Gerusalemme capitale e la strategia imperialista degli USA in Medioriente.

Trump and NetanyahuLa decisione presa dal presidente USA Donald Trump di riconoscere la città contesa di Gerusalemme come capitale dello Stato di Israele e di spostare in quella città l’ambasciata statunitense in Israele ha scatenato non solo una serie di proteste formali da parte dei governi di mezzo mondo, ma hanche rinfocolato un conflitto, quello fra Israele e Palestina, che non necessitava certo di questa nuova doccia di benzina su un fuoco che arde ormai da almeno ottant’anni. Perchè Trump abbia deciso di sposare l’idea di Gerusalemme capitale se lo chiedono in molti, diversi analisti e commentatori hanno provato a dare una risposta al quesito. Forse che, fallito per ora lo scontro nucleare col rivale nordcoreano Kim Jong “Bimbominkia” Un, Donald “Er Pannocchia” Trump si consoli seminando l’ennesimo casino in Medioriente per poter trascorrere le feste natalizie in modo un pò meno noioso del solito? Battute a parte, le ragioni di questa mossa andrebbero principalmente cercate nella volontà statunitense di recuperare terreno nella competizione imperialista in Medioriente rispetto alla Russia, Paese che finora sembra aver guadagnato più punti d’influenza in seguito all’esito del conflitto militare in (e intorno alla) Siria.

Infatti la scelta di Trump di riconoscere Gerusalemme capitale d’Israele non solo mira a rafforzare l’appoggio della destra religiosa e filo-sionista in politica interna, ma è soprattutto un regalo agli alleati per eccellenza degli Stati Uniti d’America. Un secondo regalo potrebbe essere l’inclusione d’Israele fra gli Stati coinvolti nella spartizione di alcuni territori appartenenti alla Siria al termine del conflitto in corso: la cessione al controllo israeliano per volontà statunitense di un’area demilitarizzata della Siria contigua alle Alture del Golan. In una costellazione di poteri imperialisti locali e internazionali complessa, nella quale la Turchia volta le spalle agli USA rivolgendosi alla Russia, l’Arabia Saudita è in difficoltà nella guerra in Yemen contro i ribelli sciiti filo-iraniani e l’Iran sembra essere lo Stato mediorientale che ha guadagnato di più dal risultato del conflitto siriano, vedendo riconfermato Assad al potere in Siria e affermando la propria influenza in ampie aree dell’Iraq, Israele si rivelerebbe un efficace grimaldello nelle mani del potere statunitense per contrastare l’egemonia della Russia e dei suoi alleati.

In questo contesto il governo statunitense abbandona, almeno per il momento, la soluzione dei due Stati in Israele/Palestina, sostenuta in passato peraltro solo a parole, gettando Gerusalemme capitale come pomo della discordia sul piatto della bilancia degli equilibri mediorientali. D’altronde, se non in maniera strumentale, l’idea di due Stati come soluzione del conflitto israeliano-palestinese non interessa realmente a nessun governo mediorientale né internazionale, ma se anche fosse: due Stati non fanno nemmeno mezza soluzione – tutt’altro! E mentre in questi giorni si riaccende la violenza fra israeliani e palestinesi, in un futuro non troppo lontano la situazione potrebbe addirittura peggiorare trascinando nei conflitti utili alle potenze imperialiste un gran numero di persone che con quegli interessi nulla hanno a che spartire, strumenti di un gioco al massacro al quale ci si deve assolutamente opporre a prescindere da quale potere possa esserne il vincitore.

Neofascisti: teste di legno e teste di cazzo.

Al più tardi dai tempi dello scandalo di “Mafia Capitale” anche i più distratti si sarebbero dovuti rendere conto di quali siano i veri ideali e i veri interessi delle organizzazioni neofasciste. In realtà ci si sarebbe dovuti accorgere da tempo di come stanno realmente le cose, sulla base di parecchi fatti analoghi, ma tant’è, meglio tardi che mai. E visto che nemmeno oggi è troppo tardi, ecco l’ennesima notizia a riprova che al di sopra di qualsiasi altro valore professato dai  patridioti orfani del duce ce n’è uno che conta più di tutti: il denaro. Anche a costo di fottere i propri camerati.

Questa, se il resto non fosse sufficiente, è l’ennesima prova di quale sia la natura di certe organizzazioni e dei personaggi che le compongono. Già dai tempi della loro fuga  in Gran Bretagna nel 1980 per sfuggire ai processi e alle condanne per reati di terrorismo comminate dai tribunali italiani, Roberto Fiore e Massimo Morsello, da bravi terzaposizionisti, scelsero la posizione che maggiormente gli faceva gola: quella degli affari. Con l’aiuto dell’amichetto xenofobo Nick Griffin crearono l’agenzia Meeting Point, collegata con l’italiana Easy London, iniziando a riempirsi le tasche nel loro esilio dorato, mentre Fiore lavorava per la tanto odiata perfida albione in qualità di agente dei servizi segreti dell’MI6. Rientrati comodamente in Italia con la calorosa accoglienza di diversi deputati del centrodestra, i due si occupano del neofondato partito Forza Nuova, il cui leader indiscusso rimane fino a oggi Roberto Fiore (Morsello morirà di malattia nel 2001). Occuparsi del partito significa non solo promuovere iniziative razziste, sessiste, omofobe, anticomuniste, antisemite e antiziganiste che vanno dagli insulti agli attentati dinamitardi (come quello compiuto nel 2000 da Andrea Insabato, simpatizzante di FN, contro la sede del quotidiano Il Manifesto) ai pestaggi per i quali ci si serve di adolescenti senza bussola né valori, manipolati a dovere. Tra un corteo “Prima gli italiani!”, un commento razzista victim blaming e un attacchinaggio di manifestini d’insulto a froci negri, si trova anche il tempo di fare affari. E siccome pecunia non olet, gli affari si fanno un pò con tutti, tanto col Vaticano quanto con la Russia, anche usando militanti ignari come prestanome. Con tutta una serie di belle aziendine dai nomi anglofoni molto cool e trendy è certamente più facile occuparsi delle esigenze degli italiani poveri ai quali banche, immigrati e massoni avrebbero tolto tutto, difendere la famiglia tradizionale da aborto, gay e educazione sessuale e promuovere i sani valori dell’anticomunismo e della supremazia della razza bianca. Magari i vertici forzanovisti negheranno l’evidenza (tanto sono allenati a negare, vedi l’Olocausto), ma i fatti sono sotto gli occhi di tutti. Alla prossima occasione in cui li vedrete sfilare nella vostra città al grido di “Tutto per la Patria!” forse avrete occasione di chiedergli quanto sia patriottica la loro modalità di fare politica. Intanto accontentatevi della genuinità delle loro meravigliose idee che, in una società decente, costerebbero badilate sul grugno a chi le professa e non indifferenza e spallucce.

Catalogna: dopo il referendum, lo sciopero generale.

Le immagini della violenza poliziesca scatenata per ordine del governo centrale spagnolo il 1 Ottobre in Catalogna hanno fatto il giro del mondo e non verranno dimenticate facilmente nemmeno dai mandanti dei pestaggi. Mentre più del 42% degli/lle aventi diritto al voto in Catalogna sono riusciti/e a recarsi ai seggi, votando con una maggioranza del 90% a favore dell’indipendenza della regione dal resto della Spagna, altri/e sono stati/e dissuasi/e dal comportamento professionale e adeguato – questa la definizione ufficiale usata dai governanti spagnoli del PPE- della Guardia Civil. Tale professionalissimo e adeguatissimo (ad un regime fascista, s’intende) comportamento ha significato manganellate a raffica e proiettili di gomma su persone disarmate che hanno opposto nella quasi totalità dei casi solo resistenza passiva e ha prodotto quasi 900 feriti. Le reazioni da parte di governi e istituzioni straniere variano dallo sdegno all’imbarazzo (un esempio per quanto riguarda la stampa: il quotidiano conservatore tedesco Die Welt  parla di catalani  bastonati a sangue dalla Guardia Civil di fronte ai seggi elettorali), mentre quelle interne sono sfociate in uno sciopero generale in Catalogna, indetto per il 3 Ottobre, e in manifestazioni di solidarietà nel resto della Spagna e all’estero. Numerose organizzazioni anarchiche e in particolare anarcosindacaliste hanno partecipato attivamente allo sciopero, non in quanto sostenitrici della creazione di uno Stato catalano separato dal resto della Spagna, ma per mostrare la loro avversione nei confronti dell’occupazione e della violenza poliziesca, per riaffermare il diritto all’autodeterminazione, per riportare al centro del discorso la questione di classe, contro lo sfruttamento capitalista e l’oppressione statale, come si legge in un comunicato congiunto firmato da sette organizzazioni di area libertaria. I sindacati maggioritari e concertativi UGT e CCOO, dopo aver rifiutato di aderire allo sciopero, hanno ripiegato su una giornata di protesta simbolica contro la violenza poliziesca.

