Quando qualcuno esprime un concetto meglio di quanto io possa fare.

Nelle due o tre ore delle le ultime quarantott’ore che ho speso seduto di fronte al computer ho letto numerosi comunicati sugli attentati di Parigi e su ciò che vi ruota intorno. Avevo compilato una lista di comunicati e riflessioni di organizzazioni anarchiche di vari Paesi che pensavo di riproporre su questo spazio virtuale, poi mi sono imbattuto in uno (anzi due) testi pubblicati su un blog che leggo non dico spesso, ma almeno volentieri e ci ho ritrovato un pò quello che mi passa per la testa in questi giorni. Perchè ripetere allora con parole mie gli stessi concetti di fondo, quando qualcuno li ha già espressi peraltro stilisticamente meglio di quanto io possa fare? L’unica rimostranza che avrei da fare sugli articoli, chiamiamoli così, in questione, è che manca il benchè minimo ottimismo sulla capacità di reazione degli esseri umani che potrebbero, dovrebbero opporsi allo stato di cose esistente. Ma sarebbe un ottimismo motivato?

– “Non-elogio della Follia” e “Guerra santissima“, dal blog di Riccardo Venturi.

P.S: C’è un’altra cosa che continua a passarmi per la testa, non da qualche giorno ma da diversi anni, in svariate occasioni. È una citazione tragicamente attualissima attribuita a Benjamin Franklin, che paradossalmente mette in guardia anche da quelli come lui: “Chi rinuncia alla libertà per raggiungere la sicurezza, non merita né la libertá né la sicurezza”.

Colonna sonora per il 3 Ottobre, Tag der Deutschen Einheit.

Amo e odio il luogo nel quale sono nato, amo e al tempo stesso odio il luogo nel quale vivo. Il mio amore non ha a che fare con il concetto di Stato e Nazione, il mio odio sí. Ritengo che identificarsi in uno Stato-nazione come forma di realizzazione, come sentimento di appartenenza ad una comunità fatta di sfruttati e sfruttatori, oppressi ed oppressori, tutti insieme appassionatamente, “noi” contro “loro” in base al luogo di nascita, a confini geografici stabiliti a tavolino dopo l’ennesimo massacro, ad una presunta razza, etnia o cultura, sia la forma più bassa di annichilimento della ragione e del senso universale di umanità e di solidarietà che si possa concepire. Per questo, ancora una volta: Nie wieder Deutschland, nie wieder Staaten! Grenzen abschaffen! Für eine Welt ohne Herrschaft!

Sembra passato un giorno dal 1915…

Risultati immagini per notizie turchia

La foto qui sopra, diffusa nelle ore scorse sui cosiddetti social networks e in seguito ripresa dai massmedia, mostra uno dei due appartenenti all’organizzazione marxista-leninista turca DHKP-C che tiene in ostaggio, puntandogli una pistola alla tempia, il procuratore Mehmet Selim Kiraz nel suo ufficio all’interno del palazzo di giustizia ad Istanbul, dove i due giovani armati hanno fatto stamane irruzione. Kiraz era l’incaricato che indaga sull’uccisione da parte della polizia del 14enne Berik Elvan, colpito nel Giugno 2013 da un candelotto lacrimogeno durante le proteste di Gezi Park. Berik non era coinvolto nelle proteste, a quanto sembra stava andando a comprare il pane e si era trovato per caso nel mezzo degli scontri; entrato in coma, il ragazzo morì dopo oltre nove mesi e il suo omicidio rimane tuttora impunito visto che la “giustizia” non è riuscita ad appurare l’identità del poliziotto che lo ha ucciso. Quello che però la “giustizia”, il governo di Erdogan e la polizia sono riusciti a fare è stato reprimere duramente le proteste popolari scoppiate a seguito della morte di Berik, che si sono riaccese nuovamente l’11 Marzo di quest’anno in diverse città turche (Ankara, Istanbul, Eskişehir, İzmir, Tekirdağ…), durante le quali un’altra giovanissima ragazza è rimasta gravemente ferita da un candelotto lacrimogeno e giace anche lei in coma.

“Chiedono chi stia dando ordini alla polizia. Li ho dati io stesso”, disse Erdogan, all’epoca primo ministro (oggi presidente) turco, riferendosi alla morte di Berkin Elvan, da lui definito in seguito un “terrorista”. Una frase che mi riporta alla mente, per immediata associazione di idee, le parole del famigerato discorso pronunciato da Benito Mussolini dopo l’omicidio di Giacomo Matteotti. Responsabilità morale. Come quella di Erdogan, dei suoi scagnozzi e dei suoi sostenitori, non solo di fronte alla morte di Berik Ervan e al ferimento di un’altra ragazzina che forse mai si risveglierà dal coma e alle decine di recenti arresti durante le proteste, ma anche di fronte alla morte di quasi 300 minatori nel Maggio 2014 e alla repressione della rabbia di chi scese per strada chiedendo le dimissioni del governo. Solo pochi giorni fa è stata approvata in Turchia una legge che prevede che la polizia possa sparare addosso ai manifestanti irrequieti, mentre la legge sulla censura dei massmedia per motivi di sicurezza nazionale è stata applicata, secondo il quotidiano turco Hurryet, 150 volte negli ultimi 4 anni, inoltre gli scioperi vengono sospesi o proibiti facendo ricorso a strumenti nati durante la dittatura militare, com’è accaduto con lo sciopero dei metalmeccanici proclamato lo scorso fine Gennaio dal sindacato di ispirazione socialdemocratica BMI. Se a tutto ciò si aggiungono le politiche razziste e di pulizia etnica perpetrate da decenni nei confronti dei curdi, la chiusura delle frontiere per i rifugiati e perseguitati dall’ISIS e l’appoggio solo in parte velato fornito a tale organizzazione, non sembrano passati esattamente 100 anni da quando la Turchia iniziò lo sterminio degli armeni, un genocidio conclusosi con almeno 1 milione di morti. Cambiano gli attori sul palcoscenico, le circostanze storiche, ma oggi come allora siamo di fronte alla barbarie. E di fronte all’evidenza dei fatti ci si può solo chiedere ancora una volta chi siano i veri terroristi: i due ragazzi morti poche ore fa dopo un bliz delle forze speciali nel palazzo di “giustizia” di Istanbul assieme al giudice da loro tenuto in ostaggio, o quelli che sono disposti ad affastellare cadaveri su cadaveri e produrre miseria, violenza e abruttimento pur di mantenere il potere e portare avanti i loro allucinanti progetti nazionalisti ed autoritari? Qual’è il vero terrorismo, un gesto disperato compiuto nel tentativo di ottenere “giustizia” o le cause di tale gesto e di tutta la rabbia che è finora scoppiata e ancora scoppierà in Turchia?

