Il populismo e ciò che vi si nasconde dietro.

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Uno spettro si aggira per l’Europa: lo spettro del populismo. Dopo Brexit e Trump presidente degli USA, molti politici, analisti, commentatori, esperti e comuni cittadini sono preoccupati per l’ascesa di movimenti e partiti populisti in tutta Europa, fino a paventarne, in alcuni casi, una possibile presa di potere. Non si può negare che alcuni di questi partiti e movimenti abbiano recentemente raggiunto risultati elettorali importanti, né sarebbe irrealistico ritenere che alcuni di essi possano addirittura arrivare ad ottenere una maggioranza in qualche parlamento nazionale e a formare un governo*. Prima però di chiederci cosa ciò concretamente possa significare, quali cambiamenti potrebbero in tal senso prospettarsi sul piano politico, sociale, economico e culturale di un Paese o di un’unione di Paesi, dovremmo provare a rispondere ad una domanda fondamentale: cosa significa nei fatti il termine populismo?

Un tentativo di definizione del populismo.

Il vocabolario Treccani parla dei Narodniki russi, di Juan Perón, di arte e letteratura e, in mezzo a ciò, fornisce la definizione apparentemente più appropriata, che connota il populismo come “atteggiamento ideologico che, sulla base di principî e programmi genericamente ispirati al socialismo, esalta in modo demagogico e velleitario il popolo come depositario di valori totalmente positivi”. Il populismo emerge specialmente nei momenti di crisi politica o economica, è  caratterizzato dal riferimento centrale, perlopiù retorico, al popolo quale soggetto reale di riferimento della politica, non solo depositario di valori positivi e dotato della capacità istintiva di comprendere quali siano i veri problemi della società e le rispettive soluzioni, ma anche destinatario dei benefici di un governo ideale, ad esso vicino e pertanto attento alle sue esigenze. Oggi il termine “populista”, associato spesso a quello di “demagogo”, viene perlopiù affibbiato a persone o gruppi che attaccano la classe politica accusandola di essere lontana dagli interessi reali del soggetto denominato di volta in volta “popolo”, “cittadini”, “elettori” o “gente”. A loro volta tali persone e gruppi, quando non rifiutano il termine, lo connotano positivamente rivendicando la propria vicinanza nei confronti del popolo e dei suoi interessi. Il populista si fa portavoce di quello che, secondo lui/lei, la maggioranza pensa ma non dice, polarizza ricorrendo a facili schemi in stile “buono/cattivo”, propone argomenti e soluzioni semplificate. Populisti possono essere pertinentemente definiti quei partiti e movimenti dalla connotazione anti-establishment, “antipolitici”, anti-intellettuali, critici nei confronti delle istituzioni transnazionali e della globalizzazione, della corruzione e del malaffare, della classe politica e dei partiti tradizionali.  Per quanto concerne specificamente il populismo di destra, va aggiunta l’opposizione alla società multiculturale e all’immigrazione “incontrollata”. La dicotomia è comunque quella del discorso retorico del “noi qui sotto” contro “loro lá sopra”, dove per “noi” si intendono i comuni cittadini, mentre “loro” sono politici affermati, intellettuali, tecnocrati, vertici amministrativi istituzionali, spesso anche alta finanza. Da notare però che a far ricorso a tale retorica non sono solo esponenti di organizzazioni definite comunemente populiste, ma anche, a seconda delle circostanze, rappresentanti di partiti politici tradizionali , fatti a loro volta bersaglio degli attacchi dei populisti comunemente etichettati come tali. Questo anche perchè il populismo non è di per se un’ideologia come lo sono storicamente, ad esempio, il liberalismo o il socialismo, quanto una modalità di relazionarsi, è innanzitutto un approccio “anti-qualcosa”. Nonostante sia riconoscibile e definibile, è al tempo stesso flessibile, camaleontico. Questa è in parte la sua forza ma anche, probabilmente, la sua principale debolezza in termini di un suo possibile successo.

Caratteristiche specifiche del populismo di destra.

Nella variante di destra del populismo, alcuni elementi ideologici centrali, tipici dei classici partiti dell’estrema destra, vengono modificati in modo da rendere messaggi e programmi più moderni ed accettabili, meno ideologici e al tempo stesso più vicini alle paure ed ai pregiudizi dell’ “uomo qualunque”: ad esempio, ai concetti di razza e nazione si sostituiscono quelli di tradizione, cultura, patria, etnia, mentre il modello di sistema auspicabile non è più quello di una dittatura fascista, piuttosto una trasformazione della democrazia in senso autoritario, etnocentrico ed esclusivo. I movimenti populisti di destra si dicono favorevoli all’uso di strumenti di democrazia diretta (referendum), che vorrebbero usare per legittimare, anche a livello legislativo, norme discriminatorie, così come strumentalizzano i diritti democratici e le conquiste sociali per escludere e criminalizzare quelle minoranze che, al lor dire, minaccerebbero tali diritti: secondo questo ragionamento, per esempio, i musulmani non riconoscerebbero il pluralismo religioso, i diritti LGBT, la parità fra i sessi ecc…, pertanto non sarebbero compatibili con la democrazia e la civiltà occidentale. Ciò non significa che i populisti di destra non siano essi stessi omofobi e transofobi, a favore della famiglia tradizionale o si mostrino aperti nei confronti di tutte le confessioni religiose, semplicemente quelle che sono rivendicazioni o conquiste tipicamente progressiste vengono strumentalizzate in chiave anti-inclusiva. Allo stesso modo, la libertà di espressione sarebbe minacciata dalla cultura del “politicamente corretto” e dalla presunta egemonia culturale della sinistra: il diritto di chiunque a dire ciò che pensa viene usato per rendere normali e accettabili discorsi beceri, xenofobi, intolleranti, ma soprattutto per chiedere a gran voce che la libertà la si tolga a qualcun’altro. Il discorso centrale vede l’identità collettiva della popolazione autoctona minacciata da influenze esterne, siano esse culturali o economiche, laddove per “esterne” si intendono anche quelle provenienti dall’establishment.

Fra i partiti della destra populista esistono sfumature e differenze nel posizionamento su alcuni temi, così come esistono differenze sul modo di etichettarli, considerato che da alcuni commentatori il termine “destra populista” viene usato come sinonimo di “estrema destra”, da altri invece come termine che indica una connotazione politica più moderata.**  Nell’ Europa occidentale diversi partiti della destra estrema, facendo ricorso a strategie e argomenti populisti, hanno ottenuto negli ultimi anni e decenni consistenti risultati elettorali: Front National in Francia, Lega Nord in Italia, PVV in Olanda, FPÖ in Austria, Nuova Democrazia in Svezia, SVP in Svizzera, Partito del Progresso in Danimarca, Veri Finlandesi in Finlandia e altri ancora. Di fronte a cambiamenti culturali, crisi economiche  e questioni cruciali di importanza globale, questi hanno saputo abilmente far leva sulle paure del ceto medio, preoccupato di un peggioramento della propria condizione, così come sul crescente impoverimento della classe lavoratrice e dei suoi membri disoccupati, sul suo risentimento e sui suoi pregiudizi, sulla paura dello sradicamento culturale, sull’inquietudine per il futuro. L’uso di slogan semplificati, i discorsi viscerali, la capacità di dividere settori della popolazione mettendoli gli uni contro gli altri in modo strumentale si sono rivelati metodi efficaci ed hanno portato ad una crescita di consenso nei confronti di queste organizzazioni, capaci di raccogliere i voti di chi in precedenza era astensionista o appoggiava partiti tradizionali, anche a fronte di una crisi della rappresentatività sempre più sentita.

 Obiettivi dichiarati e risultati reali.

Ma, a conti fatti, cosa vogliono ottenere i populisti? A cosa serve veramente il populismo, ad avvicinare la politica alle masse, a far agire un governo in difesa dei reali interessi del comune cittadino, ad affrontare questioni irrisolte sulle quali finora la politica ufficiale ha taciuto o non ha agito in modo efficace? Nella retorica di movimenti e partiti populisti dovrebbe essere proprio così, ma la realtà è diversa, a cominciare dal fatto che le promesse fatte in campagna elettorale sono perlopiù esagerate e a scopo propagandistico, così come il programma teorico di un partito il più delle volte non trova uguale applicazione nei fatti. Ciò vale per le liste elettorali tradizionali così come per quelle nate dal malcontento popolare. Nella retorica del populismo le masse vanno sostanzialmente bene così come sono, non devono prendere coscienza, né emanciparsi. I leaders e “quelli che stanno in alto” le hanno tradite, hanno disatteso le loro aspettative, perciò è tempo di nuovi leaders, magari gente comune estranea all’entourage finora ai vertici. Da un punto di vista prettamente democratico rappresentativo, l’affermarsi di tendenze populiste può portare da un lato a maggior partecipazione e interesse delle masse per la res publica, la cosa pubblica, rafforzando e spingendo le istituzioni a venir maggiormente incontro ad alcune esigenze particolarmente sentite dalla popolazione di un Paese. D’altro canto, può sfociare nell’affermarsi di tendenze spiccatamente autoritarie (nel senso comune del termine così come viene usato nelle democrazie liberali), all’esclusione sociale e alla discriminazione in senso negativo di fette della popolazione, alla chiusura di fronte alle politiche di cooperazione e partecipazione internazionali. Se la seconda ipotesi sembra la peggiore, va fatto notare come, alla fine, pur di inserirsi nei meccanismi della politica dominante, anche i populisti devono ripulirsi un pò, abbassare i toni rinunciando alle componenti più radicali dei loro discorsi. In quanto alla prima ipotesi, è poprio questo il meglio che ci si può aspettare da un certo populismo protestatario***(un caso fra tutti, quello degli indignados in Spagna), le cui rivendicazioni vengono inglobate dall’ideologia dominante allo scopo di rafforzarla, seppellendo qualsiasi aspirazione di rottura col presente, poichè se un movimento o organizzazione populista non scompare presto dalla scena, per affermarsi e durare nel tempo deve adeguarsi alla struttura dominante, non essendo esso realmente interessato a distruggerla per creare qualcosa di radicalmente nuovo. Anche i populisti più beceri fanno comodo, perchè se da un lato vengono attaccati da massmedia e politici affermati, la loro presenza giustifica un voto contro di essi e quindi a favore dei partiti tradizionali…che al tempo stesso non si vergognano di attingere da essi rivendicazioni e punti programmatici! A conti fatti, spesso il populismo funge da valvola di sfogo per poi rientrare nei ranghi, legittimando ancor più il sistema che critica, tutt’al più facendo in modo che cambi qualcosa affinchè tutto rimanga uguale. Non che ci si possa aspettare di meglio da chi concepisce il “popolo” come un blocco omogeneo, virtuoso così com’è, proteso verso un mondo ideale al quale si verrà condotti da nuovi, incorruttibili capipopolo…magari pure a marcia indietro!