Gli/le scioperanti hanno bloccato strade e autostrade, paralizzato i trasporti pubblici, incrociato le braccia nelle fabbriche, negli uffici, nelle scuole, nei mercati, nei porti e nei magazzini. Lavoratori/trici, studenti/esse, pensionat/e e disoccupati/e hanno occupato le strade e le piazze, protestando di fronte alle sedi della polizia e del Partito Popolare. Molti negozi sono rimasti chiusi. Proteste anche da parte del personale radio-televisivo in sciopero per la vergognosa manipolazione delle notizie sulla repressione del 1 Ottobre. E non solo in Catalogna si è scioperato,  anche in molte città spagnole hanno avuto luogo manifestazioni e presidi di solidarietà con una forte partecipazione anarchica. Per un resoconto più esteso dello sciopero, delle proteste e delle reazioni, corredato di numerose foto: http://www.alasbarricadas.org/noticias/node/39004

Lunedì il governo regionale catalano potrebbe già proclamare l’indipendenza. Lo sciopero generale del 3 Ottobre ha dimostrato che è possibile andare oltre le semplici rivendicazioni indipendentiste.

Contra tot Estat. Per la llibertat. Per la revolució social!

Contra todo Estado. Por la libertad. ¡Por la revolución social!

Un’opinione anarchica sull’indipendentismo catalano.

Che il referendum sul’indipendenza catalana indetto per il prossimo 1 Ottobre abbia successo o meno, a prescindere dal fatto che un suo esito eventualmente positivo non venga riconosciuto dalle istituzioni dello Stato spagnolo, vorrei abbozzare alcune  considerazioni generali, dal mio personale punto di vista di anarchico, sulla questione specifica dell’indipendentismo catalano e, piú diffusamente, sull’indipendentismo in generale, partendo da un presupposto libertario. Premetto che non è facile farsi rapidamente un’idea delle dinamiche che agitano gli animi dei fautori dell’indipendenza catalana e dei loro avversari unionisti. Ritengo che un buon punto di partenza sia la lettura dell’articolo pubblicato sul sito Sollevazione col titolo “La Catalogna, la Spagna e l’Unione Europea” che, da un punto di vista fortemente critico nei confronti dell’indipendenza catalana da una prospettiva di sinistra “radicale” e antieuropeista, spiega in maniera abbastanza approfondita chi e perchè sostiene il referendum sull’indipendenza catalana e chi e perchè vi si oppone, contestualizzando in particolare il rapporto degli indipendentisti con l’Unione Europea. Di articoli su questo tema se ne trovano molti altri, di diverse tendenze, sul web e su carta e, se ci si vuol fare un’opinione con un minimo di fondamento, se ne dovrebbero selezionare, leggere e confrontare parecchi. Due libri segnalati come interessanti che trattano la questione catalana sono:  Elena Marisol Brandolini, Catalunya – España, il difficile incastro, Roma, Ediesse, 2013 e Angelo Attanasio e Claudia Cucchiarato, La questione catalana. Independéncia?, GoWare, 2013 [e-book].

Ed eccomi arrivato alle mie considerazioni sulla faccenda, riassunte schematicamente:

Indipendentismo, una panacea per tutti i mali. La politica dei partiti tradizionali e del governo centrale corrotto, incompetente e distante dai tuoi interessi ti delude? Sei in balia di una crisi economica che mette in dubbio quel che finora sembrava certo? Non ti senti padrone di decidere della tua vita e intorno a te serpeggia il malumore di altri insoddisfatti? La soluzione indipendentista, fermo restando i presupposti storico-culturali (se non ci sono si inventano dal nulla, come in “Padania”), potrebbe fare a caso tuo! Almeno questo è quello che ti raccontano i venditori di fumo interessati a trarre vantaggio dal riassetto istituzionale in questione. Non metto in dubbio che tra i sostenitori di una qualsiasi secessione ci siano anche persone benintenzionate e in buona fede, ma queste persone solitamente antepongono l’emotività al discorso razionale e tendono ad adeguare la realtà alle proprie opinioni e aspettative e non viceversa. Secondo me chiunque ha il diritto di autodeterminarsi, il che va ben oltre qualsiasi dichiarazione di voler rendere indipendente una regione da un’altra. Io intendo l’autodeterminazione come un processo di libero sviluppo della propria persona, di libera scelta riguardo i più disparati aspetti della propria esistenza.

A propugnare l’indipendenza della Catalogna dal resto della Spagna sono partiti di diversa tendenza e ispirazione, ma soprattutto persone di condizione sociale ed economica molto diversa fra loro. Su quest’ultimo aspetto non si può sorvolare. Che interessi comuni hanno il proprietario di una catena di alberghi e un lavapiatti? L’uno è lo sfruttatore dell’altro, lo è oggi anche grazie alle leggi spagnole e lo sarebbe ugualmente in un ipotetico futuro grazie alle leggi di uno Stato catalano. Se gli indipendentisti volessero fare una rivoluzione sociale abolendo il capitalismo e sostituendolo con modelli economici collettivisti/comunitari/solidali (cosa che, a ben guardare, ben pochi tra loro sognano) non perderebbero tempo sperando di vincere un referendum per il riconoscimento legale di un nuovo Stato sottomesso fin dalla sua nascita alle politiche del neoliberismo globale. Alla classe politica non interessa certo perdere i privilegi dei quali gode, né i capitalisti catalani sono smaniosi di rinunciare ai loro profitti perdendo competitività sui mercati, soccombendo alla concorrenza o lasciandosi addirittura togliere i mezzi con i quali sfruttano chi lavora per loro. Combattere al fianco del tuo nemico ha senso solo se tu lo ritieni piuttosto un alleato col quale far causa comune in nome dell’obiettivo principale che persegui, in questo caso un nuovo Stato. Competitivo, forte sui mercati, capace di crescita economica, politicamente e socialmente stabile. Il tutto condito con sangue e sudore dei lavoratori che hanno abdicato alla loro coscienza di sfruttati e oppressi in cambio di nuove catene.

“Ma abbiamo le stesse radici culturali!”, mi son sentito dire parecchie volte da indipendentisti di varia provenienza. Che differenza fa se a picchiarti è un bastone rosso o un bastone nero?, rispondo io riecheggiando Bakunin. E che differenza fa se chi ti spreme via tempo, forze e intelligenza a proprio vantaggio è nato nella tua stessa città, parla la tua stessa lingua, se amate gli stessi piatti tipici, professate lo stesso culto religioso e festeggiate le stesse ricorrenze? A parte il fatto che la cultura si crea e si modifica, non mi sembra un requisito fondamentale sul quale costruire alleanze o peggio in nome del quale scannarsi.

Eppure, un tempo si parlava di popoli e nazioni oppresse. Almeno in campo marxista era un dato di fatto indiscusso, come ricorda Steven Forti in un articolo ripreso da “A-Rivista Anarchica” del Dicembre 2013-Gennaio 2014: “In Irlanda, per il Marx maturo, non c’era una questione sociale al di fuori di una questione nazionale. Anche l’ultimo Engels sottolineò in più occasioni come l’internazionalismo del proletariato era possibile solo se esistevano nazioni indipendenti. La posizione di Lenin, ribadita più chiaramente nel Congresso dei popoli oppressi tenutosi a Baku nel 1920, era stata resa esplicita già nel 1916: “Credere che la rivoluzione sociale sia immaginabile senza le insurrezioni delle piccole nazioni nelle colonie e in Europa (…) significa rinnegare la rivoluzione sociale”.
Anche Mao, almeno a partire dalla Lunga Marcia iniziata nel 1934, dimostra posizioni orientate ancora di più in questa direzione: “nella lotta nazionale, la lotta di classe assume la forma di lotta nazionale; e in questa forma si manifesta l’identità tra le due lotte”. Ovvero: “Nella guerra di liberazione nazionale, il patriottismo è perciò un’applicazione dell’internazionalismo”. Lasciando da parte sia le ovvie considerazioni riguardo l’incoerenza dei pessimi epigoni di Marx nell’applicare il principio di autodeterminazione dei popoli, sia le funeste conseguenze degli ossimorici “socialismi di Stato”, mi chiedo se nel caso della Catalogna si tratti di una lotta di liberazione dallo stato centrale e non, come invece sembrerebbe, un caso di sciovinismo bell’e buono. La Catalogna infatti è fra le regioni più benestanti della Spagna, parte degli indipendentisti ritengono che starebbero meglio economicamente se avessero un loro Stato (lo conferma lo studio di un’associazione imprenditoriale catalana favorevole all’indipendenza, lo smentiscono tutte le fonti vicine al governo di Madrid). Perciò via i pesi morti, avanti i più forti. Il tutto in un’ottica borghese di sciovinismo del benessere, mentre la solidarietà e le lotte comuni con qualsiasi sfruttato ed oppresso spagnolo, immigrato o che vive, lavora e lotta altrove vanno a farsi friggere.

