Sembra passato un giorno dal 1915…

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La foto qui sopra, diffusa nelle ore scorse sui cosiddetti social networks e in seguito ripresa dai massmedia, mostra uno dei due appartenenti all’organizzazione marxista-leninista turca DHKP-C che tiene in ostaggio, puntandogli una pistola alla tempia, il procuratore Mehmet Selim Kiraz nel suo ufficio all’interno del palazzo di giustizia ad Istanbul, dove i due giovani armati hanno fatto stamane irruzione. Kiraz era l’incaricato che indaga sull’uccisione da parte della polizia del 14enne Berik Elvan, colpito nel Giugno 2013 da un candelotto lacrimogeno durante le proteste di Gezi Park. Berik non era coinvolto nelle proteste, a quanto sembra stava andando a comprare il pane e si era trovato per caso nel mezzo degli scontri; entrato in coma, il ragazzo morì dopo oltre nove mesi e il suo omicidio rimane tuttora impunito visto che la “giustizia” non è riuscita ad appurare l’identità del poliziotto che lo ha ucciso. Quello che però la “giustizia”, il governo di Erdogan e la polizia sono riusciti a fare è stato reprimere duramente le proteste popolari scoppiate a seguito della morte di Berik, che si sono riaccese nuovamente l’11 Marzo di quest’anno in diverse città turche (Ankara, Istanbul, Eskişehir, İzmir, Tekirdağ…), durante le quali un’altra giovanissima ragazza è rimasta gravemente ferita da un candelotto lacrimogeno e giace anche lei in coma.

“Chiedono chi stia dando ordini alla polizia. Li ho dati io stesso”, disse Erdogan, all’epoca primo ministro (oggi presidente) turco, riferendosi alla morte di Berkin Elvan, da lui definito in seguito un “terrorista”. Una frase che mi riporta alla mente, per immediata associazione di idee, le parole del famigerato discorso pronunciato da Benito Mussolini dopo l’omicidio di Giacomo Matteotti. Responsabilità morale. Come quella di Erdogan, dei suoi scagnozzi e dei suoi sostenitori, non solo di fronte alla morte di Berik Ervan e al ferimento di un’altra ragazzina che forse mai si risveglierà dal coma e alle decine di recenti arresti durante le proteste, ma anche di fronte alla morte di quasi 300 minatori nel Maggio 2014 e alla repressione della rabbia di chi scese per strada chiedendo le dimissioni del governo. Solo pochi giorni fa è stata approvata in Turchia una legge che prevede che la polizia possa sparare addosso ai manifestanti irrequieti, mentre la legge sulla censura dei massmedia per motivi di sicurezza nazionale è stata applicata, secondo il quotidiano turco Hurryet, 150 volte negli ultimi 4 anni, inoltre gli scioperi vengono sospesi o proibiti facendo ricorso a strumenti nati durante la dittatura militare, com’è accaduto con lo sciopero dei metalmeccanici proclamato lo scorso fine Gennaio dal sindacato di ispirazione socialdemocratica BMI. Se a tutto ciò si aggiungono le politiche razziste e di pulizia etnica perpetrate da decenni nei confronti dei curdi, la chiusura delle frontiere per i rifugiati e perseguitati dall’ISIS e l’appoggio solo in parte velato fornito a tale organizzazione, non sembrano passati esattamente 100 anni da quando la Turchia iniziò lo sterminio degli armeni, un genocidio conclusosi con almeno 1 milione di morti. Cambiano gli attori sul palcoscenico, le circostanze storiche, ma oggi come allora siamo di fronte alla barbarie. E di fronte all’evidenza dei fatti ci si può solo chiedere ancora una volta chi siano i veri terroristi: i due ragazzi morti poche ore fa dopo un bliz delle forze speciali nel palazzo di “giustizia” di Istanbul assieme al giudice da loro tenuto in ostaggio, o quelli che sono disposti ad affastellare cadaveri su cadaveri e produrre miseria, violenza e abruttimento pur di mantenere il potere e portare avanti i loro allucinanti progetti nazionalisti ed autoritari? Qual’è il vero terrorismo, un gesto disperato compiuto nel tentativo di ottenere “giustizia” o le cause di tale gesto e di tutta la rabbia che è finora scoppiata e ancora scoppierà in Turchia?

