre fin dal 1961 era iniziato l’esodo in direzione degli Stati Uniti. L’instancabile attività intellettuale dei vari gruppi di esiliati, il loro spirito di intraprendenza e la chiarezza ideologica con cui continuarono a sviluppare le loro attività testimoniano della capacità di sopravvivenza dell’anarchismo. Tra i pochi militanti che rimasero a Cuba, molti furono reclusi nella sinistra prigione di La Cabaña, altri ebbero la possibilità di uscire e continuare il loro lavoro ideologico e culturale tramite la pubblicazione e il contatto con i diversi gruppi di compagni in esilio.
Un importante epilogo ci viene dalle meditazioni dell’autore sulla situazione cubana attuale e sulla praticabilità delle idee anarchiche. Fernández così riassume questa eroica lotta: “Gli anarchici cubani hanno saputo mantenere uno spirito disinteressato di lotta per Cuba e il suo popolo, sono stati i detentori di una lunga tradizione di libertà e giustizia, uniti da una decisione indistruttibile, confidando che il secolo futuro sarà l’aurora di un mondo migliore, più solidale e più libero”.
Questa opera riempie un vuoto nella letteratura storica cubana. È necessario avere coscienza di quella lotta, soprattutto in un momento in cui il popolo cubano deve affrontare il futuro e cercare di raggiungere, finalmente, la realizzazione dei suoi ideali di liberazione nazionale e sociale.”

Nella sua narrazione Fernandez non arriva fino ai giorni nostri. Dopo il crollo del blocco sovietico, Cuba si è progressivamente aperta al turismo, ai capitali e ai mercati internazionali. Il socialismo, mai veramente realizzato, è rimasto presente fino alla fine solo nella retorica dei logorroici discorsi dell’appena defunto Fidel, mentre suo fratello Raul guida oggi il Paese verso ulteriori aperture all’estero, come quella agli USA. Il movimento libertario cubano, seppure con molte cautele per poter sfuggire alla censura ed alla repressione di Stato, si è lentamente riorganizzato nel corso degli ultimi anni sull’isola caribica. La mia speranza è che ulteriori, plausibili aperture ai diritti individuali ed alle libertà politiche, di parola, di stampa ed organizzative nei mesi e negli anni a venire potrebbero permettere in un futuro prossimo una vera e propria rinascita delle idee libertarie a Cuba. I nostalgici dei falliti comunismi autoritari piangono oggi la morte del loro eroe da mausoleo, gli anarchici e le anarchiche di tutto il mondo hanno di fronte a sé una storia ancora tutta da scrivere.

“Non più la Questione Kurda, ma l’Alternativa Kurda”.

Articolo pubblicato in lingua inglese sul sito Kurdish Question e riproposto tradotto in lungua italiana dal sito Da Kobane a Noi:

“Non più la Questione Kurda, ma l’Alternativa Kurda
di Hawzhin Azeez

È un errore, oppure una violenza simbolica, continuare a sostenere che la “Questione Kurda” resti irrisolta.
Per gli studiosi, gli esperti di politiche nazionali e internazionali e i burocrati la Questione Kurda, con le sue complesse implicazioni politiche intra- e internazionali, resta il dilemma chiave dei tempi moderni. La resistenza epica contro Daesh da parte delle YPG-YPJ ha lanciato la Questione Kurda sotto i riflettori internazionali come mai prima. Si tengono seminari e conferenze, libri e saggi vengono scritti uno dopo l’altro e centinaia di persone attingono in massa a pagini e siti pro-Kurdi in cerca di informazioni.
E forse l’etichetta clinica della Questione Kurda poteva essere utilizzata, perché i Kurdi e il loro ostinato rifiuto di venire assimilati e turchizzati, arabizzati o persianizzati è sfociato in reazioni sempre più violente da parte dello stato per risolvere il “problema”. Di conseguenza, per decenni i Kurdi hanno dovuto far fronte alle pulizie etniche, ricollocamenti etnici, politiche di arabizzazione, genocidi, e la perdita dei diritti umani più elementari a causa degli stati arbitrari e artificiali che a loro volta sono stati prodotti da recinti coloniali istituiti con la violenza. Gli stati artificiali e le loro macchinazione repressive e ideologiche hanno promosso politiche di monoidentità violente, escludenti, oppressive che hanno a loro volta portato alla costruzione di identità nazionali immaginarie e costrutti mitici che inneggiano a “una storia, una nazione, una lingua, una bandiera”. Questa identità intrisa di sangue non appartiene soltanto agli stati post-coloniali, ma è tipica di tutti gli “stati-nazione” moderni.

L’attenzione prevalente, interna ed esterna, sulla cosiddetta, prolungata Questione Kurda comprende questo tipo di discorso: “il sistema internazionale fallisce miseramente nel risolvere questo dilemma, o addirittura nel riconoscere la legittimità della drammatica condizione Kurda, persino di fronte alle continue violenze contro i Kurdi, soprattutto in Turchia, violenza che avvengono su ampia scala e che aumentano in maniera inquietante. Una nuova Ferian, “la missione civilizzatrice”, una logica eurocentrica-orientalista che presume che i disgraziati-soggettificati Kurdi chiedano all’Occidente neoliberista, statocentrico, capitalista di individuare la soluzione del loro “problema” – problemi che questo sistema mantiene alacremente.

I danni tremendi e deliberati ai siti storici come Sur, come Nusaybin e, attualmente, Shex Maqsud sono una prova sufficiente della mancanza di volontà e di interesse da parte di questo Sistema; è vero piuttosto che il sistema intenzionalmente spezza il legame tra l’identità e il passato per indebolire lo spirito dei Kurdi. In quanto Kurdi, il nostro dialogo interno e il discorso con l’Occidente non riesce a registrare in maniera definitiva e non apologetica la fine del “problema” (un termine che implica che la colpa vada addossata a coloro che subiscono la violazione dei diritti umani fondamentali, la cui semplice esistenza si pone come un “problema” per il sistema): in che luogo e modo i Kurdi dovrebbero collocare i loro diritti etnico-religiosi all’interno del Medioriente?
È evidente che le continue violenze commesse contro i Kurdi continuano a dimostrare la supremazia e il fallimento del sistema internazionale, eurocentrico e statocentrico. E, cosa ancora più importante, dimostrano il fallimento della democrazia neoliberista, o parlamentarismo capitalista, quale paradigma supremo del “nuovo ordine mondiale”. La privatizzazione, l’avanzata dei mercati, la deregulation, l’outsourcing, l’indebolimento dei sindacati, la diminuzione delle tasse ai ricchi, la forbice sempre crescente tra ricchi e poveri, la depoliticizzazione, l’anti-intellettualismo, le crisi finanziarie globali, la devastazione ambientale, le guerre neocoloniali con conseguenze disastrose (Iraq, Afghanistan…), l’ascesa dell’ISIS e di altre organizzazioni terroriste che crescono in loco ma i cui semi vengono gettati a livello internazionale, l’industria delle armi che vi è associata: tutti elementi sintomatici dei fallimenti della democrazia neoliberista eurocentrica e statocentrica. Perfino nel momento in cui i Kurdi, e altre minoranze etnico-religiose, grazie al confederalismo democratico, continuano a creare democrazie radicali dal basso, comuni e cooperative, consigli di strada, locali e regionali con l’intento di accrescere l’impegno, la partecipazione e la responsabilità politica; perfino nel momento in cui tentano di rimuovere decenni di conflitti primordiali che si sono trascinati nel tempo, di rimuovere l’odio, e al suo posto far nascere una relazione basata sui valori tipici del comunalismo, la tolleranza e la coesistenza reciproca.

