Erdogan cavalca la tigre (di carta) del golpe.

Il golpe dilettantesco tentato lo scorso 15 Luglio in Turchia, durato una sola notte e sventato senza troppe difficoltà anche grazie all’appoggio dei sostenitori del presidente Recep Tayyip Erdogan scesi per strada al comando del loro amato padrone, sta avendo strascichi pesanti nel Paese e apre scenari inquietanti sia dal punto di vista dei diritti umani (il che non è una novità), sia per quanto riguarda gli scenari geopolitici che si profilano dopo quest’evento. Dal punto di vista della politica interna, più di 60mila persone tra militari, poliziotti, magistrati, insegnanti, giornalisti sono stati epurati, di questi almeno 13mila sono stati arrestati; “a caldo”, nelle ore immediatamente successive al fallimento del colpo di Stato, numerosi militari golpisti sono stati malmenati dalla folla, presi a calci e cinghiate sotto gli occhi dei poliziotti che li tenevano in custodia, alcuni sono stati addirittura linciati; manifestazioni filogovernative accompagnate da violenze contro elementi realmente o presumibilmente ostili al governo hanno avuto luogo in tutto il Paese, i sostenitori di Erdogan hanno invocato la pena di morte per i “traditori della Patria”. Ad essere accusati ufficialmente del golpe sono settori dell’esercito vicini al predicatore islamico Fethullah Gülen, ma diversi commentatori e analisti parlano anche di un coinvolgimento più o meno velato da parte degli Stati Uniti. Faccio subito notare che Gülen è stato, fino alla brusca rottura dei rapporti nel 2013, un gran sostenitore del partito di Erdogan, l’AKP, aiutandone l’ascesa al potere. Va altresì rilevato che quegli ufficiali conivolti nel tentato golpe e definiti ora “traditori della Patria” e accusati di terrorismo sono stati, fino a pochi giorni prima degli eventi in questione, impiegati nelle operazioni di controguerriglia nel Kurdistan turco, quindi fedeli esecutori della strategia di terrore dello Stato contro la minoranza curda. Ed è così che un personaggio difficilmente accostabile al seppur discutibile concetto di democrazia parlamentare, uno che manda l’esercito a massacrare civili nei villaggi curdi, che fa reprimere con la massima violenza le manifestazioni di dissenso, che sbatte in galera giornalisti e avvocati e attivisti politici e per i diritti umani quando direttamente non li fa ammazzare, che ha appoggiato a sua volta i terroristi e fondamentalisti di Daesh, che usa i fascisti del MHP per le operazioni sporche, oggi si presenta all’opinione pubblica mondiale senza alcuna vergogna come sincero paladino della democrazia, solo per aver regolato i conti con gli ultimi fedeli del suo ex complice Gülen, insorti in modo affrettato e male organizzato prima di venir definitivamente rimossi dai vertici dell’esercito. Se ciò non fosse estremamente tragico ci sarebbe da ridere.

Quel che preoccupa i rappresentanti politici dell’Occidente, però, non è tanto la repressione interna in Turchia: mica hanno fatto una piega, lorsignori e lorsignore, di fronte al genocidio culturale e materiale dei curdi (ricordo che in Germania il genocidio del popolo armeno è stato ufficialmente riconosciuto come tale solo pochi mesi fa, con cent’anni di ritardo!), né sono andati oltre le frasi retoriche di condanna ai tempi della repressione a Gezi Park e altrove, e nemmeno hanno mai accusato chiaramente il governo dell’AKP, pur di fronte all’evidenza, di aver sostenuto milizie di fondamentalisti islamici in Siria adottando una qualche contromisura, né hanno difficoltà ad accettare la proclamazione dello stato d’emergenza (né in Turchia, né tantomeno in Francia!). Ad impensierire i vertici dei Paesi UE, Germania in testa, è la possibilità che salti l’accordo blocca-profughi, con il quale la Turchia s’impegna a evitare che chi fugge dalla guerra civile siriana raggiunga i confini dell’UE, in cambio di denaro, riconoscimento politico e facilitazioni nell’ottenimento di permessi di soggiorno per cittadini turchi in Germania. Un’accordo su quest’ultimo punto però, insieme all’avanzamento delle pratiche per l’ingresso della Turchia nell’Unione Europea, sembrerebbe compromesso allo stato attuale delle cose. Ancor di più preoccupa l’avvicinamento di Erdogan alla Russia, nemico storico e potenza contrapposta agli interessi strategici della NATO nell’area mediorientale. La possibile alleanza trasversale tra Erdogan e Putin scombinerebbe non poco gli assetti strategici e politici che fanno comodo agli USA e alle altre potenze del Patto Atlantico. D’altra parte, permeata com’è la società turca di nazionalismo, turanismo, sciovinismo e revanchismo, il pensiero di uno spostamento dell’asse degli interessi turchi verso Oriente non dovrebbe stupire più di tanto. Quel che è certo è che le potenze occidentali non resteranno a guardare mentre i loro interessi vengono messi in pericolo, così come è certo che si prospettano tempi sempre più bui per chiunque, per un motivo o per un altro, non si trovi in linea con i progetti del sultano di Ankara, che può contare su una rinnovata credibilità interna anche grazie alla nuova patina di “salvatore della Patria e della democrazia”. Una vera e propria dittatura della maggioranza della quale a far le spese è e sarà una nutrita minoranza di persone, schiacciate tra l’incudine dell’autoritarismo sanguinario del governo turco e il martello dell’opportunismo ipocrita e assassino delle potenze occidentali.

