Colonna sonora per il 3 Ottobre, Tag der Deutschen Einheit.

Amo e odio il luogo nel quale sono nato, amo e al tempo stesso odio il luogo nel quale vivo. Il mio amore non ha a che fare con il concetto di Stato e Nazione, il mio odio sí. Ritengo che identificarsi in uno Stato-nazione come forma di realizzazione, come sentimento di appartenenza ad una comunità fatta di sfruttati e sfruttatori, oppressi ed oppressori, tutti insieme appassionatamente, “noi” contro “loro” in base al luogo di nascita, a confini geografici stabiliti a tavolino dopo l’ennesimo massacro, ad una presunta razza, etnia o cultura, sia la forma più bassa di annichilimento della ragione e del senso universale di umanità e di solidarietà che si possa concepire. Per questo, ancora una volta: Nie wieder Deutschland, nie wieder Staaten! Grenzen abschaffen! Für eine Welt ohne Herrschaft!

Dieci anni fa: Oury Jalloh, morto nelle mani dello Stato.

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Un uomo è rinchiuso in una cella di sicurezza di un commissariato di polizia a Dessau, Germania, legato ad un materasso ignifugo dopo essere stato perquisito, sorvegliato da un sistema di controllo audio e da un agente che passa ogni mezz’ora a verificare le condizioni del detenuto. Quest’uomo si chiama Oury Jalloh, 36 anni, richiedente asilo immigrato dalla Sierra Leone, un uomo spinto ai margini della società che vive spacciando droga. Fermato dalla polizia per ubriachezza molesta, viene rinchiuso nella cella dell’edificio in Wolfgangstraße 25, Dessau, da dove non uscirà vivo. Oury Jalloh muore bruciato, carbonizzato. Durante i processi che si svolgeranno negli anni successivi, la ricostruzione dei fatti fornita dagli agenti parlerà di un detenuto che, nonostante sia legato, riesce a tirar fuori un accendino stranamente sfuggito alla perquisizione, a danneggiare il materasso ignifugo al quale è strettamente fissato con delle cinghie e a incendiarne l’imbottitura, mentre nessuno degli agenti incaricati della sua custodia si accorge di nulla: il volume dell’altoparlante è stato abbassato da un poliziotto che doveva telefonare, il sistema antiincendio sarebbe stato difettoso. Una serie di sfortunate coincidenze insomma, almeno secondo la versione degli agenti, ma messa in discussione e in più punti smentita durante le diverse udienze del processo. Ad aggiungere una nota inquietante alla morte di Jalloh e alle menzogne ad essa seguite c’è anche il caso di un’altra morte, quella di un senzatetto avvenuta nell’Ottobre del 2002 nello stesso luogo, durante il servizio dello stesso agente direttore di servizio. Al termine del processo per la morte di Jalloh la sentenza confermerà la tesi più improbabile (il detenuto si è dato fuoco da solo) e condannerà al pagamento di una multa ed alla sospensione dal servizio l’agente che avrebbe spento l’allarme antincendio evitando perciò di soccorrere l’uomo che bruciava. Da diverse perizie esterne è emerso invece che la vittima, che presentava fratture al naso e lesioni del timpano, non avrebbe potuto suicidarsi in quel modo, inoltre ad accelerare l’effetto devastante dell’incendio sarebbe stato un qualche combustibile, forse benzina. Quel che rimane, oltre alla conferma del fatto che lo Stato protegge i suoi servi a meno che non sia più proficuo sacrificarli per pure ragioni di calcolo, è la volontà da parte di chi si impegna sul fronte antirazzista e antirepressivo di non far dimenticare l’ennesimo morto nelle mani della polizia. Pertanto il 7 Gennaio di ogni anno, in diverse città tedesche, vengono organizzate iniziative in memoria di Jalloh, per gridare ancora una volta che “è stato un omicidio!”.

C’è da aggiungere, come ultima nota dolente, che Jalloh non fu l’unica persona a morire in Germania nelle mani della polizia quel 7 Gennaio del 2005. A Brema, Laye Alama Condé, anch’egli della Sierra Leone, entrato in coma e mai più risvegliatosi dopo esser rimasto soffocato perchè costretto ad ingerire quantità eccessive di un medicinale emetico, si aggiunge alle tante vittime della violenza di Stato in quello che da molti viene ritenuto un “Paese civile”, additato spesso come esempio positivo. La verità è che lo Stato uccide ovunque, in un modo o nell’altro, e come se non bastasse si fa pure beffa delle vittime.

Ricordando ciò che non si sa: le foibe.

“Ma che cosa sa tuttora la maggioranza degli italiani sulla politica di sopraffazione del fascismo contro le minoranze slovena e croata (senza parlare dei sudtirolesi o dei francofoni della Valle d’Aosta) addirittura da prima dell’avvento al potere; della brutale snazionalizzazione (proibizione della propria lingua, chiusura di scuole e amministrazioni locali, boicottaggio del culto, imposizione di cognomi italianizzati, toponimi cambiati) come parte di un progetto di distruzione dell’identità nazionale e culturale delle minoranze e della distruzione della loro memoria storica?
I paladini del nuovo patriottismo fondato sul vittimismo delle foibe farebbero bene a rileggersi i fieri propositi dei loro padri tutelari, quelli che parlavano della superiorità della civiltà e della razza italica, che vedevano un nemico e un complottardo in ogni straniero, che volevano impedire lo sviluppo dei porti jugoslavi per conservare all’Italia il monopolio strategico ed economico dell’Adriatico. Che cosa sanno dell’occupazione e dello smembramento della Jugoslavia e della sciagurata annessione della provincia di Lubiana al regno d’Italia, con il seguito di rappresaglie e repressioni che poco hanno da invidiare ai crimini nazisti? Che cosa sanno degli ultranazionalisti italiani che nel loro odio antislavo fecero causa comune con i nazisti insediati nel Litorale adriatico, sullo sfondo della Risiera di S. Sabba e degli impiccati di via Ghega?”