Gli accademici, gli esperti e i decision-makers occidentali continuano faticosamente a cercare di affrontare la Questione Kurda; dovrebbero invece concentrarsi sul fallimento congenito della loro infrastruttura capitalista, macchiata di sangue, il fallimento della sua democrazia neoliberista, della sua incapacità a dare risposte efficaci e a creare un equilibrio adeguato ai diversi bisogni delle sue masse sfruttate, dei gruppi e degli interessi minoritari. Al contrario, la democrazia neoliberista continua a promuovere una omogeneità culturale aggressiva perfino nelle cosiddette società “democratiche” e “multiculturali”.

In Australia, la coesione nazionale viene espressa attraverso uno schema razziale illuminista e le conseguenti politiche identitarie xenofobe, che sono poi sfociate nel disastroso “Tampa affair”. Rispedendo indietro i migranti “sui barconi” o i gruppi di subumani che si trovano in fondo allo schema razziale, John Howard, allora primo ministro, decretò che “siamo noi a decidere chi entra in questo paese e in che circostanza”, un approccio che è stato fatto proprio dai successivi governi laburisti e che ha condotto alla creazione di centri di detenzione sulla terraferma e in mare. Carcerazione, malattie mentali, omicidi, stupri di bambini e donne in condizioni di vulnerabilità che cercavano un luogo sicuro, tentativi di suicidio… ecco alcuni degli effetti collaterali di una detenzione coatta prolungata per mesi, se non per anni di fila. Altre migliaia di persone muoiono in mare tentando di raggiungere porti “sicuri”, porti che nel frattempo lavorano alacremente per costruire muri di acciaio per tenerli fuori. Il corpo senza vita di Alan Kurdi ha espresso questa tremenda verità.
E invece il popolo Kurdo e altre minoranze del Merioriente, potenziate e liberate dalla pratica del confederalismo democratico, stanno aiutando centinaia di migliaia di rifugiati e di sfollati interni. Nella città di Kobane, a sua volta irriconoscibile per i danni inflitti, si trova un campo per gli sfollati interni che ospita più di 5000 persone. I cantoni di Cizire e di Efrin accolgono migliaia di migranti forzati e terrorizzati a sfuggire alla brutalità del regime di Assad, o di Daesh, o di entrambi. Le ideologie sinceramente democratiche potenziano e promuovono le facoltà umane della collettività e alimentano l’umanitarismo, piuttosto che fondarsi su un suo indebolimento.

In America e in Gran Bretagna, la democrazia neoliberista sta marciando verso il declino e in tutti i tre paesi appena nominati i mercati e il processo decisionale politico sono dominati da degli oligarchi, con un conseguente aumento delle disuguaglianze economiche. In Gran Bretagna, la disuguaglianza inaugurata dal Thatcherismo ha portato all’elezione di un governo New Labour che non è riuscito quasi in nessun caso a far fronte alle disuguaglianze insite nel sistema neoliberista; quel che poi si è prodotto durante i successivi governi di centro sinistra e di destra sono state crisi economiche e misure di austerità concepite per rendere i ricchi ancora più ricchi, mentre i poveri stentano ad arrivare a fine mese.
In particolare, in America l’ascesa del Trumpismo ha dimostrato il fallimento del sistema Americano, schiavo di think tanks, PACs (Political Action Committees, sovvenzionatori di campagne, personaggi e partiti politici), lobbies e agglomerati mediatici. Tale indebolimento dei controlli democratici ha condotto all’incapacità di affrontare le questioni insepolte legate alla razza, l’avvento del complesso carcerario-industriale e le violenze della polizia, simboleggiate oggi in maniera massiccia dal movimento Black Lives Matter. Al contempo, la perdita dei diritti delle donne, i continui tentativi di chiudere Planned Parenthood e di ridurre i diritti riproduttivi e l’autonomia delle donne per quel che riguarda il loro corpo perfino in casi di stupro dimostra la natura sfaccettata del modello americano di democrazia neoliberista. Parallelamente, politiche ipercostose e il sostegno incontrollato del mercato e delle lobbies per i candidati alle elezioni ha trasformato il modello democratico americano in un vuoto simulacro, dove i lobbisti manovrano le elezioni democratiche e gli interessi degli elettori. Niente personifica meglio questa tendenza dell’ascesa spettacolare – e preoccupante – del miliardario candidato elle elezioni presidenziali Donald Trump, la cui piattaforma politica è fondata prevalentemente sul fascismo, il razzismo, l’odio verso i rifugiati, e che alimenta un islamofobia già esistente, mentre al di là del mare le guerre neoimperialiste continuano.

Ma neppure l’Europa è al riparo dall’avvizzimento della cosiddetta democrazia capitalista. L’ultimo rapporto della Freedom House ha avvisato che “la crisi dei migranti e gli enormi problemi economici stanno minacciando … la sopravvivenza dell’Unione Europea”. La crescente mancanza di trasparenza e individuazione di responsabilità è sfociata nel declino delle democrazie nascenti nei Balcani, portando a un terribile degrado. Paesi come la Serbia, il Montenegro e la Macedonia hanno utilizzato “uomini forti” in politica per richiedere un atteggiamento meno rigido dall’Unione Europea, unione sempre più defunta di ventotto democrazie capitaliste, la cui deplorevole risposta collettiva alla cosiddetta “crisi dei rifugiati” ha dimostrato il crollo delle radici istituzionali, normative, morali dell’Unione.

Nello stesso tempo, la Turchia ha astutamente sfruttato la crisi dei rifugiati per estorcere più indulgenza dall’UE verso i negoziati per l’entrata nell’Unione, mentre continua ad avere un approccio genocida nei confronti della Questione Kurda. La risposta del sistema capitalista è gettare più soldi alla Turchia, nonostante un recente rapporti di Amnesty International abbia evidenziato in maniera preoccupante il prodursi di ritorni forzati di rifugiati siriani. La democrazia capitalista, sotto la leadership illiberale di Angela Merkel, ha condotto al soffocamento degli elementi chiave della democrazia, come la libertà di parola: i disegnatori satirici tedeschi sbeffeggiano Erdogan ritraendolo imbavagliato e minacciato con sentenze di prigione.