PEGIDA e il razzismo che avanza in Germania.

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Sembrano esserci riusciti, gli islamofobi tedeschi, a trovare un contenitore ed una strategia appropriati per portare per le strade  il loro messaggio con un seguito consistente di seguaci. Dopo i tentativi falliti di creare un nutrito movimento di protesta conto immigrazione ed islam, portati avanti già da alcuni anni a questa parte dalle organizzazioni della destra populista PRO- (PRO-Deutschland, PRO-NRW, Pro-Köln, ecc…), a manifestare per le strade di diverse città tedesche è stata recentemente l’iniziativa HO.GE.SA (“Hooligans Gegen Salafisten”, “hooligans contro i salafisti”), animata da frange violente del tifo calcistico in gran parte autodichiaratesi apolitiche e da personaggi legati ad ambienti di estrema destra. Nonostante alcuni successi di partecipazione numerica, come nel caso della manifestazione tenutasi a Colonia lo scorso 26 Ottobre alla quale parteciparono dalle 4000 alle 4500 persone, l’HO.GE.SA non è un movimento attraente per il cittadino medio tedesco avente tendenze reazionarie e razziste, al quale si rivolge invece il messaggio tanto semplice quanto facente leva su sentimenti irrazionali, sciovinismo e darwinismo sociale del movimento PEGIDA (“Patriotische Europäer Gegen Islamisierung Des Abendlandes”, “patrioti europei contro l’islamizzazione dell’Occidente”). Difatti le manifestazioni organizzate da e con gli hooligans sono situazioni nelle quali la folla si scatena dando sfogo alla violenza in buona parte fine a se stessa, ma anche indirizzata verso il “diverso”, come nel caso del grosso corteo a Colonia, iniziato con lanci di bottiglie e bengala e aggressioni contro negozi e persone dall’aspetto “straniero”, proseguito col rovesciamento di una camionetta della polizia e interrotto infine dalle cosiddette forze dell’ordine. Il movimento di protesta PEGIDA, attivo dall’autunno 2014, promette invece di non voler usare la violenza: esso si rivolge ai cittadini tedeschi preoccupati per le politiche a loro dire troppo permissive in materia di immigrazione, riecheggiando in parte rivendicazioni fatte proprie dal partito euroscettico e ultraconservatore AfD (“Alternative für Deutschland”, “Alternativa per la Germania”) e presentandosi come movimento che intende difendere la libertà di opinione ed il benessere tedesco, minacciati dall’avanzare dell’islamismo in Germania e dai troppi diritti e sussidi concessi agli immigrati, promuovendo passeggiate in diversi  centri tedeschi per richiamare l’attenzione della classe politica e della cittadinanza su tali problematiche.

Ma guardiamo più da vicino le idee di questi “patrioti europei antiislamici”. Nella sostanza le loro richieste sono simili a quelle di diversi partiti e movimenti europei della destra populista, moderate nei toni dei proclami ufficiali rintracciabili sul web, ma più radicali quando espresse nelle piazze o nelle conversazioni private. Accanto al classico euroscetticismo in nome della sovranità nazionale si evidenziano chiare posizioni razziste, laddove si paventa una minaccia da parte di culture diverse da quella locale o più genericamente da quella “occidentale” con particolare riferimento al mondo islamico, si accusano i  migranti di voler abusare di diritti e ammortizzatori sociali e si associa la presenza di “stranieri” all’aumento della criminalità, anche quando i dati statistici non supportano queste tesi; l’unico tipo di immigrazione accettabile è quello di persone qualificate ed istruite che possano giovare al benessere economico della Nazione e che vogliano integrarsi alla svelta, il tutto in una chiara ottica di darwinismo sociale ed in funzione sciovinista. È d’obbligo qundi un richiamo ai valori tradizionali, perciò anche alla famiglia come classico nucleo composto da uomo e donna con ruoli ben definiti ( ecco l’elemento omofobo e sessista, nemmeno troppo latente) ed al “popolo tedesco” come “comunità nazionale” che dovrebbe venir interpellata nelle decisioni prese dal parlamento: qui non è tanto la critica parziale alla democrazia rappresentativa che dovrebbe saltare all’occhio, quanto la volontà di richiamarsi al “modello svizzero”. In questo quadro reazionario, discriminatorio ed esclusivo non può certo mancare il richiamo all’ordine calato dall’alto e mantenuto con la violenza dallo Stato, laddove si chiedono più mezzi e poteri per la polizia (ironico, quella stessa polizia attaccata dai manifestanti dell’ HO.GE.SA. a Colonia…). Abbozzando un’analisi sociologica, risulta evidente che a raccogliersi attorno alla sigla PEGIDA sono persone bisognose di un’identità di gruppo, che si sentono minacciate da un possiblie decadimento del loro benessere e che rivalutano se stesse individualmente, superando i propri complessi d’inferiorità e le proprie incertezze, attraverso la marginalizzazione e l’attacco nei confronti di categorie di persone considerate “inferiori”. Bisognosi di una guida e di un contenitore all’interno del quale esprimere la propria rabbia, sono spesso resistenti ad argomenti razionali e dati di fatto che contrastino con le loro tesi. L’unico motivo per il quale un movimento come PEGIDA si dichiara avverso al neonazismo -smentendosi nei fatti- è la volontà di entrare a far parte di un discorso politico che non venga ritenuto né resti marginale e possa quindi attrarre maggiori consensi ed attenzione anche da parte della classe politica dominante.