A chi non serve il populismo.

C’è chi nella melma populista sguazza quotidianamente, dai massmedia che alimentano la tendenza per poi demonizzarla, ai vertici al potere che la usano a proprio vantaggio. A chi si sente dimenticato dalle istituzioni, vittima vera o presunta delle storture di un sistema che non viene percepito come storto nella sua essenza e totalità, serve una valvola di sfogo. È indubbiamente una bella sensazione quella di essere ascoltati da qualcuno che finge di capirti in maniera convincente e che afferma di portare avanti le tue istanze. Essere parte di una comunità ideale, un tassello di un grande progetto ha una funzione catartica che spesso si esaurisce nelle manifestazioni esteriori senza intaccare la sostanza del pensiero di un individuo che nemmeno si percepisce intimamente come tale. È qui che fa presa la strategia populista. Questo perchè manca la diffusione capillare di coscienza e maturità. Non possiamo aspirare a cambiamenti radicali senza prima cambiare radicalmente le persone. A tutti/e coloro i/le quali non servono identità fittizie e rappresentanti ai vertici di un sistema che agisce contro i nostri reali interessi, non serve nemmeno il populismo. Non serve a chi agisce direttamente per costruire realtà alternative tra le pieghe dell’esistente, né a chi aspira ad una realtà nuova. Agli/lle altri/e, rimarrà sempre la speranza disattesa di poter migliorare qualcosa affidandosi all’imbonitore di turno, finendo per essere pedine in un gioco che non si sono nemmeno realmente sforzati/e di comprendere.

 

*In Grecia è attualmente al governo un raggruppamento, SYRIZA, considerato da diversi commentatori populista (di sinistra).

**Per quanto mi riguarda considero valida, in termini generali, l’opinione del sociologo ed esperto di estrema destra Alexander Häusler, che definisce il populismo di destra come un “metodo stilistico della modernizzazione” dell’estrema destra.

***Il politologo Pierre-André Taguieff fa una distinzione analitica tra “populismo di protesta” e “populismo dell’identità”, laddove quest’ultimo radicalizza ed essenzializza il concetto di appartenenza ad un’identità comune (etnica, nazionale, culturale…) ritenuta migliore in contrappposizione a ciò che viene definito estraneo, “altro”. In alcuni casi queste due modalità di populismo si sovrappongono.

“Non più la Questione Kurda, ma l’Alternativa Kurda”.

Articolo pubblicato in lingua inglese sul sito Kurdish Question e riproposto tradotto in lungua italiana dal sito Da Kobane a Noi:

“Non più la Questione Kurda, ma l’Alternativa Kurda
di Hawzhin Azeez

È un errore, oppure una violenza simbolica, continuare a sostenere che la “Questione Kurda” resti irrisolta.
Per gli studiosi, gli esperti di politiche nazionali e internazionali e i burocrati la Questione Kurda, con le sue complesse implicazioni politiche intra- e internazionali, resta il dilemma chiave dei tempi moderni. La resistenza epica contro Daesh da parte delle YPG-YPJ ha lanciato la Questione Kurda sotto i riflettori internazionali come mai prima. Si tengono seminari e conferenze, libri e saggi vengono scritti uno dopo l’altro e centinaia di persone attingono in massa a pagini e siti pro-Kurdi in cerca di informazioni.
E forse l’etichetta clinica della Questione Kurda poteva essere utilizzata, perché i Kurdi e il loro ostinato rifiuto di venire assimilati e turchizzati, arabizzati o persianizzati è sfociato in reazioni sempre più violente da parte dello stato per risolvere il “problema”. Di conseguenza, per decenni i Kurdi hanno dovuto far fronte alle pulizie etniche, ricollocamenti etnici, politiche di arabizzazione, genocidi, e la perdita dei diritti umani più elementari a causa degli stati arbitrari e artificiali che a loro volta sono stati prodotti da recinti coloniali istituiti con la violenza. Gli stati artificiali e le loro macchinazione repressive e ideologiche hanno promosso politiche di monoidentità violente, escludenti, oppressive che hanno a loro volta portato alla costruzione di identità nazionali immaginarie e costrutti mitici che inneggiano a “una storia, una nazione, una lingua, una bandiera”. Questa identità intrisa di sangue non appartiene soltanto agli stati post-coloniali, ma è tipica di tutti gli “stati-nazione” moderni.

L’attenzione prevalente, interna ed esterna, sulla cosiddetta, prolungata Questione Kurda comprende questo tipo di discorso: “il sistema internazionale fallisce miseramente nel risolvere questo dilemma, o addirittura nel riconoscere la legittimità della drammatica condizione Kurda, persino di fronte alle continue violenze contro i Kurdi, soprattutto in Turchia, violenza che avvengono su ampia scala e che aumentano in maniera inquietante. Una nuova Ferian, “la missione civilizzatrice”, una logica eurocentrica-orientalista che presume che i disgraziati-soggettificati Kurdi chiedano all’Occidente neoliberista, statocentrico, capitalista di individuare la soluzione del loro “problema” – problemi che questo sistema mantiene alacremente.

I danni tremendi e deliberati ai siti storici come Sur, come Nusaybin e, attualmente, Shex Maqsud sono una prova sufficiente della mancanza di volontà e di interesse da parte di questo Sistema; è vero piuttosto che il sistema intenzionalmente spezza il legame tra l’identità e il passato per indebolire lo spirito dei Kurdi. In quanto Kurdi, il nostro dialogo interno e il discorso con l’Occidente non riesce a registrare in maniera definitiva e non apologetica la fine del “problema” (un termine che implica che la colpa vada addossata a coloro che subiscono la violazione dei diritti umani fondamentali, la cui semplice esistenza si pone come un “problema” per il sistema): in che luogo e modo i Kurdi dovrebbero collocare i loro diritti etnico-religiosi all’interno del Medioriente?
È evidente che le continue violenze commesse contro i Kurdi continuano a dimostrare la supremazia e il fallimento del sistema internazionale, eurocentrico e statocentrico. E, cosa ancora più importante, dimostrano il fallimento della democrazia neoliberista, o parlamentarismo capitalista, quale paradigma supremo del “nuovo ordine mondiale”. La privatizzazione, l’avanzata dei mercati, la deregulation, l’outsourcing, l’indebolimento dei sindacati, la diminuzione delle tasse ai ricchi, la forbice sempre crescente tra ricchi e poveri, la depoliticizzazione, l’anti-intellettualismo, le crisi finanziarie globali, la devastazione ambientale, le guerre neocoloniali con conseguenze disastrose (Iraq, Afghanistan…), l’ascesa dell’ISIS e di altre organizzazioni terroriste che crescono in loco ma i cui semi vengono gettati a livello internazionale, l’industria delle armi che vi è associata: tutti elementi sintomatici dei fallimenti della democrazia neoliberista eurocentrica e statocentrica. Perfino nel momento in cui i Kurdi, e altre minoranze etnico-religiose, grazie al confederalismo democratico, continuano a creare democrazie radicali dal basso, comuni e cooperative, consigli di strada, locali e regionali con l’intento di accrescere l’impegno, la partecipazione e la responsabilità politica; perfino nel momento in cui tentano di rimuovere decenni di conflitti primordiali che si sono trascinati nel tempo, di rimuovere l’odio, e al suo posto far nascere una relazione basata sui valori tipici del comunalismo, la tolleranza e la coesistenza reciproca.

Gli accademici, gli esperti e i decision-makers occidentali continuano faticosamente a cercare di affrontare la Questione Kurda; dovrebbero invece concentrarsi sul fallimento congenito della loro infrastruttura capitalista, macchiata di sangue, il fallimento della sua democrazia neoliberista, della sua incapacità a dare risposte efficaci e a creare un equilibrio adeguato ai diversi bisogni delle sue masse sfruttate, dei gruppi e degli interessi minoritari. Al contrario, la democrazia neoliberista continua a promuovere una omogeneità culturale aggressiva perfino nelle cosiddette società “democratiche” e “multiculturali”.