Sullo sciopero agrario in Colombia.

Fonte: Infoaut, pubblicato in data 21/08/2013.

“Colombia, sciopero agrario. In migliaia bloccano le strade

altPer due giorni consecutivi, migliaia di colombiani che lavorano nel settore agrario sono scesi in strada in occasione dello sciopero nazionale del settore. La mobilitazione è stata indetta dopo che il governo colombiano ha approvato nuove misure di espropriazione delle terre dei contadini  al fine di consegnare le risorse naturali alle multinazionali. Nonostante i numerosi giorni di mobilitazione durante i quali i contadini si sono opposti alla politica di sfruttamento della terra colombiana, il governo ha continuato a sradicare forzatamente le terre che per tanti anni hanno coltivato i contadini della zona di Catatumbo.

Nella giornata di ieri, l’oceanica partecipazione allo sciopero ha portato a scontri tra i contadini e la polizia colombiana. Numerose sono state infatti le strade bloccate in più di 20 dipartimenti della Colombia. A Bogotà, centinaia di persone sono scese in strada a protestare in cinque diversi punti della città, comunicando il loro rifiuto verso le politiche economiche del Governo e ai Trattati di Libero Commercio che mettono la parola fine alle terre coltivate, alle miniere e ad atri settori analoghi.

Nei due giorni di sciopero, circa 16mila poliziotti sono stati dispiegati per reprimere la protesta che ha raggiunto il suo apice nella giornata di ieri. L’atteggiamento aggressivo della polizia ha portato a numerosi feriti e circa 50 persone arrestate, tra di loro, alcuni giornalisti. Almeno un manifestante risulta ferito da un colpo di arma da fuoco.

Nella Valle del Cauca, circa 600 persone che si trovavano a manifestare davanti al municipio, sono state circondate per diverse ore dalla polizia, che aveva a suo tempo ricevuto l’ordine di sgomberare le piazze e le strade per rendere inefficace lo sciopero. Tra le istanze dei lavoratori del settore agrario e minerario, l’incremento di misure che aiutino la produzione agraria locale, la partecipazione delle comunità e dei piccoli e tradizionali minatori nella regolazione della politica mineraria, misure e garanzie reali per l’esercizio dei diritti politici della popolazione rurale e agevolazioni per la popolazione rurale e urbana nell’ambito dell’educazione, salute, casa, servizi pubblici e trasporti.

Nel frattempo, ancora oggi, migliaia di colombiani continuano a raggiungere diversi punti in tutto il Paese, per proseguire la mobilitazione. Lo sciopero agrario e popolare quindi, continua ad oltranza. Le mobilitazioni stanno ricevendo sempre più una connotazione popolare e di massa, dopo che si sono uniti alle proteste anche camionisti, studenti, operai, medici, insegnanti e organizzazioni sociali.”

Per capire meglio i retroscena e le motivazioni dello sciopero in corso in Colombia consiglio la lettura di un’articolo in lingua spagnola pubblicato su Anarkismo, approfondito e ben documentato, arricchito da notizie attuali pubblicate nello spazio dedicato ai commenti: [Colombia] 19 de Agosto, paro agrario y popular, ¿un nuevo punto de inflexión en la lucha de clases?

“Fermiamo la guerra in Mali”: comunicato della FAI.

Fonte: Anarchaos.

” Fermiamo la guerra in Mali! [Comm. Rel. Internazionali FAI]

http://federazioneanarchica.org/archivio/20130216cri.html

Fermiamo la guerra in Mali!