Mentre pure un’organizzazione che era marxista e autoritaria come il PKK ha cambiato da diversi anni visione e obiettivi  e tenta oggi di realizzare, insieme ad altre forze politiche, sociali e militari non l’indipendenza di uno Stato-nazione, ma l’autonomia di una regione, il Rojava, in chiave multietnica e sotto la bandiera del confederalismo democratico di ispirazione libertaria, devo tristemente constatare che altrove c’è chi ancora si attacca all’idea di Stato. C’è da riflettere anche sulle affermazioni fatte da un militante catalano del sindacato anarchico spagnolo CNT durante un’intervista di due anni fa, pubblicata da Umanità Nova. Se da un lato rimane inamovibile il rifiuto di qualsiasi Stato, d’altra parte si lascia intravedere la possibilità circa un miglioramento delle condizioni di lavoro e di vita sociale in un nuovo Stato catalano. Da dove scaturisca quest’ottimismo non è dato saperlo. Di certo, se i presagi non ingannano, comunque vada il referendum sull’indipendenza catalana, le istituzioni spagnole non sono disposte a riconoscerlo e già fanno di tutto per sabotarlo, incluso minacciare di portare in tribunale i sindaci catalani che ne autorizzeranno lo svolgimento nei loro comuni. Resta da vedere fino a che livello si innalzerà lo scontro fra Madrid e i separatisti e se questo offrirà spazi per l’espressione di forme di conflittualità che vadano oltre le mere rivendicazioni sovraniste.

Comunicato anarchico sulla manifestazione dell’11 Febbraio a Milano per la liberazione dei prigionieri politici in Turchia.

Il seguente comunicato è tratto dal sito di Umanità Nova. L’iniziativa milanese si inserisce nel più ampio contesto europeo di iniziative per i prigionieri e le prigioniere politici in Turchia. In particolare, dal 1 all’11 Febbraio, ha luogo una lunga marcia dal Lussemburgo a Strasburgo: ulteriori informazioni possono essere consultate qui: http://www.uikionlus.com/invito-alla-lunga-marcia-liberta-per-ocalan-status-per-il-kurdistan-01-11-febbraio-2017/

“Milano: spezzone anarchico al corteo nazionale per la liberazione delle prigioniere e dei prigionieri politici in Turchia

febbraio 10 @ 14:0020:00

s1640201CONTRO IL SILENZIO COMPLICE

SOLIDARIETÀ INTERNAZIONALISTA!

SABATO 11 FEBBRAIO 2017

CORTEO NAZIONALE per la liberazione

delle prigioniere e dei prigionieri politici in turchia

ORE 14.00 PORTA VENEZIA – MILANO

SPEZZONE ANARCHICO ROSSO/NERO

Le Costituzioni borghesi valgono più della carta su cui sono state scritte, o dell’inchiostro per scriverle? Niente come l’attuale involuzione dello Stato turco – sino a pochi anni fa, modello di “democrazia” per il Medio Oriente – può rispondere oggi a questa domanda. Né la costituzione del 1995, né il diritto internazionale, com’è ovvio, potevano proteggere i lavoratori turchi dalla macelleria sociale promossa nel 2012 dall’allora paladino del fondo monetario internazionale Recep Tayyip Erdoğan. Né potevano tutelare i manifestanti di piazza Taksim e di Gezi Park dalla spietata repressione dell’anno dopo, costata 9 morti e migliaia di feriti e arrestati, né le cittadine minorenni dall’infame consuetudine che in Turchia ancor oggi consente ai colpevoli di abusi sessuali l’opzione del matrimonio riparatore. Sbotta l’opinione pubblica occidentale, sbottano gli uffici stampa degli uomini delle istituzioni. Poi il silenzio. E il silenzio è calato anche sull’incarcerazione e la tortura di migliaia di militari di leva, ignari complici del cosiddetto golpe del luglio 2016; è calato il silenzio sulle città del Kurdistan Bakur colpite dall’artiglieria e dall’aviazione turche nel 2015 e nel 2016, sulle migliaia di civili, donne e bambini uccisi a Cizre, Nusaybin, Mardin, Amed, colpevoli di essere Kurdi, ma soprattutto di avere scelto l’autogoverno laico come alternativa all’islamo-fascismo capitalista del nuovo duce di Ankara; è calato il silenzio sulle militanti anti-fasciste catturate dalle squadracce paramilitari dell’AKP, torturate stuprate e trascinate nude per le strade, vergognosi trofei del trionfo del maschio oppressore, portabandiera del regime; è calato il silenzio sugli aiuti, copiosi, in denaro e armi, prestati dal governo turco alle milizie dello Stato Islamico, lasciato libero dalla NATO di smerciare il proprio petrolio attraverso Israele e la Turchia, in cambio di quei dollari che ogni giorno producono nuovi omicidi, nuovi stupri, nuove bombe, nuova oppressione. A nulla vale la legge, quando il potere del tiranno poggia sull’interesse e sul timore: e nel caso di Erdoğan l’interesse è quello del blocco atlantico, preoccupato di rinsaldare le sue file nella nuova competizione per procura col colosso russo; e il timore è quello dei vertici UE dell’arrivo in Europa dei profughi in fuga dalla guerra suscitata in Siria dall’appetito degli imperialismi (a partire da quello statunitense) e dall’appetito del capitalismo internazionale. Sotto i nostri occhi, miliardi di euro versati dalla UE nelle casse di Ankara per compiacere la gretta xenofobia europea finanziano orridi campi di concentramento al confine turco-siriano, dove le famiglie sono imprigionate in condizioni disumane, gli uomini sfruttati quale manodopera a basso costo, i bambini prostituiti. Ma finanziano anche quell’alleanza tra Erdoğan, lo Stato Islamico e l’imperialismo regionale arabo saudita responsabile degli attentati terroristici in Europa, quegli attentati in cui ad essere colpiti saremo sempre e solo noi, quelli che non contano, e non certo i centri reali del potere. Unione Europea e NATO, dunque, garantiscono a dispetto del diritto pieno sostegno al macellaio dei corpi e delle coscienze di centinaia di migliaia di turchi, di kurdi, di siriani. La loro quiescenza ha consentito al governo di Ankara brogli e intimidazioni in sede elettorale, l’incarcerazione di migliaia di oppositori – inclusi parlamentari e sindaci –, la chiusura dei giornali dissidenti – e tra questi il foglio anarchico Meydan –, la repressione violenta del dissenso. Su questi e molti altri crimini contro l’umanità, i governi del mondo hanno scelto il silenzio. Noi crediamo e affermiamo che il silenzio è il più viscido complice dell’oppressore. Noi crediamo e affermiamo che l’individuo ha dei diritti sino a che è in grado di difenderli, non solo per sé e non solo dove vive, ma per chiunque e in ogni parte del mondo. Noi crediamo e affermiamo che l’unica forza capace di tutelare la dignità di ogni essere umano è quella che proviene dall’unità delle sfruttate e degli sfruttati, delle oppresse e degli oppressi, emancipati da ogni servitù e liberi di autogovernarsi secondo i principi dell’uguaglianza e della solidarietà libertaria.