In Australia, la coesione nazionale viene espressa attraverso uno schema razziale illuminista e le conseguenti politiche identitarie xenofobe, che sono poi sfociate nel disastroso “Tampa affair”. Rispedendo indietro i migranti “sui barconi” o i gruppi di subumani che si trovano in fondo allo schema razziale, John Howard, allora primo ministro, decretò che “siamo noi a decidere chi entra in questo paese e in che circostanza”, un approccio che è stato fatto proprio dai successivi governi laburisti e che ha condotto alla creazione di centri di detenzione sulla terraferma e in mare. Carcerazione, malattie mentali, omicidi, stupri di bambini e donne in condizioni di vulnerabilità che cercavano un luogo sicuro, tentativi di suicidio… ecco alcuni degli effetti collaterali di una detenzione coatta prolungata per mesi, se non per anni di fila. Altre migliaia di persone muoiono in mare tentando di raggiungere porti “sicuri”, porti che nel frattempo lavorano alacremente per costruire muri di acciaio per tenerli fuori. Il corpo senza vita di Alan Kurdi ha espresso questa tremenda verità.
E invece il popolo Kurdo e altre minoranze del Merioriente, potenziate e liberate dalla pratica del confederalismo democratico, stanno aiutando centinaia di migliaia di rifugiati e di sfollati interni. Nella città di Kobane, a sua volta irriconoscibile per i danni inflitti, si trova un campo per gli sfollati interni che ospita più di 5000 persone. I cantoni di Cizire e di Efrin accolgono migliaia di migranti forzati e terrorizzati a sfuggire alla brutalità del regime di Assad, o di Daesh, o di entrambi. Le ideologie sinceramente democratiche potenziano e promuovono le facoltà umane della collettività e alimentano l’umanitarismo, piuttosto che fondarsi su un suo indebolimento.

In America e in Gran Bretagna, la democrazia neoliberista sta marciando verso il declino e in tutti i tre paesi appena nominati i mercati e il processo decisionale politico sono dominati da degli oligarchi, con un conseguente aumento delle disuguaglianze economiche. In Gran Bretagna, la disuguaglianza inaugurata dal Thatcherismo ha portato all’elezione di un governo New Labour che non è riuscito quasi in nessun caso a far fronte alle disuguaglianze insite nel sistema neoliberista; quel che poi si è prodotto durante i successivi governi di centro sinistra e di destra sono state crisi economiche e misure di austerità concepite per rendere i ricchi ancora più ricchi, mentre i poveri stentano ad arrivare a fine mese.
In particolare, in America l’ascesa del Trumpismo ha dimostrato il fallimento del sistema Americano, schiavo di think tanks, PACs (Political Action Committees, sovvenzionatori di campagne, personaggi e partiti politici), lobbies e agglomerati mediatici. Tale indebolimento dei controlli democratici ha condotto all’incapacità di affrontare le questioni insepolte legate alla razza, l’avvento del complesso carcerario-industriale e le violenze della polizia, simboleggiate oggi in maniera massiccia dal movimento Black Lives Matter. Al contempo, la perdita dei diritti delle donne, i continui tentativi di chiudere Planned Parenthood e di ridurre i diritti riproduttivi e l’autonomia delle donne per quel che riguarda il loro corpo perfino in casi di stupro dimostra la natura sfaccettata del modello americano di democrazia neoliberista. Parallelamente, politiche ipercostose e il sostegno incontrollato del mercato e delle lobbies per i candidati alle elezioni ha trasformato il modello democratico americano in un vuoto simulacro, dove i lobbisti manovrano le elezioni democratiche e gli interessi degli elettori. Niente personifica meglio questa tendenza dell’ascesa spettacolare – e preoccupante – del miliardario candidato elle elezioni presidenziali Donald Trump, la cui piattaforma politica è fondata prevalentemente sul fascismo, il razzismo, l’odio verso i rifugiati, e che alimenta un islamofobia già esistente, mentre al di là del mare le guerre neoimperialiste continuano.

Ma neppure l’Europa è al riparo dall’avvizzimento della cosiddetta democrazia capitalista. L’ultimo rapporto della Freedom House ha avvisato che “la crisi dei migranti e gli enormi problemi economici stanno minacciando … la sopravvivenza dell’Unione Europea”. La crescente mancanza di trasparenza e individuazione di responsabilità è sfociata nel declino delle democrazie nascenti nei Balcani, portando a un terribile degrado. Paesi come la Serbia, il Montenegro e la Macedonia hanno utilizzato “uomini forti” in politica per richiedere un atteggiamento meno rigido dall’Unione Europea, unione sempre più defunta di ventotto democrazie capitaliste, la cui deplorevole risposta collettiva alla cosiddetta “crisi dei rifugiati” ha dimostrato il crollo delle radici istituzionali, normative, morali dell’Unione.

Nello stesso tempo, la Turchia ha astutamente sfruttato la crisi dei rifugiati per estorcere più indulgenza dall’UE verso i negoziati per l’entrata nell’Unione, mentre continua ad avere un approccio genocida nei confronti della Questione Kurda. La risposta del sistema capitalista è gettare più soldi alla Turchia, nonostante un recente rapporti di Amnesty International abbia evidenziato in maniera preoccupante il prodursi di ritorni forzati di rifugiati siriani. La democrazia capitalista, sotto la leadership illiberale di Angela Merkel, ha condotto al soffocamento degli elementi chiave della democrazia, come la libertà di parola: i disegnatori satirici tedeschi sbeffeggiano Erdogan ritraendolo imbavagliato e minacciato con sentenze di prigione.

Ci troviamo di fronte a una negazione perenne della legittimità dei diritti delle minoranze impegnate nella propria autodifesa e resistenza attiva, che va da un annacquamento di richieste legittime allo sradicamento bello e buono di richieste di diritti portate avanti per anni, come è avvenuto chiaramente nel caso delle dissoluzione delle Tigri del Tamil nel sistema democratico neoliberista, delle comunità Indigene e Aborigene in Medioriente, America Latina, Asia, Stati Uniti, Canada e Australia, che vengono etichettate come “terroristi”, “dissidenti”, “radicalizzati”, come selvaggi non democratici e non civilizzati.

Il governo dell’AKP in Turchia, nel frattempo, continua a massacrare il popolo Kurdo nel silenzio, che diviene così assenso, della comunità internazionale. Non stupisce che di fronte a tale oppressione cresca la “rivoluzionizzazione” dei giovani – piuttosto che la loro “radicalizzazione”, termine che implica la presenza di uno sguardo eurocentrico-orientalista, dall’alto verso il basso, a svilire la legittimità dei diritti delle minoranza all’autodifesa paragonandola a un generico terrorismo sponsorizzato dallo stato, proprio di un depotenziato gruppo etnico-religioso, per mano del secondo maggior esercito della NATO. Moltissimi giovani vanno in montagna in Kurdistan a cercare rifugio e trovano l’addestramento militare, ma soprattutto ideologico, necessario a combattere le strutture oppressive e genocide dello stato.

La mitica “fine della storia” di Fukuyama, espressa con tanta sicumera dai portavoce accademici e intellettuali del Nuovo Ordine Mondiale, guidato dall’egemonia statunitense, è stata evidentemente svuotata di significato nel momento in cui emerge in Medioriente un modello democratico alternativo, radicale, locale: il confederalismo democratico.
In maniera non dissimile, la profezia di Huntington sullo “scontro di civiltà” era stata predicata tra l’Occidente e l’Islam nel mondo post-11 settembre; non era però in grado di immaginare che lo scontro si sarebbe svolto tra la democrazia neoliberista, il cui decadimento interno dimostra le incoerenze e gli antagonismi intrinseci al capitalismo, e la democrazia radicale, definita come confederalismo democratico e sviluppata da Abdullah Ocalan, ispirata dalle opere di Murray Bookchin.
La democrazia neoliberista eurocentrica e statocentrica non ha mai concepito che il cosiddetto scontro di civiltà si sarebbe svolto con un sistema democratico alternativo. Ha presunto che il suo sistema democratico si sarebbe dimostrato l’unica opzione possibile contro alternative fasciste, terroriste e violente; la sua cecità epistemologica non riusciva a rispondere, né anche solo a tenere in considerazione il razionalismo occidentale. Al contrario, il suo orientalismo inerentemente eurocentrico ha reso miopi i falchi neoliberisti che immaginavano semplicemente un mondo popolato da “terroristi islamici” ad alimentare le proprie perpetue macchine belliche. I neoliberisti hanno continuato a dominare e a riorientare i principali enti ed istituzioni internazionali verso la promozione della sua versione di democrazia capitalista: tra gli altri, le Nazioni Unite, la NATO, la Banca Mondiale, il FMI, l’OCSE. Ma, come ha sottolineato Mohamad Tavakoli-Targhi, gli sviluppi sociali “e i processi alternativi, non europei”, non occidentocentrici “sono stati definiti come assenza di cambiamento e storia non storica”.
Non hanno mai immaginato che una delle comunità più oppresse del Medioriente avrebbe formulato una cosmologia, una filosofia e un approccio per la risoluzione dei diritti delle minoranze di natura complessa, coesiva, inclusiva, multiculturale, antimonopolista e orientata al consenso; quella stessa risoluzione che il loro sistema, nel migliore dei casi, non è stato in grado di affrontare, se non l’ha attivamente repressa nelle forme panottiche dell’utilitarismo di stampo Benthamita, concepito per servire gli interessi delle élites minoritarie.
Ma chi altro avrebbe meglio potuto formulare una soluzione alla condizione degli oppressi se non i più oppressi, i più emarginati?
Ma è giunta l’ora.