(Enzo Collotti)

 

Il 10 febbraio si celebra in Italia per volere di un qualche decretolegge del 2004 il “giorno del ricordo”, uno degli ennesimi pasticci istituzionali nato dal connubio tra sensi di colpa e volontà revisionista di buona parte della “sinistra” parlamentare e volontà revisionista senza sensi di colpa da parte della “destra”. Quel che si è obbilgati a ricordare il 10 Febbraio è la tragedia delle foibe, almeno in teoria, perchè è impossibile ricordare ciò che non si sa. In un’occasione come questa risulta difficile scampare alle dichiarazioni retoriche, alle sceneggiate propagandistiche ed alle manipolazioni, impossibile farlo se non si hanno informazioni corrette sui fatti storici che occorsero in quella parte dei Balcani occupata militarmente dalle truppe italiane durante la Seconda Guerra Mondiale, ma anche negli anni precedenti- basterebbe parlare della pulizia etnica operata dagli italiani in Slovenia già nel primo dopoguerra mondiale…ma parlarne a chi? A quelli che stanno di fronte al televisore e si bevono la reinvenzione della storia ad uso e consumo di chi oggi vuole sdoganare il fascismo? Per chi non se la beve, per chi vuole capire le reali dimensioni della foiba nella quale si cade quando si lascia la memoria storica nelle mani di personaggi come Napolitano, Gasparri e soci, per chi non sa cosa sia avvenuto prima e dopo e vuole saperlo, ecco alcuni punti di partenza per iniziare a capire e avviare di conseguenza una riflessione seria sugli eventi in questione:

“L’invasione della Jugoslavia: crimini di guerra e lager fascisti per slavi”, da Anarcopedia;

“Fascist Legacy”, documentario della BBC (prima parte);

“Perchè l’Italia ricorda le Foibe ma non la pulizia etnica compiuta dai fascisti in Slovenia?”, dal sito Memoriastorica;

“Pulizia etnica all’italiana”, dal sito Osservatorio Balcani e Caucaso;

“La verità sulle foibe”, di Marco Ottanelli;

“Il cuore nel pozzo: un caso di revisionismo mediatico”, video.

29 Luglio 1900: un fatto.

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La sera del 29 Luglio 1900 l’anarchico pratese Gaetano Bresci compì “un fatto” come lo chiamò lui, un’azione diretta: uccise a rivoltellate re Umberto I. Prima di lui anche l’anarchico lucano Giovanni Passannante aveva provato, nel Novembre 1878, ad assaltare il monarca con un temperino, fallendo nell’impresa e finendo condannato al carcere a vita, dove impazzirà. Bresci riuscirà invece nell’intento: abile tiratore, centrerà più volte con la sua rivoltella il corpo di Umberto I. Suddetto re era stato il mandante della repressione dei moti popolari (oggi li chiamerebbero riot) scoppiati a Milano nel Maggio 1898 a seguito degli aumenti dei prezzi di farina e pane. Durante quei moti decine di migliaia di persone appartenenti soprattutto alla classe lavoratrice ed al sottoproletariato si riversarono per le strade, assaltarono i forni e le caserme, eressero barricate per le strade. Al sopraggiungere della polizia e dei militari che presidiavano la città con l’intento di reprimere le proteste, dalle fila dei rivoltosi volarono pietre (oggi direbbero che sono stati quelli del black bloc e sbraiterebbero sulla necessità di isolare i violenti), addirittura venne esploso qualche colpo di pistola. A sparare però furono più che altro i militari e, dopo due giorni di scontri e di fronte all’accanita resistenza degli insorti, il comandante in campo generale Bava Beccaris ordinò l’uso dell’artiglieria contro la popolazione civile provocando la morte ed il ferimento di svariate persone: i morti furono, secondo le diverse fonti, dagli 88 agli 800; i feriti tra i 400 e gli 800 (oggi si parlerebbe di crimine contro l’umanità se commesso da forze armate “nemiche”, danno collaterale nel caso a far strage di civili sia il fuoco amico). Tra i militari ne morirono due: uno si sparò per sbaglio, l’altro venne fucilato per essersi rifiutato di sparare sulla folla. Il Bava Beccaris invece, che non s’era certo rifiutato di eseguire gli ordini del re, ricevette una bella onorificenza, “per rimeritare il grande servizio che Ella rese alle istituzioni ed alla civiltà e perché Le attesti col mio affetto la riconoscenza mia e della patria“, firmato Umberto I. Altrimenti detto il “re buono” -viene da chiedersi allora come potrebbe essere quello cattivo, di re.

Venuto a conoscenza degli eventi, Gaetano Bresci, che viveva da immigrato a Paterson negli USA, rimase profondamente sconvolto. Come dirà in seguito al processo organizzato contro di lui per il regicidio, «Dopo lo stato d’assedio di Sicilia e Milano illegalmente stabiliti con decreto reale io decisi di uccidere il re per vendicare le vittime. […] I fatti di Milano, dove si adoperò il cannone, mi fecero piangere e pensai alla vendetta. Pensai al re perché oltre a firmare i decreti premiava gli scellerati che avevano compiuto le stragi.» Bresci durante quel processo, per il quale venne condannato al carcere a vita ed ai lavori forzati,  sostenne inoltre di non aver voluto colpire Umberto I, ma il suo ruolo di re. A seguito del regicidio vi furono innumerevoli reazioni e non solo parenti, amici e compagni d’idee di Bresci vennero perseguitati dalla legge (oggi si parlerebbe di presunti fiancheggiatori), ma anche i socialisti ed il loro quotidiano L’Avanti ebbero problemi, nonostante quest’ultimo si premurò di condannare con vigore l’attentato ed il suo esecutore. Lunga sarebbe la lista dei condannisti, coi loro piagnistei per la morte del “re buono” ed i loro agghiaccianti (ovvero altrettanto buoni come il re) propositi e suggerimenti su come punire l’uccisore. Pochi furono quelli che ebbero il coraggio di esprimere ad alta voce la loro gioia per l’uccisione del re: una delle reazioni per me tra le più condivisibili fu quella di Errico Malatesta, che scrisse come fosse “essenziale e senza dubbio necessario non tanto uccidere la persona del re in carne ed ossa, quanto uccidere tutti i dominatori -nei campi, nelle fabbriche, in parlamento- nei cuori e nelle menti delle persone, ovvero estinguere il principio della fede nell’autorità alla quale ancora gran parte del popolo rende omaggio”. Gaetano Bresci morirà in circostanze misteriose nel carcere di S.Stefano nell’isola di Ventotene, forse ucciso da un’altro detenuto o dalle guardie, ufficialmente morto suicida – o per meglio dire suicidato. Il suo ricordo invece continuò a vivere nelle poesie, negli articoli di giornale e nei libri che narravano la sua vita e le sue azioni, nelle ballate popolari e nei monumenti che vennero eretti in sua memoria dai compagni, come quello di Carrara, ma anche nei numerosi monumenti monarchici “restaurati” da mani ignote. Nel 2011 un gruppo di volontari/e si premurò di sistemare dignitosamente le 47 tombe degli ergastolani morti nel carcere di Santo Stefano, oramai chiuso. Tra quelle 47 croci c’è anche quella di Gaetano Bresci.