Ci troviamo di fronte a una negazione perenne della legittimità dei diritti delle minoranze impegnate nella propria autodifesa e resistenza attiva, che va da un annacquamento di richieste legittime allo sradicamento bello e buono di richieste di diritti portate avanti per anni, come è avvenuto chiaramente nel caso delle dissoluzione delle Tigri del Tamil nel sistema democratico neoliberista, delle comunità Indigene e Aborigene in Medioriente, America Latina, Asia, Stati Uniti, Canada e Australia, che vengono etichettate come “terroristi”, “dissidenti”, “radicalizzati”, come selvaggi non democratici e non civilizzati.

Il governo dell’AKP in Turchia, nel frattempo, continua a massacrare il popolo Kurdo nel silenzio, che diviene così assenso, della comunità internazionale. Non stupisce che di fronte a tale oppressione cresca la “rivoluzionizzazione” dei giovani – piuttosto che la loro “radicalizzazione”, termine che implica la presenza di uno sguardo eurocentrico-orientalista, dall’alto verso il basso, a svilire la legittimità dei diritti delle minoranza all’autodifesa paragonandola a un generico terrorismo sponsorizzato dallo stato, proprio di un depotenziato gruppo etnico-religioso, per mano del secondo maggior esercito della NATO. Moltissimi giovani vanno in montagna in Kurdistan a cercare rifugio e trovano l’addestramento militare, ma soprattutto ideologico, necessario a combattere le strutture oppressive e genocide dello stato.

La mitica “fine della storia” di Fukuyama, espressa con tanta sicumera dai portavoce accademici e intellettuali del Nuovo Ordine Mondiale, guidato dall’egemonia statunitense, è stata evidentemente svuotata di significato nel momento in cui emerge in Medioriente un modello democratico alternativo, radicale, locale: il confederalismo democratico.
In maniera non dissimile, la profezia di Huntington sullo “scontro di civiltà” era stata predicata tra l’Occidente e l’Islam nel mondo post-11 settembre; non era però in grado di immaginare che lo scontro si sarebbe svolto tra la democrazia neoliberista, il cui decadimento interno dimostra le incoerenze e gli antagonismi intrinseci al capitalismo, e la democrazia radicale, definita come confederalismo democratico e sviluppata da Abdullah Ocalan, ispirata dalle opere di Murray Bookchin.
La democrazia neoliberista eurocentrica e statocentrica non ha mai concepito che il cosiddetto scontro di civiltà si sarebbe svolto con un sistema democratico alternativo. Ha presunto che il suo sistema democratico si sarebbe dimostrato l’unica opzione possibile contro alternative fasciste, terroriste e violente; la sua cecità epistemologica non riusciva a rispondere, né anche solo a tenere in considerazione il razionalismo occidentale. Al contrario, il suo orientalismo inerentemente eurocentrico ha reso miopi i falchi neoliberisti che immaginavano semplicemente un mondo popolato da “terroristi islamici” ad alimentare le proprie perpetue macchine belliche. I neoliberisti hanno continuato a dominare e a riorientare i principali enti ed istituzioni internazionali verso la promozione della sua versione di democrazia capitalista: tra gli altri, le Nazioni Unite, la NATO, la Banca Mondiale, il FMI, l’OCSE. Ma, come ha sottolineato Mohamad Tavakoli-Targhi, gli sviluppi sociali “e i processi alternativi, non europei”, non occidentocentrici “sono stati definiti come assenza di cambiamento e storia non storica”.
Non hanno mai immaginato che una delle comunità più oppresse del Medioriente avrebbe formulato una cosmologia, una filosofia e un approccio per la risoluzione dei diritti delle minoranze di natura complessa, coesiva, inclusiva, multiculturale, antimonopolista e orientata al consenso; quella stessa risoluzione che il loro sistema, nel migliore dei casi, non è stato in grado di affrontare, se non l’ha attivamente repressa nelle forme panottiche dell’utilitarismo di stampo Benthamita, concepito per servire gli interessi delle élites minoritarie.
Ma chi altro avrebbe meglio potuto formulare una soluzione alla condizione degli oppressi se non i più oppressi, i più emarginati?
Ma è giunta l’ora.

È giunta l’ora che gli attivisti e gli accademici Kurdi smettano di crucciarsi riguardo alla “Questione Kurda” che continua ad andare avanti, una questione apparentemente irrisolvibile. Non siamo una questione da risolvere; non siamo una formula matematica! Siamo una collettività di persone fortemente oppresse la cui ideologia di liberazione ha creato un modello per la nostra comunità e per milioni di altri colonizzati; una soluzione che la modernità capitalista è stata incapace di trovare se non attraverso il genocidio e la pulizia etnica. Se non riusciamo a capire realmente che cosa significhi sminuiamo il portato del nuovo paradigma, che si sta dimostrando il più efficace nell’affrontare 5000 anni di sfruttamento statale e patriarcato.
Non più la Questione Kurda, ma l’Alternativa Kurda deve essere l’oggetto della nostra attenzione.
I Kurdi sono riusciti a individuare la soluzione al problema che non sono mai stati.
La vera questione è quanto il sistema democratico neoliberista, eurocentrico e statocentrico lotterà per non accettare la sua spettacolare sconfitta.”

Più di mille parole.

Ci sono immagini capaci di comunicare verità e spiegare situazioni più di quanto possano fare mille parole. Eppure i discorsi, tanto nella loro profondità e complessità quanto riassunti finchè possibile in poche parole, sono indispensabili, anche se non sempre vengono recepiti. C’è chi antepone paure irrazionali, pregiudizi e informazioni sbagliate e non verificate a fatti e analisi, rifiuta il confronto ed è sordo a qualsiasi argomento. Con queste persone spesso accade di discutere fino allo sfinimento, sempre che stiano ad ascoltare, per poi accorgersi di aver parlato al vento. Si può spiegar loro come tutte le “culture” siano in fondo multiculture, non siano monolitiche, si evolvano col tempo, siano soggette a cambiamenti e commistioni e come la “nostra” non sia necessariamente migliore di altre; si può far presente che le cause che costringono le persone ad abbandonare i luoghi nelle quali sono nate hanno solitamente origini sociali, politiche ed economiche e che per far sì che nessuno/a sia costretto/a ad emigrare è indispensabile risolvere il problema alla radice in un’ottica emancipatoria, egualitaria ed antiautoritaria; si può far presente che gli/le immigrati/e, in determinate circostanze, fanno comodo al capitalismo e quando non fanno più comodo vengono criminalizzati, deportati o costretti comunque a tornare da dove sono venuti o ghettizzati nel Paese nel quale si trovano; si può ricordare come colonialismo e imperialismo abbiano gettato le basi per le tragedie odierne che hanno luogo in Siria, Iraq, Mali, Nigeria, Somalia, Libia, Afghanistan e altrove, si può far presente come ancora oggi ai potenti nostrani faccia comodo supportare dittature, tacere sulle violazioni dei diritti umani, fomentare divisioni etnico-tribali, esportare armi ed evitare la via diplomatica per risolvere i conflitti ricorrendo a interventi militari quando conviene; si può smontare ogni menzogna diffusa dal primo ignorante di passaggio sui privilegi concessi agli/lle immigrati/e e sui danni che essi provocherebbero alla nostra economia/cultura/nazione… Si può, si deve. Costi quel che costi, col rischio di farsi disprezzare o peggio da chi sputa veleno e sentenze senza conoscere i fatti, senza interrogarsi, senza avere un briciolo di umanità né di solidarietà. Prima o poi qualcuno dei/lle nostri/e interlocutori/trici drizzerà le orecchie, aprirà gli occhi, accenderà il cervello. Vale la pena tentare: con le immagini, le parole, la musica, coi fatti concreti, sempre e comunque.