L’11 gennaio il governo francese ha dato inizio ad un’operazione militare in Mali. Ha dichiarato di intervenire per sostenere le unità maliane contro il terrorismo di matrice islamica che imperversa in quell’area e per difendere la popolazione dalle violenze. Qualche giorno dopo, il 14 e il 17, rispettivamente la Germania e l’Italia, attraverso i loro ministri degli esteri, hanno affermato di appoggiare l’attacco francese in Mali e di essere disponibili a offrire supporto logistico. Passano poche settimane e, all’inizio di febbraio il presidente francese Hollande “atterra” tra le sue truppe a Timbuctu, ripreso dalle telecamere delle TV internazionali, sottolineando che le milizie islamiche/tuareg sono in fuga e il Mali è quasi completamente liberato: “Sosterremo i maliani fino alla fine di questa missione nel nord – ha dichiarato – ma non intendiamo star qui per sempre”.

Una frase che deve essere interpretata in senso esattamente opposto se si allarga lo sguardo alla politica estera dei governi francesi degli ultimi anni.
Infatti, c’è perfetta continuità tra Sarkozy che bombarda la Libia e Hollande che bombarda il Mali.
Sin dal 2007, in Niger, si è sviluppato un movimento tuareg, e dopo quasi cinquantanni di rapporti esclusivi con la Francia,questo paese aveva di recente aperto a compagnie non francesi lo sfruttamento delle risorse minerarie.
Certo, si potrebbero evidenziare le contraddizioni di chi interviene militarmente, ora in difesa della popolazione, ora per togliere di mezzo il dittatore scomodo. Insomma un giorno si spargono i “semi” della democrazia, l’altro si sostengono le forze ribelli con soldi e armi. A volte capita che i nemici di oggi siano stati gli amici di ieri (durante l’attacco alla Libia, Francia e Gran Bretagna hanno fatto ampio uso degli islamisti per combattere le forze armate di Tripoli, poiché i separatisti della Cirenaica non erano interessati a rovesciare Mu‘ammar Gheddafi una volta che Bengasi fosse diventata indipendente).
La campagna di comunicazione massmediatica preferisce mostrare le folle festanti che sventolano la bandiera francese invece delle migliaia di profughi che si sono concentrati in pochi giorni presso i confini maliani. Il ritornello si ripete mostrando i danni che i fondamentalisti hanno provocato al patrimonio culturale, (la biblioteca di Avicenna e i mausolei di Timbouctou) sottolineando il divieto di ascoltare la musica o di vestirsi senza seguire i dogmi religiosi. La distruzione generata dai bombardamenti dell’aviazione, invece, non appare mai.
L’opinione pubblica occidentale si confronta con l’ennesimo conflitto in modo apparentemente indolore: la distanza che ci separa dagli scenari di guerra favorisce, infatti, un certo “distacco”.
Non dobbiamo, però, scordare che gli interventi degli eserciti degli stati alimentano il pericolo “terrorista” (i recenti fatti che hanno interessato l’impianto energetico di In Amenas in Algeria rappresentano un esempio lampante).
Gli effetti di queste politiche neocolonialiste, travestite da missioni umanitarie, si estendono, comunque, anche all’interno dei confini dei paesi europei grazie alle legislazioni speciali antiterrorismo che, in nome della “sicurezza” continuano a erodere gli spazi di libertà e costituiscono uno “strumento repressivo e politico pronto all’uso” per fronteggiare le forme più pericolose e crescenti della protesta sociale.
Esaminando più nel dettaglio l’intervento militare in Mali ci si rende conto dell’infondatezza delle motivazioni ufficiali e delle mille contraddizioni che ne scaturiscono.
L’esercito francese era, da tempo, pronto a intervenire; la richiesta d’aiuto del presidente golpista Dioncounda Traorè è stata solo il pretesto.
È’ impossibile credere che sia stata l’emergenza umanitaria a spingere l’Europa a intraprendere questa nuova guerra. L’Africa è vessata, da decenni, da miriadi di focolai di violenza e nessuna potenza occidentale se ne è mai seriamente interessata. Si dirà che in Mali ad aggravare la situazione c’è l’emergenza “terrorismo islamico”.
Non dimentichiamo, inoltre,il ruolo degli Stati Uniti,in questa guerra,che da decenni contendono alla Francia il controllo della FrancAfrique.
Significativo il fatto che circa tre settimane dopo l’intervento francese in Mali, gli Stati Uniti abbiano siglato un accordo con il governo di Niamey per l’installazione di una base militare statunitense ad Agadez, nel nord del Niger nella zona uranifera del paese.