È giunta l’ora che gli attivisti e gli accademici Kurdi smettano di crucciarsi riguardo alla “Questione Kurda” che continua ad andare avanti, una questione apparentemente irrisolvibile. Non siamo una questione da risolvere; non siamo una formula matematica! Siamo una collettività di persone fortemente oppresse la cui ideologia di liberazione ha creato un modello per la nostra comunità e per milioni di altri colonizzati; una soluzione che la modernità capitalista è stata incapace di trovare se non attraverso il genocidio e la pulizia etnica. Se non riusciamo a capire realmente che cosa significhi sminuiamo il portato del nuovo paradigma, che si sta dimostrando il più efficace nell’affrontare 5000 anni di sfruttamento statale e patriarcato.
Non più la Questione Kurda, ma l’Alternativa Kurda deve essere l’oggetto della nostra attenzione.
I Kurdi sono riusciti a individuare la soluzione al problema che non sono mai stati.
La vera questione è quanto il sistema democratico neoliberista, eurocentrico e statocentrico lotterà per non accettare la sua spettacolare sconfitta.”

Andrés Ruggeri, “Le fabbriche recuperate”.

Cover

Andrés Ruggeri, “Le fabbriche recuperate. Dalla Zanon alla RiMaflow. Un’esperienza concreta contro la crisi”, edizioni Alegre, 2014, ISBN 978-88-98841-07-3

Andrés Ruggeri, antropologo presso la facoltà di Lettere e filosofia di Buenos Aires, analizza in questo libro il fenomeno delle imprese recuperate dai/lle lavoratori/trici in Argentina, principalmente a partire dalla crisi economica del 2001 fino ad un paio di anni fa. Abbandonate dai padroni, occupate e rimesse in funzione dai/lle lavoratori/trici in un contesto spesso difficilissimo, le cosiddette fabbriche recuperate in Argentina sono più di 300 e consentono di lavorare a più di 15mila persone: una goccia nel mare dell’economia nazionale, forse, ma secondo l’autore di questo libro un esempio concreto e funzionante di come democrazia di base, mutuo appoggio, autogestione e soddisfacimento dei propri bisogni possano affermarsi anche nei momenti più difficili, in controtendenza rispetto al paradigma capitalista fondato su accumulo del capitale, massimizzazione dei profitti, sfruttamento, precarizzazione, predazione delle risorse e autoritarismo. Ne “Le fabbriche recuperate” vengono analizzati diversi elementi fondamentali, utili a comprendere il fenomeno in questione. Viene illustrato il contesto socio-economico nel quale nascono queste imprese, la loro tipologia, il loro sviluppo negli anni, il ruolo dei sindacati e dei diversi movimenti di lotta ma anche il rapporto spesso difficile o addirittura conflittuale con le istituzioni locali e nazionali, le strategie dei/lle lavoratori/trici e i loro obiettivi, la struttura e l’economia interna delle aziende recuperate ed il loro rapporto con il mercato, il ruolo delle tecnologie. Il tutto senza imbellettare la realtà e senza risparmiare critiche, parlando chiaramente di limiti ed errori, ma sempre sottolineando la genuinità, l’importanza e le potenzialità insite nell’autogestione operaia. Chi peró fosse interessato/a a conoscere meglio le esperienze di autogestione lavorativa in altri Paesi, ad esempio in Italia, dovrà procurarsi altri testi: nel titolo italiano del libro si cita infatti la fabbrica recuperata milanese RiMaflow, ma il libro in questione si concentra quasi esclusivamente sulla realtà argentina. Il che, secondo me, non è un limite e serve anche ad evitare che i contenuti risultino troppo dispersivi, mentre l’analisi di Ruggeri si presenta centrata e sintetica pur offrendo al tempo stesso un quadro generale di solide basi sulle imprese recuperate nel suo Paese e sul movimento, le idee e le forze che hanno permesso che un’aspirazione collettiva divenisse realtà tangibile.

Il fondo del barile.

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Il 17 Aprile si terrà in Italia un referendum che propone l’abrogazione della legge che consente lo sfruttamento illimitato, “a vita”, dei giacimenti petroliferi in zona marina. A prescindere dalla mia opinione sullo strumento referendario, da molti definito una forma di democrazia diretta sancita dalla Costituzione, da me ritenuto invece un contentino distrattivo per chi vorrebbe attivarsi per influenzare le decisioni politiche prese da pochi/e nell’interesse di pochi/e sulla pelle di tutti/e, ritengo interessante condividere alcune informazioni trovate sul blog “Paradisi Artificiali”, che potrebbero aiutare a comprendere meglio su cosa verte la questione delle trivellazioni anche al di là del referendum. A me pare evidente che il governo italiano stia mostrando per l’ennesima volta (banche fallimentari e TAV sono altri due esempi fra i tanti che potrei citare) il proprio volto lobbista e clientelare e stia tentando disperatamente di illudere i/le potenziali elettori/trici sul tema della ripresa economica, sul rilancio del made in Italy, sulla difesa dei posti di lavoro e sull’autosufficienza energetica, insomma stia ancora raschiando il fondo del barile. Di petrolio, stavolta. Pertanto mi prendo la briga di segnalare una riflessione, che considero almeno in buona parte condivisibile, sul tema delle trivellazioni e del referendum, pubblicata su InfoAut. Non solo vi invito alla lettura, ma come sempre ad una riflessione più ampia sui risvolti che presenta il tema in questione, dalla contrapposizione fra occupazione e salvaguardia ambientale al paradigma fallimentare e distopico dello sviluppo infinito dell’economia capitalista, alla scelta delle energie rinnovabili tra limiti,  potenzialità e alternative al nostro attuale stile di vita… Non si tratta di questioni astratte o lontane, ma faccende che ci riguardano tutti/e e con le quali siamo costretti/e a fare i conti, volenti o nolenti, prima che sia davvero troppo tardi.

Cosa vuol dire sconfiggere lo Stato Islamico?

La domanda che mi ronza in testa da tempo è: “come si può sconfiggere lo Stato Islamico?”. A interrogarmi su tale questione non sono solo, infatti ho potuto leggere chilometri di articoli, analisi, interviste e altro ancora tra quanto è stato pubblicato in rete e su carta sull’argomento da due anni a questa parte, non tanto alla ricerca di una risposta definitiva ad un problema oltremodo complesso e in continua evoluzione, quanto nella speranza di poter avere una maggiore comprensione della natura dello Stato Islamico e delle possibili vie percorribili per raggiungere la sua sconfitta. Di certo la volontà di un ritorno ad un passato ideale, quello della comunità di fedeli islamici (umma) del VII secolo o giù di lì, da contrapporre all’islam odierno che i seguaci della branca salafita-jihadista rappresentata dall’IS considerano corrotto, non è nata ieri e non morirà in tempi brevi, se mai morirà. L’IS ha avuto l’astuzia e la perfidia di fomentare conflitti e divisioni di natura etnico-tribale-religiosa già presenti nelle zone nelle quali agisce, compiendo ad esempio, dopo il 2003, attentati in Iraq contro gli sciiti, che si vendicavano sui sunniti spingendo questi ultimi a cercare protezione tra le file dei combattenti di quella che all’epoca si chiamava Jamāʿat al-tawḥīd wa l-jihād, ribattezzata poi “al-Qaeda nel Paese dei due Fiumi”- un sodalizio, quello con al-Qaeda, che dura solo fino al 2006, quando l’organizzazione cambia nuovamente nome in “Mujaheddin del Consiglio della Shura” e, pochi mesi dopo, in “Stato Islamico in Iraq” (al-Dawla al-Islamiyya fi l-‘Iraq, in breve ISI), per divenire nell’Aprile del 2013 al-Dawla al-Islamiyya fi-l-‘Iraq wa-l-Sham, “Stato Islamico in Iraq e Siria (ISIS)” o “Stato Islamico in Iraq e Levante (ISIL)” e infine, con la fondazione del califfato nel Giugno 2014, semplicemente “Stato Islamico” (IS). Considerando solo i continui cambi di nome del gruppo e le diverse alleanze fatte e disfatte nel corso di pochi anni ci si accorge di trovarsi di fronte ad un’organizzazione versatile, che non ha, come al-Qaeda, solo l’obiettivo di un jihad globale, né tantomeno vuole (come ad esempio Hamas) circoscrivere il proprio potere ad un territorio delimitato,  ma ha l’ambizione di impore il proprio potere su tutti i territori da essa controllati militarmente stabilendovi subito la legge islamica (sharia) senza tener conto di confini statali esistenti e differenze di nazionalità: l’idea di Stato di questi personaggi rispetto alla concezione occidentale moderna di Stato-nazione è molto differente e va tenuta sempre presente. Lo Stato Islamico si fa portavoce di un ritorno all’essenza dell’islam e si richiama alla tradizione del califfato abbàside e della discendenza diretta da Maometto del nuovo califfo al-Baghdadi, rifiuta la modernità ma usa gli ultimi ritrovati della tecnologia per propagandare le proprie idee con strategie pubblicitarie degne di un’azienda leader sul mercato, dichiara guerra all’Occidente ma massacra più musulmani/e di chiunque altro, fa proprio il concetto di “scontro delle civiltà” di Samuel Huntington riadattandolo secondo le proprie esigenze. L’IS ostenta la propria crudeltà per intimorire gli avversari e allo stesso tempo applica nei territori sotto il suo controllo misure paternalistiche e caritatevoli atte a tenere a bada il malcontento della popolazione che, più per paura e mancanza di alternative che per convinzione, non sa opporsi efficacemente al potere totalitario del califfato. La forza dello Stato Islamico non si limita solo alla capacità di trarre vantaggi dalle divisioni etnico-religiose (ironia della sorte, uno degli acronimi ufficiosi del gruppo è Daesh, che in arabo significa qualcosa come “portatore di discordia”), ma è anche data dalla propria abilità propagandistica e dalla sua forza economica. Quest’ultima poggia solo in piccola parte su offerte di denaro dall’estero, le entrate principali derivano dal traffico di beni artistici e archeologici e da quello di esseri umani (donne in primis, ridotte a schiave del sesso), dal saccheggio di villaggi e città occupati e dalla rapina (ad es. banca di Mossul), dalle tasse imposte alla popolazione, ma soprattutto dalla vendita di petrolio. Ad essere reclutati per la “guerra santa” sono soprattutto volontari provenienti dall’estero, mercenari a tutti gli effetti.