Dove va l’Egitto?

La cacciata, poche ore fa, del presidente egiziano Mohammed Morsi, leader del partito dei Fratelli Musulmani eletto un anno fa, è la notizia del momento. Di notizie dettagliate e analisi riguardanti questo evento se ne possono trovare sul web fino alla nausea, ma in concreto nessuno sa cosa avverrà ora. O per meglio dire, molti hanno una loro teoria e propongono analisi sugli eventi iniziati due anni fa che hanno visto milioni di persone invadere le strade di gran parte delle cittá egiziane per chiedere prima le dimissioni del vecchio dittatore Hosni Mubarak ed ora quelle del nuovo presidente democraticamente eletto Morsi. Personalmente, lontano tanto dai facili entusiasmi quanto dalle teorie azzardate, posso fare nel mio piccolo un paio di riflessioni, seppur confuse. Innanzitutto credo che in Egitto sia potenzialmente in atto un grande cambiamento, spinto da masse di milioni di persone che nella maggior parte dei casi hanno “poco” da perdere (se non la propria vita, vista la durezza degli scontri scoppiati due anni fa così come oggi e nel tempo intercorso), un cambiamento che per certi versi mi verrebbe di chiamare rivoluzione. Il fatto è che sono restio ad usare questo termine, perchè di rivoluzioni più nominali che effettive nella Storia ne abbiamo avute fin troppe, sedicenti rivoluzioni che cambiano un giogo con un altro, che lasciano inalterati i rapporti sociali e di produzione, che spargono sangue più di quanto sia strettamente necessario per poi deludere le migliori aspettative emancipatorie in nome di “interessi superiori”, la solita formula per fottere gli sfruttati e gli oppressi. È inevitabile però sperare che le cose possano veramente prendere una piega positiva per le classi sociali subalterne in Egitto, che sono state il motore delle rivolte di piazza e potranno continuare ad esserlo anche in futuro. Un dittatore è stato mandato via, ci sono stati momenti importanti fatti di lotta, autogestione, riorganizzazione, partecipazione decisionale, rivendicazioni, poi le elezioni ed il governo fallimentare dei Fratelli Musulmani ed ora una nuova ondata di proteste che porta alla destituzione di un presidente con numeri nelle piazze decisamente maggiori di quelli che lo avevano portato al potere alle urne. Eppure rimane l’ombra dei militari e degli interessi che si celano dietro essi. L’ultimatum imposto dal popolo egiziano a Morsi non è quello imposto dai militari, che hanno effettuato un vero e proprio colpo di Stato, anche se atipico  visto l’appoggio delle piazze. La repressione sistematica attuata in queste ore dai militari nei confronti del partito dei Fratelli Musulmani va al di là di uno sfogo di rabbia popolare. Ho letto nei giorni scorsi parecchi articoli di “esperti” e opinionisti vari, dei quali posso anche non fidarmi del tutto, ma che lasciano intendere in modo pressochè unanime, al netto di sfumatore d’opinione e considerazioni a margine, che il governo degli Stati Uniti stia muovendo le fila dell’esercito egiziano, indirizzandone a suo piacimento le azioni e le decisioni: un fatto che non può essere ignorato e che risulta essere pericoloso, anche a fronte della conclamata simpatia di vasti strati della popolazione nei confronti delle forze armate (simpatia che la polizia, vista con diffidenza e disprezzo come organo di difesa della passata dittatura, non ha mai riscosso). A prescindere da ciò, pur ammettendo che una “rivoluzione” spesso non segua un percorso lineare, si ha la netta impressione che ora tutto ricominci da metà percorso, come dal momento della cacciata di Mubarak: si tornerà a nuove elezioni, ne  frattempo c’é il governo di transizione di Adly Mansour all’ombra dell’esercito. Nei momenti di euforia è facile dimenticare cosa significò il periodo di transizione trascorso dalla caduta di Mubarak alle elezioni e guidato dalle forze armate, facile dimenticare le decine di morti per mano militare, mano che si trasforma all’occorenza in pugno di ferro, piaccia o meno alle masse. Nell’eterogeneità di movimenti, opinioni e prese di posizione si mescolano le istanze religiose e quelle laiche, l’avanzamento di rivendicazioni sociali e la conservazione/restaurazione dell’ordine vigente e dei privilegi delle classi agiate, i pro e contro Mubarak come i pro e contro l’esercito come i pro e contro Morsi, domani magari ci troveremo di fronte ad altre sfilate di milioni di persone divise tra pro e contro Mansour e poi tra pro e contro nuovo presidente “democraticamente” eletto. Sempre che non si scivoli prima nella guerra civile, come temono alcuni. O nell’apatia, nel disgusto senza sbocchi propositivi e infine nell’indifferenza, il che mi azzardo a dire sarebbe addirittura peggio: uno scacco matto a quella che, nonostante tutto, vorremmo poter chiamare rivoluzione.