Dobbiamo considerare questa “nuova” guerra come la prosecuzione naturale della campagna libica e renderci conto che, probabilmente, ci troviamo di fronte a una precisa strategia neo-coloniale di controllo politico del territorio, finalizzato allo sfruttamento delle risorse naturali e inquadrato in un’ottica di contrasto dell’avanzata dei capitali cinesi in Africa. La Cina, infatti, è il primo partner commerciale di Tanzania, Zambia, Congo ed Etiopia (dove il PIL cresce con una media del 5,2% l’anno, cifre impressionanti) e in molte zone vanta l’esclusiva sui diritti di estrazione delle risorse.
Il governo francese ha enormi interessi economici nell’area centro-nord africana e sta cercando, anche con mosse azzardate, di mantenere sotto la propria influenza quelle zone di interesse strategico per l’abbondanza di risorse minerarie ed energetiche.
Il Mali potrà diventare importante nel prossimo futuro, ma il Niger lo è già ora. Non può sfuggire che, poco oltre il confine sud-est del Mali, sono collocate le più importanti miniere d’uranio nigeriane. Il riferimento è alla miniere di Arlit ed Akokan da cui la multinazionale Areva ricava gran parte dello “yellowcake” destinato ad alimentare i 58 reattori nucleari francesi. Nella stessa zona è prevista l’apertura di quella che è destinata a diventare una delle più grandi miniere al mondo per l’estrazione dell’uranio, Imouraren. Non mancano poi l’oro e il petrolio. Quindi, un grande affare che lo Stato francese – “spalla” di multinazionali come Total e Areva (giusto per fare due nomi) non può lasciarsi scappare.
Non si può dimenticare che la politica energetica francese è fondata sull’energia nucleare, una scelta che ha radici nel passato perché direttamente legata alla necessità di rafforzare il proprio ruolo militare nello scenario geopolitico internazionale. Sappiamo bene che non c’è soluzione di continuità tra gli impieghi, cosiddetti, civili dell’energia atomica e quelli finalizzati alla costruzione di ordigni destinati a minacciare l’umanità. Una scelta di sistema che rende, nell’attuale contesto d’instabilità, difficile, per il governo francese, individuare fonti energetiche alternative. La disponibilità dell’uranio rimane, quindi, una questione essenziale almeno in una prospettiva di medio periodo.
Quando l’esercito francese tornerà in patria sarà solo perché il controllo della situazione sarà affidato alle armi amiche delle forze africane alleate con la Francia.
Non è un caso che le forze armate della CEDEAO (Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale) siano state, velocemente, schierate lungo il confine tra Mali e Niger. La necessità di “proteggere” le aree d’interesse minerario da una possibile espansione della rivolta è stata subito evidente.
La nostra epoca è già contraddistinta da crisi energetiche e difficoltà di approvvigionamento di materie prime e non c’è da stupirsi che il capitalismo mondiale stia cercando di correre al riparo, ancora una volta, per garantirsi, con ogni mezzo, una parte del bottino. Tutti noi sappiamo che la guerra e la finanziarizzazione dell’economia sono mezzi per movimentare repentinamente enormi capitali, per riorganizzare equilibri politici di governi, stati e confini nazionali non più funzionali al profitto di multinazionali e società finanziarie.