Lyrics:

Wrong place of birth, wrong papers, wrong accent
“Your presence here is unacceptable accident“
They turn backs on them, puppetry level’s excellent
They’re spitting lies in their eyes and never hesitate

You know what I’m saying, it’s time to spare your prayers
They look the other way for terrorists, smugglers and slavers
But if you’re running for your life, trying to escape the slaughter
They’ll let your wife die and feast on your sons and daughters

Poison the water, the feast of legalized murder
Their lies about human rights don’t cost a quarter
They bomb your home, let the beast roam, close the border
And feed the world another tale by double-tongued reporter

Forward to the past, Can I ask? Do you remember
How the allies were sending people back to gas chamber?
Beware the beast, at least you know what to expect
The circle closes and the history repeats itself

Hook 2x:
Papers, please! They get you on your knees
Straight face, race to the death, Deaf to your pleas
Who’s the real illegal people, who’s the real disease?
We’re all immigrants, We’re all refugees.

The circle closes and the history repeats itself
Like 80 years ago abandoning those to the death
Who happened to be born on the wrong side of the fence
Ignoring obvious atrocities and cries for help

Not all was apathy – fallacy, lost humanity
Progressive wanna-be society begets another malady
No remedy, humanitarian calamity
another people denied the right to live with vanity

Another Human race catastrophe,
Another instance of entitled masses showing lack of empathy
Authorities are waging war, you people lie in idleness
Refuse to take responsibility for leaders’ violence

Communities of hypocrites reveal their rotten values
“Civilized world” devoid of basic principles of kindness
Close minded, close the borders: entry denied
The price of economic comfort is their innocent lives

Hook 2x:
Papers, please! They get you on your knees
Straight face, race to the death, Deaf to your pleas
Who’s the real illegal people, who’s the real disease?
We’re all immigrants, We’re all refugees.

Face the facts, no thanks, “Your passport lacks stamps
Please go back for war, torture and the death camps”
Join the ranks, labeled as illegal people
Cursed by those who suck blood from golden calf’s nipple

Broken families, tragedies, who the devil is
They put another spiked wall on the land they’ve seized
Barbed wire, peace expires, lost evidence
Infection of the whole soul, unknown genesis

Lieber Afrikaner/Cari africani.

Video satirico tedesco del 2011 sullo splendido rapporto di amicizia tra l’Europa ed i popoli africani e sul generoso trattamento riservato agli immigrati nel vecchio continente. La traduzione in italiano è opera mia.

“Caro africano, già in passato noi europei abbiamo diffuso nel tuo continente benessere e felicità e anche oggi mandiamo a te ed ai tuoi governi molti soldi e molti regali. Naturalmente sappiamo che non tutti da te sono pronti per la democrazia, ma noi siamo tolleranti: finché il commercio funziona, noi non ci immischiamo…altri Paesi, altri costumi! Ma, nel caso con il commercio qualcosa non vada per il verso giusto, ti mandiamo volentieri i nostri “aiutanti per l’economia” in soccorso, perché se l’economia va bene anche le persone stanno bene. Così tutti ci guadagnano qualcosa, noi europei riceviamo da te un pó di materie prime e risorse naturali e ti regaliamo in cambio i prodotti della nostra civilizzazione europea…anche la tua numerosa prole ne risulta contenta! Dopo tutta questa nostra generosità comprendiamo il fatto che tu voglia venire in Europa per ringraziarci personalmente, perciò sosteniamo tutti i Paesi attraverso i quali dovrai viaggiare in modo che essi possano costruire le infrastrutture necessarie a rendere il tuo viaggio il più confortevole possibile. E non é tutto, caro africano: se ce l’hai fatta ad arrivare fino al Mediterraneo, verrai aiutato dai nostri amichevoli dipendenti del Frontex, che faranno in modo che tu non ti perda nell’ immensità del Mediterraneo e ti offriranno lezioni gratuite di nuoto. E visto che ogni anno aumentiamo i finanziamenti per Frontex , loro potranno assicurarti che tu abbia sempre abbastanza acqua a bordo e, lavorando contemporaneamente con i tuoi parenti africani, trasformeranno il fondale marino in una bella passerella. Caro africano, quando ( se ) arrivi da noi in Europa, noi teniamo pronta per te una confortevole sistemazione dove puoi finalmente riposarti in pace dopo il faticoso viaggio durato mesi e puoi partecipare alla nostra lotteria per ottenere l’asilo: se vinci puoi rimanere da noi in Europa e guardare ad un roseo futuro. Se però non vinci non devi comunque essere triste, caro africano, perché ricevi comunque come premio di consolazione un biglietto gratuito per il viaggio di ritorno in Africa…e lì il tempo é molto migliore che qui da noi in Europa!”

“Faranno un deserto e lo chiameranno pace”- oppure l’utopia.