Un’altro aspetto che gioca a favore dell’IS è la mancanza di unità d’intenti tra i diversi Stati nel trovare una soluzione al conflitto in corso, visto che ciascuna potenza, internazionale o regionale, si impegna a difendere i propri interessi nella regione a scapito di altri Stati e, manco a dirlo, a prescindere dai reali interessi di chi abita la regione nella quale divampa il conflitto: l’Iran (e le milizie hezbollah, sua diretta emanazione in Libano) è legato da decenni alla dittatura della famiglia Assad, lo stesso vale per la Russia, che ha forti interessi economici (come la Cina) e strategici in Siria. La potenze occidentali della NATO sono intenzionate invece a rovesciare il regime di Damasco e in tale ottica hanno foraggiato i gruppi del Libero Esercito Siriano (FSA), tra cui spiccano numerose milizie islamiche, salvo poi bombardare l’IS quando questo ha palesato la propria volontà di conquista a scapito degli interessi occidentali e ha effettuato attacchi terroristici sul territorio europeo e statunitense. La Turchia, pur essendo un Paese NATO, segue invece una propria agenda politica imperialista e, come Arabia Saudita, Kuwait e Qatar, sostiene le fazioni islamiche anti-Assad più che quelle laiche, inoltre impiega le proprie energie principalmente nella repressione anti-curda. I quattro Paesi in questione hanno aiutato in modo più o meno intenso l’IS e continuano tuttora a farlo.

Quali misure sarebbero quindi efficaci per sconfiggere il califfato in Siria e Iraq e il gruppo islamico che lo ha fondato? Serve realmente a qualcosa trattare con Assad, considerato fino a poco tempo fa il problema principale? I Paesi uniti (incollati con lo sputo, direi senza ricorrere a eufemismi) nella lotta contro l’IS dovrebbero inviare truppe di terra o continuare a bombardare? Pensiamo per un attimo agli interessi divergenti tra le potenze in gioco, ai rapporti tra Russia e Turchia, al destino dell’Iraq dopo l’invasione USA nel 2003 (i militari al servizio del dittatore decaduto saddam Hussein, licenziati dagli americani, finirono in gran parte tra le nuove reclute di Jamāʿat al-tawḥīd wa l-jihād, non dimentichiamolo), al fatto che le armi vendute da Paesi europei come la Germania ad Arabia Saudita e Qatar finiscano poi nelle mani dei mercenari del califfato e all’evidenza che i bombardamenti, anche quando non massacrano civili e colpiscono realmente obiettivi militari nemici, non servono a scalfire lo Stato Islamico (due predecessori di Abu Bakr al-Baghdadi, al-Zarqawi e Abu Omar al-Baghdadi, furono uccisi durante attacchi aerei statunitensi)…cosa si potrebbe realisticamente contrapporre alle milizie dello Stato Islamico, ma soprattutto, cosa significa veramente sconfiggere il califfato? Quella dell’IS è una visione del mondo manicheista, come già detto incentrata sullo scontro tra quell’islam definito autentico e il resto del mondo: sconfiggere lo Stato Islamico significa soprattutto sconfiggere questa visione. Alimentare l’odio, la disgregazione sociale e la contrapposizione violenta è fondamentale per creare artificialmente uno scontro di civiltà: rifiutarsi di prestare il fianco a questa logica è un atto di resistenza fondamentale contro i progetti jihadisti. Chi oggi in Europa si batte per l’accoglienza dei profughi, contro l’islamofobia e le logiche delle destre estreme e populiste sta automaticamente rifiutandosi di fare il pieno al serbatoio dello Stato Islamico. Occorrerebbe inoltre provocare diffuse proteste contro l’ipocrisia degli Stati coinvolti per procura nel conflitto, denunciare senza sosta le connivenze, le forniture d’armi, l’acquisto di petrolio, l’apertura mirata delle frontiere per far passare rifornimenti ai miliziani di al-Baghdadi, l’ambiguità e l’inefficacia delle soluzioni militari tanto quanto il fallimento pianificato di quelle diplomatiche. Inoltre ritengo fondamentale l’importanza dell’appoggio a quello che è un progetto politico, sociale ed economico diametralmente contrapposto alla visione del mondo di Daesh, ovvero al “modello Rojava”. In Rojava è in corso una rivoluzione dai tratti libertari che sta cambiando profondamente il volto della regione, una rivoluzione che ha come cardini la parità tra i sessi e tra le diverse etnie e religioni, il benessere collettivo, l’ecologismo, la democrazia di base, l’autogestione, l’antiautoritarismo. Un incubo non solo per l’IS, cacciato dalle milizie popolari volontarie del Rojava da Kobane e da altre città che aveva conquistato o che tentava di conquistare, ma anche per le potenze mondiali che vedono minacciati i propri interessi particolari nella regione da un progetto autonomo, creato dal basso nell’interesse di chi lo vive. La rivoluzione in Rojava avanza nonostante si trovi di fronte a difficoltà non indifferenti di varia natura, ma ha bisogno di tutto l’appoggio possibile, non solo in nome della lotta senza quartiere contro la barbarie di daesh, ma anche per la libertà e l’autodeterminazione di persone- altrimenti destinate ad essere sfruttate, discriminate, oppresse e soggiogate se non direttamente massacrate da poteri locali o esterni- che hanno deciso di alzare la testa e decidere del proprio futuro costruendolo con le proprie mani.

Come e perchè la Turchia supporta l’ISIS.

I movimenti politico-religiosi islamici sono stati usati dalle potenze occidentali in diversi luoghi e occasioni, soprattutto dall’inizio della guerra fredda tra USA e URSS, come diga all’espansione di idee comuniste, socialiste o semplicemente progressiste, come strumento di controllo sociale e politico sulle popolazioni locali e come bacino di reclutamento anche per forze paramilitari e terroristiche. La Turchia in particolare non è nuova a questo genere di cose, in bilico fin dai tempi della fondazione della repubblica ad opera di Kemal Atatürk tra severo laicismo e spinte alla (re)islamizzazione, ha attraversato fasi durante le quali le frange islamiche più radicali sono state foraggiate dai potenti del Paese con il benestare degli USA e della CIA. Tanto gli Hezbollah sono stati impiegati nella guerra contro le popolazioni curde in Turchia accanto ai fascisti del partito MHP, quanto movimenti come quello di Fetullah Gülen (che si presenta come democratico e moderato, ma ad un’analisi attenta si rivela essere uno dei motori della nuova ondata di islamizzazione in Turchia) hanno ricevuto sostegno e legittimazione non solo dal partito di Erdogan, ma anche da autorità politiche e religiose internazionali. Il problema per le potenze occidentali, insomma, nasce solo quando lo strumento, in questo caso il fondamentalismo islamico, sfugge al controllo e/o non adempie più alle funzioni richieste da chi si erge, a volte con troppe pretese, al ruolo di burattinaio. L’articolo che segue, tratto da Z-Net Italy, illustra alcuni aspetti dell’appoggio offerto dal governo dell’AKP di Erdogan all’organizzazione terroristica Daesh (ISIS):

 “Il segreto di Pulcinella della collaborazione tra la Turchia e lo Stato Islamico

rojava

Di Yasin Sunca

29 Novembre 2015

L’espansione del gruppo terrorista denominato Stato Islamico è sostenuto dall’appoggio risoluto della Turchia, insieme ad alcuni altri stati.

Fin dall’inizio della guerra civile in Siria, il governo turco dell’AKP (Partito per la Giustizia e lo Sviluppo)  ha cercato di perseguire una politica estera informata e motivata dalla sua mentalità esclusoria riguardo alle sue comunità etniche e religiose e anche ai gruppi progressisti e rivoluzionari in Turchia. Il governo dell’AKP, allo scopo di reprimere e contrastare qualsiasi  successo politico  dei Curdi che stanno costruendo un progetto politico radical-democratico in Siria, appoggia qualsiasi tipo di gruppo estremista, compresi il gruppo Stato Islamico, il Fronte al-Nusra, ecc.

Il motivo per cui la Turchia appoggia il Gruppo Stato Islamico

La rinascita dell’approccio neo-Ottomano del governo dell’AKP, che fondamentalmente implica il diventare una regione egemone, e oltre alle questioni socio-politiche della Turchia storicamente radicate, ha spinto il  governo verso una politica regressiva strategicamente programmata che alcuni indicano sia sull’orlo del collasso.

Prima della cosiddetta “Primavera Araba”  il primo ministro allora in carica,  Ahmet Davutoğlu, aveva introdotto una nuova, più aggressiva politica estera intesa a dominare la regione. Ma considerando se stesso come il “grande fratello” della regione, l’AKP credeva che la Turchia potesse essere uno stato egemonico per coordinare l’area insieme alle potenze imperialiste occidentali. In base a questo ragionamento, l’AKP ha attuato una politica a due facce. Da una parte, la Turchia è intervenuta nei paesi della regione attraverso una serie di organizzazioni islamiste, che andavano da diversi rami della Fratellanza Musulmana alle organizzazioni estremiste jihadiste, per rimodellare la formazione della regione nel loro migliore interesse,  dal 2007 in poi. D’altra parte, il governo dell’AKP tentava di costruire buoni rapporti con i poteri regionali allo scopo di far avanzare l’influenza economica e culturale della Turchia, che è stata definita come “soft power turco” dall’attuale   primo ministro Davutoğlu, nel suo controverso libro intitolato “Strategic Depth” (Stratejik Derinlik) , “Profondità strategica”. Questa politica del governo dell’AKP è stata  appoggiata dalle potenze imperialiste occidentali fino alla fine del 2012, poiché cercavano un’alternativa all’Islam politico radicale nel paese.