Sarebbe opportuno inoltre gettare uno sguardo, oltre che alle idee promosse da PEGIDA, anche ai personaggi che animano il movimento. Il fondatore dell’iniziativa protestataria è un certo Lutz Bachmann. Classe 1973, di Dresda, un passato turbolento alle spalle fatto di processi e condanne per guida in stato d’ebbrezza, furto e rapina, calunnia, istigazione a delinquere, violazione della legge sul pagamento degli alimenti (Verletzung der Unterhaltspflicht) e lesioni, Bachmann riuscì per alcuni anni a sottrarsi alla giustizia tedesca emigrando (!) in Sudafrica , Paese dal quale venne cacciato dopo esser stato trovato per due volte in possesso di cocaina. Tra i promotori delle singole manifestazioni si trovano esponenti dei movimenti PRO-, mentre tra i partecipanti sono riconoscibili elementi noti del neonazismo organizzato e alcuni di quegli Hooligans, sedicenti apolitici, che hanno partecipato ad altre manifestazioni promosse sotto la sigla HO.GE.SA. Anche alcuni politici del Partito AfD non disdegnano mostrarsi alle “passeggiate” islamofobe prendendo addirittura all’occorrenza la parola sul palco. Eppure, nonostante alcune di queste tanto inequivocabili quanto ingombranti presenze, le “tranquille” e “pacifiche” passeggiate organizzate da PEGIDA sono riuscite ad attrarre “comuni cittadini” il cui latente razzismo si combina con un’attitudine poco incline allo scontro violento o al teppismo: poco importa se poi ai margini di tali “passeggiate” non siano mancate aggressioni contro manifestanzi antirazzisti ad opera degli elementi meno inquadrati nel concetto di facciata del “cittadino medio preoccupato”. L’epicentro delle proteste islamofobe è Desda, dove ogni Lunedì si svolgono le passeggiate di PEGIDA. Il numero di partecipanti è salito dalle 350 persone della prima iniziativa svoltasi lo scorso 20 Ottobre alle 10-15mila del 15 Dicembre (nona manifestazione finora). In altre città le derivazioni locali di PEGIDA ( DüGIDA a Düsseldorf, KAGIDA a Kassel, WüGIDA a Würzburg, BOGIDA a Bonn…) hanno avuto meno successo, ma in alcuni casi hanno potuto comunque contare sulla presenza di diverse centinaia di partecipanti.

Di fronte al triste spettacolo di razzisti che tentano di rendere popolari e accettabili le loro idee gli/le antifascisti/e e antirazzisti/e non sono rimasti/e a guardare. A Dresda, pur essendo spesso in inferiorità numerica, hanno bloccato in almeno due occasioni i cortei di PEGIDA, in altre città si sono presentati all’appuntamento in forze numericamente superiori: esemplare è il caso di Bonn, dove alla prima iniziativa di BOGIDA hanno preso parte 300 persone, alle quali 1600 controdimostranti hanno impedito non solo di “passeggiare”, ma anche di tenere un qualsiasi comizio udibile a distanza, subissando i razzisti radunati in pochi metri quadri con fischi, slogan e musica. È proprio la superiorità numerica, unita a strategie appropriate alla situazione in corso, l’elemento principale sul quale possono contare in diversi casi gli/le oppositori/trici di PEGIDA nel contrastare e impedire le iniziative razziste. A monte rimane indispensabile un lungo e paziente lavoro quotidiano di contrasto di qualsiasi tendenza razzista, sessista, omofoba, sciovinista e nazionalista, in qualsiasi forma tali tendenze si manifestino.

“Faranno un deserto e lo chiameranno pace”- oppure l’utopia.

Le prime immagini che ricordo di aver visto in vita mia su uno schermo televisivo sono quelle della prima intifada in Palestina: bambini e adolescenti che lanciano pietre contro carri armati israeliani. Se oggi accendessi la tv e mi sintonizzassi su un canale che trasmette un qualsiasi tg vedrei ancora immagini relative allo stesso conflitto: lo Stato d’Israele si difende, stavolta dagli attacchi dei fondamentalisti islamici di Hamas, Israele cerca vendetta contro gli assassini di tre suoi giovanissimi cittadini e la esegue con le proporzioni che da sempre le competono. Israele si difende dal 1948, anzi da prima ancora che venisse formalmente creato, da un popolo che non ha mai rappresentato una minaccia nei suoi confronti. Si difende come già negli anni ’30 del secolo scorso, quando i sionisti capeggiati da David Ben Gurion programmarono e in seguito misero in atto un piano di pulizia etnica nei territori che sarebbero poi entrati a far parte dello Stato di Israele, il che portò tra le altre cose alla cacciata e all’esilio -la naqba-, eseguita con metodi terroristici anche da gruppi quali Haganah, Irgun e Stern, di 250 000 palestinesi. Si difende dalla verità storica, ridisegnando confini a proprio piacimento, insegnando menzogne ai bambini nelle sue scuole, educandoli all’odio nei confronti degli arabi, impedendogli di aprire gli occhi di fronte alla realtà dei fatti, indottrinandoli a venerare l’esercito e preparandoli a farne parte. Si difende dai nemici interni, dai traditori, da quelli che raccontano segreti scomodi come lo scenziato Mordechai Vanunu così come da chi si rifiuta di servire lo Stato indossando la divisa e imbracciando un fucile. Si difende dalle critiche a livello internazionale, dalle manifestazioni di protesta, dagli appelli al boicottaggio e alle sanzioni: l’etichetta di antisemita viene distribuita con generosità a chiunque non taccia di fronte ai crimini commessi dai sionisti nei confronti della popolazione palestinese. Si difende contro quei terroristi dei palestinesi asserragliati nella striscia di Gaza.

Gaza è uno dei territori più densamente popolati al mondo. Non ha aereoporti, porti, stazioni ferroviarie: per sfuggire ai bombardamenti, beffardamente annunciati durante quest’ultima operazione di “autodifesa” da parte dell’esercito israeliano tramite telefonate o sms ai civili palestinesi (guai ad avere il cellulare scarico!), si calcola che questi ultimi abbiano circa 15 secondi di tempo. È ben difficile muoversi liberamente, nella striscia di Gaza, che anche al suo interno vede la presenza di check point dell’ esercito israeliano: star lontani da presunti obiettivi militari non serve, dato che l’Israeli Defence Force ha bombardato finora, nel corso dell’operazione militare in corso (per non parlare nel corso di quelle precedenti) abitazioni, scuole, asili, orfanotrofi, moschee, ospedali, ambulanze, autoveicoli privati, parchi giochi -e chi ci si trovava dentro o nei pressi . Alcuni dei possibili rifugi dalle bombe sarebbero i tunnel che attraversano Gaza, quegli stessi tunnel che l’offensiva di terra dell’esercito israeliano dice di voler distruggere e attraverso i quali verrebbero trasportate le armi destinate ad Hamas. Peccato che attraverso quei cunicoli sotterranei passino anche beni di prima necessità che scarseggiano tra la popolazione palestinese, inclusi materiali da costruzione: i palestinesi non possono edificare a Gaza, mentre possono svegliarsi una mattina e scoprire che la loro casa o il loro uliveto sono stati rasi al suolo per far posto ad un nuovo insediamento di coloni israeliani, che con le inutili risoluzioni dell’ONU ci si puliscono il deretano. L’economia di Gaza dipende interamente da Israele e dai suoi capricci, cosicchè l’85% circa della popolazione che vi risiede vive -o per meglio dire sopravvive, fino alla prossima operazione di “autodifesa israeliana”- sotto il tasso di povertà.