Nel vicino Niger, da 40 anni, Areva e le sue consociate estraggono l’uranio senza alcun rispetto per l’ambiente e per i lavoratori, gli abitanti vicini ai siti di Arlit e Akokan hanno pagato e pagano un prezzo altissimo in termini di salute e di morte, come risulta da studi indipendenti (CRIIRAD – ROTAB). I minatori di uranio sfruttati infatti, sono esposti a radiazioni ionizzanti nelle cave, nelle miniere sotterranee, nelle officine di lavorazione del minerale grezzo, ma anche nelle città e nelle loro case. In questa zona 35 milioni di scorie radioattive sono raccolte all’aria aperta sin dall’inizio dell’attività estrattiva. Grazie al vento gas radon e altri derivati considerati cancerogeni si spargono nell’ambiente. Ma l’Areva opera anche sul territorio italiano. Il trasporto di materiale irraggiato passa per il nostro paese verso l’impianto di la Hague dove si estrae plutonio (per le bombe) e produce il mox (un combustibile di riciclo con cui funzionano alcune centrali). In Mali è la guerra di sempre, di stato e capitale, dove sfruttamento e saccheggio ai danni della popolazione non conoscono confini nazionali!

Diffondere l’informazione contro l’ipocrisia del potere, rafforzare la consapevolezza per far crescere la voglia di giustizia sociale sono solo i presupposti per sostenere le lotte che in ogni parte del mondo devono liberare gli oppressi da vecchie e nuove schiavitù, economiche, militari o religiose che siano.
Solo attraverso l’internazionalismo, l’antimilitarismo e la solidarietà di classe possiamo da anarchiche ed anarchici fermare l’orda di questo ennesimo, nuovo e lurido conflitto.

Fermiamo la guerra in Mali!
Solidarietà a tutte le popolazioni colpite dalla guerra!

Commissione Relazioni Internazionali
della Federazione Anarchica Italiana”

Minatori Carbosulcis in lotta, barricati sottoterra e “pronti a tutto”.

Il 26 Agosto è iniziata la protesta estrema dei minatori sardi della Carbosulcis che, a fine turno lavorativo, hanno occupato la miniera di Nuraxi Figus nel territorio di Gonnesa, Sulcis-Iglesiente. Alcuni minatori si sono barricati a 400 metri di profondità e minacciano di far saltare la miniera con l’esplosivo in loro possesso (400 kg secondo quanto riportato dal quotidiano “La Nuova Sardegna”, 690 kg secondo TMnews, mentre stando a quanto affermato dalle forze dell’ordine i minatori non avrebbero con sé esplosivo) se questa venisse chiusa, condannandoli ad un futuro di disoccupazione. Intanto, per tenere in vita la miniera, proseguono la produzione di carbone. I  minatori chiedono che il governo italiano sblocchi il progetto di rilancio per la miniera che darebbe la possibilità di estrarre e immagazzinare il Co2 nel sottosuolo producendo così energia “pulita”, utilizzando sia il carbone estratto sia l’energia che verrebbe venduta a prezzi convenienti alle industrie del polo di Portovesme, tra cui l’Alcoa minacciata a sua volta di chiusura. Ció richiederebbe l’investimento di circa 200 milioni di € all’anno per 8 anni, ma creerebbe anche 1500 nuovi posti di lavoro. Se ciò non dovesse avvenire, i 463 lavoratori attualmente impiegati nella miniera rimarrebbero disoccupati a partire dal Gennaio 2013. Per evitare quest’ultima possibilità i minatori si dicono pronti a tutto, anche a gesti estremi.

Intanto a Cagliari anche gli operai dell’ Alcoa sono tornati a protestare contro il possibile licenziamento di un totale di 800 lavoratori/trici a causa della fine della produzione di alluminio in Italia da parte della multinazionale americana: hanno occupato una banchina del porto, bloccato una nave e sono stati caricati dalla polizia. Il loro futuro occupazionale verrà deciso il 3 Settembre.

Sudafrica: la strage dei minatori ed il suo contesto sociale.