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Ghetto di Varsavia, settant’anni fa…

A settant’anni dall’insurrezione del ghetto di Varsavia ripropongo la mia recensione (già pubblicata sul mio vecchio blog ormai estinto) di un libro che lessi tempo fa e che mi colpì molto. In memoria e in onore di chi lottò in quei giorni, dentro e fuori dal ghetto, contro la barbarie nazista.

Un gruppo di bambini nel ghetto di Varsavia

Hic sunt leones… and the stars will bear witness for them.

“Bernard Goldstein, “Five Years in the Warsaw Ghetto”, Nabat Books (AK Press), ISBN 1 904859 05 4
” …here is a true story of mind-boggling feats of courage and hairbreadth escapes, of battling overwhelming evil against insurmountable odds. Here is a chance to rediscover the meaning of probably the most debased and emptied-out words in the English language: heroism.

The story of the Warsaw ghetto is one of the most heartbreaking and tragic in all of recorded history. Bernard Goldstein, who was already a semi-legendary figure as a socialist and leader of the Jews in Poland, was a central figure in this story. He was crucial in organizing the underground resistance when the Nazis occupied Warsaw, and one of the ten thousand survivors of the citys half million Jews. This is his story, written shortly after World War Two, of the five years in which a community was destroyed, and his tribute to the good, the bad, the cowardly and the heroic who died there. It is told in a plain-spoken, self-effacing and unsparing way that makes it that much more powerful.” (Dalla quarta di copertina del libro ).


Bernard Goldstein, ebreo polacco noto per la sua intensa attività politica nell’organizzazione socialista ebraica Bund, racconta in questo libro, scritto dopo la Seconda Guerra Mondiale, la sua drammatica esperienza come sopravvissuto del Ghetto di Varsavia, istituito nella capitale polacca dopo l’invasione delle truppe nazionalsocialiste come luogo dove confinare ebrei polacchi e deportati di altre nazionalità. In realtà definire “drammatiche” le vicissitudini narrate da Goldstein suona decisamente riduttivo; ciò che visse quest’uomo fu un continuo succedersi di orrori e vicende agghiaccianti difficilmente descrivibili: persecuzioni, deportazioni, massacri, privazione di ogni bene materiale, della libertà, della dignità, il tutto inferto in nome di un’ideologia infame e disumana. Tra i punti centrali della storia vissuta e raccontata dall’autore vi è uno degli episodi più eroici che la Storia abbia mai conosciuto, ovvero l’insurrezione degli/e ebrei/e del Ghetto di Varsavia, portata avanti da pochi/e sopravvissuti/e alle deportazioni nei lager nazisti, agli stenti ed alle esecuzioni sommarie, un’insurrezione disperata condotta con scarsissimi mezzi in una situazione che non offriva alcune speranze di sopravvivenza agli insorti.
Sullo sfondo della vicenda le vicissitudini umane, il coraggio e la codardia, la complicità di molti con gli occupanti nazisti ma anche i gesti di umana solidarietá compiuti da alcuni a rischio della propria incolumità; la fredda indifferenza delle potenze occidentali di fronte alla Shoah e il cinico opportunismo dell’Unione Sovietica.”

Timur Kacharava, sette anni fa.

Timur Kacharava era il chitarrista della band hardcore russa Sandinista!, anarchico e di conseguenza antifascista, impegnato in numerose attivitá politiche nella sua comunitá. Era proprio da un’azione del gruppo Food Not Bombs di San Pietroburgo, cittá nella quale viveva e studiava alla facoltá di filosofia, che Timur stava tornando la sera del 13 Novembre 2005, quando venne aggredito ed accoltellato insieme al suo amico e bassista della band da un gruppo di circa 12 neonazisti. Il bassista, Maksim Zgibaj, sopravviverà all’assalto nonostante diverse ferite gravi, Timur no. Timur, vent’anni, morirá sul luogo dell’aggressione. Il fatto che sette degli aggressori siano stati in seguito processati e condannati (uno solo, ritenuto materialmente responsabile dell’omicidio, a 12 anni di carcere, gli altri a pene lievi per complicitá) non è particolarmente consolante, poichè nulla riporterà in vita un compagno ucciso e perchè le condanne dei tribunali di uno Stato, quello russo, che fa scudo ai neonazisti e li usa in modo ipocrita e strumentale per mantenere un apparato autoritario e per fomentare le solite guerre tra poveri, sono solo un modo per tranquillizzare l’opinione pubblica di fronte ad un fenomeno che non si vuole combattere alla radice. La verità è che, al contrario di quanto stabilito dal processo, quella nella quale morì Timur Kacharava fu un’aggressione pianificata nel tempo e meticolosamente organizzata da parte di personaggi i cui camerat(t)i sfilano ancora oggi per le strade russe protetti dalla polizia e aggrediscono ogni anno centinaia di immigrati, antifascisti, avvocati, giornalisti che indagano sull’estremismo di destra, omosessuali e attivisti per i diritti umani, spesso con esito mortale. La verità, nuda e cruda, è che tutto questo non si esaurirà spontaneamente, si deve fare qualcosa per fermarlo. E, come diceva Timur, “Chi se non noi, quando se non ora?”.

La band Sandinista! si è sciolta a seguito dell’omicidio di Timur, dopo aver pubblicato un solo album.

Incontro anarchico internazionale a St-Imier.

L’incontro della Prima Internazionale antiautoritaria svoltosi nella cittadina svizzera di St-Imier nel 1872 rappresentò un evento storico della massima importanza nella storia del movimento anarchico. Oggi, a 140 anni di distanza, diverse organizzazioni anarchiche hanno dato vita ad un nuovo congresso che si terrà sempre a St-Imier dall’8 al 12 Agosto 2012. Il proposito del congresso non è meramente commemorativo, nelle intenzioni degli organizzatori/trici si vuole stabilire un dialogo fra diverse realtà ed organizzazioni dell’ anarchismo sociale al fine di coordinare nel presente e nel futuro teorie e pratiche emancipatorie, ecologiste, federaliste ed autogestionarie.

A chiunque interessasse avere ulteriori informazioni sulle organizzazioni promotrici e partecipanti, sugli argomenti di discussione previsti e sulla logistica dell’evento consiglio di leggere le due circolari del comitato organizzatore dell’incontro, ma soprattutto di visitare il sito internet dedicato all’evento.