La situazione a Gaza, realisticamente parlando, non è destinata a migliorare, basti guardare come siano peggiorate le cose per la popolazione palestinese che vi risiede a partire dall’operazione Piombo Fuso lanciata da Israele alla fine del 2008. Probabilmente solo quando l’intera popolazione palestinese di Gaza (e possibilmente di tutti i territori facenti parte del fantomatico Stato Palestinese) sarà morta e/o emigrata e/o inglobata come cittadinanza di serie b nello Stato d’Israele, allora non ci saranno più aggressioni militari o conflitti di sorta, sempre che Israele non si senta minacciato da qualcun’altro e non ritenga necessarie nuove contromisure in nome della propria sicurezza a danno di altre popolazioni di altri territori in Medio Oriente. Da una prospettiva meramente utopica si potrebbe invece sognare qualcosa di diverso: un territorio senza Stati né governi centrali, dal quale vengano mandati in esilio solo i fondamentalisti d’ogni sorta e gli inguaribili nazionalisti, razzisti e guerrafondai, una terra nella quale i suoi abitanti possano insieme ed egualmente decidere, vivere, produrre, consumare, crescere, imparare, amare e un giorno morire possibilmente di morte naturale. Per arrivare ad un’utopia del genere, e badate che sto parlando di qualcosa di impossibile, i giovani e giovanissimi israeliani, ragazzi e ragazze non ancora maggiorenni, dovrebbero venire a sapere come siano andate le cose nelle terre da loro abitate ed in quelle limitrofi fin dagli inizi del secolo scorso; dovrebbero liberarsi dall’educazione che gli è stata imposta, dai dettami nazionalisti, militaristi, religiosi; dovrebbero rifiutarsi di prestare servizio militare nell’Israeli Defence Force, farsi magari sbattere in galera finchè non ci saranno più abbastanza galere, dopodiché i loro padri e le loro madri dovrebbero fare la stessa cosa, rendersi conto dei propri errori, della loro sudditanza, di come la vera e unica autodifesa nei confronti delle loro vite e di quelle dei loro cari sia smettere di credere alle menzogne del governo, smettere di seminare terrore, smettere di nutrire l’odio nei cuori di chi viene oppresso fabbricando sempre nuove generazioni di nemici. Quando in Israele si spegneranno le televisioni e si lasceranno a marcire nelle edicole i giornali della propaganda sionista, quando si sciopererà contro l’ennesima operazione militare nella Striscia di Gaza, quando ci si rifiuterà di applicare le leggi razziste promulgate dal knesset, quando le strade si riempiranno non di gente che sventola bandiere nazionali esultando ad ogni morto palestinese, ma di persone che si rifiutano di gettare bombe, innalzare muri o lavorare al servizio dell’ oppressione quotidiana o dell’ennesimo massacro, allora toccherà ai palestinesi fare la loro parte. Nessun inutile razzo, nessun kamikaze senza più nemmeno rispetto per la propria miserabile vita senza prospettive. I palestinesi dovranno prendere atto del cambiamento in corso nella società israeliana e fare il passo più difficile: perdonare. Senza volontà di vendetta, voltare pagina e ricominciare da capo insieme ai loro nuovi fratelli e sorelle. E, ovviamente, levarsi dai piedi gli irriducibili reazionari che ancora fossero rimasti tra le proprie file. Solo a questo punto si potrebbe realizzare la pace, una pace che non sia un deserto ma un presente degno di essere vissuto ed un futuro da costruire insieme.

Cercando l’impossibile, l’uomo ha sempre realizzato e conosciuto il possibile, e coloro che si sono saggiamente limitati a ciò che sembrava possibile non sono mai avanzati di un sol passo”. Michail Bakunin.
 
(Nelle foto sopra, alcune persone che hanno compiuto un passo in avanti: l’obiettore di coscienza israeliano Nathan Blanc e manifestanti israeliani che protestano contro l’ennesima aggressione militare del “loro” Stato nei confronti dei palestinesi di Gaza.)

“Ucraina- tra l’incudine russa e il martello occidentale”

Fonte: Anarchaos.

Ucraina – tra l’incudine russa e il martello occidentale

 

TRA L’INCUDINE RUSSA E IL MARTELLO OCCIDENTALE

 

 

La crisi in Ucraina assomiglia troppo a quella che negli anni novanta devastò la Jugoslavia.

In Jugoslavia l’ultimo atto della guerra venne rappresentato dall'”operazione tempesta” nella Krajina croata e vide l’espulsione in massa della popolazione serba che abitava quelle regioni da secoli.

Analogia nel nome, questione etimologica si, ma che cela la sostanza delle vicende comuni ad una zona appunto di frontiera, Ucraina come Krajina hanno lo stesso significato, terra di confine, frontiera.

Da sempre terre e popoli facili preda di nazionalismi e di una etnicizzazione dirompente nei rapporti sociali, paradosso di una storia che in Europa come negli USA si vorrebbe passata.

La visuale eurocentrica non aiuta a comprendere quanto accade e quanto è accaduto in passato nelle terre di confine. Qualche nostalgico neofascista ha voluto farci credere che l’abbattimento delle statue di Lenin o in Croazia di Tito aprissero al mondo strade nuove e felici ai popoli coinvolti, ma così non è stato, mai.

La crisi Ucraina nasce in un paese che non è mai stato uno Stato-nazione, da sempre attraversato da lingue, culture e popoli diversi, ed ora attraversato letteralmente da oleodotti e metanodotti che portano nella EU gli idrocarburi russi.

Contrariamente a quanto vogliono far credere i seguaci del “complottismo”, sempre pronti a cercare le cause delle rivolte sociali nelle influenze esterne, l’esplosione di rivolte a cui partecipano ampie fette di popolazione hanno sempre delle cause interne di varia natura economica, sociale e politica, su cui inoltre si innescano rivendicazioni etniche e/o religiose. Su queste poi cercano di far leva gli interessi politici ed economici delle classi borghesi nazionali e gli interessi economici e strategico-politici degli Stati imperialisti, che cercano di utilizzare gli eventi a loro favore.

In Ucraina si scontrano le differenze economiche ed etniche di due settori geo-politici: quello occidentale e centrale a prevalenza etnica ucraina, caratterizzato da una bassa industrializzazione e da un enorme bacino agricolo sotto sfruttato, storicamente più legato alle Nazioni che confinano ad occidente (e quindi più tendenzialmente all’Europa), e quello orientale e meridionale, a prevalenza etnica russa, caratterizzato da una più forte, anche se obsoleta, industrializzazione, storicamente ed economicamente più legato alla grande madre Russia.

La rivolta esplode nel settore centro occidentale ed assume, per le peculiarità sopra esposte, caratteristiche anti-Russe. Ha origini politiche, prevalentemente nelle classi medie e negli studenti che si ribellano contro la corruzione dell’apparato statale del filo russo Yanukovich, e origini socio-economiche in seguito alle illusioni delle classi lavoratrici, tradite dalle oligarchie dirigenti susseguitesi dopo la caduta del muro di Berlino e tradite dagli effetti dell’ultima crisi capitalista.

