Sulla riforma del lavoro in Francia.

Il seguente articolo, che analizza la legge sulla riforma del lavoro proposta dall’attuale governo francese e le lotte sociali che ad essa si oppongono, è tratto dal sito di Umanità Nova. Segnalo anche un altro articolo pubblicato su Z-Net Italy, che affronta lo stesso argomento da una prospettiva non anarchica, soffermandosi maggiormente sull’aspetto governativo-istituzionale-parlamentare-partitico. Buona lettura!

” Blocchiamo tutto!

loi_travail-35-2“L’obiettivo è quello di adattarsi ai bisogni delle imprese”
Myriam El- 

Da un’intervista al settimanale Les Echos del 19 febbraio 2016
Chi, in Italia, si prendesse la pena di leggere cosa comporta il disegno di legge proposto da Myriam El Khomri, la giovane (ha solo 38 anni) ministra del Lavoro, che presentandolo si è conquistato un ruolo nella storia nazionale della , farebbe una scoperta a ben vedere nemmeno troppo sorprendente: fatto salvo che i nostri fratelli d’oltralpe non chiamerebbero mai una legge con termini inglesi, è assolutamente simile all’italianissimo Jobs Act.
Le questioni che vengono affrontate con toni, per la verità, non dissimili da quelli ai quali ci ha abituato l’attuale governo, sono infatti:

Possibilità per gli accordi aziendali di andare in deroga ai contratti di categoria e allo stesso codice del lavoro. Un apologeta ingenuo, o sedicente tale, della democrazia diretta e del federalismo radicale potrebbe far rilevare che si deve lasciare ai lavoratori ed alle lavoratrici la possibilità di peggiorare liberamente le proprie condizioni di vita e di lavoro. Noi che siamo di animo cattivo, siamo portati a ritenere che una liberalizzazione del genere in un contesto capitalistico non possa che produrre una esasperazione ulteriore della concorrenza fra gruppi di lavoratori sottoposti, a livello nazionale e internazionale, alla pressione della minaccia delle delocalizzazioni se non della chiusura dell’azienda.

Maggiore possibilità di licenziare, sia per ragioni “economiche”, sia per ragioni disciplinari; indebolimento del ruolo della magistratura del lavoro che ha in Francia caratteristiche specifiche assai diverse da quella italiana, visto che si tratta di giudizi eletti dai lavoratori e dalle imprese; riduzione secca delle cifre che si possono percepire nel caso di licenziamenti ingiustificati.
Taglio rilevante del sussidio di disoccupazione che andrebbe a colpire sia la massa crescente dei lavoratori precari, che piombano regolarmente nella condizione di disoccupato, che i lavoratori a tempo indeterminato più facilmente licenziabili. Insomma si riducono contemporaneamente i diritti dei lavoratori e quelli dei disoccupati.
Estensione della giornata lavorativa e taglio degli straordinari. L’ipotesi contenuta nella legge è di rendere possibili giornate di 12 ore lavorative (ora il tetto è di 10), di permettere che le settimane lavorative di 46 ore in un anno possano essere 16 e non più 12, di tagliare lo straordinario retribuito non con un 25%, come nella precedente legislazione, ma con un 10% in più. Un’ipotesi devastante soprattutto nel settore della grande distribuzione come ben sappiamo in Italia.

Va detto però che, se le riforme del diritto del lavoro italiana e francese sono, per ovvie ragioni, simili, la reazione delle lavoratrici e dei lavoratori hanno avuto caratteristiche tanto diverse che, probabilmente (purtroppo) esagerando, vi è stato chi ha parlato di un nuovo maggio francese.
Anche una valutazione più prudente non può tuttavia sottovalutare il fatto che, da più di un mese, la Francia vede un susseguirsi di scioperi e manifestazioni, una dialettica sindacale vivace come non si vedeva da anni, e la discesa in campo di parti del mondo intellettuale, e che ciò avviene contro un governo di sinistra e, per la verità, più di sinistra – ammesso che il termine abbia ancora un senso preciso – di quello italiano.
Non si tratta di esultare per l’ennesima riprova dell’impotenza del riformismo, sappiamo bene che i fallimenti del Partito Socialista Europeo nel suo pretendersi altro rispetto alla destra non aprono meccanicamente la strada ad ipotesi e pratiche sovversive, ma di prendere atto del fatto che, piaccia o meno, sul terreno della politica intesa come attività separata e professionale, non vi sono spazi degni di nota per scelte diverse rispetto a quelle dettate dagli interessi delle effettive élites del potere.
Una giovane ministra, una ministra socialista che potrebbe essere guardata con istintiva simpatia da chi si batte contro le discriminazioni su base sessuale ed etnica, propone una legge che devasta il diritto del lavoro, che apre lo spazio al pieno dispiegarsi, mi si consenta il gioco di parole, del dispotismo aziendale, e non lo fa perché “tradisca” qualcosa o qualcuno ma perché il ruolo assegnatole è quello ed a lei, come ai suoi sodali, sta solo applicare quanto viene deciso altrove.