Marikana Massacre

Lo scorso Giovedì 16 Agosto la polizia ha aperto il fuoco contro i lavoratori in sciopero della miniera di platino Lonmin a Marikana, Repubblica Sudafricana, uccidendone 45. I lavoratori protestavano per avere un aumento salariale da 4000 Rand (circa 400 €) a 12500, secondo le fonti ufficiali erano armati di bastoni e machete e le forze dell’ordine avrebbero aperto il fuoco per legittima difesa. Strana legittima difesa quella di uomini addestrati ed equipaggiati con moderne armi da fuoco che sparano all’impazzata su lavoratori che rivendicano il loro diritto alla sopravvivenza in uno dei Paesi più poveri al mondo, dove i ricordi dei massacri operati dalle forze di sicurezza ai tempi della segregazione razziale rimangono indelebili (Sharpeville 1960, Soweto 1976, Uitenhague 1985…). Nel Sudafrica odierno una minoranza di persone di colore ha potuto arricchirsi andando a far compagnia all’élite bianca da sempre detentrice del potere politico ed economico, mentre il Paese registra un tasso del 40% di disoccupazione, nelle periferie di quasi tutte le grandi città i poveri vivono in baraccopoli prive di strutture sanitarie e collegamenti elettrici e le lotte sociali, se non sono funzionali agli interessi dei partiti e vengono condotte al di fuori di essi, vengono represse con la massima violenza. I maggiori sindacati sono legati alle logiche di potere e servono gli interessi delle imprese e dei politici, i loro funzionari guadagnano buoni stipendi e sono ammanicati con la direzione delle imprese nelle quali lavorano gli/le operai/e che il sindacato stesso dovrebbe rappresentare e difendere. Mentre un personaggio come Frans Baleni, segretario del sindacato National Union of Mineworkers (NUM) guadagna 105 000 Rand al mese per difendere gli interessi dei proprietari delle miniere, dei politicanti dell’ ANC con le mani in pasta nei profitti e degli investitori britannici o cinesi, i minatori fanno lavori faticosi e pericolosi in cambio di salari da fame e se chiedono un miglioramento della loro retribuzione ricevono pallottole come risposta, al pari delle 25 persone uccise dalla polizia durante proteste sociali dal 2000. L’unica difesa legittima in questa situazione è la lotta unitaria di tutti i/le lavoratori/trici per la socializzazione dei mezzi di produzione e per la redistribuzione della ricchezza prodotta, al di fuori e contro partiti e sindacati asserviti, contro i capitalisti, lo Stato ed i suoi apparati repressivi, fino alla liberazione dallo sfruttamento e dal dominio.

Per approfondire:

“The Marikana mine workers massacre- a massive escalation in the war on the poor”, di Ayanda Kota, pubblicato su Libcom;

“ANC throws off his mask! Workers murdered!”, dichiarazione congiunta degli anarchici sudafricani, dal sito Zabalaza.

La lotta dei minatori delle Asturie.

Fonte: Finchè ghe n’è.

“Scioperi, cortei, blocchi, e scontri con la Polizia. Dopo la battaglia campale di lunedì in una piccola località delle Asturie i minatori riescono a respingere un assalto della Guardia Civil e festeggiano l’assoluzione di due compagni arrestati. Già si parla di movimento 15-M, dove la M sta per minatori.