In questo scenario si inseriscono, come spesso accade a queste longitudini, i tentativi delle organizzazioni di estrema destra e fasciste di aumentare la loro influenza attraverso l’acquisizione di fette di potere politico; è la strada che stanno percorrendo organizzazioni del settore centro-occidentale, fasciste e nazionaliste, come i partiti SvobodaBatkivshchyna e Pravy Sektor, spesso in concorrenza tra loro. Ma le organizzazioni fasciste sono proprie anche del blocco antagonista filo-russo, dove estremisti di destra, stalinisti, Cosacchi e fanatici ortodossi, combattono tutti insieme contro i Banderoviti (soldati di Stepan Bandera, capo militare e politico collaborazionista durante l’occupazione nazista). La sola differenza è la tradizione storica a cui si richiamano.

Ed in questo scenario si innescano anche le mire politico-economiche dei potentati oligarchici locali, in concorrenza tra loro, come quelli rappresentati dalla famiglia Yanukovich o da Yulia Tymoshenko, personaggio falsamente descritto dalla propaganda mediatica occidentale come un’eroina della libertà, quando in realtà è una sorta di Berlusconi ucraina, immischiata in diverse faccende finanziarie.

Ed in questo scenario, e non poteva essere altrimenti, si inseriscono gli interessi degli Stati imperialisti. Interessi che sono strategici, addirittura vitali, come quelli russi che in Crimea hanno una loro fondamentale base militare; politici come quelli nord-americani, che cercano di sfruttare il conflitto per far perdere terreno alla Russia o perlomeno di ostacolare un probabile avvicinamento di interessi tra questa e la UE. Ci sono gli interessi politici ed energetici dell’Europa, visto che l’Ucraina è, come dicevamo sopra, terra di attraversamento di importanti corridoi energetici che trasportano gli idrocarburi russi in territorio europeo. Ed infine ci sono gli interessi economici cinesi, indifferenti alla forma politica dello Stato ucraino, ma profondamente interessati alle potenzialità agricole dello stesso.

Che il conflitto, o la spartizione del paese per evitarlo, sia quindi inevitabile è quasi un dato di fatto: da un lato nazisti galiziani e nazionalisti confusi appoggiati dalla Unione Europea a caccia di mercati e di manodopera a basso costo, con a fianco l’amico/rivale Stati Uniti desideroso di spostare ad Est il fronte NATO, dall’altro la Russia che non è disposta ad essere spodestata dalla propria influenza su territori vitali.

Tutto questo impone una riflessione su quanto sta avvenendo. È fondamentale, a partire dagli strumenti analitici in possesso della prassi antiautoritaria e antimperialista, fare il possibile affinché la classe lavoratrice non sia preda dell’influenza nefasta dell’uno o dell’altro potentato interno e dell’uno o dell’altro polo imperialista. Perché troppo spesso si assiste a fatidici antimperialisti che si schierano con Putin e la Russia, oppure a parte della sinistra “per bene” che si trova a fianco dell’imperialismo americano ed europeo, a rappresentanze politiche che stanno zitte o balbettano confuse, ai seguaci della caduta tendenziale del tasso di profitto e della “comunistizzazione” subito che si perdono in analisi tanto fantasmagoriche quanto inutili.

È importante innanzitutto fare chiarezza sul fatto che il proletariato ucraino non ha governi amici, che siano di colore bruno o arancione, e che il proletariato internazionale non ha Stati amici, che siano borghesi o presunti operai. E che non esistono scorciatoie nazionaliste: l’unica strada percorribile, a corto e a lungo termine, è l’autonomia e l’autodeterminazione delle classi sfruttate a tutte le latitudini e le longitudini. Fare chiarezza su questo aspetto, in questo periodo di grande confusione, è il primo obiettivo, senza il quale non sarà possibile costruire, così come auspichiamo, una ricomposizione del fronte di classe internazionalista.

L’assenza di guerra non è pace, ma ora come ora che per evitare che il maggior numero di proletari rimangano coinvolti in una guerra fratricida, che almeno la ridisegnazione dei confini e degli assetti avvenga senza ulteriori spargimenti di sangue.

Segreteria Nazionale
Federazione dei Comunisti Anarchici

5 marzo 2014 “

Ricordando ciò che non si sa: le foibe.

“Ma che cosa sa tuttora la maggioranza degli italiani sulla politica di sopraffazione del fascismo contro le minoranze slovena e croata (senza parlare dei sudtirolesi o dei francofoni della Valle d’Aosta) addirittura da prima dell’avvento al potere; della brutale snazionalizzazione (proibizione della propria lingua, chiusura di scuole e amministrazioni locali, boicottaggio del culto, imposizione di cognomi italianizzati, toponimi cambiati) come parte di un progetto di distruzione dell’identità nazionale e culturale delle minoranze e della distruzione della loro memoria storica?
I paladini del nuovo patriottismo fondato sul vittimismo delle foibe farebbero bene a rileggersi i fieri propositi dei loro padri tutelari, quelli che parlavano della superiorità della civiltà e della razza italica, che vedevano un nemico e un complottardo in ogni straniero, che volevano impedire lo sviluppo dei porti jugoslavi per conservare all’Italia il monopolio strategico ed economico dell’Adriatico. Che cosa sanno dell’occupazione e dello smembramento della Jugoslavia e della sciagurata annessione della provincia di Lubiana al regno d’Italia, con il seguito di rappresaglie e repressioni che poco hanno da invidiare ai crimini nazisti? Che cosa sanno degli ultranazionalisti italiani che nel loro odio antislavo fecero causa comune con i nazisti insediati nel Litorale adriatico, sullo sfondo della Risiera di S. Sabba e degli impiccati di via Ghega?”