25 Aprile: troppo presto per festeggiare.

25 Aprile, festa della Liberazione d’Italia? Semmai “festa della resistenza”, visto e considerato che una vera liberazione non é mai avvenuta! Ma come, c’é qualcuno che pensa che il fascismo sia morto il 25 Aprile 1945? Spiegatemi allora da dove vengono la strage di Portella delle Ginestre, il massacro degli operai a Reggio Emilia nel 1960, gli studenti ed i lavoratori massacrati dai celerini ancora nei decenni successivi, investiti dalle camionette, uccisi da pallottole e lacrimogeni sparati ad altezza d’uomo; di chi é la responsabilità della strategia della tensione e delle stragi di Stato, da Piazza Fontana in poi, chi ha messo in galera o ammazzato persone innocenti, chi ha dichiarato guerre “perché é un nostro dovere nei confronti dei nostri alleati internazionali, é una missione di pace/umanitaria”, chi ha fatto ( e in alcuni di questi casi fa tuttora ) strage di civili in Somalia, Serbia, Afghanistan, Iraq, Libia? Chi sono i pochi che decidono per tutti, che pur di seguire il corso della Storia impoveriscono e gettano nella precarietà milioni di persone? Io non vedo nessuna liberazione, così come non la videro quei/lle partigiani/e che rimasero in montagna anche dopo la fine della seconda guerra mondiale, che non accettarono il compromesso di una Costituzione tanto conciliante da non mettere in discussione i fondamenti dell’ingiustizia, dello sfruttamento e dell’autorità. Chi si arroga il diritto di mettere nello stesso calderone chiunque abbia partecipato alla resistenza o é un mistificatore oppure non conosce i fatti storici, ma nemmeno un pò: i “miei” partigiani non sono morti perché io potessi avere il diritto ( dovere, secondo qualche zelante difensore del totalitarismo di mercato in salsa parlamentarista ) di scegliere tra due o tre sfruttatori di partiti diversi andando a votare ogni cinque anni, non hanno combattuto contro l’invasione nazista per barattarla con l’invasione atlantista, non volevano cambiare il colore ad una dittatura nel nome di un ossimorico Stato socialista. I/le partigiani/e di cui parlo non si schierarono contro il fascismo quando ormai il vento aveva cambiato direzione, ma combatterono in Italia ed in esilio, braccati in Francia o schiacciati fra due fronti fascisti ( franchisti da una parte, stalinisti dall’altra ) durante la guerra civile spagnola, erano le stesse persone che avevano resistito al fascismo prima che questo salisse al potere, erano gli stessi che anche in galera o al confino o nei campi di concentramento continuavano a mantener salda la loro integritá, gli stessi che spesso venivano colpiti alle spalle dai falsi amici, nel Nord Italia come a Barcellona, nelle cittá occupate dagli invasori nazisti e dai repubblichini cosí come era già accaduto a Kronstadt o in Ucraina. La liberazione non é mai avvenuta, la resistenza non é mai finita: cambiano i tempi, le forme di lotta, il nome e il volto dei tiranni, ma non cambiano la necessità e la volontà di lottare. Questo é il miglior modo nel presente e nel futuro per ricordare chi combatté in passato, non per governare sugli altri, non per essere declamato nei discorsi retorici di qualche potente, non per venire strumentalizzato dai partiti, non per diventare cenere, ma per essere la fiamma della rivolta che é nostro dovere tenere accesa.
Loro vivono nella nostra lotta!

“L’Aquila 3 anni dopo. Vivere, resistere, ricostruire.”

Fonte: 3e32.com

“6 aprile 2009, 6 aprile 2012.
Le ricorrenze, si sa, inducono ai ricordi, alle comparazioni, ai giudizi. Proviamo allora ad utilizzare questa occasione, il terzo anniversario del terremoto dell’Aquila, per fare un bilancio, necessariamente parziale e provvisorio, di questi tre anni post-sisma; un bilancio che ci serve non a cristallizzare una verità definitiva, ma a darci dei punti di riferimento da cui guardare al futuro.

La memoria non è mai qualcosa di neutrale o indifferente, così come non lo sono le narrazioni. Scegliere cosa raccontare, e il modo in cui farlo, significa scegliere quali punti di vista e quali valori trasmettere: non a caso si dice comunemente che “la storia la scrivono i vincitori”. Ebbene, la storia “ufficiale” della nostra città è purtroppo fin troppo nota, è la storia del “miracolo aquilano” di Berlusconi agghindato con il casco da pompiere, del salvatore della patria Guido Bertolaso, dei salotti televisivi di Bruno Vespa. Un triste miscuglio di menzogna e retorica degno dei copioni delle peggiori fiction di Mediaset.

Quella che noi vogliamo ora raccontare è invece la storia non certo dei vinti, ma dei resistenti, di coloro che mai un momento si sono rassegnati alla tragedia, mai piegati al saccheggio di questa città, e che da tre anni si battono ogni giorno, spesso in condizioni durissime, per restituire dignità e futuro alla loro terra. Questa è la nostra storia.

Durante l’inverno del 2009 la zona dell’Aquila fu interessata per mesi da uno sciame sismico di intensità e frequenza crescenti; nel corso di gennaio, febbraio, marzo le scosse si susseguivano ed erano sempre più forti. La faccenda resuscitava tra le persone una sorta di spirito folkloristico, dovuto al fatto che l’esperienza del terremoto è impressa nella storia della città; L’Aquila è infatti notoriamente zona sismica, ed è stata distrutta da terremoti almeno due volte, nel 1349 e nel 1703 – ed entrambe le volte ricostruita, più bella e più forte di prima. Al rischio sismico si pensava quindi con un’apprensione mista però ad ironia e ad un vago fatalismo, che si trasmetteva nell’espressione comune “A L’Aquila il terremoto c’è ogni trecento anni, e adesso tocca a noi..”.

Ma le scosse continuavano, e la preoccupazione cresceva. Il 31 marzo 2009 ci fu una riunione della Commissione Grandi Rischi, a cui parteciparono i massimi esperti di sismologia, i vertici della Protezione Civile, le istituzioni locali, che in 18 minuti decretarono che a L’Aquila non c’era nessun pericolo. Quella sera Bernardo De Berardinis, vice-capo della Protezione Civile, dichiarava alle televisioni “Aquilani state in casa tranquilli, e bevete un buon bicchiere di Montepulciano d’Abruzzo”.