Per questo noi scenderemo in piazza l’11 febbraio: insieme alla comunità kurda e agli altri movimenti della nostra città, porteremo la nostra solidarietà internazionalista alle compagne e ai compagni detenuti nelle carceri turche e a tutti i gruppi – dalle anarchiche e anarchici del D.A.F., ai promotori del Confederalismo Democratico – che oggi proseguono in Turchia e in Siria la lotta per la liberazione di genere, la lotta armata contro l’islamo-fascismo, la lotta per una società laica e pluralista, la lotta anti-razzista e anti-nazionalista, la lotta di classe contro il Capitale, percorsi irrinunciabili e non negoziabili verso l’Avvenire Libertario.

Viva la Rivoluzione Sociale!

Viva l’Anarchia!

FEDERAZIONE ANARCHICA – MILANO

viale Monza, 255 – Milano

Qui la mozione del convegno della FAI di sostegno alla DAF e al loro giornale Meydan

Qui la mozione del convegno della FAI di appoggio allo spezzone promosso dalla Fed.Anarchica Milanese “

“Non più la Questione Kurda, ma l’Alternativa Kurda”.

Articolo pubblicato in lingua inglese sul sito Kurdish Question e riproposto tradotto in lungua italiana dal sito Da Kobane a Noi:

“Non più la Questione Kurda, ma l’Alternativa Kurda
di Hawzhin Azeez

È un errore, oppure una violenza simbolica, continuare a sostenere che la “Questione Kurda” resti irrisolta.
Per gli studiosi, gli esperti di politiche nazionali e internazionali e i burocrati la Questione Kurda, con le sue complesse implicazioni politiche intra- e internazionali, resta il dilemma chiave dei tempi moderni. La resistenza epica contro Daesh da parte delle YPG-YPJ ha lanciato la Questione Kurda sotto i riflettori internazionali come mai prima. Si tengono seminari e conferenze, libri e saggi vengono scritti uno dopo l’altro e centinaia di persone attingono in massa a pagini e siti pro-Kurdi in cerca di informazioni.
E forse l’etichetta clinica della Questione Kurda poteva essere utilizzata, perché i Kurdi e il loro ostinato rifiuto di venire assimilati e turchizzati, arabizzati o persianizzati è sfociato in reazioni sempre più violente da parte dello stato per risolvere il “problema”. Di conseguenza, per decenni i Kurdi hanno dovuto far fronte alle pulizie etniche, ricollocamenti etnici, politiche di arabizzazione, genocidi, e la perdita dei diritti umani più elementari a causa degli stati arbitrari e artificiali che a loro volta sono stati prodotti da recinti coloniali istituiti con la violenza. Gli stati artificiali e le loro macchinazione repressive e ideologiche hanno promosso politiche di monoidentità violente, escludenti, oppressive che hanno a loro volta portato alla costruzione di identità nazionali immaginarie e costrutti mitici che inneggiano a “una storia, una nazione, una lingua, una bandiera”. Questa identità intrisa di sangue non appartiene soltanto agli stati post-coloniali, ma è tipica di tutti gli “stati-nazione” moderni.

L’attenzione prevalente, interna ed esterna, sulla cosiddetta, prolungata Questione Kurda comprende questo tipo di discorso: “il sistema internazionale fallisce miseramente nel risolvere questo dilemma, o addirittura nel riconoscere la legittimità della drammatica condizione Kurda, persino di fronte alle continue violenze contro i Kurdi, soprattutto in Turchia, violenza che avvengono su ampia scala e che aumentano in maniera inquietante. Una nuova Ferian, “la missione civilizzatrice”, una logica eurocentrica-orientalista che presume che i disgraziati-soggettificati Kurdi chiedano all’Occidente neoliberista, statocentrico, capitalista di individuare la soluzione del loro “problema” – problemi che questo sistema mantiene alacremente.

I danni tremendi e deliberati ai siti storici come Sur, come Nusaybin e, attualmente, Shex Maqsud sono una prova sufficiente della mancanza di volontà e di interesse da parte di questo Sistema; è vero piuttosto che il sistema intenzionalmente spezza il legame tra l’identità e il passato per indebolire lo spirito dei Kurdi. In quanto Kurdi, il nostro dialogo interno e il discorso con l’Occidente non riesce a registrare in maniera definitiva e non apologetica la fine del “problema” (un termine che implica che la colpa vada addossata a coloro che subiscono la violazione dei diritti umani fondamentali, la cui semplice esistenza si pone come un “problema” per il sistema): in che luogo e modo i Kurdi dovrebbero collocare i loro diritti etnico-religiosi all’interno del Medioriente?
È evidente che le continue violenze commesse contro i Kurdi continuano a dimostrare la supremazia e il fallimento del sistema internazionale, eurocentrico e statocentrico. E, cosa ancora più importante, dimostrano il fallimento della democrazia neoliberista, o parlamentarismo capitalista, quale paradigma supremo del “nuovo ordine mondiale”. La privatizzazione, l’avanzata dei mercati, la deregulation, l’outsourcing, l’indebolimento dei sindacati, la diminuzione delle tasse ai ricchi, la forbice sempre crescente tra ricchi e poveri, la depoliticizzazione, l’anti-intellettualismo, le crisi finanziarie globali, la devastazione ambientale, le guerre neocoloniali con conseguenze disastrose (Iraq, Afghanistan…), l’ascesa dell’ISIS e di altre organizzazioni terroriste che crescono in loco ma i cui semi vengono gettati a livello internazionale, l’industria delle armi che vi è associata: tutti elementi sintomatici dei fallimenti della democrazia neoliberista eurocentrica e statocentrica. Perfino nel momento in cui i Kurdi, e altre minoranze etnico-religiose, grazie al confederalismo democratico, continuano a creare democrazie radicali dal basso, comuni e cooperative, consigli di strada, locali e regionali con l’intento di accrescere l’impegno, la partecipazione e la responsabilità politica; perfino nel momento in cui tentano di rimuovere decenni di conflitti primordiali che si sono trascinati nel tempo, di rimuovere l’odio, e al suo posto far nascere una relazione basata sui valori tipici del comunalismo, la tolleranza e la coesistenza reciproca.

Gli accademici, gli esperti e i decision-makers occidentali continuano faticosamente a cercare di affrontare la Questione Kurda; dovrebbero invece concentrarsi sul fallimento congenito della loro infrastruttura capitalista, macchiata di sangue, il fallimento della sua democrazia neoliberista, della sua incapacità a dare risposte efficaci e a creare un equilibrio adeguato ai diversi bisogni delle sue masse sfruttate, dei gruppi e degli interessi minoritari. Al contrario, la democrazia neoliberista continua a promuovere una omogeneità culturale aggressiva perfino nelle cosiddette società “democratiche” e “multiculturali”.

In Australia, la coesione nazionale viene espressa attraverso uno schema razziale illuminista e le conseguenti politiche identitarie xenofobe, che sono poi sfociate nel disastroso “Tampa affair”. Rispedendo indietro i migranti “sui barconi” o i gruppi di subumani che si trovano in fondo allo schema razziale, John Howard, allora primo ministro, decretò che “siamo noi a decidere chi entra in questo paese e in che circostanza”, un approccio che è stato fatto proprio dai successivi governi laburisti e che ha condotto alla creazione di centri di detenzione sulla terraferma e in mare. Carcerazione, malattie mentali, omicidi, stupri di bambini e donne in condizioni di vulnerabilità che cercavano un luogo sicuro, tentativi di suicidio… ecco alcuni degli effetti collaterali di una detenzione coatta prolungata per mesi, se non per anni di fila. Altre migliaia di persone muoiono in mare tentando di raggiungere porti “sicuri”, porti che nel frattempo lavorano alacremente per costruire muri di acciaio per tenerli fuori. Il corpo senza vita di Alan Kurdi ha espresso questa tremenda verità.
E invece il popolo Kurdo e altre minoranze del Merioriente, potenziate e liberate dalla pratica del confederalismo democratico, stanno aiutando centinaia di migliaia di rifugiati e di sfollati interni. Nella città di Kobane, a sua volta irriconoscibile per i danni inflitti, si trova un campo per gli sfollati interni che ospita più di 5000 persone. I cantoni di Cizire e di Efrin accolgono migliaia di migranti forzati e terrorizzati a sfuggire alla brutalità del regime di Assad, o di Daesh, o di entrambi. Le ideologie sinceramente democratiche potenziano e promuovono le facoltà umane della collettività e alimentano l’umanitarismo, piuttosto che fondarsi su un suo indebolimento.