Tuttavia, per prima cosa gli sviluppi in Egitto e in Tunisia nel contesto della cosiddetta “Primavera Araba” e, secondo, la guerra civile in Siria, hanno cambiato moltissimo tutto per l’AKP nella regione e anche nei loro rapporti con le potenze imperialiste, rendendo visibile il loro impegno/collaborazione con le organizzazioni terroriste/jihadiste.

La Turchia ha eccessivamente appoggiato, facilitato e collaborato con vari gruppi jihadisti, compreso lo Stato Islamico, allo scopo di dare forma al futuro della Siria in linea con i suoi interessi. Per ironia, la collaborazione tra la Turchia e lo Stato Islamico è emersa  in parte grazie alla divisione delle potenze occidentali in schieramenti diversi riguardo alla guerra in  Siria. Durante il vertice del G20 tenutosi in Turchia, il presidente russo Vladimir Putin, che non vuole perdere il suo ultimo alleato nella zona del Mediterraneo, cioè Bashar Assad, ha citato circa 40 nazioni che sostengono  Daesh (ISIS), una delle quali, come il mondo ha appreso in seguito, è la Turchia.

Come detto sopra, la questione curda in Turchia è un fattore determinante per la politica estera della Turchia dalla formazione  della repubblica. Perciò la diplomazia turca è stata orientata a impedire categoricamente qualsiasi genere di progresso politico curdo. Questo si può osservare sia nel Kurdistan iracheno in seguito all’invasione statunitense dell’Iraq che nel Rojava (Kurdsitan Occidentale, Siria Settentrionale), dove i Curdi hanno ottenuto l’attenzione internazionale grazie alla loro eroica resistenza seguita da una vittoria storica contro il gruppo Stato Islamico a Kobanê. Dal momento che qualsiasi progresso politico dei Curdi altrove, catalizzerebbe la lotta dei Curdi nel Kurdistan Settentrionale (Turchia Orientale) contro la Turchia, il blocco dei Curdi a livello internazionale è diventata una delle massime priorità per lo stato turco.

A questo riguardo, il primo aspetto della resistenza curda contro lo Stato Islamico di fronte alla collaborazione tra la Turchia e tale gruppo estremista, è che il governo dell’AKP ha fatto una guerra per procura contro i Curdi del Rojava tramite il gruppo terrorista islamista allo scopo di bloccare o almeno di contenere un successo curdo in Siria. Il governo dell’AKP è anche responsabile degli attacchi dello Stato Islamico contro i Curdi e le persone di sinistra in Turchia e di non aver condotto un’effettiva indagine, malgrado tutte le prove. Lo Stato Islamico ha compiuto tre attacchi con le bombe: a Diyarbakir durante una manifestazione elettorale del partito di sinistra filo-curdo HDP; a Suruç, una città sul confine tra Turchia e Siria, e ad Ankara, durante una dimostrazione pacifista.

Il secondo aspetto è che     la resistenza curda nel  Rojava ha smascherato questa sporca collaborazione, specialmente durante la guerra a Kobanê. Infatti, la collaborazione della Turchia con i gruppi jihadisti e il loro utilizzo, specialmente contro i Curdi, non era iniziata con lo Stato Islamico e non era venuta fuori dal nulla. La Turchi l’ha fatto nell’ambito del suo approccio interventista al Medio Oriente che si può far risalire all’inizio del 2011 quando  appoggiava un altro gruppo jihadista, il Fronte Nusra, il ramo siriano di Al-Qaida che non è meno crudele del gruppo Stato Islamico. In seguito a una divisione interna nel Fronte Nusra, questo è stato rimpiazzato dallo Stato Islamico che fin da allora ha continuato a fare attacchi contro la terra curda liberata,  con l’aiuto del governo AKP. La collaborazione tra AKP e lo Stato Islamico continuerà fino a che uno avrà bisogno dell’altro. Ma c’è ora un equilibrio del terrore per la Turchia, creato dalla Turchia. Nel caso che questo paese interrompa la collaborazione con il gruppo Stato Islamico, e alquanto probabile che il gruppo terrorista gli  si rivolterà contro, dal momento che l’unica porta per le sue necessità logistiche è il confine turco.

In che modo la  Turchia appoggia il Gruppo Stato Islamico

La Turchia è in  collaborazione con lo Stato Islamico sia politicamente che ideologicamente e questa si espande in molti canali come è stato elencato in dettaglio

Da David L. Phillips sull’Huffington Post. Lo  Stato Islamico ha servito gli interessi turchi militarmente combattendo i Curdi, mentre il governo dell’AKP facilitava logisticamente e finanziariamente  la campagna omicida dello Stato Islamico. Il governo dell’AKP forniva anche equipaggiamento militare allo Stato Islamico. Tre camion carichi di armi si sono fermati nella regione di Adana il 19 gennaio 2014. Malgrado la smentita del governo, era chiaro che queste armi sarebbero state consegnate allo Stato Islamico. Secondo molti documenti venuti alla luce e in base alla copertura dei media, oltre a questi tre, ci sono stati molti altri camion di armi consegnate allo Stato Islamico, cosa confermata anche da video e foto fatte dai combattenti curdi dell’YPG (Unità di Difesa del Popolo)  e dell’YPJ (Unità di Difesa delle Donne). Inoltre il suolo turco era usato dai Sauditi per il trasporto di armi all’IS.

Il governo dell’AKP ha anche facilitato l’attraversamento del confine per i membri dello Stato islamico di recente reclutati, secondo un documento firmato dal ministro dell’Interno , Muammer Güler il 13 giugno 2014. E’ stato anche affermato dai media internazionali che il governo di Erdoğan  ha chiuso un occhio sulla “entrata per la jihad” attraverso il confine del pese con la Siria. Molti emendamenti ufficiali e domande nel Parlamento della Turchia proposti dai partiti di opposizione per avere una risposta ufficiale del governo riguardo alle facilitazioni per l’attraversamento del confine date ai jihadisti, sono rimaste senza risposta. Tra  molte di queste domande, il Membro del Parlamento del partito filo-curdo HDP, Ibrahim Ayhan, ha chiesto al ministro se il governo forniva rifugio ai membri dello Stato Islamico nel campo profughi di Akçakale.

Il gruppo dei combattenti  dello Stato Islamico, compresi i comandanti di alto rango, hanno ricevuto assistenza medica e sono stati curati negli ospedali delle città di confine della Turchia. Il giornalista turco Fehim Taştekin sostiene che il governo ha permesso l’acquisto e la vendita di petrolio proveniente dal territorio dello Stato Islamico. Inoltre, secondo altre fonti, alcuni dei membri della famiglia del presidente

Erdoğan, sono coinvolti nel commercio del petrolio dello Stato Islamico.

Nel trattare di questo, è fondamentale tenere a mente che un intervento militare internazionale non servirà a nulla se non al rafforzamento dello Stato Islamico e ad analoghi gruppi terroristi. Invece, appoggiare le forze di terra che combattono per la loro terra e per la loro libertà sarebbe del massimo rendimento.

Infine, essere di continuo solidali con l’esperienza unica  radical-democratica nel Rojava, al centro di una regione piena di violenza e di atrocità, è una responsabilità per tutto il globo e il modo migliore per andare avanti.

Yasin Sunca  è un attivista politico curdo e ricercatore indipendente. Seguitelo su Twitter @kurdeditir

Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo”

 

Quando qualcuno esprime un concetto meglio di quanto io possa fare.

Nelle due o tre ore delle le ultime quarantott’ore che ho speso seduto di fronte al computer ho letto numerosi comunicati sugli attentati di Parigi e su ciò che vi ruota intorno. Avevo compilato una lista di comunicati e riflessioni di organizzazioni anarchiche di vari Paesi che pensavo di riproporre su questo spazio virtuale, poi mi sono imbattuto in uno (anzi due) testi pubblicati su un blog che leggo non dico spesso, ma almeno volentieri e ci ho ritrovato un pò quello che mi passa per la testa in questi giorni. Perchè ripetere allora con parole mie gli stessi concetti di fondo, quando qualcuno li ha già espressi peraltro stilisticamente meglio di quanto io possa fare? L’unica rimostranza che avrei da fare sugli articoli, chiamiamoli così, in questione, è che manca il benchè minimo ottimismo sulla capacità di reazione degli esseri umani che potrebbero, dovrebbero opporsi allo stato di cose esistente. Ma sarebbe un ottimismo motivato?

– “Non-elogio della Follia” e “Guerra santissima“, dal blog di Riccardo Venturi.

P.S: C’è un’altra cosa che continua a passarmi per la testa, non da qualche giorno ma da diversi anni, in svariate occasioni. È una citazione tragicamente attualissima attribuita a Benjamin Franklin, che paradossalmente mette in guardia anche da quelli come lui: “Chi rinuncia alla libertà per raggiungere la sicurezza, non merita né la libertá né la sicurezza”.

Terrorismo di Stato in Turchia.