Non fu data alcuna allerta, nessun piano di evacuazione né di assistenza fu predisposto. Edifici considerati a rischio non furono messi in sicurezza. Oggi dalle intercettazioni sappiamo che per Bertolaso quella riunione non era altro che “un’operazione mediatica”.

Il 6 aprile 2009, alle 3.32, una scossa di magnitudo Richter 6.3 devastò la città e uccise 309 persone.

Quella notte i Vigili del Fuoco in servizio erano sette. Della Protezione Civile neanche l’ombra.

Quella notte c’erano solo gli aquilani, che scavarono sotto le macerie con le mani, aiutandosi a vicenda, i primi corpi furono estratti così.

Poi arrivarono le telecamere, e con queste “la macchina dei soccorsi” e il governo.

La prima cosa di cui la Protezione Civile si occupò fu di spezzare la catena spontanea di solidarietà e organizzazione che si era creata tra le persone nell’affrontare il disastro, e di assumere il controllo esclusivo degli aiuti. Nel giro di 24 ore fu imposto a tutti di chiudersi nelle tendopoli o di lasciare la città. Non c’erano più aquilani, abitanti, cittadini: solo sfollati. Centoquattromila sfollati. L’intera città fu dichiarata inagibile, “zona rossa”, e presidiata dall’esercito. Il capo della PC Bertolaso, nominato subito dal governo Commissario Straordinario per l’emergenza, esautorando completamente le istituzioni locali, si installò nel bunker della caserma della Guardia di Finanza, mura alte dieci metri, filo spinato e guardie armate, ribattezzato con un nome sinistro: DICOMAC, Dipartimento di Comando e Controllo.

Per gli avvoltoi cominciava il banchetto.

Se l’umanità una buona volta dovrà rimetterci la pelle, non sarà per un terremoto o una guerra, ma per un dopo-terremoto o un dopo-guerra”. (Ignazio Silone, Uscita di sicurezza 1965)

Nei primi mesi che seguirono il terremoto del 6 aprile 2009 lo scenario aquilano era fatto di case squarciate, macerie ovunque, il centro storico chiuso e presidiato, posti di blocco militari continui. La gente era chiusa nelle tendopoli, o negli alberghi sulla costa, o si trascinava nelle interminabili file all’interno del DICOMAC che era necessario affrontare per accedere a qualsiasi tipo di informazione. Il confine tra solidarietà e ingerenza, tra aiuto e oppressione può essere molto sottile, soprattutto se si ha a che fare con una popolazione stremata e sotto shock, che non è in grado di reagire o negoziare. Possiamo dire tranquillamente che l’”esercito del bene”, la massa di volontari della Protezione Civile che si riversò a L’Aquila nell’estate del 2009 questo confine lo abbia ampiamente varcato. Probabilmente in buona fede, animati dalle migliori intenzioni e dal sacro fuoco della carità, queste migliaia volontari giunti da tutta Italia si dedicarono con il massimo zelo ad assistere gli sfollati nei campi, a fornirgli riparo, pasti e vestiti: e con il medesimo rigorosissimo zelo con cui obbedivano agli ordini dei vertici che vietavano ai terremotati il caffè e la cioccolata, impedivano loro di fare riunioni e volantinaggi, scoraggiavano visite e uscite. L’imponente macchina della Protezione Civile si rivelò ben congegnata nel produrre effetti precisi nelle persone: tramite gli aiuti dipendenza, tramite la dipendenza gratitudine, tramite la gratitudine l’obbedienza. Il meccanismo era perfetto: aquilani, vi aiutiamo così tanto che non potrete fare a meno di noi, e non potrete dirci altro che grazie, e accettare senza riserve né critiche tutto ciò che faremo per voi, e di voi. Il massimo dispiegamento della beneficenza aveva lo scopo di garantire il controllo completo della città e della popolazione (anche geografico: tutta la vita era organizzata in base alle tendopoli) e il massimo consenso d’opinione locale e nazionale. Da subito una campagna mediatica pressoché unanime e potentissima si adoperò nel santificare l’intervento del governo e della PC e nel liquidare qualunque osservazione come polemica strumentale; sappiamo ora delle telefonate in cui Bertolaso chiede a Gianni Letta di tenere a bada i giornali. La rappresentazione pubblica della situazione aquilana divenne quella di una terra di derelitti ormai incapaci di provvedere a sé stessi, che i potenti si degnavano di aiutare per grazia e generosità; i terremotati furono immediatamente declassati da cittadini, portatori di diritti esigibili, a sudditi supplicanti che potevano al massimo aspirare alla carità, e da cui ci si aspetta solo gratitudine. La gestione politica di questo meccanismo si incarnò in forma peculiare nella figura di Guido Bertolaso, commissario dotato di potere assoluto sul territorio e investito da una sorta di aura eroica che gli consentì di impostare i rapporti con la popolazione e gli enti locali in una vera e propria modalità “pastorale”, con un autoritarismo basato sulle leve affettive ed emotive prodotte dalla tragedia.

3) FiaccolataEppure qualcosa sfuggì da subito al piano. I familiari delle vittime si mossero immediatamente per ottenere la verità sui crolli e la mancata prevenzione, accusando chiaramente chi per interesse o negligenza non aveva fatto il necessario per evitare la tragedia (oggi i membri della Commissione Grandi Rischi sono sotto processo per omicidio colposo).

E poi a pochi giorni ancora dal sisma, alcune persone, giovani perlopiù, si resero conto che qualcosa non andava: che quell’autoritarismo dal volto assistenziale non poteva essere la via giusta per ricostruire la città, che c’era bisogno di darsi da fare in prima persona e non di prendere ordini. Sabbia nell’ingranaggio, riuscirono a creare all’interno del Parco Unicef un campo libero e autogestito, subito battezzato Piazza 3e32: uno spazio finalmente aperto e a misura di persona, dove era possibile muoversi e incontrarsi liberamente. Furono organizzate assemblee per monitorare e analizzare insieme ciò che stava accadendo intorno, concerti, spettacoli, serate per rimettere in circolo un po’ di allegria dopo tanto dolore; si cercava di mettere in contatto i vari comitati cittadini che stavano nascendo, di fare proposte per affrontare l’emergenza e la ricostruzione. A Piazza 3e32 gli aquilani cominciavano a riprendersi la vita e la parola.