In America e in Gran Bretagna, la democrazia neoliberista sta marciando verso il declino e in tutti i tre paesi appena nominati i mercati e il processo decisionale politico sono dominati da degli oligarchi, con un conseguente aumento delle disuguaglianze economiche. In Gran Bretagna, la disuguaglianza inaugurata dal Thatcherismo ha portato all’elezione di un governo New Labour che non è riuscito quasi in nessun caso a far fronte alle disuguaglianze insite nel sistema neoliberista; quel che poi si è prodotto durante i successivi governi di centro sinistra e di destra sono state crisi economiche e misure di austerità concepite per rendere i ricchi ancora più ricchi, mentre i poveri stentano ad arrivare a fine mese.
In particolare, in America l’ascesa del Trumpismo ha dimostrato il fallimento del sistema Americano, schiavo di think tanks, PACs (Political Action Committees, sovvenzionatori di campagne, personaggi e partiti politici), lobbies e agglomerati mediatici. Tale indebolimento dei controlli democratici ha condotto all’incapacità di affrontare le questioni insepolte legate alla razza, l’avvento del complesso carcerario-industriale e le violenze della polizia, simboleggiate oggi in maniera massiccia dal movimento Black Lives Matter. Al contempo, la perdita dei diritti delle donne, i continui tentativi di chiudere Planned Parenthood e di ridurre i diritti riproduttivi e l’autonomia delle donne per quel che riguarda il loro corpo perfino in casi di stupro dimostra la natura sfaccettata del modello americano di democrazia neoliberista. Parallelamente, politiche ipercostose e il sostegno incontrollato del mercato e delle lobbies per i candidati alle elezioni ha trasformato il modello democratico americano in un vuoto simulacro, dove i lobbisti manovrano le elezioni democratiche e gli interessi degli elettori. Niente personifica meglio questa tendenza dell’ascesa spettacolare – e preoccupante – del miliardario candidato elle elezioni presidenziali Donald Trump, la cui piattaforma politica è fondata prevalentemente sul fascismo, il razzismo, l’odio verso i rifugiati, e che alimenta un islamofobia già esistente, mentre al di là del mare le guerre neoimperialiste continuano.

Ma neppure l’Europa è al riparo dall’avvizzimento della cosiddetta democrazia capitalista. L’ultimo rapporto della Freedom House ha avvisato che “la crisi dei migranti e gli enormi problemi economici stanno minacciando … la sopravvivenza dell’Unione Europea”. La crescente mancanza di trasparenza e individuazione di responsabilità è sfociata nel declino delle democrazie nascenti nei Balcani, portando a un terribile degrado. Paesi come la Serbia, il Montenegro e la Macedonia hanno utilizzato “uomini forti” in politica per richiedere un atteggiamento meno rigido dall’Unione Europea, unione sempre più defunta di ventotto democrazie capitaliste, la cui deplorevole risposta collettiva alla cosiddetta “crisi dei rifugiati” ha dimostrato il crollo delle radici istituzionali, normative, morali dell’Unione.

Nello stesso tempo, la Turchia ha astutamente sfruttato la crisi dei rifugiati per estorcere più indulgenza dall’UE verso i negoziati per l’entrata nell’Unione, mentre continua ad avere un approccio genocida nei confronti della Questione Kurda. La risposta del sistema capitalista è gettare più soldi alla Turchia, nonostante un recente rapporti di Amnesty International abbia evidenziato in maniera preoccupante il prodursi di ritorni forzati di rifugiati siriani. La democrazia capitalista, sotto la leadership illiberale di Angela Merkel, ha condotto al soffocamento degli elementi chiave della democrazia, come la libertà di parola: i disegnatori satirici tedeschi sbeffeggiano Erdogan ritraendolo imbavagliato e minacciato con sentenze di prigione.

Ci troviamo di fronte a una negazione perenne della legittimità dei diritti delle minoranze impegnate nella propria autodifesa e resistenza attiva, che va da un annacquamento di richieste legittime allo sradicamento bello e buono di richieste di diritti portate avanti per anni, come è avvenuto chiaramente nel caso delle dissoluzione delle Tigri del Tamil nel sistema democratico neoliberista, delle comunità Indigene e Aborigene in Medioriente, America Latina, Asia, Stati Uniti, Canada e Australia, che vengono etichettate come “terroristi”, “dissidenti”, “radicalizzati”, come selvaggi non democratici e non civilizzati.

Il governo dell’AKP in Turchia, nel frattempo, continua a massacrare il popolo Kurdo nel silenzio, che diviene così assenso, della comunità internazionale. Non stupisce che di fronte a tale oppressione cresca la “rivoluzionizzazione” dei giovani – piuttosto che la loro “radicalizzazione”, termine che implica la presenza di uno sguardo eurocentrico-orientalista, dall’alto verso il basso, a svilire la legittimità dei diritti delle minoranza all’autodifesa paragonandola a un generico terrorismo sponsorizzato dallo stato, proprio di un depotenziato gruppo etnico-religioso, per mano del secondo maggior esercito della NATO. Moltissimi giovani vanno in montagna in Kurdistan a cercare rifugio e trovano l’addestramento militare, ma soprattutto ideologico, necessario a combattere le strutture oppressive e genocide dello stato.

La mitica “fine della storia” di Fukuyama, espressa con tanta sicumera dai portavoce accademici e intellettuali del Nuovo Ordine Mondiale, guidato dall’egemonia statunitense, è stata evidentemente svuotata di significato nel momento in cui emerge in Medioriente un modello democratico alternativo, radicale, locale: il confederalismo democratico.
In maniera non dissimile, la profezia di Huntington sullo “scontro di civiltà” era stata predicata tra l’Occidente e l’Islam nel mondo post-11 settembre; non era però in grado di immaginare che lo scontro si sarebbe svolto tra la democrazia neoliberista, il cui decadimento interno dimostra le incoerenze e gli antagonismi intrinseci al capitalismo, e la democrazia radicale, definita come confederalismo democratico e sviluppata da Abdullah Ocalan, ispirata dalle opere di Murray Bookchin.
La democrazia neoliberista eurocentrica e statocentrica non ha mai concepito che il cosiddetto scontro di civiltà si sarebbe svolto con un sistema democratico alternativo. Ha presunto che il suo sistema democratico si sarebbe dimostrato l’unica opzione possibile contro alternative fasciste, terroriste e violente; la sua cecità epistemologica non riusciva a rispondere, né anche solo a tenere in considerazione il razionalismo occidentale. Al contrario, il suo orientalismo inerentemente eurocentrico ha reso miopi i falchi neoliberisti che immaginavano semplicemente un mondo popolato da “terroristi islamici” ad alimentare le proprie perpetue macchine belliche. I neoliberisti hanno continuato a dominare e a riorientare i principali enti ed istituzioni internazionali verso la promozione della sua versione di democrazia capitalista: tra gli altri, le Nazioni Unite, la NATO, la Banca Mondiale, il FMI, l’OCSE. Ma, come ha sottolineato Mohamad Tavakoli-Targhi, gli sviluppi sociali “e i processi alternativi, non europei”, non occidentocentrici “sono stati definiti come assenza di cambiamento e storia non storica”.
Non hanno mai immaginato che una delle comunità più oppresse del Medioriente avrebbe formulato una cosmologia, una filosofia e un approccio per la risoluzione dei diritti delle minoranze di natura complessa, coesiva, inclusiva, multiculturale, antimonopolista e orientata al consenso; quella stessa risoluzione che il loro sistema, nel migliore dei casi, non è stato in grado di affrontare, se non l’ha attivamente repressa nelle forme panottiche dell’utilitarismo di stampo Benthamita, concepito per servire gli interessi delle élites minoritarie.
Ma chi altro avrebbe meglio potuto formulare una soluzione alla condizione degli oppressi se non i più oppressi, i più emarginati?
Ma è giunta l’ora.

È giunta l’ora che gli attivisti e gli accademici Kurdi smettano di crucciarsi riguardo alla “Questione Kurda” che continua ad andare avanti, una questione apparentemente irrisolvibile. Non siamo una questione da risolvere; non siamo una formula matematica! Siamo una collettività di persone fortemente oppresse la cui ideologia di liberazione ha creato un modello per la nostra comunità e per milioni di altri colonizzati; una soluzione che la modernità capitalista è stata incapace di trovare se non attraverso il genocidio e la pulizia etnica. Se non riusciamo a capire realmente che cosa significhi sminuiamo il portato del nuovo paradigma, che si sta dimostrando il più efficace nell’affrontare 5000 anni di sfruttamento statale e patriarcato.
Non più la Questione Kurda, ma l’Alternativa Kurda deve essere l’oggetto della nostra attenzione.
I Kurdi sono riusciti a individuare la soluzione al problema che non sono mai stati.
La vera questione è quanto il sistema democratico neoliberista, eurocentrico e statocentrico lotterà per non accettare la sua spettacolare sconfitta.”