Le prime immagini che ricordo di aver visto in vita mia su uno schermo televisivo sono quelle della prima intifada in Palestina: bambini e adolescenti che lanciano pietre contro carri armati israeliani. Se oggi accendessi la tv e mi sintonizzassi su un canale che trasmette un qualsiasi tg vedrei ancora immagini relative allo stesso conflitto: lo Stato d’Israele si difende, stavolta dagli attacchi dei fondamentalisti islamici di Hamas, Israele cerca vendetta contro gli assassini di tre suoi giovanissimi cittadini e la esegue con le proporzioni che da sempre le competono. Israele si difende dal 1948, anzi da prima ancora che venisse formalmente creato, da un popolo che non ha mai rappresentato una minaccia nei suoi confronti. Si difende come già negli anni ’30 del secolo scorso, quando i sionisti capeggiati da David Ben Gurion programmarono e in seguito misero in atto un piano di pulizia etnica nei territori che sarebbero poi entrati a far parte dello Stato di Israele, il che portò tra le altre cose alla cacciata e all’esilio -la naqba-, eseguita con metodi terroristici anche da gruppi quali Haganah, Irgun e Stern, di 250 000 palestinesi. Si difende dalla verità storica, ridisegnando confini a proprio piacimento, insegnando menzogne ai bambini nelle sue scuole, educandoli all’odio nei confronti degli arabi, impedendogli di aprire gli occhi di fronte alla realtà dei fatti, indottrinandoli a venerare l’esercito e preparandoli a farne parte. Si difende dai nemici interni, dai traditori, da quelli che raccontano segreti scomodi come lo scenziato Mordechai Vanunu così come da chi si rifiuta di servire lo Stato indossando la divisa e imbracciando un fucile. Si difende dalle critiche a livello internazionale, dalle manifestazioni di protesta, dagli appelli al boicottaggio e alle sanzioni: l’etichetta di antisemita viene distribuita con generosità a chiunque non taccia di fronte ai crimini commessi dai sionisti nei confronti della popolazione palestinese. Si difende contro quei terroristi dei palestinesi asserragliati nella striscia di Gaza.

Gaza è uno dei territori più densamente popolati al mondo. Non ha aereoporti, porti, stazioni ferroviarie: per sfuggire ai bombardamenti, beffardamente annunciati durante quest’ultima operazione di “autodifesa” da parte dell’esercito israeliano tramite telefonate o sms ai civili palestinesi (guai ad avere il cellulare scarico!), si calcola che questi ultimi abbiano circa 15 secondi di tempo. È ben difficile muoversi liberamente, nella striscia di Gaza, che anche al suo interno vede la presenza di check point dell’ esercito israeliano: star lontani da presunti obiettivi militari non serve, dato che l’Israeli Defence Force ha bombardato finora, nel corso dell’operazione militare in corso (per non parlare nel corso di quelle precedenti) abitazioni, scuole, asili, orfanotrofi, moschee, ospedali, ambulanze, autoveicoli privati, parchi giochi -e chi ci si trovava dentro o nei pressi . Alcuni dei possibili rifugi dalle bombe sarebbero i tunnel che attraversano Gaza, quegli stessi tunnel che l’offensiva di terra dell’esercito israeliano dice di voler distruggere e attraverso i quali verrebbero trasportate le armi destinate ad Hamas. Peccato che attraverso quei cunicoli sotterranei passino anche beni di prima necessità che scarseggiano tra la popolazione palestinese, inclusi materiali da costruzione: i palestinesi non possono edificare a Gaza, mentre possono svegliarsi una mattina e scoprire che la loro casa o il loro uliveto sono stati rasi al suolo per far posto ad un nuovo insediamento di coloni israeliani, che con le inutili risoluzioni dell’ONU ci si puliscono il deretano. L’economia di Gaza dipende interamente da Israele e dai suoi capricci, cosicchè l’85% circa della popolazione che vi risiede vive -o per meglio dire sopravvive, fino alla prossima operazione di “autodifesa israeliana”- sotto il tasso di povertà.

La situazione a Gaza, realisticamente parlando, non è destinata a migliorare, basti guardare come siano peggiorate le cose per la popolazione palestinese che vi risiede a partire dall’operazione Piombo Fuso lanciata da Israele alla fine del 2008. Probabilmente solo quando l’intera popolazione palestinese di Gaza (e possibilmente di tutti i territori facenti parte del fantomatico Stato Palestinese) sarà morta e/o emigrata e/o inglobata come cittadinanza di serie b nello Stato d’Israele, allora non ci saranno più aggressioni militari o conflitti di sorta, sempre che Israele non si senta minacciato da qualcun’altro e non ritenga necessarie nuove contromisure in nome della propria sicurezza a danno di altre popolazioni di altri territori in Medio Oriente. Da una prospettiva meramente utopica si potrebbe invece sognare qualcosa di diverso: un territorio senza Stati né governi centrali, dal quale vengano mandati in esilio solo i fondamentalisti d’ogni sorta e gli inguaribili nazionalisti, razzisti e guerrafondai, una terra nella quale i suoi abitanti possano insieme ed egualmente decidere, vivere, produrre, consumare, crescere, imparare, amare e un giorno morire possibilmente di morte naturale. Per arrivare ad un’utopia del genere, e badate che sto parlando di qualcosa di impossibile, i giovani e giovanissimi israeliani, ragazzi e ragazze non ancora maggiorenni, dovrebbero venire a sapere come siano andate le cose nelle terre da loro abitate ed in quelle limitrofi fin dagli inizi del secolo scorso; dovrebbero liberarsi dall’educazione che gli è stata imposta, dai dettami nazionalisti, militaristi, religiosi; dovrebbero rifiutarsi di prestare servizio militare nell’Israeli Defence Force, farsi magari sbattere in galera finchè non ci saranno più abbastanza galere, dopodiché i loro padri e le loro madri dovrebbero fare la stessa cosa, rendersi conto dei propri errori, della loro sudditanza, di come la vera e unica autodifesa nei confronti delle loro vite e di quelle dei loro cari sia smettere di credere alle menzogne del governo, smettere di seminare terrore, smettere di nutrire l’odio nei cuori di chi viene oppresso fabbricando sempre nuove generazioni di nemici. Quando in Israele si spegneranno le televisioni e si lasceranno a marcire nelle edicole i giornali della propaganda sionista, quando si sciopererà contro l’ennesima operazione militare nella Striscia di Gaza, quando ci si rifiuterà di applicare le leggi razziste promulgate dal knesset, quando le strade si riempiranno non di gente che sventola bandiere nazionali esultando ad ogni morto palestinese, ma di persone che si rifiutano di gettare bombe, innalzare muri o lavorare al servizio dell’ oppressione quotidiana o dell’ennesimo massacro, allora toccherà ai palestinesi fare la loro parte. Nessun inutile razzo, nessun kamikaze senza più nemmeno rispetto per la propria miserabile vita senza prospettive. I palestinesi dovranno prendere atto del cambiamento in corso nella società israeliana e fare il passo più difficile: perdonare. Senza volontà di vendetta, voltare pagina e ricominciare da capo insieme ai loro nuovi fratelli e sorelle. E, ovviamente, levarsi dai piedi gli irriducibili reazionari che ancora fossero rimasti tra le proprie file. Solo a questo punto si potrebbe realizzare la pace, una pace che non sia un deserto ma un presente degno di essere vissuto ed un futuro da costruire insieme.

Cercando l’impossibile, l’uomo ha sempre realizzato e conosciuto il possibile, e coloro che si sono saggiamente limitati a ciò che sembrava possibile non sono mai avanzati di un sol passo”. Michail Bakunin.
 