Il 10 Ottobre scorso, durante una manifestazione per la pace dai contenuti antigovernativi indetta ad Ankara, capitale turca, sono esplosi due ordigni che hanno provocato una strage. Secondo le diverse fonti i morti sarebbero tra i 95 e i 128, i feriti tra i 165 e i 500 e più, tutti/e attivisti/e di organizzazioni politiche e sindacali di sinistra e filocurde. Tra i morti ci sono almeno due anarchici. Il governo turco ha accusato immediatamente, parole di Erdogan, “chiunque voglia minare l’unità e la pace nel Paese”, mentre il primo ministro Davutoğlu includeva in una lista di possibili sospetti anche una serie di organizzazioni curde e di estrema sinistra . Come accadde a seguito dell’attentato di Suruc, che costò la vita a 33 attivisti/e di area socialista, comunista e anarchica, il governo turco del partito filoislamico e reazionario AKP incolpa i fondamentalisti islamici dell’ ISIS, ne arresta qualche decina e contemporaneamente provvede a bombardare postazioni del partito dei lavoratori curdo PKK, proprio quando quest’ultimo si era impegnato a sospendere qualsiasi ostilità nei confronti dello Stato turco, anche in vista delle elezioni indette per il prossimo 1 Novembre.

La prima domanda che vien spontaneo porsi in questi casi è: cui prodest? Secondo alcuni opinionisti è improbabile che il governo turco sia il responsabile della strage di Ankara, mentre la tesi maggiormente accreditata è che si tratti di un’attentato ad opera dell’ISIS che intende destabilizare la Turchia colpendo al tempo stesso gli acerrimi nemici curdi. Una certezza è comunque l’appoggio (“moderato”, dicono alcuni) offerto finora dal governo turco alle milizie dell’ISIS: queste ultime, sentendosi abbandonate dopo la dichiarazione di guerra contro di esse, seminerebbero ora il terrore in Turchia. Un’altro aspetto, che va sotto la categoria di responsabilità morale, è la continua persecuzione effettuata dal governo di Ankara a danno della popolazione curda e il rifiuto di trattative diplomatiche con le organizzazioni curde che vorrebbero mettere definitivamente la parola fine ad un sanguinoso capitolo di storia che dura ormai da decenni. Anche il fatto che sulla libertà di riportare notizie che riguardano le indagini sull’attentato sia caduta ancora una volta la mannaia della censura di Stato è un segnale che riconferma il modus operandi autoritario e repressivo di Erdogan e del suo governo, deciso a qualsiasi costo a riconfermarsi alle prossime elezioni senza farsi sorpassare dal partito della sinistra moderata filocurda HDP, il cui leader Selahattin Demirtaş ha esplicitamente accusato il governo di essere responsabile della strage di Ankara. Di sicuro chi s’impegna con zelo a massacrare i/le manifestanti/e antigovernativi per le strade e a torturarli nelle prigioni, a  far crepare i lavoratori in miniera, a sbattere in galera i giornalisti e a massacrare civili curdi inermi radendo al suolo i loro villaggi non ha certo tempo da perdere nel garantire la sicurezza interna del Paese prevenendo attentati terroristici.

“Gli stalker della Libia”.

Fonte: Umanità Nova.

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“Gli stalker della Libia

Da quasi un anno si parla di un nuovo intervento militare in . Periodicamente la questione viene portata alla ribalta dai media ufficiali, occupando il dibattito pubblico per periodi più o meno lunghi. Non più di un mese fa, nel maggio scorso, si è tornati a parlarne, questa volta l’intervento consisterebbe in una missione dell’Unione Europea “per combattere il traffico di esseri umani”. Documenti riservati del Gruppo Politico-Militare e del Consiglio Militare dell’Unione Europea pubblicati da WikiLeaks lo scorso 25 maggio indicavano come possibile inizio delle operazioni militari la fine del mese di giugno. Sullo scorso numero di Umanità Nova è stata analizzata la possibilità di questo tipo di intervento armato1, cerchiamo adesso di inquadrare la questione in un contesto più generale.

Solo negli ultimi mesi si è parlato varie volte di una nuova guerra in Libia.

Ad agosto 2014 mentre le immagini dello Stato Islamico in Iraq saturavano i mezzi di informazione, i giornali in Italia annunciavano un imminente intervento militare in Libia per proteggere i cristiani e per evitare “una deriva somala sull’altra sponda del Mediterraneo”. Intanto si iniziavano a rimpatriare gli italiani dal paese.

A Novembre 2014 il Ministro degli Esteri Gentiloni dichiarava che l’Italia era “pronta ad impegnarsi in prima fila” per inviare truppe in Libia con il mandato dell’ONU perché il paese rappresenta “un interesse vitale per la sua vicinanza, il dramma dei profughi, il rifornimento energetico”2. Nella stessa dichiarazione Gentiloni affermava che l’Italia non si sarebbe rassegnata alla “dissoluzione della Libia”, sottolineando come grazie ai proventi di gas e petrolio – pagati anche da ENI – la banca centrale libica stesse continuando a pagare gli stipendi ai dipendenti pubblici nonostante la grave situazione del paese. Per questo affermava allora il ministro “Saremo parte attiva nell’individuare una transizione politica unitaria cui subordiniamo l’eventualità di una presenza militare di peacekeeping”.

A metà febbraio 2015 i mezzi d’informazione ufficiali italiani danno grande spazio ad un video dello Stato Islamico in cui vengono decapitati 21 egiziani copti e in cui compare la minaccia “Siamo a sud di Roma”, frase ripresa dai titoli dei giornali. Nel giro di pochissimi giorni la situazione sembra precipitare. L’Italia chiude la propria ambasciata a Tripoli, rimpatria il personale diplomatico e i pochi cittadini italiani ancora presenti in Libia. Il governo di Tobruk, “riconosciuto dalla comunità internazionale”, chiede il supporto militare delle potenze mondiali, “altrimenti l’ISIS arriverà in Italia”. Il Ministro della Difesa Roberta Pinotti dichiara che l’italia è pronta a guidare un intervento ONU in Libia mettendo a disposizione forze di terra3. Il governo fa marcia indietro nei giorni immediatamente successivi.

A metà marzo 2015 si torna di nuovo a parlare di intervento in Libia e il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito Danilo Errico dichiara che “l’esercito è pronto per la Libia se Renzi dà il via all’intervento”4.

La notte del 18 aprile 2015 si verifica l’ennesima strage nel Canale di Sicilia, oltre 900 persone risultano morte o disperse nel naufragio dell’imbarcazione con la quale cercavano di raggiungere le coste italiane. Questa strage, causata innanzitutto dalle politiche migratorie dell’UE, è stata utilizzata come pretesto per ritornare a parlare di un intervento militare in Libia. Inizialmente è tornata alla ribalta di un’ipotesi già ventilata nei mesi precedenti, il blocco navale delle acque libiche. L’ipotesi è stata scartata perché un blocco navale costituisce di fatto un atto di guerra, tuttavia la scelta intrapresa dall’UE all’indomani della strage va anch’essa nella direzione della guerra. Infatti al termine del Consiglio Europeo del 23 aprile è stata approvata una dichiarazione in cui si afferma l’impegno a:

– rafforzare la presenza nel Mediterraneo, quindi aumentare le risorse per le operazioni Triton e Poseidon;

– prevenire i flussi illegali, il che significa aumentare il sostegno a quei paesi come Tunisia, Egitto, Sudan, Mali, Niger, a cui di fatto l’UE “appalta” una parte del complesso sistema di controllo delle proprie frontiere. Si parla anche di sviluppare una collaborazione con la Turchia per il controllo dei profughi da Siria e Iraq. È chiaro che queste politiche non fanno che peggiorare le condizioni delle persone che cercano di arrivare in Europa;

– lottare contro i trafficanti, ossia fermare e distruggere le imbarcazioni prima che possano essere utilizzate per le traversate, ma soprattutto iniziare i preparativi per una possibile operazione PSDC (Politica di Sicurezza e Difesa Comune), ossia un’operazione militare UE.

I documenti pubblicati da WikiLeaks sarebbero quindi lo sviluppo di quanto deciso in aprile dal Consiglio Europeo.

Nel maggio 2015 l’intervento militare europeo in Libia per controllare l’immigrazione è entrato nel dibattito pubblico in gran parte dei paesi europei; in partciolare in Italia, dove entra nel vivo proprio in quel periodo la campagna elettorale per le regionali. Il governo italiano però a metà maggio ha smentito ancora una volta la possibilità di un intervento armato in Libia.

Questo inquadramento non è altro che una semplice cronologia, una rassegna stampa incompleta sulle dichiarazioni ufficiali degli ultimi mesi riguardo ad un intervento militare in Libia da parte dell’Italia. Non vuole essere un’analisi politica ma un tentativo di ricostruire brevemente i passaggi degli ultimi mesi per poter avere uno sguardo d’insieme sulla situazione.

È importante capire infatti che la politica portata avanti dal governo italiano in questo contesto non nasce dalla “lotta al traffico di esseri umani”, ma dal tentativo di assicurare gli interessi nazionali in Libia. Gentiloni nel novembre 2014 ha spiegato bene quali fossero questi interessi: il rifornimento energetico e il controllo dell’immigrazione verso l’Italia. Gli interessi che il governo italiano vuole difendere in Libia sono quelli dell’ENI, sono quelli dell’esercito e dell’industria bellica, che da un nuovo intervento militare trarrebbero profitti e garanzie sulla conservazione dei propri privilegi.

Le basi di questa politica sono state gettate nell’ottobre 2013 dall’Operazione Mare Nostrum, con cui l’Italia ha iniziato ad affrontare sul piano del controllo militare la gestione dei movimenti di profughi e migranti.