D’altro canto, sul terreno della soggettività, la situazione libera energie ed apre percorsi. Riporto parte di un documento interessante, l’appello “Blocchiamo tutto!”, firmato da oltre 500 militanti sindacali che vanno dai maggioritari ed istituzionali CGT, Force Oubriere, FSU a sindacati di opposizione come SUD e CNT:

“Il disegno di legge El Khomri è un insulto al mondo del lavoro. Raramente l’attacco è stato altrettanto pesante. Con l’inversione della gerarchia delle norme che permette agli accordi locali o aziendali al ribasso, ottenuti sotto ricatto, di sostituirsi agli accordi nazionali di categoria; lanciando l’offensiva contro lo strumento sindacale, tramite la promozione di referendum-bidone nelle singole imprese; organizzando e generalizzando la precarietà, la flessibilità e facilitando i licenziamenti, è una degradazione ulteriore del tempo e delle condizioni di lavoro di milioni di salariati quello a cui il Governo si sta preparando attivamente […]
La riduzione dell’orario di lavoro a 32 ore settimanali, senza riduzioni salariali, senza flessibilità, senza sconti o prese in giro, come sono effettivamente state in molti settori le “35 ore-Aubry”: ecco per esempio cosa è prioritario fare per contrastare il deterioramento delle condizioni di lavoro e imporre la creazione di veri posti di lavoro.

È insieme che andiamo alla lotta, è insieme che vinceremo!”

La richiesta delle 32 ore senza caratteristiche negative delle 35 ore concesse anni addietro per addomesticare l’opposizione sociale, quali la flessibilità e le deroghe, non è, di per sé, “rivoluzionaria”, ma pone al centro dell’agenda politico sindacale, contemporaneamente, la necessità di andare all’attacco e quella di una proposta capace di tenere assieme il mondo del lavoro salariato.
Soprattutto siamo di fronte ad un percorso unitario, non prodotto da alchimie organizzative, da trattative fra gruppi dirigenti, da operazioni di partito o, almeno, non principalmente da dinamiche di questa natura, ma dallo sviluppo del conflitto di classe.
La stessa considerazione, e ciò ha un valore ancora maggiore, va fatta sulla presenza massiccia, nella mobilitazione, di lavoratori e studenti di origine magrebina o dell’africa sub sahariana, in un paese segnato drammaticamente dal terrorismo Jihadista, da derive securitarie, da una tradizione nazionalista insopportabile.
C’è, in altre parole, da prendere atto del fatto che quando si verifica una mobilitazione con piattaforme chiare, sia in negativo (NO alla “riforma” del lavoro), sia in positivo, in quanto ricca di potenzialità sui temi dell’orario e dell’organizzazione del lavoro, sul salario, e sui diritti, la partita capitale-lavoro risulta oggi pienamente aperta, non nelle periferie del sistema mondo, ma in una nazione di medio rilievo situata nel cuore della fortezza Europa come la Francia.
La Francia gioca, insomma, oggi, un ruolo centrale, già immaginato da un famoso letterato tedesco dell’800 che ebbe ad affermare con tono oracolare:

“La filosofia non può realizzarsi senza l’eliminazione del proletariato, il proletariato non può realizzarsi senza la realizzazione della filosofia. Quando tutte le condizioni interne saranno adempiute, il giorno della ‘resurrezione tedesca’ sarà annunziato dal ‘canto del gallo francese’”

In ogni caso, il ‘canto del gallo francese’ andrà ascoltato con grande attenzione anche da questa parte delle Alpi oltre che al di là del Reno.

Sulla protesta del “movimento dei forconi”.