Nascevano così il comitato 3e32 e la nostra lotta, fatta di piccoli e grandi gesti di resistenza quotidiana, capillare, continua; nascevano le prime parole d’ordine per la ricostruzione di una città migliore, al 100% di sostenibilità, partecipazione, trasparenza, le prime difficili iniziative pubbliche, i primi tentativi di riconnettere una comunità frammentata e impaurita, lo sforzo di coniugare la critica e anche la rabbia di quei momenti con la sensibilità necessaria per parlare a tutti.

Il G8 del luglio 2009, assurdamente spostato nella “città del dolore”, calato come un’astronave di marziani in un contesto di devastazione, lì dove nessuno avrebbe potuto organizzare proteste, fu tra le prime sfide che dovemmo affrontare. Il summit era parte della strategia di controllo e consenso, lo sbarco dei potenti, si diceva, sarebbe servito ad attirare l’attenzione del mondo intero, e i suoi soldi per contribuire a rimettere in piedi la città. Costò agli aquilani ulteriori disagi, e 184.897.674,92 euro, sottratti ai fondi per la ricostruzione, spesi per le piste di atterraggio degli elicotteri presidenziali, per i regali alle first ladies, per il campo da basket di Obama. Da lui, Merkel, Sarkozy &Co. per L’Aquila non è mai arrivato un centesimo. Ci fu chi scelse di contestare comunque quel G8 in modo “tradizionale”, organizzando un corteo nazionale nonostante il contesto difficile, ci fu chi mise al primo posto l’esigenza di farsi capire da più persone possibili, di non forzare gli animi già esasperati degli aquilani, di spiegare al mondo in quali condizioni paradossali si riunivano i “grandi”; sulle montagne comparve, gigantesca, la scritta “YES WE CAMP”, e mentre Carla Bruni piangeva ad orologeria davanti alle macerie e ai fotografi, le “last ladies” aquilane sfilavano ricordando a tutti la distanza tra il palcoscenico e la realtà.
8) 09_07_09 Manifestazione 3e32 The Last Ladies L'Aquila
Berlusconi scorrazzava tra le macerie con in testa il casco da pompiere e regalava dentiere alle vecchiette nei campi, seguito da un Bertolaso con mascella contratta e polo blu della PC, entrambi protagonisti di un circo mediatico ben orchestrato a loro uso e consumo; e insieme pianificavano la realizzazione dell’unico vero scopo a cui si deve il massiccio intervento del governo a L’Aquila dopo il sisma. Non la solidarietà, non la ricostruzione, ma una gigantesca speculazione su un territorio ferito e inerme. Ecco a cosa dovevano servire lo stordimento, il consenso, l’acquiescenza dei terremotati. Iniziava la fase in cui dietro il paravento della retorica degli aiuti lo strapotere di Bertolaso e della PC, braccio operativo del governo, avrebbe consentito abusi, sperpero di fondi e corruzione di ogni genere.

Il Progetto C.A.S.E. (le famigerate “new-town” che Berlusconi aveva annunciato con i morti ancora sotto le macerie) fu il primo e più importante pezzo di questa speculazione. 19 giganteschi complessi-dormitorio per 14.000 su 70.000 sfollati, collocati su aree verdi distruggendo i terreni attorno alla città, senza servizi né viabilità adeguata, costruiti a tempo di record in deroga a tutte le norme sugli appalti e sul lavoro. Costo: circa un miliardo di euro (di cui 300 milioni donati dall’Unione Europea secretati dalla PC, spariti chissà dove). Risultato: la nostra comunità, “provincialmente” abituata ad una vita sociale basata sul centro storico e sui quartieri, fu disgregata e ghettizzata, le nostre campagne devastate per sempre, milioni di metri cubi di nuovo cemento, e intanto nessuna iniziativa per la ricostruzione.

Ci sarebbero state allora delle alternative possibili: costruire moduli abitativi provvisori (i cosiddetti M.A.P.) molto meno dispendiosi (circa un terzo del costo delle new town) e soprattutto removibili, oppure requisire le case sfitte agibili presenti nel territorio aquilano (prima del sisma, L’Aquila stava attraversando una crisi immobiliare: i costruttori avevano costruito troppo e si ritrovavano con migliaia di appartamenti nuovi e invenduti). La scelta di non recuperare nulla dell’esistente, né di risparmiare in vista della ricostruzione ma di costruire ancora spendendo così tanto, fu tutta politica; fu la scelta di favorire gli affari dei gruppi d’interesse legati al governo, di trasformare la tragedia di tutti in un ghiotto business per alcuni.

Denunciare tutto questo, informare i media e la popolazione, avanzare proposte alternative non bastò a fermarli. Ci scontravamo con una macchina di potere efficientissima e determinata, e costruire un fronte comune nella cittadinanza risultò impossibile a causa della dispersione, della difficoltà materiale a creare momenti di incontro e discussione. Inoltre, la propaganda berlusconiana “dalle tende alle case” rispondeva terribilmente bene ad un bisogno reale e ineludibile; stremata da mesi di vita nelle tende, la maggioranza delle persone desiderava solo un tetto sulla testa, e non aveva né la disposizione né le energie di mettere in discussione che tipo di tetto gli venisse dato, e a che prezzo. Qualunque obiezione sull’operato del governo si infrangeva su un muro mediatico cementato nella celebrazione; qualunque critica veniva degradata come “ingratitudine” o come arretratezza, incapacità di comprendere le avanzatissime soluzioni portate avanti dai nostri salvatori, chiudendo lo spazio per ogni riflessione o discussione. Insomma, se non ti stava bene le C.A.S.E. di Berlusconi allora eri automaticamente un selvaggio desideroso di installarsi in un container come quelli usati in Irpinia..

Ciò che accadde allora a L’Aquila è ascrivibile ad un modello che abbiamo visto in opera anche altrove, ad esempio nelle discariche campane e in Val di Susa, ovunque ci fosse una “grande opera”, costosissima, inutile per la popolazione ma utilissima per gli speculatori, da costruire; un modello che prevede la militarizzazione del territorio, la gestione commissariale dei rapporti politici e istituzionali, la criminalizzazione mediatica e poi anche penale di chi si oppone. Il modello con cui i nostri governi continuano a imporre, nella crisi generale, i profitti di pochi a danno di tutti.