Il ripetersi nel corso dell’ultimo anno di annunci guerrafondai – seguiti da rapidi passi indietro – da parte del governo italiano non deve farci pensare che il governo non voglia intervenire sul piano militare. È la mancanza di un accordo con le altre potenze in gioco, senza il quale sarebbe impossibile ogni intervento armato italiano, che convince il governo a rinunciare temporaneamente all’intevento militare. Questo perché come si è visto già nel 2011, con la confusione e i contrasti interni alla coalizione che attaccò la Libia, gli interessi spesso contrapposti delle potenze rendono complesso il raggiungimento di un accordo.

La realtà è che in Libia la guerra non è praticamente mai finita dal 2011. La guerra civile in corso vede confrontarsi tre schieramenti, le forze del governo di Tobruk, quelle del governo di Tripoli e quelle sello Stato Islamico. Ma in questi anni le potenze mondiali e regionali sono sempre state presenti, sostenendo in modo più o meno diretto una le fazioni, difendendo i propri interessi economici e mantenendo i propri impianti industriali sul territorio, ma anche intervenendo con raid aerei e blitz di forze speciali, come ad esempio hanno fatto gli USA e l’Egitto.

Le stesse operazioni Mare Nostrum prima e Triton e Poseidon dopo sono già di fatto interventi militari in una guerra in atto.

È chiaro quindi che le storie sul milione di profughi pronto a salpare per l’Italia da un giorno all’altro o sui jihadisti infiltrati sulle imbarcazioni cariche di persone che attraversano il Canale di Sicilia sono solo parte della propaganda che prova a giustificare la guerra.

Nelle ultime settimane è particolarmente evidente l’uso che viene fatto a fini propagandistici dell’immigrazione: dopo una campagna elettorale dai toni violentemente razzisti, nella quale quasi tutti i partiti hanno attaccato la popolazione immigrata, ora il registro è almeno appartentemente cambiato. Il governo critica la mancanza di solidarietà degli altri paesi dell’UE nell’accoglienza dei profughi, mentre i media ufficiali ci mostrano le migliaia di profughi che, tentando di raggiungere altri paesi europei attraverso l’Italia, vengono respinti alle frontiere di Francia, Svizzera e Austria, e costretti a vivere in condizioni tragiche. Ma è il governo stesso ad aver creato ed esasperato questa situazione, per forzare i rapporti con l’Unione Europea e per creare maggiore consenso attorno al governo, creare l’aspettativa di una scelta politica forte e risolutiva, magari appunto una guerra, o forse solo qualche militare in più nelle strade, o magari qualche nuovo lager, pardon “centro di accoglienza”.

La menzogna è sempre alla base della propaganda di guerra, l’esempio più vicino ci viene proprio dall’attacco alla Libia del 2011. Nel 2012, ad un anno dall’attacco, il generale Giuseppe Bernardis, Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica Militare, rivelò che il governo Berlusconi aveva tenuto nascosta la diretta partecipazione dell’aeronautica italiana ai bombardamenti. Infatti mentre Berlusconi dichiarava “non bombarderemo mai la Libia” gli aerei italiani avrebbero effettuato 456 missioni di bombardamento approvate dal Governo. Nel 2011 l’esecutivo avrebbe tenuto nascosto il reale impegno dell’aeronautica italiana per “la situazione critica di politica interna”, ovvero per il timore di perdere consensi, di dover fronteggiare ulteriori contestazioni1.

In questa situazione è importante come anarchici riaffermare l’impegno antimilitrista, senza aspettare che si concretizzi l’intervento militare, anche perché in Libia la guerra non è mai finita.

Così come non è mai finita la guerra nei paesi in cui le truppe d’occupazione italiane sono ancora presenti Così come non è mai finita la guerra interna del governo che con i controlli dei militari nelle strade, con i manganelli della polizia e con le condanne della magistratura impone condizioni di vita e di lavoro sempre peggiori e cerca di intimidire coloro che si ostinano a non chinare la testa e continuano a lottare.

1 vedi “Venti di guerra sulla Libia?”, Umanità Nova n.21 del 14 giugno 2015 – http://www.umanitanova.org/2015/06/10/venti-di-guerra-sulla-libia/

2 http://www.huffingtonpost.it/2014/11/26/libia-gentiloni-italia-prima-fila_n_6224370.html

3 http://www.ilmessaggero.it/PRIMOPIANO/ESTERI/pinotti_missione_onu_libano_italia/notizie/1182496.shtml

4 http://www.corriere.it/esteri/15_marzo_16/esercito-pronto-la-libia-se-renzi-da-via-all-intervento-b6f47546-cc1d-11e4-990c-2fbc94e76fc2.shtml

5 http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-11-29/generale-bernardis-notizie-raid-111455.shtml ”

Elezioni greche, vittoria di Pirro? Un tentativo di analisi.

Il raggruppamento della sinistra (“radicale”, aggettivano in molti) Syriza ha vinto le elezioni politiche in Grecia con la proposta di un programma basato principalmente sull’opposizione alle politiche di austerità imposte al Paese da UE e BCE, sul rilancio del welfare e sull’aumento di salari e pensioni. È possibile che Syriza riesca veramente a mantenere le promesse fatte in campagna elettorale, si chiedono ora in molti? Innanzitutto, per formare un governo il partito di Tsipras dovrebbe appoggiarsi ad un secondo partito, vista la mancanza di due seggi in parlamento necessari per ottenere la maggioranza assoluta, ma a prescindere da ciò le probabilità che in Grecia vi possa essere una netta inversione di tendenza rispetto alle politiche di lacrime e sangue imposte dal capitale europeo è a mio parere remota. Non si tratta qui di speculare su ciò che avverrà nelle prossime settimane, quanto di prendere atto di alcuni dati di fatto dai quali non si può prescindere, pena l’astrazione di qualsiasi ragionamento da un contesto reale. Provo a mettere da parte per un attimo la mia ostilità a partiti, elezioni, governi, istituzioni varie e a vedere la faccenda in modo pragmatico e scarno, considerando come valida la via istituzionale. Partiamo dal presupposto che le proposte fatte da Syriza, pur essendo di stampo riformista, porterebbero sollievo, almeno a breve termine, tra gli stati sociali più deboli della popolazione. Tsipras e i suoi colleghi e simpatizzanti sono in gran parte persone giovani, così come è giovane il loro raggruppamento politico, difficile accusarli di essere attaccati al potere a tutti i costi, altrimenti non avrebbero investito le loro energie in una lista di recente creazione che fino a pochi anni fa raggiungeva risultati elettorali trascurabili, perciò prendiamo per buono il presupposto secondo il quale credono veramente in quel che fanno, non sono corrotti (o almeno non ancora…) e sono intenzionati in buona fede nel voler cambiare le condizioni sociali ed economiche del Paese all’interno del sistema parlamentare, governando. Forse lo sanno anche loro, forse non lo vogliono ammettere nemmeno a se stessi o forse hanno una loro strategia, per quanto improbabile, ma dovranno fare i conti col fatto che chi tiene i cordoni della borsa non lascerà che la Grecia scantoni dal corso di riforme neoliberiste imposte dai creditori del Paese. I capitali si sposteranno altrove, niente investimenti, UE e BCE si faranno sentire a modo loro, non ci saranno i soldi per portare avanti le riforme sociali promesse, per rimettere in piedi lo stato sociale, per aumentare stipendi e pensioni. Possibile che il nuovo governo trovi un modo efficace di finanziare il suo programma tramite altri canali, altri partner commerciali? Lo ritengo improbabile. Ritengo improbabile anche una possibilità di intervento esterno sotto forma di golpe per impedire che la Grecia si renda autonoma dai piani di austerità e di riforme neoliberiste, ma d’altra parte un vero e proprio colpo di stato non è l’unico modo nel quale il potere economico-finanziario riesce ad influenzare la situazione di un Paese: a volte basta il caos creato da disordini interni, un paio di parlamentari di maggioranza che fanno i franchi tiratori, nuove elezioni… in un modo o nell’ altro, magari con l’aiuto di quella polizia che per metà vota l’estrema destra e di quell’esercito o di quei servizi segreti eredi di una tradizione reazionaria (o reazionari per natura, a dirla tutta), qualcosa si combina, magari un nuovo governo “pragmatico” e ben disposto a seguire i diktat della troika… e addio sogni di gloria della sinistra parlamentare!

Un’altro aspetto importante, almeno per me in quanto anarchico (modus “validità della via istituzionale” off!), è quello dei movimenti di lotta. Che fine hanno fatto in Grecia? Sembra che proteste, lotte nelle piazze e organizzazione dal basso nei quartieri, esperimenti autogestionari, scioperi e quant’altro siano andati via via riducendosi, perdendo col tempo vitalità. È solo una mia impressione? E se non lo è, ciò dipende dal fatto che chi porta avanti le lotte è semplicemente esausto, messo in difficoltà dalla repressione o che altro, o forse una parte di queste persone, con l’avvicinarsi delle elezioni, ha iniziato a sperare in una via istituzionale per cambiare la situazione attuale? Sono convinto che questo discorso non riguardi gli/le anarchici/che, non almeno ad un livello numericamente degno di nota, ma questi/e non sono le uniche persone che dovrebbero portare avanti un cambiamento socio-economico radicale, nel quale devono invece venir coinvolti ampi strati della società. Se chi realmente vuole cambiare le cose in Grecia, dal basso e in modo radicale in chiave emancipatoria e antiautoritaria, fosse incappato (o dovesse d’ora in poi incappare) nell’illusione parlamentarista, dovrà fare i conti con una vittoria di Pirro. Vinte le elezioni, formato un governo, investiti tempo, energie, speranze e progettualità in tutto questo, dopo la grande delusione arriverebbe la vera sconfitta e difficilmente rimarrebbero risorse impiegabili a breve termine per riportare la lotta nei luoghi che ad essa realmente competono.