“Faranno un deserto e lo chiameranno pace”- oppure l’utopia.

Le prime immagini che ricordo di aver visto in vita mia su uno schermo televisivo sono quelle della prima intifada in Palestina: bambini e adolescenti che lanciano pietre contro carri armati israeliani. Se oggi accendessi la tv e mi sintonizzassi su un canale che trasmette un qualsiasi tg vedrei ancora immagini relative allo stesso conflitto: lo Stato d’Israele si difende, stavolta dagli attacchi dei fondamentalisti islamici di Hamas, Israele cerca vendetta contro gli assassini di tre suoi giovanissimi cittadini e la esegue con le proporzioni che da sempre le competono. Israele si difende dal 1948, anzi da prima ancora che venisse formalmente creato, da un popolo che non ha mai rappresentato una minaccia nei suoi confronti. Si difende come già negli anni ’30 del secolo scorso, quando i sionisti capeggiati da David Ben Gurion programmarono e in seguito misero in atto un piano di pulizia etnica nei territori che sarebbero poi entrati a far parte dello Stato di Israele, il che portò tra le altre cose alla cacciata e all’esilio -la naqba-, eseguita con metodi terroristici anche da gruppi quali Haganah, Irgun e Stern, di 250 000 palestinesi. Si difende dalla verità storica, ridisegnando confini a proprio piacimento, insegnando menzogne ai bambini nelle sue scuole, educandoli all’odio nei confronti degli arabi, impedendogli di aprire gli occhi di fronte alla realtà dei fatti, indottrinandoli a venerare l’esercito e preparandoli a farne parte. Si difende dai nemici interni, dai traditori, da quelli che raccontano segreti scomodi come lo scenziato Mordechai Vanunu così come da chi si rifiuta di servire lo Stato indossando la divisa e imbracciando un fucile. Si difende dalle critiche a livello internazionale, dalle manifestazioni di protesta, dagli appelli al boicottaggio e alle sanzioni: l’etichetta di antisemita viene distribuita con generosità a chiunque non taccia di fronte ai crimini commessi dai sionisti nei confronti della popolazione palestinese. Si difende contro quei terroristi dei palestinesi asserragliati nella striscia di Gaza.

Gaza è uno dei territori più densamente popolati al mondo. Non ha aereoporti, porti, stazioni ferroviarie: per sfuggire ai bombardamenti, beffardamente annunciati durante quest’ultima operazione di “autodifesa” da parte dell’esercito israeliano tramite telefonate o sms ai civili palestinesi (guai ad avere il cellulare scarico!), si calcola che questi ultimi abbiano circa 15 secondi di tempo. È ben difficile muoversi liberamente, nella striscia di Gaza, che anche al suo interno vede la presenza di check point dell’ esercito israeliano: star lontani da presunti obiettivi militari non serve, dato che l’Israeli Defence Force ha bombardato finora, nel corso dell’operazione militare in corso (per non parlare nel corso di quelle precedenti) abitazioni, scuole, asili, orfanotrofi, moschee, ospedali, ambulanze, autoveicoli privati, parchi giochi -e chi ci si trovava dentro o nei pressi . Alcuni dei possibili rifugi dalle bombe sarebbero i tunnel che attraversano Gaza, quegli stessi tunnel che l’offensiva di terra dell’esercito israeliano dice di voler distruggere e attraverso i quali verrebbero trasportate le armi destinate ad Hamas. Peccato che attraverso quei cunicoli sotterranei passino anche beni di prima necessità che scarseggiano tra la popolazione palestinese, inclusi materiali da costruzione: i palestinesi non possono edificare a Gaza, mentre possono svegliarsi una mattina e scoprire che la loro casa o il loro uliveto sono stati rasi al suolo per far posto ad un nuovo insediamento di coloni israeliani, che con le inutili risoluzioni dell’ONU ci si puliscono il deretano. L’economia di Gaza dipende interamente da Israele e dai suoi capricci, cosicchè l’85% circa della popolazione che vi risiede vive -o per meglio dire sopravvive, fino alla prossima operazione di “autodifesa israeliana”- sotto il tasso di povertà.