Ma il trend di speculazione sull’Aquila non si limitò al Progetto C.A.S.E.; dopo il terremoto, gli affitti delle case agibili salirono alle stelle, senza che la PC ponesse alcuna calmierazione, alcun limite ai vantaggi di grandi costruttori e rendite immobiliari. Nel mentre, il super-commissario Bertolaso spendeva e spandeva a suo piacimento senza alcun controllo i fondi per l’emergenza, triplicando ad esempio gli appalti per i bagni chimici dei campi, fino all’assurda cifra di 33 milioni di euro, o regalando 9 milioni al comune di Celano, che risultava fuori dal cratere sismico ma era governato dal suo amico Filippo Piccone, coordinatore abruzzese del PDL. Le case sfitte agibili, inoltre, anzichè essere requisite e assegnate gratuitamente ai bisognosi, vennero date in gestione ad un fondo d’investimento privato, autorizzato a riscuoterne gli affitti.

Alla fine dell’estate del 2009 era già chiaro che bisognava fermare “le mani sulla città”, combattere contro l’ulteriore scempio e il saccheggio del territorio; dal comitato 3e32 e dall’esperienza del parco Unicef nacque Casematte, un edificio abbandonato di proprietà pubblica ll’interno dell’area dell’Ex Ospedale Psichiatrico di Collemaggio che venne recuperato grazie al lavoro collettivo e volontario e trasformato in una soluzione abitativa libera e autogestita, in un luogo di cultura e socialità e in un presidio permanente contro la speculazione.CASEMATTE COLLEMAGGIO

Nell’inverno 2010 la ricostruzione era ancora ferma, il centro storico una zona rossa presidiata militarmente e inaccessibile ai cittadini, che non potevano neanche avvicinarsi alle proprie case. Le macerie, dopo quasi un anno e miliardi di euro spesi, erano ancora tutte lì, nessuno le aveva rimosse.

La registrazione della famosa telefonata tra i due imprenditori che la notte del terremoto ridevano pensando ai guadagni che ne avrebbero tratto ebbe improvvisamente l’effetto di un detonatore, aprì uno squarcio nel torpore infiammando la rabbia degli aquilani. Cominciò a farsi strada la consapevolezza dell’enorme beffa subita; diventava evidente che dopo aver ottenuto la vetrina mediatica e incassato le mega-speculazioni il governo aveva abbandonato la città, che mancava la volontà politica di ricostruire; al “miracolo berlusconiano”, alla santità di Bertolaso ci si credeva sempre meno.

Nel frattempo Bertolaso e la PC avevano lasciato la città, sostituiti da un’altra struttura commissariale che vedeva al vertice il presidente della Regione, Gianni Chiodi (PDL), e il sindaco dell’Aquila Massimo Cialente come suo vice: un nuovo apparato, inefficace e altrettanto dispendioso del precedente, nessuna volontà di ripristinare i “normali” spazi democratici e di rapporto con la cittadinanza.

Il 14 febbraio 2010 centinaia di aquilani forzarono il posto di blocco dell’esercito ed entrarono nella zona rossa del centro storico. Volevano vedere con i loro occhi in che stato era la loro città, ma soprattutto volevano rompere il meccanismo di potere e di bolla mediatica che li voleva emarginati rispetto alle decisioni, sottomessi, afoni. Fu un gesto di ribellione dopo mesi compressi che finalmente mise in circolo la voglia di fare, riprendersi le vite e la città.

Nasceva il movimento delle carriole: tutte le domeniche, per mesi, migliaia e migliaia di aquilani armati di carriole, pale, secchi, caschi rompevano i divieti e tornavano nelle loro strade e piazze per fare collettivamente e autonomamente ciò che commissari dispotici ed istituzioni inette non erano stati in grado di fare; togliere le macerie, differenziandole in modo che fossero riciclabili, e compiere così il primo passo per la ricostruzione della città.L'Aquila - Rivolta delle Carriole

Fu una primavera bellissima,  dopo un lungo periodo di frustrazione le persone alzarono la testa; in Piazza Duomo, il cuore della città, venne creato un presidio permanente dove ci si ritrovava in affollatissime assemblee cittadine. Si iniziarono ad affrontare i problemi molto concreti della situazione post-sismica, come la mancanza di fondi per la ristrutturazione antisismica delle case, la restituzione delle tasse, le difficoltà economiche in cui versa il territorio, ma soprattutto ci si confrontava su un’idea di città da ricostruire insieme, su come mettere in pratica ecologia, equità, democrazia reale. Quelle che fino a poco prima erano solo slogan e desideri, la partecipazione e la autorganizzazione delle persone, si incarnavano nei corpi di moltissimi aquilani che decidevano di portare avanti una lotta, consapevoli che la ricostruzione di una città migliore era un loro compito storico. Il 16 giugno 2010 tutta L’Aquila scese in strada, fino a bloccare l’autostrada per Roma, per chiedere misure giuste ed efficaci per la ricostruzione ed il sostegno economico alla città. Non arrivarono risposte. Si decise allora di portare queste rivendicazioni lì dove bisognava sbloccare le cose, proprio in Parlamento. Il 7 luglio 2010 migliaia di aquilani invadevano pacificamente Roma, diretti a Montecitorio, decisi a non lasciarsi fermare da nessuno; non era più il momento di “essere gestiti”. Vennero aggrediti e picchiati dalla polizia, e in seguito persino denunciati. Ma non si arresero e non lasciarono la capitale prima di aver portato la loro protesta alla sede della Protezione Civile, e direttamente a casa di Berlusconi, Palazzo Grazioli. Ci rendemmo conto dopo quella giornata di quanto la nostra lotta stesse scuotendo il governo, mandando in frantumi la bolla di consenso che il premier aveva ottenuto con le menzogne sulla nostra città. Il movimento andava avanti, e prese il via l’idea di proporre una legge di iniziativa popolare che prevedesse misure per L’Aquila ma anche per la messa in sicurezza di tutto il territorio nazionale e la prevenzione dei disastri ambientali, che venne scritta collettivamente nell’assemblea cittadina, supportata da migliaia e migliaia di firme raccolte in tutta Italia ma soprattutto da iniziative e mobilitazioni.

2010_02_18 083Cresceva nel movimento la comprensione del legame tra la gestione e gli abusi sull’emergenza aquilana da parte del governo e ciò che accadeva in altri luoghi come la Val di Susa, Vicenza e la Campania che avevano subito gli stessi meccanismi di imposizione e sfruttamento; o tra la sorte delle vittime del terremoto e le vicende di Viareggio o della Thyssenkrupp, dove persone erano morte per interessi economici e mancata prevenzione, e i loro familiari si battevano per avere giustizia. Il 20 novembre 2010 una manifestazione enorme vedeva gli aquilani uniti a migliaia di persone da tutta Italia ancora per la ricostruzione dell’Aquila, ma anche contro la gestione della crisi a svantaggio dei più deboli da parte del governo e contro il modello di vessazione dei territori. Nei mesi successivi abbiamo continuato a portare avanti una sorta di guerra di posizione, impegnandoci ogni giorno a strappare metro per metro qualcosa alla speculazione e a restituirlo alla nostra terra e ai suoi abitanti.