Erdogan cavalca la tigre (di carta) del golpe.

Il golpe dilettantesco tentato lo scorso 15 Luglio in Turchia, durato una sola notte e sventato senza troppe difficoltà anche grazie all’appoggio dei sostenitori del presidente Recep Tayyip Erdogan scesi per strada al comando del loro amato padrone, sta avendo strascichi pesanti nel Paese e apre scenari inquietanti sia dal punto di vista dei diritti umani (il che non è una novità), sia per quanto riguarda gli scenari geopolitici che si profilano dopo quest’evento. Dal punto di vista della politica interna, più di 60mila persone tra militari, poliziotti, magistrati, insegnanti, giornalisti sono stati epurati, di questi almeno 13mila sono stati arrestati; “a caldo”, nelle ore immediatamente successive al fallimento del colpo di Stato, numerosi militari golpisti sono stati malmenati dalla folla, presi a calci e cinghiate sotto gli occhi dei poliziotti che li tenevano in custodia, alcuni sono stati addirittura linciati; manifestazioni filogovernative accompagnate da violenze contro elementi realmente o presumibilmente ostili al governo hanno avuto luogo in tutto il Paese, i sostenitori di Erdogan hanno invocato la pena di morte per i “traditori della Patria”. Ad essere accusati ufficialmente del golpe sono settori dell’esercito vicini al predicatore islamico Fethullah Gülen, ma diversi commentatori e analisti parlano anche di un coinvolgimento più o meno velato da parte degli Stati Uniti. Faccio subito notare che Gülen è stato, fino alla brusca rottura dei rapporti nel 2013, un gran sostenitore del partito di Erdogan, l’AKP, aiutandone l’ascesa al potere. Va altresì rilevato che quegli ufficiali conivolti nel tentato golpe e definiti ora “traditori della Patria” e accusati di terrorismo sono stati, fino a pochi giorni prima degli eventi in questione, impiegati nelle operazioni di controguerriglia nel Kurdistan turco, quindi fedeli esecutori della strategia di terrore dello Stato contro la minoranza curda. Ed è così che un personaggio difficilmente accostabile al seppur discutibile concetto di democrazia parlamentare, uno che manda l’esercito a massacrare civili nei villaggi curdi, che fa reprimere con la massima violenza le manifestazioni di dissenso, che sbatte in galera giornalisti e avvocati e attivisti politici e per i diritti umani quando direttamente non li fa ammazzare, che ha appoggiato a sua volta i terroristi e fondamentalisti di Daesh, che usa i fascisti del MHP per le operazioni sporche, oggi si presenta all’opinione pubblica mondiale senza alcuna vergogna come sincero paladino della democrazia, solo per aver regolato i conti con gli ultimi fedeli del suo ex complice Gülen, insorti in modo affrettato e male organizzato prima di venir definitivamente rimossi dai vertici dell’esercito. Se ciò non fosse estremamente tragico ci sarebbe da ridere.

Quel che preoccupa i rappresentanti politici dell’Occidente, però, non è tanto la repressione interna in Turchia: mica hanno fatto una piega, lorsignori e lorsignore, di fronte al genocidio culturale e materiale dei curdi (ricordo che in Germania il genocidio del popolo armeno è stato ufficialmente riconosciuto come tale solo pochi mesi fa, con cent’anni di ritardo!), né sono andati oltre le frasi retoriche di condanna ai tempi della repressione a Gezi Park e altrove, e nemmeno hanno mai accusato chiaramente il governo dell’AKP, pur di fronte all’evidenza, di aver sostenuto milizie di fondamentalisti islamici in Siria adottando una qualche contromisura, né hanno difficoltà ad accettare la proclamazione dello stato d’emergenza (né in Turchia, né tantomeno in Francia!). Ad impensierire i vertici dei Paesi UE, Germania in testa, è la possibilità che salti l’accordo blocca-profughi, con il quale la Turchia s’impegna a evitare che chi fugge dalla guerra civile siriana raggiunga i confini dell’UE, in cambio di denaro, riconoscimento politico e facilitazioni nell’ottenimento di permessi di soggiorno per cittadini turchi in Germania. Un’accordo su quest’ultimo punto però, insieme all’avanzamento delle pratiche per l’ingresso della Turchia nell’Unione Europea, sembrerebbe compromesso allo stato attuale delle cose. Ancor di più preoccupa l’avvicinamento di Erdogan alla Russia, nemico storico e potenza contrapposta agli interessi strategici della NATO nell’area mediorientale. La possibile alleanza trasversale tra Erdogan e Putin scombinerebbe non poco gli assetti strategici e politici che fanno comodo agli USA e alle altre potenze del Patto Atlantico. D’altra parte, permeata com’è la società turca di nazionalismo, turanismo, sciovinismo e revanchismo, il pensiero di uno spostamento dell’asse degli interessi turchi verso Oriente non dovrebbe stupire più di tanto. Quel che è certo è che le potenze occidentali non resteranno a guardare mentre i loro interessi vengono messi in pericolo, così come è certo che si prospettano tempi sempre più bui per chiunque, per un motivo o per un altro, non si trovi in linea con i progetti del sultano di Ankara, che può contare su una rinnovata credibilità interna anche grazie alla nuova patina di “salvatore della Patria e della democrazia”. Una vera e propria dittatura della maggioranza della quale a far le spese è e sarà una nutrita minoranza di persone, schiacciate tra l’incudine dell’autoritarismo sanguinario del governo turco e il martello dell’opportunismo ipocrita e assassino delle potenze occidentali.

Cosa vuol dire sconfiggere lo Stato Islamico?

La domanda che mi ronza in testa da tempo è: “come si può sconfiggere lo Stato Islamico?”. A interrogarmi su tale questione non sono solo, infatti ho potuto leggere chilometri di articoli, analisi, interviste e altro ancora tra quanto è stato pubblicato in rete e su carta sull’argomento da due anni a questa parte, non tanto alla ricerca di una risposta definitiva ad un problema oltremodo complesso e in continua evoluzione, quanto nella speranza di poter avere una maggiore comprensione della natura dello Stato Islamico e delle possibili vie percorribili per raggiungere la sua sconfitta. Di certo la volontà di un ritorno ad un passato ideale, quello della comunità di fedeli islamici (umma) del VII secolo o giù di lì, da contrapporre all’islam odierno che i seguaci della branca salafita-jihadista rappresentata dall’IS considerano corrotto, non è nata ieri e non morirà in tempi brevi, se mai morirà. L’IS ha avuto l’astuzia e la perfidia di fomentare conflitti e divisioni di natura etnico-tribale-religiosa già presenti nelle zone nelle quali agisce, compiendo ad esempio, dopo il 2003, attentati in Iraq contro gli sciiti, che si vendicavano sui sunniti spingendo questi ultimi a cercare protezione tra le file dei combattenti di quella che all’epoca si chiamava Jamāʿat al-tawḥīd wa l-jihād, ribattezzata poi “al-Qaeda nel Paese dei due Fiumi”- un sodalizio, quello con al-Qaeda, che dura solo fino al 2006, quando l’organizzazione cambia nuovamente nome in “Mujaheddin del Consiglio della Shura” e, pochi mesi dopo, in “Stato Islamico in Iraq” (al-Dawla al-Islamiyya fi l-‘Iraq, in breve ISI), per divenire nell’Aprile del 2013 al-Dawla al-Islamiyya fi-l-‘Iraq wa-l-Sham, “Stato Islamico in Iraq e Siria (ISIS)” o “Stato Islamico in Iraq e Levante (ISIL)” e infine, con la fondazione del califfato nel Giugno 2014, semplicemente “Stato Islamico” (IS). Considerando solo i continui cambi di nome del gruppo e le diverse alleanze fatte e disfatte nel corso di pochi anni ci si accorge di trovarsi di fronte ad un’organizzazione versatile, che non ha, come al-Qaeda, solo l’obiettivo di un jihad globale, né tantomeno vuole (come ad esempio Hamas) circoscrivere il proprio potere ad un territorio delimitato,  ma ha l’ambizione di impore il proprio potere su tutti i territori da essa controllati militarmente stabilendovi subito la legge islamica (sharia) senza tener conto di confini statali esistenti e differenze di nazionalità: l’idea di Stato di questi personaggi rispetto alla concezione occidentale moderna di Stato-nazione è molto differente e va tenuta sempre presente. Lo Stato Islamico si fa portavoce di un ritorno all’essenza dell’islam e si richiama alla tradizione del califfato abbàside e della discendenza diretta da Maometto del nuovo califfo al-Baghdadi, rifiuta la modernità ma usa gli ultimi ritrovati della tecnologia per propagandare le proprie idee con strategie pubblicitarie degne di un’azienda leader sul mercato, dichiara guerra all’Occidente ma massacra più musulmani/e di chiunque altro, fa proprio il concetto di “scontro delle civiltà” di Samuel Huntington riadattandolo secondo le proprie esigenze. L’IS ostenta la propria crudeltà per intimorire gli avversari e allo stesso tempo applica nei territori sotto il suo controllo misure paternalistiche e caritatevoli atte a tenere a bada il malcontento della popolazione che, più per paura e mancanza di alternative che per convinzione, non sa opporsi efficacemente al potere totalitario del califfato. La forza dello Stato Islamico non si limita solo alla capacità di trarre vantaggi dalle divisioni etnico-religiose (ironia della sorte, uno degli acronimi ufficiosi del gruppo è Daesh, che in arabo significa qualcosa come “portatore di discordia”), ma è anche data dalla propria abilità propagandistica e dalla sua forza economica. Quest’ultima poggia solo in piccola parte su offerte di denaro dall’estero, le entrate principali derivano dal traffico di beni artistici e archeologici e da quello di esseri umani (donne in primis, ridotte a schiave del sesso), dal saccheggio di villaggi e città occupati e dalla rapina (ad es. banca di Mossul), dalle tasse imposte alla popolazione, ma soprattutto dalla vendita di petrolio. Ad essere reclutati per la “guerra santa” sono soprattutto volontari provenienti dall’estero, mercenari a tutti gli effetti.