La situazione a Gaza, realisticamente parlando, non è destinata a migliorare, basti guardare come siano peggiorate le cose per la popolazione palestinese che vi risiede a partire dall’operazione Piombo Fuso lanciata da Israele alla fine del 2008. Probabilmente solo quando l’intera popolazione palestinese di Gaza (e possibilmente di tutti i territori facenti parte del fantomatico Stato Palestinese) sarà morta e/o emigrata e/o inglobata come cittadinanza di serie b nello Stato d’Israele, allora non ci saranno più aggressioni militari o conflitti di sorta, sempre che Israele non si senta minacciato da qualcun’altro e non ritenga necessarie nuove contromisure in nome della propria sicurezza a danno di altre popolazioni di altri territori in Medio Oriente. Da una prospettiva meramente utopica si potrebbe invece sognare qualcosa di diverso: un territorio senza Stati né governi centrali, dal quale vengano mandati in esilio solo i fondamentalisti d’ogni sorta e gli inguaribili nazionalisti, razzisti e guerrafondai, una terra nella quale i suoi abitanti possano insieme ed egualmente decidere, vivere, produrre, consumare, crescere, imparare, amare e un giorno morire possibilmente di morte naturale. Per arrivare ad un’utopia del genere, e badate che sto parlando di qualcosa di impossibile, i giovani e giovanissimi israeliani, ragazzi e ragazze non ancora maggiorenni, dovrebbero venire a sapere come siano andate le cose nelle terre da loro abitate ed in quelle limitrofi fin dagli inizi del secolo scorso; dovrebbero liberarsi dall’educazione che gli è stata imposta, dai dettami nazionalisti, militaristi, religiosi; dovrebbero rifiutarsi di prestare servizio militare nell’Israeli Defence Force, farsi magari sbattere in galera finchè non ci saranno più abbastanza galere, dopodiché i loro padri e le loro madri dovrebbero fare la stessa cosa, rendersi conto dei propri errori, della loro sudditanza, di come la vera e unica autodifesa nei confronti delle loro vite e di quelle dei loro cari sia smettere di credere alle menzogne del governo, smettere di seminare terrore, smettere di nutrire l’odio nei cuori di chi viene oppresso fabbricando sempre nuove generazioni di nemici. Quando in Israele si spegneranno le televisioni e si lasceranno a marcire nelle edicole i giornali della propaganda sionista, quando si sciopererà contro l’ennesima operazione militare nella Striscia di Gaza, quando ci si rifiuterà di applicare le leggi razziste promulgate dal knesset, quando le strade si riempiranno non di gente che sventola bandiere nazionali esultando ad ogni morto palestinese, ma di persone che si rifiutano di gettare bombe, innalzare muri o lavorare al servizio dell’ oppressione quotidiana o dell’ennesimo massacro, allora toccherà ai palestinesi fare la loro parte. Nessun inutile razzo, nessun kamikaze senza più nemmeno rispetto per la propria miserabile vita senza prospettive. I palestinesi dovranno prendere atto del cambiamento in corso nella società israeliana e fare il passo più difficile: perdonare. Senza volontà di vendetta, voltare pagina e ricominciare da capo insieme ai loro nuovi fratelli e sorelle. E, ovviamente, levarsi dai piedi gli irriducibili reazionari che ancora fossero rimasti tra le proprie file. Solo a questo punto si potrebbe realizzare la pace, una pace che non sia un deserto ma un presente degno di essere vissuto ed un futuro da costruire insieme.

Cercando l’impossibile, l’uomo ha sempre realizzato e conosciuto il possibile, e coloro che si sono saggiamente limitati a ciò che sembrava possibile non sono mai avanzati di un sol passo”. Michail Bakunin.
 
(Nelle foto sopra, alcune persone che hanno compiuto un passo in avanti: l’obiettore di coscienza israeliano Nathan Blanc e manifestanti israeliani che protestano contro l’ennesima aggressione militare del “loro” Stato nei confronti dei palestinesi di Gaza.)

2 thoughts on ““Faranno un deserto e lo chiameranno pace”- oppure l’utopia.