(Nelle foto sopra, alcune persone che hanno compiuto un passo in avanti: l’obiettore di coscienza israeliano Nathan Blanc e manifestanti israeliani che protestano contro l’ennesima aggressione militare del “loro” Stato nei confronti dei palestinesi di Gaza.)

La Siria, i “buoni” e i “cattivi”.

Finora ho evitato di trattare su questo blog l’argomento del conflitto in corso in Siria. Ho infatti cercato col trascorrere de tempo di farmi un’idea precisa di ciò che stava accadendo in quel Paese, confrontando la mole di informazioni che ci vengono riversate addosso quotidianamente dai massmedia e sul web, anche da fonti di cosiddetta controinformazione, prima di esprimere un qualsivoglia giudizio. Ora che si parla apertamente di intervento militare da parte degli USA e dei suoi alleati mi sento di esporre brevemente le conclusioni alle quali sono giunto finora.

Nel Dicembre del 2012 ho ricevuto per posta un opuscolo informativo dell’associazione “Adopt a Revolution”, che mi invitava a sostenere economicamente i comitati rivoluzionari siriani. Tali comitati sono nati dal movimento di protesta contro l’attuale governo di Bashar al-Assad, con l’intento di rovesciarlo in modo nonviolento per favorire una rivoluzione democratica -questo il sunto delle informazioni contenute nell’opuscolo, nel quale si parla anche di repressione nei confronti degli/lle attivisti, di escalazione del conflitto e dell’impossibilità di proseguire le lotte antigovernative a viso aperto e senza l’uso delle armi. Si parla anche di un codice di comportamento per il “libero esercito siriano” (nel volantino, in tedesco, “Freie Syrischen Armee”), che numerosi gruppi dell’esercito ribelle si sono impegnati a rispettare per evitare saccheggi ed esecuzioni sommarie, escludendo dal discorso i gruppi combattenti formati da fondamentalisti islamici: nelle intenzioni, questo codice di comportamento servirebbe anche a porre le forze combattenti che lo sottoscrivono sotto controllo civile. A queste informazioni si aggiungono quelle delle quali ero venuto a conoscenza mesi prima, tra cui un comunicato unitario di anarchici russi e siriani  ed un’altro comunicato di un anarchico siriano, entrambi schierati nettamente dalla parte delle forze antigovernative. Ora, il fatto che esistano ribellioni in atto contro un qualsiasi governo (a mio parere meno spazi di libertà e dialogo lascia un governo, più la ribellione è urgente), spinte dalla genuina volontà della popolazione nel voler porre fine a forme di autoritarismo ed oppressione politica e sociale può solo incontrare la mia simpatia ed approvazione. Il problema è che nel caso della Siria la situazione è molto più complessa di quanto si possa pensare.

Innanzitutto la posizione geografica del Paese è fondamentale sullo scacchiere internazionale per gli equilibri del Medio Oriente- e non solo. Conseguenza di ciò, come faceva notare il docente universitario Massimo Ragnedda in un suo vecchio articolo online, è anche una vera e propria guerra psicologica di (dis)informazione: gli Stati che vedrebbero di buon occhio la rimozione dell’attuale governo siriano (USA, Unione Europea, Israele, Turchia, Arabia Saudita) non hanno fatto altro che diffondere informazioni manipolate e di parte sul conflitto in corso, attribuendo i peggiori crimini alle forze governative, presentando i guerriglieri come martiri democratici e la popolazione civile vittima di terrorismo da parte delle forze armate di Assad, raccontandoci di attacchi chimici contro civili, città distrutte e rifugiati. Guarda caso, anche la carta della paura nei confronti di nuove ondate migratorie alle porte della fortezza Europa nel bacino del Mediterraneo è stata giocata senza scrupoli di sorta dai massmedia “occidentali”. D’altro canto, dagli Stati in buoni rapporti con Assad (Russia, Cina, Iran) provengono notizie ben diverse sul conflitto in corso, che mettono ad esempio in dubbio l’uso di armi chimiche da parte delle forze armate governative, attribuendolo piuttosto alle forze ribelli indicate come un coacervo di Alquaedisti che, per destabilizzare la regione e spodestare il governo laico e moderato di Assad, commettono ogni sorta di nefandezza anche contro i civili che non sostengono la loro lotta. Quel che è certo è che l’attuale regime siriano, il cui partito Ba’ath è in carica dal 1963, si regge sul potere dell’esercito e di 14 diversi servizi segreti spesso in concorrenza tra loro, ha una natura nazionalista e militarista e difende sostanzialmente gli interessi e i privilegi della minoranza religiosa degli alawiti (sciiti). È altrettanto chiaro che tra i ribelli, foraggiati opportunisticamente anche da potenze straniere, vi sono milizie armate salafite e wahhabite, ovvero composte da elementi islamici fondamentalisti e reazionari, che non si mettono problemi nel liquidare gli alawiti (e non solo!) nel più brutale dei modi. È questa la triste realtá dei fatti con la quale si deve fare i conti prima di esprimere opinioni affrettate e prendere posizione per l’uno o l’altro fronte. Eppure, tra le forze politiche della cosiddetta sinistra radicale (sic!) c’è chi sembra avere le idee chiare: i partiti stalinisti siriani e quelli europei (almeno in Francia e Belgio) stanno dalla parte del regime di Assad, considerato antiimperialista; i trotzkisti dal canto loro si schierano con i ribelli e vedono i fondamentalisti islamici come possibili alleati. Al di fuori di questo pattume, gli anarchici non sembrano avere idee precise, perchè se da un lato ancora non ne ho sentito uno che supporti in qualche modo il governo siriano, dall’altro non tutti sostengono il fronte antigovernativo, inquinato da interessi esterni e composto da forze troppo eterogenee che spesso hanno nulla a che fare con ideali di libertà, emancipazione e uguaglianza.
Si deve anche prendere atto di un’altra evidenza: il conflitto siriano è un conflitto ancora locare, ma la posta in gioco è a livello mondiale. I diritti umani non valgono una sega per le potenze interessate alla soluzione del conflitto a favore o contro il governo di Assad, queste nel sangue dei poveracci ci intingono il pane da tempi ormai immemori. Ogni mezzo è buono per portare acqua al proprio mulino, ai propri interessi geostrategici. A farne le spese sono coloro i quali in questa guerra crepano come mosche, uccisi dalle armi, siano chimiche o meno, delle truppe governative, o dalle rappresaglie di guerriglieri ben poco interessati a concetti quali democrazia o emancipazione, o quelli che -più fortunati?- si trovano a dover fuggire dal Paese dopo aver perso tutti i loro averi per finire in condizioni disastrose in qualche campo profughi. Il settarismo religioso ed etnico, alimentato soprattutto dagli Stati stranieri interessati a favorire l’una o l’altra fazione (creando divisioni soprattutto all’interno del fronte antigovernativo), precipita il conflitto in una dimensione che non lascia spazio a nessuno spiraglio per gli ideali tanto cari a noi anarchici. Un bel puttanaio, insomma, per dirla in modo tanto brutale quanto chiaro. Un intervento militare (che sembra ormai scontato, proprio quando gli ispettori ONU sono appena arrivati in Siria!) non farebbe altro che porre la parola fine non tanto alla violenza del regime di Assad, che verrebbe sostituita da altra violenza (basti pensare nell’immediato, visto che si parla “solo” di un possibile attacco aereo, al fatto che le bombe intelligenti sganciate dai deficienti non guardano in faccia nessuno, se qualcuno ricorda i bombardamenti NATO ai tempi del conflitto tra Serbia e Kosovo, tanto per fare un esempio, saprà a cosa mi riferisco), quanto a qualsiasi speranza residua di una rivoluzione in Siria. Al suo posto, solo un nuovo Stato devastato, colonizzato e privato della sua sovranità…e non sarebbe l’unico. Ma non finirebbe così, ne sono convinto, perchè l’obiettivo finale delle potenze occidentali e dei loro alleati in Medioriente è l’Iran. E se Russia e Cina assumono per ora un ruolo tutto sommato passivo nella vicenda siriana, non credo che farebbero lo stesso in caso di aggressione al loro alleato chiave mediorientale…