Un’altro aspetto che gioca a favore dell’IS è la mancanza di unità d’intenti tra i diversi Stati nel trovare una soluzione al conflitto in corso, visto che ciascuna potenza, internazionale o regionale, si impegna a difendere i propri interessi nella regione a scapito di altri Stati e, manco a dirlo, a prescindere dai reali interessi di chi abita la regione nella quale divampa il conflitto: l’Iran (e le milizie hezbollah, sua diretta emanazione in Libano) è legato da decenni alla dittatura della famiglia Assad, lo stesso vale per la Russia, che ha forti interessi economici (come la Cina) e strategici in Siria. La potenze occidentali della NATO sono intenzionate invece a rovesciare il regime di Damasco e in tale ottica hanno foraggiato i gruppi del Libero Esercito Siriano (FSA), tra cui spiccano numerose milizie islamiche, salvo poi bombardare l’IS quando questo ha palesato la propria volontà di conquista a scapito degli interessi occidentali e ha effettuato attacchi terroristici sul territorio europeo e statunitense. La Turchia, pur essendo un Paese NATO, segue invece una propria agenda politica imperialista e, come Arabia Saudita, Kuwait e Qatar, sostiene le fazioni islamiche anti-Assad più che quelle laiche, inoltre impiega le proprie energie principalmente nella repressione anti-curda. I quattro Paesi in questione hanno aiutato in modo più o meno intenso l’IS e continuano tuttora a farlo.

Quali misure sarebbero quindi efficaci per sconfiggere il califfato in Siria e Iraq e il gruppo islamico che lo ha fondato? Serve realmente a qualcosa trattare con Assad, considerato fino a poco tempo fa il problema principale? I Paesi uniti (incollati con lo sputo, direi senza ricorrere a eufemismi) nella lotta contro l’IS dovrebbero inviare truppe di terra o continuare a bombardare? Pensiamo per un attimo agli interessi divergenti tra le potenze in gioco, ai rapporti tra Russia e Turchia, al destino dell’Iraq dopo l’invasione USA nel 2003 (i militari al servizio del dittatore decaduto saddam Hussein, licenziati dagli americani, finirono in gran parte tra le nuove reclute di Jamāʿat al-tawḥīd wa l-jihād, non dimentichiamolo), al fatto che le armi vendute da Paesi europei come la Germania ad Arabia Saudita e Qatar finiscano poi nelle mani dei mercenari del califfato e all’evidenza che i bombardamenti, anche quando non massacrano civili e colpiscono realmente obiettivi militari nemici, non servono a scalfire lo Stato Islamico (due predecessori di Abu Bakr al-Baghdadi, al-Zarqawi e Abu Omar al-Baghdadi, furono uccisi durante attacchi aerei statunitensi)…cosa si potrebbe realisticamente contrapporre alle milizie dello Stato Islamico, ma soprattutto, cosa significa veramente sconfiggere il califfato? Quella dell’IS è una visione del mondo manicheista, come già detto incentrata sullo scontro tra quell’islam definito autentico e il resto del mondo: sconfiggere lo Stato Islamico significa soprattutto sconfiggere questa visione. Alimentare l’odio, la disgregazione sociale e la contrapposizione violenta è fondamentale per creare artificialmente uno scontro di civiltà: rifiutarsi di prestare il fianco a questa logica è un atto di resistenza fondamentale contro i progetti jihadisti. Chi oggi in Europa si batte per l’accoglienza dei profughi, contro l’islamofobia e le logiche delle destre estreme e populiste sta automaticamente rifiutandosi di fare il pieno al serbatoio dello Stato Islamico. Occorrerebbe inoltre provocare diffuse proteste contro l’ipocrisia degli Stati coinvolti per procura nel conflitto, denunciare senza sosta le connivenze, le forniture d’armi, l’acquisto di petrolio, l’apertura mirata delle frontiere per far passare rifornimenti ai miliziani di al-Baghdadi, l’ambiguità e l’inefficacia delle soluzioni militari tanto quanto il fallimento pianificato di quelle diplomatiche. Inoltre ritengo fondamentale l’importanza dell’appoggio a quello che è un progetto politico, sociale ed economico diametralmente contrapposto alla visione del mondo di Daesh, ovvero al “modello Rojava”. In Rojava è in corso una rivoluzione dai tratti libertari che sta cambiando profondamente il volto della regione, una rivoluzione che ha come cardini la parità tra i sessi e tra le diverse etnie e religioni, il benessere collettivo, l’ecologismo, la democrazia di base, l’autogestione, l’antiautoritarismo. Un incubo non solo per l’IS, cacciato dalle milizie popolari volontarie del Rojava da Kobane e da altre città che aveva conquistato o che tentava di conquistare, ma anche per le potenze mondiali che vedono minacciati i propri interessi particolari nella regione da un progetto autonomo, creato dal basso nell’interesse di chi lo vive. La rivoluzione in Rojava avanza nonostante si trovi di fronte a difficoltà non indifferenti di varia natura, ma ha bisogno di tutto l’appoggio possibile, non solo in nome della lotta senza quartiere contro la barbarie di daesh, ma anche per la libertà e l’autodeterminazione di persone- altrimenti destinate ad essere sfruttate, discriminate, oppresse e soggiogate se non direttamente massacrate da poteri locali o esterni- che hanno deciso di alzare la testa e decidere del proprio futuro costruendolo con le proprie mani.

“La NATO contro i Curdi: la Battaglia per A’zaz”.

Fonte: Anarkismo.

“La NATO contro i Curdi: la Battaglia per A’zaz

TRADUZIONE A CURA DI ALTERNATIVA LIBERTARIA/FDCA – UFFICIO RELAZIONI INTERNAZIONALI

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La NATO contro i Curdi: la Battaglia per A’zaz
Più si chiude l’accerchiamento contro la reazione fondamentalista armata in Siria, più il regime di Ankara, che l’ha generosamente sponsorizzata per cinque anni di carneficina, inizia a innervosirsi. La Turchia vede vanificarsi i suoi sforzi dopo l’irruzione sulla scena dei guerriglieri curdi delle YPG contro lo Stato islamico, dopo l’intervento russo e dopo il forte coinvolgimento delle milizie Hezbollah nella lotta contro questa alleanza eterogenea di opportunisti e fondamentalisti in armi che non cercano altro che di rovesciare Assad e porre fine alle milizie curde. Ecco dunque che la Turchia ha provveduto a intensificare i suoi bombardamenti contro i Curdi che operano nel nord, mentre appaiono sempre più evidenti da parte turca i segni di tentare un intervento diretto nel conflitto siriano, per allungare la durata di una avventura militare criminale che non ha fatto altro che portare dolore e morte.