(Enzo Collotti)

 

Il 10 febbraio si celebra in Italia per volere di un qualche decretolegge del 2004 il “giorno del ricordo”, uno degli ennesimi pasticci istituzionali nato dal connubio tra sensi di colpa e volontà revisionista di buona parte della “sinistra” parlamentare e volontà revisionista senza sensi di colpa da parte della “destra”. Quel che si è obbilgati a ricordare il 10 Febbraio è la tragedia delle foibe, almeno in teoria, perchè è impossibile ricordare ciò che non si sa. In un’occasione come questa risulta difficile scampare alle dichiarazioni retoriche, alle sceneggiate propagandistiche ed alle manipolazioni, impossibile farlo se non si hanno informazioni corrette sui fatti storici che occorsero in quella parte dei Balcani occupata militarmente dalle truppe italiane durante la Seconda Guerra Mondiale, ma anche negli anni precedenti- basterebbe parlare della pulizia etnica operata dagli italiani in Slovenia già nel primo dopoguerra mondiale…ma parlarne a chi? A quelli che stanno di fronte al televisore e si bevono la reinvenzione della storia ad uso e consumo di chi oggi vuole sdoganare il fascismo? Per chi non se la beve, per chi vuole capire le reali dimensioni della foiba nella quale si cade quando si lascia la memoria storica nelle mani di personaggi come Napolitano, Gasparri e soci, per chi non sa cosa sia avvenuto prima e dopo e vuole saperlo, ecco alcuni punti di partenza per iniziare a capire e avviare di conseguenza una riflessione seria sugli eventi in questione:

“L’invasione della Jugoslavia: crimini di guerra e lager fascisti per slavi”, da Anarcopedia;

“Fascist Legacy”, documentario della BBC (prima parte);

“Perchè l’Italia ricorda le Foibe ma non la pulizia etnica compiuta dai fascisti in Slovenia?”, dal sito Memoriastorica;

“Pulizia etnica all’italiana”, dal sito Osservatorio Balcani e Caucaso;

“La verità sulle foibe”, di Marco Ottanelli;

“Il cuore nel pozzo: un caso di revisionismo mediatico”, video.

Sulla protesta del “movimento dei forconi”.

Solo in questi ultimissimi giorni ho avuto tempo di leggere notizie e analisi sulle proteste messe in atto di recente un pò in tutta Italia dal cosiddetto movimento dei forconi. Il loro programma, o meglio quello che si legge sul sito del “movimento del popolo de i forconi“, è in sostanza una lista di riforme che hanno un senso solo se si riconosce come legittima e auspicabile l’esistenza del sistema capitalista con tutte le sue conseguenze (ad esempio la divisione in classi sociali), che si indirizzano contro quelle che vengono ritenute le “storture” di tale sistema (neoliberismo, delocalizzazioni, corruzione, clientelismo, scarsa mobilità sociale, eccessiva pressione fiscale …) e che risultano palesemente fallaci perchè mancano di risonoscere questi aspetti come intrinsechi al sistema capitalista stesso. A scendere in piazza nelle scorse settimane sono stati principalmente lavoratori autonomi e piccoli imprenditori impoveriti dalla crisi, spesso trascinandosi dietro la loro mentalità piccoloborghese col relativo strascico di razzismo, classismo, qualunquismo e patriottismo. Eppure, pur scegliendo i loro obiettivi in modo magari discutibile (perchè bloccare nel traffico i mezzi di trasporto di chi torna dal lavoro e non indire direttamente un bel blocco delle attività produttive?), pur avendo tra le loro fila elementi di destra o addirittura dichiaratamente neofascisti, pur cercando percorsi legalitari e appoggio da parte delle forze dell’ordine, i forconi non possono essere ignorati, né etichettati sbrigativamente come fascisti tout court. Chi accusa i piccoli imprenditori di aver evaso da sempre le tasse e di lamentarsi ora per l’eccessiva pressione fiscale dovrebbe interrogarsi, anarchici/che in primis, sulla legittimità stessa del concetto di tasse come imposizione di un contributo da parte dello Stato (vogliamo forse rileggere cosa dicevano sull’argomento i vari Proudhon, Warren o Tucker?), ma anche ricordare che al di là delle generalizzazioni è vero che le condizioni di vita di tanti esponenti della cosiddetta piccola borghesia spesso non si allontanano molto da quelle dei lavoratori dipendenti, né che quel tipo di mentalità reazionaria e per me ripugnante della quale parlavo poco sopra è tristemente diffusa anche tra tanti elementi di quelle classi sociali definite storicamente come proletariato e sottoproletariato. Sono tanti gli aspetti che accomunano queste classi sociali, non ultimo il fatto che le critiche al sistema, indirizzate solo ad alcuni dei suoi aspetti, siano mosse da chi non vuole abbattere tale sistema perchè ritenuto ingiusto, ma da persone che vengono escluse dal fittizio benessere da esso prodotto, quelli del “vorrei ma non posso”, che non detestano tanto i “padroni” quanto il fatto di non essere al loro posto: una conseguenza della mancanza di coscienza di classe, anche frutto dell’opera di molti di quelli che  lo scorso 9 Dicembre si sono ritrovati a protestare in piazza solo perchè scivolati più in basso nella scala sociale. Eppure, come tutti i movimenti di protesta, quello dei forconi non dovrebbe venir liquidato sbrigativamente, magari usando schemi e strumenti di analisi ormai superati, bensì seguito con attenzione. Finite le manifestazioni e i blocchi stradali il problema è ancora lì e con la rabbia di chi è sceso in piazza e continuerà a scendervi, anche se spesso con parole d’ordine molto diverse dalle nostre, bisogna fare i conti. Qual’è dunque il posto degli/lle anarchici/che in questo tipo di lotta, o meglio come rapportarsi nei confronti del malessere delle classi medie con l’acqua ormai alla gola, “proletarizzate”? In quanto persona “esterna” alle proteste, vivendo a troppi chilometri di distanza dai luoghi nelle quale esse si sono svolte e (probabilmente) continueranno a svolgersi, in questo frangente posso solo leggere ciò che avviene e farmi un’opinione, non certo dare consigli, piuttosto porre interrogativi. Di sicuro qui non sono tanto i metodi a dover essere radicalizzati, quanto i contenuti, il che è la cosa più lunga e difficile. Cercare altri luoghi e spazi di conflitto, altri soggetti partecipi? Ciò non esclude il fatto di doversi confrontare prima o poi, volenti o nolenti, con nuove componenti del disagio ormai diffuso ed esacerbato dalla crisi economica e con i loro discorsi. Confrontare e, chissà, magari anche scontrare: lo stringersi intorno all’appartenenza alla Nazione contro il potere delle banche e delle regie oscure aspirando ad una guida del Paese che sia trasparente ed incorruttibile non è solo ingenuo, ma anche pericoloso, vi ricorda qualcosa? In mezzo all’inconsapevolezza ed alla mancanza di chiarezza si può provare a inserire contenuti di critica radicale al sistema e costruire un percorso comune di lotta, pur rischiando di partire mezzi sconfitti vista la difficoltà dell’impresa, oppure lasciare tutto in mano a chi nella confusione ideologica ci sguazza?

“Lampedusa, strage di Stato”.

Fonte: Umanità Nova.