“Fermiamo la guerra in Mali”: comunicato della FAI.

Fonte: Anarchaos.

” Fermiamo la guerra in Mali! [Comm. Rel. Internazionali FAI]

http://federazioneanarchica.org/archivio/20130216cri.html

Fermiamo la guerra in Mali!

L’11 gennaio il governo francese ha dato inizio ad un’operazione militare in Mali. Ha dichiarato di intervenire per sostenere le unità maliane contro il terrorismo di matrice islamica che imperversa in quell’area e per difendere la popolazione dalle violenze. Qualche giorno dopo, il 14 e il 17, rispettivamente la Germania e l’Italia, attraverso i loro ministri degli esteri, hanno affermato di appoggiare l’attacco francese in Mali e di essere disponibili a offrire supporto logistico. Passano poche settimane e, all’inizio di febbraio il presidente francese Hollande “atterra” tra le sue truppe a Timbuctu, ripreso dalle telecamere delle TV internazionali, sottolineando che le milizie islamiche/tuareg sono in fuga e il Mali è quasi completamente liberato: “Sosterremo i maliani fino alla fine di questa missione nel nord – ha dichiarato – ma non intendiamo star qui per sempre”.

Una frase che deve essere interpretata in senso esattamente opposto se si allarga lo sguardo alla politica estera dei governi francesi degli ultimi anni.
Infatti, c’è perfetta continuità tra Sarkozy che bombarda la Libia e Hollande che bombarda il Mali.
Sin dal 2007, in Niger, si è sviluppato un movimento tuareg, e dopo quasi cinquantanni di rapporti esclusivi con la Francia,questo paese aveva di recente aperto a compagnie non francesi lo sfruttamento delle risorse minerarie.
Certo, si potrebbero evidenziare le contraddizioni di chi interviene militarmente, ora in difesa della popolazione, ora per togliere di mezzo il dittatore scomodo. Insomma un giorno si spargono i “semi” della democrazia, l’altro si sostengono le forze ribelli con soldi e armi. A volte capita che i nemici di oggi siano stati gli amici di ieri (durante l’attacco alla Libia, Francia e Gran Bretagna hanno fatto ampio uso degli islamisti per combattere le forze armate di Tripoli, poiché i separatisti della Cirenaica non erano interessati a rovesciare Mu‘ammar Gheddafi una volta che Bengasi fosse diventata indipendente).
La campagna di comunicazione massmediatica preferisce mostrare le folle festanti che sventolano la bandiera francese invece delle migliaia di profughi che si sono concentrati in pochi giorni presso i confini maliani. Il ritornello si ripete mostrando i danni che i fondamentalisti hanno provocato al patrimonio culturale, (la biblioteca di Avicenna e i mausolei di Timbouctou) sottolineando il divieto di ascoltare la musica o di vestirsi senza seguire i dogmi religiosi. La distruzione generata dai bombardamenti dell’aviazione, invece, non appare mai.
L’opinione pubblica occidentale si confronta con l’ennesimo conflitto in modo apparentemente indolore: la distanza che ci separa dagli scenari di guerra favorisce, infatti, un certo “distacco”.
Non dobbiamo, però, scordare che gli interventi degli eserciti degli stati alimentano il pericolo “terrorista” (i recenti fatti che hanno interessato l’impianto energetico di In Amenas in Algeria rappresentano un esempio lampante).
Gli effetti di queste politiche neocolonialiste, travestite da missioni umanitarie, si estendono, comunque, anche all’interno dei confini dei paesi europei grazie alle legislazioni speciali antiterrorismo che, in nome della “sicurezza” continuano a erodere gli spazi di libertà e costituiscono uno “strumento repressivo e politico pronto all’uso” per fronteggiare le forme più pericolose e crescenti della protesta sociale.
Esaminando più nel dettaglio l’intervento militare in Mali ci si rende conto dell’infondatezza delle motivazioni ufficiali e delle mille contraddizioni che ne scaturiscono.
L’esercito francese era, da tempo, pronto a intervenire; la richiesta d’aiuto del presidente golpista Dioncounda Traorè è stata solo il pretesto.
È’ impossibile credere che sia stata l’emergenza umanitaria a spingere l’Europa a intraprendere questa nuova guerra. L’Africa è vessata, da decenni, da miriadi di focolai di violenza e nessuna potenza occidentale se ne è mai seriamente interessata. Si dirà che in Mali ad aggravare la situazione c’è l’emergenza “terrorismo islamico”.
Non dimentichiamo, inoltre,il ruolo degli Stati Uniti,in questa guerra,che da decenni contendono alla Francia il controllo della FrancAfrique.
Significativo il fatto che circa tre settimane dopo l’intervento francese in Mali, gli Stati Uniti abbiano siglato un accordo con il governo di Niamey per l’installazione di una base militare statunitense ad Agadez, nel nord del Niger nella zona uranifera del paese.