La nostra città ha subito in seguito al terremoto un processo di metropolizzazione forzata, in gran parte causato dalla costruzione del Progetto C.A.S.E., per cui è passata da essere una città di provincia tradizionale, organizzata intorno al suo centro storico, ad un territorio estremamente vasto e caotico, disperso intorno a centri commerciali e capannoni industriali. Tutto questo senza la minima pianificazione, con conseguenze di viabilità impazzita, mancanza di servizi e luoghi aggregativi. Ne risulta una qualità della vita pessima e condizioni sociali drammatiche, a cui va sommata una depressione economica profonda del territorio che raddoppia la crisi generale con aziende e commercio in crisi, migliaia di disoccupati, cassintegrati e precari. L’abuso di alcolici, droghe e psicofarmaci è in aumento e sta diventando un fenomeno preoccupante. Davanti a questo scenario le istituzioni risultano del tutto incapaci; buona parte della nostra battaglia sta quindi nel cercare di fronteggiare non solo il problema della ricostruzione edile, ma anche le emergenze sociali della città. La riapertura e il recupero, nel gennaio 2011 di un altro spazio per attività culturali e ricreative, un ex asilo comunale in centro storico, in buone condizioni strutturali ma abbandonato, è proprio un tentativo in questo senso, che aggiunge un’altra esperienza di aggregazione e auto-organizzazione tra le persone.

Spesso ci viene spontaneo dire che vivere qui è un po’ come stare in trincea, in un senso politico ma prima ancora umano ed emotivo, perché si vive ogni giorno sull’orlo dell’invivibilità, nella difficoltà di fare cose anche banali in una città surreale che a tratti sembra quasi una favela, nell’incertezza non solo del domani ma anche del presente.

Dobbiamo affrontare la difficoltà di avere da troppo tempo mille fronti aperti e mai un nemico unico, identificabile, localizzabile, mai un punto chiaro dove poter “attaccare”; vivere in una città disgregata significa anche che i centri del potere e delle responsabilità sono quanto mai mimetizzati, se non addirittura invisibili e aerei (in senso anche letterale:  i politici del governo arrivano sempre in elicottero..); e che le responsabilità stesse sono frammentate e distribuite in una sorta di groviglio di cui è difficile trovare il capo.

Stiamo facendo i conti, onestamente, con il disagio che si crea quando si comprende che scendere in piazza in migliaia, per mesi e mesi, non è bastato a risolvere i nostri problemi, davanti all’evidenza che la nostra lotta sarà necessariamente una lotta di resistenza, e quindi dura, difficile, quotidiana, lunga quanto potrà essere lunga la ricostruzione di una città; dieci, venti, cento anni?
E la nostra resistenza qui è anche reinventarsi ogni giorno un modo di stare insieme, ritessere rapporti tra le persone e reti sociali, mettere in circolo idee, creatività, allegria laddove tutto è frammentato, disperso, ingrigito.
A L’Aquila oggi anche una scritta su un muro o una pista da skateboard possono essere straordinariamente importanti. Per questa tenacia paghiamo anche un prezzo: gli attivisti aquilani sono stati colpiti da decine di denunce in questi tre anni, per cui stanno già subendo processi. Tentativo di intimidirci e fermarci, tentativo fallito.
Il terremoto del 2009 è stato senza dubbio una catastrofe; e quindi, come qualsiasi catastrofe nella storia dell’evoluzione del mondo, ha distrutto delle cose, delle forme di vita, ma ne ha fatte sorgere delle altre. Anzi, la sfida della ricostruzione è riuscita ad attivare dei processi di incontro e comunicazione tra le persone che prima sembravano impossibili, a sprigionare delle risorse e delle energie inaspettate, a riattirare verso la città molte persone che se ne erano allontanate. Oggi infatti, anche grazie all’ostinazione di alcuni che ci hanno creduto fin dall’inizio e si sono impegnati senza fermarsi mai,  L’Aquila non è solo un luogo di memorie tristi e disagio, ma anche una città dove si ride e ci si diverte, si organizzano continuamente eventi di ogni tipo, si cerca di promuovere “dal basso” la sperimentazione artistica e culturale. Abbiamo capito che la nostra scommessa politica è prima di tutto una scommessa di vita, che sta tutta nella capacità di saper ricomporre una collettività prima ancora che degli edifici, affermare determinati valori come equità, antirazzismo e accoglienza, tutela dell’ambiente, in cui riconoscersi. Più che restaurata, o semplicemente ricostruita, la nostra città deve essere rifondata.
Battersi per L’Aquila oggi significa in primo luogo opporsi alle speculazioni edilizie e all’ulteriore consumo di suolo e territorio, che minaccia di divorare ciò che rimane delle nostre aree verdi, ma anche contrastare in un quadro più ampio le politiche economiche e sociali di questi governi che scaricano i costi della crisi sui più deboli, ostacolando ulteriormente la ripresa di contesti come il nostro; significa battersi contro questa gestione del debito e del denaro pubblico, che viene sprecato a favore delle banche, delle lobbies di affari e in grandi opere inutili, anziché essere investito in istruzione, sanità, trasporti e per contrastare la povertà.
La nostra è certamente una lotta territoriale, con la sua identità e le sue specificità, ma è anche una lotta per un modello complessivo fatto di politica trasparente, di decisioni realmente democratiche e partecipate, di rispetto  del patrimonio ambientale e culturale e sviluppo eco-sostenibile.
E’ una lotta estenuante e spesso difficile da spiegare; per questo abbiamo scritto queste pagine, certamente lunghe ma necessarie per raccontare come mai, dopo tre anni, non ci basta la celebrazione rituale, siamo stufi della retorica della tragedia, rifiutiamo di sentirci ancora vittime. Noi siamo vivi, non siamo in ginocchio ma in piedi, pieni non più di tristezza ma di rabbia, e vogliamo andare avanti. Questa è la nostra terra, la nostra città, la nostra vita, e noi la amiamo. Non molleremo mai.
Dovete avere il coraggio non di restaurarla ma di ricostruirla questa città. Siete aquilani.. e fatelo no? “
(Mario Monicelli, 2010, ultima dichiarazione prima di morire)”.