Com’è possibile che uno dei più duri e violenti conflitti sociali in corso in Europa scompaia dai grandi mezzi di comunicazione europei? E’ possibile, soprattutto se si considera il potenziale effetto domino di quanto sta accadendo in alcune regioni dello Stato Spagnolo. Dov’è in corso, da giorni, una vera e propria battaglia campale tra migliaia di poliziotti mobilitati dal governo e migliaia di minatori, che si oppongono con forza ai tagli decisi dal governo Rajoy, tagli che mettono la parola fine a decine di migliaia di posti di lavoro e condannano alla desertificazione economica intere province.
Nelle scorse settimane i lavoratori delle miniere di carbone e di altri settori presi di mira dai tagli draconiani del governo hanno scioperato, organizzato cortei locali e blocchi stradali, alcuni di loro si sono rinchiusi nei pozzi. E sabato scorso in diecimila erano calati su Madrid, ricevendo una accoglienza a suon di manganellate e arresti.
Ma non è bastato, non è servito. Il Partido Popular non vuol sentire ragioni e ha deciso di mantenere il piano prestabilito. A quel punto la lotta si è fatta più dura: sciopero generale a tempo indeterminato e ‘selvaggio’, blocchi stradali fissi sulle principali arterie stradali e autostradali delle Asturie, combattiva regione autonoma sull’oceano atlantico, nel nord. Una tradizione operaia e di lotta che non si è smentita.
Sono cominciati così una serie di blocchi selvaggi dei binari del treno, delle strade statali e delle autostrade in numerosi punti, con una tecnica ‘mordi e fuggi’ che sta mettendo a dura prova le cosiddette forze dell’ordine.
Martedì alcune centinaia di minatori e attivisti dei sindacati di classe – nella regione è molto forte una scissione di sinistra delle Comisiones Obreras, la Corriente Sindical de Izquierda – sono riusciti a respingere e a cacciare gli agenti in tenuta antisommossa mandati dal Ministero degli Interni a sgomberare una barricata eretta sull’autostrada N-630, all’altezza di Ciñera de Gordón, piccola località a metà strada circa tra Oviedo e Leòn. I lavoratori avevano eretto la barricata e poi gli avevano dato fuoco, bloccando del tutto la circolazione stradale nella regione. Già il giorno prima nei pressi del piccolo centro asturiano si era svolta una incredibile carica contro i lavoratori da parte dei celerini, che avevano picchiato e inseguito i minatori fin dentro il paese coinvolgendo nella caccia all’uomo anche gli abitanti. Ma il giorno seguente è andata diversamente, e con tecniche di vera e propria guerriglia, e l’utilizzo di fionde e scudi di plexiglas, i minatori sono riusciti a respingere l’assalto della polizia nonostante l’uso massiccio da parte della Guardia Civil di lacrimogeni e pallottole di gomma. La ritirata dei reparti speciali è stata accolta con un boato di soddisfazione non solo da parte dei lavoratori in sciopero ma anche della gente del paese che ha più volte espresso solidarietà attiva alla lotta dei lavoratori del carbone.
Altri festeggiamenti, nelle ore successive, per l’assoluzione dei due minatori arrestati durante la precedente battaglia campale tra polizia e minatori nei dintorni di Santa Cristina de Lena, processati per direttissima ma non ritenuti colpevoli delle gravi accuse che gli erano state rivolte. Ma altri minatori e attivisti, in varie parti delle Asturie e nel resto dello Stato Spagnolo, sono tuttora in stato d’arresto oppure denunciati a piede libero per reati di resistenza, oltraggio e danneggiamenti.
In queste ore la mobilitazione continua, con numerosi blocchi e presidi, mentre il tavolo di trattativa tra governo e rappresentanti dei sindacati e di alcuni enti locali – quelli che verrebbero affondati dalla chiusura delle miniere – procede infruttuosa a causa dell’intransigenza dei rappresentanti del governo spagnolo.
Una intransigenza sui tagli del 63% agli aiuti pubblici alla produzione del carbone che ha fatto andare su tutte le furie addirittura il sindaco di Toreno (in provincia di León), che ieri ha definito il Ministro dell’Industria spagnolo e suo compagno di partito, José Manuel Soria, “tonto del culo”.
Intanto nello Stato Spagnolo gli scioperi e le mobilitazioni sociali contro le politiche suicide del governo Rajoy si moltiplicano e si fanno sempre più determinate: dai trasporti alla sanità, dalla scuola ai dipendenti pubblici. E già in molti parlano di nuovo Movimento 15M. Non la M di ‘maggio’ ma di “minatori”.”