Dobbiamo considerare questa “nuova” guerra come la prosecuzione naturale della campagna libica e renderci conto che, probabilmente, ci troviamo di fronte a una precisa strategia neo-coloniale di controllo politico del territorio, finalizzato allo sfruttamento delle risorse naturali e inquadrato in un’ottica di contrasto dell’avanzata dei capitali cinesi in Africa. La Cina, infatti, è il primo partner commerciale di Tanzania, Zambia, Congo ed Etiopia (dove il PIL cresce con una media del 5,2% l’anno, cifre impressionanti) e in molte zone vanta l’esclusiva sui diritti di estrazione delle risorse.
Il governo francese ha enormi interessi economici nell’area centro-nord africana e sta cercando, anche con mosse azzardate, di mantenere sotto la propria influenza quelle zone di interesse strategico per l’abbondanza di risorse minerarie ed energetiche.
Il Mali potrà diventare importante nel prossimo futuro, ma il Niger lo è già ora. Non può sfuggire che, poco oltre il confine sud-est del Mali, sono collocate le più importanti miniere d’uranio nigeriane. Il riferimento è alla miniere di Arlit ed Akokan da cui la multinazionale Areva ricava gran parte dello “yellowcake” destinato ad alimentare i 58 reattori nucleari francesi. Nella stessa zona è prevista l’apertura di quella che è destinata a diventare una delle più grandi miniere al mondo per l’estrazione dell’uranio, Imouraren. Non mancano poi l’oro e il petrolio. Quindi, un grande affare che lo Stato francese – “spalla” di multinazionali come Total e Areva (giusto per fare due nomi) non può lasciarsi scappare.
Non si può dimenticare che la politica energetica francese è fondata sull’energia nucleare, una scelta che ha radici nel passato perché direttamente legata alla necessità di rafforzare il proprio ruolo militare nello scenario geopolitico internazionale. Sappiamo bene che non c’è soluzione di continuità tra gli impieghi, cosiddetti, civili dell’energia atomica e quelli finalizzati alla costruzione di ordigni destinati a minacciare l’umanità. Una scelta di sistema che rende, nell’attuale contesto d’instabilità, difficile, per il governo francese, individuare fonti energetiche alternative. La disponibilità dell’uranio rimane, quindi, una questione essenziale almeno in una prospettiva di medio periodo.
Quando l’esercito francese tornerà in patria sarà solo perché il controllo della situazione sarà affidato alle armi amiche delle forze africane alleate con la Francia.
Non è un caso che le forze armate della CEDEAO (Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale) siano state, velocemente, schierate lungo il confine tra Mali e Niger. La necessità di “proteggere” le aree d’interesse minerario da una possibile espansione della rivolta è stata subito evidente.
La nostra epoca è già contraddistinta da crisi energetiche e difficoltà di approvvigionamento di materie prime e non c’è da stupirsi che il capitalismo mondiale stia cercando di correre al riparo, ancora una volta, per garantirsi, con ogni mezzo, una parte del bottino. Tutti noi sappiamo che la guerra e la finanziarizzazione dell’economia sono mezzi per movimentare repentinamente enormi capitali, per riorganizzare equilibri politici di governi, stati e confini nazionali non più funzionali al profitto di multinazionali e società finanziarie.

Nel vicino Niger, da 40 anni, Areva e le sue consociate estraggono l’uranio senza alcun rispetto per l’ambiente e per i lavoratori, gli abitanti vicini ai siti di Arlit e Akokan hanno pagato e pagano un prezzo altissimo in termini di salute e di morte, come risulta da studi indipendenti (CRIIRAD – ROTAB). I minatori di uranio sfruttati infatti, sono esposti a radiazioni ionizzanti nelle cave, nelle miniere sotterranee, nelle officine di lavorazione del minerale grezzo, ma anche nelle città e nelle loro case. In questa zona 35 milioni di scorie radioattive sono raccolte all’aria aperta sin dall’inizio dell’attività estrattiva. Grazie al vento gas radon e altri derivati considerati cancerogeni si spargono nell’ambiente. Ma l’Areva opera anche sul territorio italiano. Il trasporto di materiale irraggiato passa per il nostro paese verso l’impianto di la Hague dove si estrae plutonio (per le bombe) e produce il mox (un combustibile di riciclo con cui funzionano alcune centrali). In Mali è la guerra di sempre, di stato e capitale, dove sfruttamento e saccheggio ai danni della popolazione non conoscono confini nazionali!

Diffondere l’informazione contro l’ipocrisia del potere, rafforzare la consapevolezza per far crescere la voglia di giustizia sociale sono solo i presupposti per sostenere le lotte che in ogni parte del mondo devono liberare gli oppressi da vecchie e nuove schiavitù, economiche, militari o religiose che siano.
Solo attraverso l’internazionalismo, l’antimilitarismo e la solidarietà di classe possiamo da anarchiche ed anarchici fermare l’orda di questo ennesimo, nuovo e lurido conflitto.

Fermiamo la guerra in Mali!
Solidarietà a tutte le popolazioni colpite dalla guerra!

Commissione Relazioni Internazionali
della Federazione Anarchica Italiana”

L’altra Israele.

Nel momento in cui scrivo vige finalmente la tregua, ma le vittime dell’aggressione israeliana nella striscia di Gaza, giunta al suo settimo giorno, sono salite a 164: persone con nomi e cognomi, con le loro vite alle quali è stata posta fine per mano del governo e delle strutture militari di uno Stato che non vuol sentire ragioni e va avanti nel tempo con la sua politica fatta di massacri, razzismo, prepotenza, una politica che nuoce in primo luogo ai palestinesi ma anche, collateralmente, agli stessi cittadini israeliani. Questi ultimi si trovano a dover vivere sotto la costante minaccia di attentati compiuti da persone disperate, alle quali i governi israeliani succedutisi negli anni hanno tolto sempre piú la speranza di una vita dignitosa e di una soluzione equa e pacifica del conflitto. Il terrorismo dello Stato d’Israele non viene perciò appoggiato da tutti/e gli/le israeliani/e: chi si rifiuta di obbedire all’autoritá e di partecipare ai soprusi, alla negazione di diritti elementari ed ai massacri nei confronti della popolazione di Gaza fa parte per ora di una minoranza di persone consapevoli e coraggiose che si spera diventi col tempo sempre più numerosa. Quelle che seguono sono solo alcune tra le tante storie di cittadini/e israeliani/e che hanno voltato le spalle al nazionalismo, al militarismo, al lavaggio del cervello imposto dai dogmi religiosi, all’obbedienza cieca, in nome di altri valori.

Natan Blanc, diciannovenne di Haifa, preferisce la prigione all’arruolamento nell’esercito;

Manifestazione di attivisti/e israeliani nel centro di Tel-Aviv contro l’attacco a Gaza, 15 Novembre;

Sbirri impediscono manifestazione di attivisti/e israeliani a Gerusalemme contro l’attacco a Gaza, 15 Novembre;

Obiettori/trici di coscienza israeliani;

Noam Gur and Alon Gurman refuses to serve in the Israeli military;

Refuseniks and Israeli Soldiers speaks out;

La storia di Jonathan Ben Artzi;

Lettera di un obiettore di coscienza israeliano;

Anarchici contro il muro.