E’ a questo punto che cadono le maschere. La NATO, rappresentata dallo stato turco, da due giorni sta bombardando senza pietà le unità di difesa popolare curde YPG che stanno avanzando a nord di Aleppo nelle città di A’zaz e Tal Rifaat [1]. I bombardamenti, che hanno ucciso almeno 23 civili [2] si sono concentrati sulla base aerea di Menagh, conquistata nel 2013 da una coalizione di “ribelli”, tra cui Al Qaeda (il Fronte Al-Nusra) ed altri che poi sono confluiti nello Stato islamico. Menagh è un obiettivo strategico per i rifornimenti alla “ribellione” al servizio delle petrol-teocrazie e degli interessi di USA e UE. Ahmet Davutoglu ha detto che di questi bombardamenti è stato informato il vicepresidente USA Joe Biden, che anche se non approva pubblicamente l’intervento militare, non lo ha condannato né ha provveduto a frenare lo Stato turco, che non agirebbe mai senza l’assoluta certezza del sostegno USA. Ricordiamo che la NATO aveva detto, nel bel mezzo della crisi con la Russia, che avrebbe difeso a spada tratta la “integrità territoriale” dello Stato turco, argomento che il regime di Ankara usa per attaccare i Curdi, dicendo che sono una minaccia per il loro concetto monolitico di unità nazionale. Questo potrebbe essere solo il preludio ad un intervento diretto da parte delle truppe di terra turche, eventualità che Erdoğan aveva già minacciato la scorsa settimana. La facciata della presunta unità contro lo Stato islamico è una farsa: lo Stato turco, e con esso la NATO, puntano alla destabilizzazione e all’estensione del bagno di sangue siriano, e contemporaneamente alla lotta contro il movimento libertario curdo.

Scommettendo sulla strategia dell’incudine e martello, mentre colpisce i Curdi in territorio siriano e rifornisce i gruppi reazionari armati per distruggere le milizie YPG, lo Stato turco colpisce anche i Curdi nel proprio territorio, cercando di schiacciare il loro spirito ribelle. Sono mesi che è stato imposto lo stato di emergenza nei territori curdi dentro lo stato turco, che si susseguono operazioni militari di carattere repressivo, che si bombardano le città. Mentre i media occidentali sono rimasti scioccati dalla distruzione del patrimonio culturale, storico e archeologico messa in atto dallo Stato Islamico in luoghi come Palmyra (Siria) e l’hanno denunciato ai quattro venti, sono rimasti muti davanti alla distruzione sistematica del patrimonio mondiale che lo Stato turco sta compiendo nella regione curda ai suoi confini: in base alle informazioni del Comune di Diyarbakir (02/10/16) il quartiere Sur della città è stato bombardato e le sue mura storiche, patrimonio dell’UNESCO, sono state gravemente danneggiate. E’ stato colpito il 70% degli edifici di questa parte della città antica, mentre 50.000 persone che abitavano nel Sur sono state sfollate dalle loro case dalla violenza e dal terrore di stato.

L’Occidente credeva di poter utilizzare i Curdi per opporsi ai settori fondamentalisti “incontrollabili”, ma non ha fatto i conti con il loro ritorno di fiamma. I Curdi sono un attore politico maturo, con molta esperienza di lotta per poter essere tenuti a rimorchio ed essere considerati come semplici marionette al servizio delle grandi potenze. Quando gli Stati Uniti hanno dato inizio alla loro strategia di ridefinizione del Medio Oriente, immaginando che sarebbero sorti ovunque regimi fantoccio, associati alle teocrazie del Golfo e disposti a dare via il loro petrolio per nulla, non avevano fatto i conti con i Curdi, nè col loro progetto socialista libertario di democrazia radicale; né hanno tenuto conto delle enormi forze popolari che si sarebbero scatenate in seguito alla loro strategia interventista. È vero, non è ancora finita la fioritura di un Medio Oriente libertario annunciato dal potere popolare che proviene dal Kurdistan e che si irradia a tutta la regione; ma è anche vero che gli Stati Uniti non sono stati in grado di imporsi, la loro egemonia nella regione è stata erosa ed ora i loro alleati sono nudi: non c’è stato un momento negli ultimi decenni in cui gli sceicchi sono stati più nervosi di quanto lo siano ora. Da qui nasce la violenza dell’improvvisato califfo di Ankara contro i Curdi.

Così come la battaglia per Kobanê è stata la chiave per invertire l’avanzata dello Stato Islamico, oggi, la battaglia per A’zaz è la chiave per sradicare il fondamentalismo armato e per difendere l’espansione, il consolidamento e il diritto di esistere del progetto di autonomia curdo, libertario e confederale.

José Antonio Gutiérrez D.
15 Febbraio 2016


[1] http://www.aljazeera.com/news/2016/02/turkey-shells-kurdish-held-airbase-syria-aleppo-160213160929706.html
[2] http://aranews.net/2016/02/dozens-of-civilian-casualties-reported-under-turkish-bombardment-northern-syria/ “

Risposte creative alla campagna di reclutamento del Bundeswehr.

“Mach, was wirklich zählt!”, ovvero “Fai ciò che conta veramente!” è il motto di una massiccia campagna pubblicitaria lanciata dall’esercito tedesco (Bundeswehr) dal Novembre scorso per promuovere il reclutamento nelle sue fila. Quando ho visto passando per strada il primo di una lunga serie di manifesti pubblicitari, costati insieme a cartoline, sito web e altri ammennicoli la modica cifra totale di 10,6 milioni di Euro di denaro pubblico, mi sono chiesto subito un paio di cose: quanto fossero idioti i personaggi che hanno scelto gli slogan riportati sui manifesti (“Noi combattiamo anche per far sí che tu sia contro di noi”, “La vera forza non la trovi tra due manubri”, “Credi che sia figo essere soldato/soldatessa?”, eccetera…) , quanto idioti fossimo noi contribuenti nel pagare le tasse che vanno a finanziare certe porcate, ma sopratutto come si potesse rispondere ad una simile oscenità… Non che io non abbia trovato subito un paio di slogan appropriati che sarebbero stati utili per riassumere efficacemente la vera funzione dell’esercito in Germania e altrove, ma non  disponevo a breve termine dei mezzi per poter rispondere in modo esteso ed efficace alla propaganda militarista appena avviata: si fa quel che si può, ma nel mio caso si trattava di troppo poco. Pochi giorni fa sono però venuto a sapere che un pugno di artisti/e e attivisti/e politici/che riuniti/e nel gruppo “Peng-Kollektiv”, con la modica cifra di 100 €, ha messo in ombra, in dubbio e in ridicolo la campagna della Bundeswehr, aprendo un sito con link e grafica simili a quello originale usato per incoraggiare l’arruolamento dove si possono leggere alcune informazioni (verificabili) che ai signori dell’esercito non sarebbe mai passato per la testa di pubblicare, ad esempio il numero di soldati suicidatisi quest’anno o la percentuale di donne che subiscono molestie sessuali nell’esercito. Il sito è diventato in pochi giorni virale e ha dato l’imput sul web ad una serie di osservazioni, commenti e grafiche contro l’iniziativa militarista. Per quanto riguarda invece i manifesti, attivisti/e del collettivo “Abteilung zur sichtbaren und inhaltlichen Verschlimmbesserung unhaltbarer Truppenwerbung (AbtVerschlTruWer)” hanno tappezzato la zona nella quale ha sede il ministero della difesa tedesco con manifesti pubblicitari modificati. Ecco alcune foto dell’adbusting:

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“Bombardare per la pace è come fottere per la verginità”

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“Siamo via: guerra lampo in Siria. Nonno sarebbe stato così orgoglioso.”

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Difendere con la violenza lo sfruttamento. Il vostro esercito”

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“Nessuna idea di niente? Nessun problema! Prendiamo volentieri anche gli stronzi”

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“Anche gli animali combattono per far sì che noi possiamo mangiarli.”

Per completare il quadro segnalo un’altra azione compiuta da ignoti a Berlino, che nella notte del 9 Novembre scorso hanno “ridipinto” la facciata dello showroom dell’esercito tedesco per protestare contro la propaganda per l’arruolamento e contro la “normalizzazione” della guerra.

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