Solo in questi ultimissimi giorni ho avuto tempo di leggere notizie e analisi sulle proteste messe in atto di recente un pò in tutta Italia dal cosiddetto movimento dei forconi. Il loro programma, o meglio quello che si legge sul sito del “movimento del popolo de i forconi“, è in sostanza una lista di riforme che hanno un senso solo se si riconosce come legittima e auspicabile l’esistenza del sistema capitalista con tutte le sue conseguenze (ad esempio la divisione in classi sociali), che si indirizzano contro quelle che vengono ritenute le “storture” di tale sistema (neoliberismo, delocalizzazioni, corruzione, clientelismo, scarsa mobilità sociale, eccessiva pressione fiscale …) e che risultano palesemente fallaci perchè mancano di risonoscere questi aspetti come intrinsechi al sistema capitalista stesso. A scendere in piazza nelle scorse settimane sono stati principalmente lavoratori autonomi e piccoli imprenditori impoveriti dalla crisi, spesso trascinandosi dietro la loro mentalità piccoloborghese col relativo strascico di razzismo, classismo, qualunquismo e patriottismo. Eppure, pur scegliendo i loro obiettivi in modo magari discutibile (perchè bloccare nel traffico i mezzi di trasporto di chi torna dal lavoro e non indire direttamente un bel blocco delle attività produttive?), pur avendo tra le loro fila elementi di destra o addirittura dichiaratamente neofascisti, pur cercando percorsi legalitari e appoggio da parte delle forze dell’ordine, i forconi non possono essere ignorati, né etichettati sbrigativamente come fascisti tout court. Chi accusa i piccoli imprenditori di aver evaso da sempre le tasse e di lamentarsi ora per l’eccessiva pressione fiscale dovrebbe interrogarsi, anarchici/che in primis, sulla legittimità stessa del concetto di tasse come imposizione di un contributo da parte dello Stato (vogliamo forse rileggere cosa dicevano sull’argomento i vari Proudhon, Warren o Tucker?), ma anche ricordare che al di là delle generalizzazioni è vero che le condizioni di vita di tanti esponenti della cosiddetta piccola borghesia spesso non si allontanano molto da quelle dei lavoratori dipendenti, né che quel tipo di mentalità reazionaria e per me ripugnante della quale parlavo poco sopra è tristemente diffusa anche tra tanti elementi di quelle classi sociali definite storicamente come proletariato e sottoproletariato. Sono tanti gli aspetti che accomunano queste classi sociali, non ultimo il fatto che le critiche al sistema, indirizzate solo ad alcuni dei suoi aspetti, siano mosse da chi non vuole abbattere tale sistema perchè ritenuto ingiusto, ma da persone che vengono escluse dal fittizio benessere da esso prodotto, quelli del “vorrei ma non posso”, che non detestano tanto i “padroni” quanto il fatto di non essere al loro posto: una conseguenza della mancanza di coscienza di classe, anche frutto dell’opera di molti di quelli che  lo scorso 9 Dicembre si sono ritrovati a protestare in piazza solo perchè scivolati più in basso nella scala sociale. Eppure, come tutti i movimenti di protesta, quello dei forconi non dovrebbe venir liquidato sbrigativamente, magari usando schemi e strumenti di analisi ormai superati, bensì seguito con attenzione. Finite le manifestazioni e i blocchi stradali il problema è ancora lì e con la rabbia di chi è sceso in piazza e continuerà a scendervi, anche se spesso con parole d’ordine molto diverse dalle nostre, bisogna fare i conti. Qual’è dunque il posto degli/lle anarchici/che in questo tipo di lotta, o meglio come rapportarsi nei confronti del malessere delle classi medie con l’acqua ormai alla gola, “proletarizzate”? In quanto persona “esterna” alle proteste, vivendo a troppi chilometri di distanza dai luoghi nelle quale esse si sono svolte e (probabilmente) continueranno a svolgersi, in questo frangente posso solo leggere ciò che avviene e farmi un’opinione, non certo dare consigli, piuttosto porre interrogativi. Di sicuro qui non sono tanto i metodi a dover essere radicalizzati, quanto i contenuti, il che è la cosa più lunga e difficile. Cercare altri luoghi e spazi di conflitto, altri soggetti partecipi? Ciò non esclude il fatto di doversi confrontare prima o poi, volenti o nolenti, con nuove componenti del disagio ormai diffuso ed esacerbato dalla crisi economica e con i loro discorsi. Confrontare e, chissà, magari anche scontrare: lo stringersi intorno all’appartenenza alla Nazione contro il potere delle banche e delle regie oscure aspirando ad una guida del Paese che sia trasparente ed incorruttibile non è solo ingenuo, ma anche pericoloso, vi ricorda qualcosa? In mezzo all’inconsapevolezza ed alla mancanza di chiarezza si può provare a inserire contenuti di critica radicale al sistema e costruire un percorso comune di lotta, pur rischiando di partire mezzi sconfitti vista la difficoltà dell’impresa, oppure lasciare tutto in mano a chi nella confusione ideologica ci sguazza?