” Lampedusa, strage di Stato

 

L’eccidio dei migranti

 

Lampedusa, strage di Stato

Quando i lettori di Umanità Nova leggeranno questo articolo, si sarà già detto e scritto molto sulla strage di immigrati di Lampedusa. Nel momento in cui scriviamo, i corpi recuperati sono 195. Nel ventre del motopeschereccio affondato davanti all’isola dei Conigli, poco più di uno scoglio accanto a Lampedusa, ci sono ancora decine di altri cadaveri.
Per chi si occupa di immigrazione, i fatti di Lampedusa non costituiscono una novità. Da quando, nella concezione di chi ci governa, i flussi migratori sono diventati una questione di ordine pubblico, le tragedie del mare scandiscono una “normalità” alla quale molti si erano praticamente assuefatti. Chi lotta per un miglioramento delle normative vigenti o per una loro radicale revisione, ha sempre posto una questione dirimente: se non fosse così difficile entrare legalmente in Italia (e in Europa), verrebbero meno le condizioni che stanno alla base di questi eventi luttuosi.
La logica proibizionista, d’altra parte, funziona così: un divieto assoluto alimenta la clandestinità e la speculazione affaristica. Basti pensare al proibizionismo degli alcolici negli Stati uniti nel secolo scorso, che fece le immense fortune di mafiosi e gangster; o all’attuale proibizionismo in fatto di consumo di droghe, che consente alla mafia e agli spacciatori di ingrassarsi, alle carceri di riempirsi all’inverosimile, e allo stato di esercitare una sua presunta superiorità morale.
Nel caso dell’immigrazione, ancora più brutalmente, la “merce” proibita sono gli esseri umani. Il proibizionismo imposto alla libera circolazione delle persone serve al capitalismo per garantirsi un serbatoio di manodopera ricattabile e a basso costo; serve agli stati per dare in pasto all’opinione pubblica l’idea che non siamo tutti uguali e che gli stranieri sono potenzialmente pericolosi; serve alle mafie per fare lucrosi affari sui traffici di esseri umani che si affidano ai viaggi della speranza.
La notte tra il 2 e il 3 ottobre scorsi, è successo quello che è successo tante altre volte, al largo di Lampedusa, o di Malta, o a pochi metri dalla battigia di una qualunque spiaggia siciliana. In questo caso, le proporzioni del disastro sono state talmente grandi da suscitare un disagio che, in questi tempi di bulimia informativa ed emotiva, sembrava non esistesse quasi più. Le immagini delle bare allineate, tantissime, tutte uguali, in un hangar dell’aeroporto di Lampedusa, si commentano da sole, e non c’è alcun bisogno di fare retorica, almeno non su queste pagine.
Vale la pena riferire qualcosa a proposito dei soccorsi, all’alba del 3 ottobre, a largo di Lampedusa. Fonti più che attendibili (l’associazione agrigentina Borderline Sicilia) rivela che quando sono arrivati sul posto i mezzi della Guardia costiera, i diportisti che avevano chiamato i soccorsi avevano già salvato 47 persone, tutte vive. Drammatiche le fasi del salvataggio: gli immigrati erano tutti intrisi di gasolio, scivolavano dalle mani dei loro soccorritori, erano sfiniti. Eppure, dall’s.o.s. all’arrivo delle autorità, sono passati almeno tre quarti d’ora. Davvero troppo per un’isola ipermonitorata da chi di dovere, e che si circumnaviga nel giro di un quarto d’ora. Durante le concitate fasi del salvataggio, uno dei diportisti ha chiesto ai militari il trasbordo veloce dalla sua barca al gommone della Guardia costiera fatto apposta per questo tipo di operazioni, ma gli è stato detto di no: «Dobbiamo rispettare i protocolli» ha chiarito – imperturbabile – un uomo in divisa.
Questa risposta, fredda e disumana, riassume perfettamente il senso delle cose. Di fronte a un’umanità in fuga da guerre e miseria, di fronte al bisogno umano di spostarsi e di vivere, si erge una burocrazia insensibile ed estranea. È questa burocrazia che uccide gli immigrati, ancor prima degli episodi singoli che provocano materialmente le tragedie.
Basti pensare che i superstiti del naufragio, appena qualche giorno dopo dal disastro, sono stati inscritti nel registro degli indagati per il reato di immigrazione clandestina. Un atto dovuto, hanno spiegato alla Procura di Agrigento, in virtù della legge Bossi-Fini. Ecco come funziona lo stato, ecco come funzionano le sue leggi. Quelle stesse leggi che innescano paure e ritrosie anche nei lavoratori del mare, i pescatori che, tante volte, incrociando nelle loro rotte le carrette cariche di immigrati, preferiscono lanciare l’allarme guardandosi bene dal prestare alcun tipo di soccorso per non incorrere nell’odiosa accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e nel conseguente sequestro del peschereccio, unico e insostituibile strumento di lavoro. 
Non si vuole, qui, né generalizzare né puntare il dito. In moltissime occasioni, infatti, pescatori e diportisti siciliani hanno salvato vite umane senza derogare all’universale e atavica legge del mare che impone il mutuo soccorso al di là di ogni confine. Quello che si sottolinea, in questa sede, è la funzione terroristica delle attuali norme sull’immigrazione e, soprattutto, la maniera terroristica con la quale esse vengono applicate. Persino i trattati internazionali obbligano il salvataggio in mare, e il reato di favoreggiamento è comunque subordinato soltanto a determinate fattispecie, e dovrebbe essere segnalato nel corso degli appositi pattugliamenti predisposti dalle autorità competenti. Invece, questa minaccia viene fatta incombere sulle persone indiscriminatamente, a prescindere dai contesti concreti.
Non sappiamo nemmeno se sia il caso di riferire sulle dichiarazioni degli esponenti politici di tutti gli schieramenti all’indomani della tragedia. Grande dolore, grande commozione, grande indignazione, da destra a sinistra. Perfino il capo dello stato ha suggerito, bontà sua, la necessità di rivedere le norme sull’immigrazione in Italia. Peccato però che si tratti dello stesso Giorgio Napolitano che firmò nel 1998 – insieme a Livia Turco – la prima famigerata legge che istituì i centri di detenzione per immigrati e sulla quale fu impostato l’impianto normativo della Bossi-Fini, che tutti – oggi – criticano da sinistra. Dall’altra parte, gli esponenti di quel che resta del Popolo della Libertà cadono letteralmente dalle nuvole, difendono la Bossi-Fini, e scaricano ogni responsabilità sull’Unione europea che «dovrebbe fare di più, e non dovrebbe lasciarci soli». Quello che non si dice è che la Bossi-Fini risponde a un’esigenza che discende direttamente dalla concezione politica ed economica dei confini che delimitano la “fortezza Europa” di cui tante volte abbiamo parlato. In Italia, queste esigenze di dominio sono state declinate tecnicamente, e cavalcate politicamente, da personaggi dell’ultradestra razzista e fascista, con il contorno di un pressapochismo tutto italiano che rende le cose ancora più intollerabili: nessuna idea di accoglienza, gestione perennemente emergenziale dei fenomeni sociali, miopia politica ai limiti del dilettantismo.
Dopo la strage di Lampedusa è il momento del dolore, senza dubbio. Ma il nostro dolore esiste da moltissimi anni, ed è lo stesso, insopportabile dolore che proviamo tutte le volte che sappiamo di una morte, di una mutilazione, di uno stupro, di una violenza che si producono nel contesto della repressione sugli immigrati.
L’unica certezza, che può alleviare il profondo malessere che ci opprime il cuore, sta nella consapevolezza che questa situazione non può durare all’infinito. Le leggi sull’immigrazione sono così antistoriche e disfunzionali, di fronte agli eventi planetari del tempo in cui viviamo, che – prima o poi – dovranno essere profondamente modificate, se non spazzate via. Noi europei siamo senz’altro più fortunati degli “altri”, ma sono moltissimi i segnali che ci fanno capire quanto poco sia destinata a durare questa nostra “fortuna”. La miseria e l’oppressione che oggi bussano alle nostre porte sotto le spoglie di immigrati e profughi sono, per molti versi, delle lugubri presenze che condizionano già adesso le nostre vite di precari, di sfruttati, di senza futuro.
Ci sono due modi per affrontare la questione. Uno è quello irrazionale, egoistico, razzista: gli “altri” non sono come me, che stiano al loro posto, che muoiano. L’altro è quello razionale, squisitamente umano, antirazzista: gli “altri” sono come me, e sono vittime – come me – di quelli che rendono possibile questo scempio attraverso la politica e l’economia.