  1. Mi è piaciuto moltissimo questo testo, come del resto accade spesso leggendo BlackBlog. Però non sono d’accordo sull’idea che una visione simile sia “impossibile”: tu stesso fai notare come i refusnik e i collettivi israeliani anti-sionisti siano in continua crescita, anche se parallelamente cresce anche un vero e proprio neofascismo israeliano, foraggiato ampiamente dal governo (…mi ricorda qualcosa), che prende di mira gli arabi che abitano in Israele e che fomenta l’odio contro i palestinesi. Secondo me, da queste parti è più che mai necessario dare voce a questi collettivi e individui, siano essi singoli soldati che hanno detto di no, siano gruppi come gli Anarchici contro il muro o Unity, che peraltro ha nella sua progettualità quello di essere un gruppo tanto arabo quanto israeliano, nella prospettiva di essere poi semplicemente un gruppo di uomini e donne libere. Sono per il boicottaggio di Israele, per lo smascheramento delle menzogne dei giornali e per l’attacco diretto (in ogni forma) alle strutture che fanno affari e accordi con lo Stato israeliano: però tutto questo si deve accompagnare alla solidarietà con chi lotta ogni giorno all’interno dello Stato più militarizzato del mondo, percé è da questa gente che può ripartire qualcosa.
    Allo stesso tempo, penso si debba tornare a dire con coraggio che il popolo palestinese merita libertà, non uno Stato. Su questo tante realtà anarchiche di quqlunque tendenza stanno prendendo la parola (oltre a uno storico articolo di “Machete”, si vedano gli ultimi resoconti dalla Francia su Informa-azione o i comunicati della FAI, dell’USI etc.), ma dobbiamo dirlo più forte, perché in questo Paese si continua a proporre la soluzione “Palestina rossa” o “due popoli due stati”, mentre la cosa che più nuocerebbe alla causa palestinese è proprio la creazione di un ennesimo Stato, nocivo per costituzione alle istanze libertarie. Del resto qualcuno se ne sarà già accorto, dato che quegli stronzi di Hamas non hanno esitato, qualche anno fa, ad alzare le mani e le sbrre delle prigioni contro i militanti e le militanti dell’FPLP che protestavano per la crisi energetica interna.
    Con alcuni compagni stiamo realizzando un po’ di documentazione su questi argomenti. Parliamone assieme.

  2. Ciao! Innanzitutto scusa se rispondo solo ora al tuo commento, ma purtroppo riesco ad aggiornare il blog solo sporadicamente e non lo visito nemmeno tanto spesso a causa di parecchi impegni di varia natura che ho nella vita quotidiana. In breve: la citazione di Bakunin non è messa a caso e fa capire che io non ritengo in fin dei conti impossibile un vero cambiamento, perchè spesso è proprio puntando verso l’impossibile che si realizzano i cambiamenti concreti. Certo, sono sfiduciato nel vedere che qualla parte della società israeliana alla quale va la mia più sincera stima e ammirazione sia una parte minoritaria, i cui elementi devono vedersela con una quotidianità fatta di ostilità e disprezzo. Eppure, se queste persona terranno duro e sceglieranno le strategie di lotta più proficue, forse un giorno saranno davvero i vettori di un cambiamento radicale. Quello della libertà nell’uguaglianza, senza Stati né altre forme di dominio ed oppressione, è l’obiettivo piú alto che l’Umanità possa porsi: concretamente ci sono persone che si rendono conto che gli altri percorsi provati finora non hanno portato a risultati soddisfacenti, così come ci sono persone che si rendono conto che in fin dei conti lo Stato d’Israele non garantisce sicurezza e pace agli ebrei in quel territorio, tutt’altro! La vera sicurezza nasce dall’essere circondati da amici e non da nemici, così come la vera libertà non si conquista scambiando un’oppressione con un’altra: certo si deve ripartire da questi semplici concetti (semplici in teoria, per noi, ma è difficile farli avanzare in una società come quella israeliana, anche solo a livello di dibattito pubblico), ma si deve anche ricordare ad ogni occasione che la lotta contro il sionismo interessa non solo i palestinesi, che esistono ebrei, anche cittadini/e israeliani/e, che si oppongono all’oppressione ed alla guerra condotta dal “loro” Stato: questo è uno dei punti fondamentali dai quali partire quando si inizia un discorso sulle prospettive e sulle soluzioni in chiave libertaria del conflitto israeliano-palestinese, insieme al fatto che la creazione di nuovi Stati o il mantenimento di quelli vecchi, magari con una diversa legislazione o un diverso governo, non è la soluzione al problema. Questi contenuti si dovrebbero porre al centro di ogni iniziativa pubblica, di ogni forma di lotta a sostegno del popolo palestinese- e a sostegno dei compagni e delle compagne che lottano ovunque, anche in Israele, per la causa comune. Iniziamo insomma a differenziarci nei contenuti all’interno delle generiche iniziative “in solidarietà al popolo palestinese”, credo sia un buon punto di partenza che richiede di per sè parecchio lavoro.

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