Alberto La Via “

Provaci ancora, fascio!

I fascisti della Fiamma Tricolore tentano di farsi spazio nel movimento NO MUOS e proclamano una manifestazione per fine Agosto in Sicilia contro il progetto delle antenne militari. Non è la prima volta che estremisti di destra provano a immischiarsi in lotte che non gli appartengono, tentando di strumentalizzarle per raccogliere nuovi consensi: era già accaduto con le lotte contro globalizzazione, guerre imperialiste, TAV e al fianco del popolo palestinese, ma in tutte queste occasioni la risposta di movimenti e individui era stata sostanzialmente di netto rifiuto nei confronti di qualsiasi strumentalizzazione. I neofascisti, incapaci di brillare di luce propria e accortisi che la stantia riproposizione di artefatte storielle e vecchi cimeli del Ventennio non risulta abbastanza appetibile per le nuove generazioni, fanno leva oltre che sul solito ribellismo senza arte né parte, anche su slogan, tendenze e rivendicazioni appartenenti ai loro avversari politici di sempre. Lungi dall’interessarsi realmente alle lotte popolari e partecipate contro scempi ambientali, massacri fraticidi, politiche discriminatorie e di sfruttamento, questi sordidi personaggi e le loro organizzazioni parassitano battaglie altrui nella speranza di poter sdoganare le loro vere idee, per le quali non vi è posto nella società per chi non rientra nei canoni di normalità previsti dalle loro menti ristrette. Per i neofascisti quel che conta non è ad esempio che non venga realizzato un progetto dannoso come quello del MUOS, il problema per loro, da bravi militaristi sempre pronti a “credere-obbedire-combattere” è che a volerlo realizzare siano le forze armate statunitensi piuttosto che quelle italiane. Lo stesso discorso vale per il TAV: quelli che antepongono a qualsiasi altra cosa l'”interesse nazionale”, ovvero l’interesse autoritario e predace di chi all’interno di uno Stato-Nazione detiene il potere politico ed economico, non possono coerentemente far parte di una lotta come quella dei NO TAV.

In risposta al tentativo di strumentalizzazione neofascista della lotta contro il MUOS, il presidio NO MUOS di Niscemi indice un campeggio antifascista di due giorni in Contrada Ulmo e diffonde il seguente proclama ( tratto dal sito  www.nomuos.info):

” L’antifascismo vive in contrada Ulmo.

 

Da venerdì 30 Agosto il presidio No Muos di Niscemi indice una due giorni di campeggio Antifascista.

 

L’antifascismo non è soltanto una parola, ma è un valore quindi una pratica che deve essere seguita ogni giorno; una due giorni di campeggio che serva a radicare nelle coscienze politiche degli attivisti di tutta la Sicilia,  l’idea che i fascisti non sono scomparsi, ma agiscono tra le maglie delle amministrazioni e delle strutture borghesi e ancora a distanza di decenni dettano leggi atte a regolamentare e a imbrigliare la spontaneità dei compagni e delle compagne.

 

Con questa due giorni il presidio e le sue individualità chiedono alla rete antifascista siciliana e italiana di riunirsi in contrada Ulmo a Niscemi, dove si terrà un concerto antifascista e a seguire un corteo fino alla base militare U.S. Navy.

 

La formazione politica della fiamma tricolore di chiaro stampo fascista ha richiesto l’autorizzazione per una manifestazione contro l’istallazione del Muos. Il movimento  No Muos, come dichiarato nella carta d’intenti-  è antifascista e non può permettere che un corteo della destra estrema possa ostentare i loro slogan e appropriarsi dei nostri simboli e delle nostre bandiere. Il movimento non può permettere che i fascisti cavalchino i successi ottenuti dai  cittadini e dagli attivisti con anni di sacrifici, denunce e repressione. La lotta No muos è propria dei cittadini, è antipartitica, antipatriarcale e orizzontale quindi del tutto slegata dalle abitudini politiche della destra fascista italiana.

 

Il Movimento No Muos è e sarà sempre antifascista e non concederà un solo centimetro di contrada Ulmo alle schiere fasciste né concederà loro un minimo spiraglio di dialogo.

 

Dalla Val Susa ad Atene l’intera Europa è sottoposta a una capillare azione di repressione e a un rinvigorimento dei sistemi di controllo violenti e repressivi. Il movimento No Muos è convinto del fatto che permettere una manifestazione della fiamma tricolore sia rendersi complice del revisionismo storico e della fascistizzazione che stanno infestando le nostre realtà. Il movimento non è complice, il movimento non è inerte , il movimento è antagonista e dichiara in maniera ferma e irreversibile che il fascismo troverà a Niscemi e al presidio No Muos di contrada Ulmo una ferma opposizione;  tutti e tutte siamo e saremo fisicamente un blocco fermo e intenzionato a non permettere che le loro bandiere e i loro infamanti slogan possano essere ostentati.

Comitato di base di Niscemi”