Il populismo e ciò che vi si nasconde dietro.

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Uno spettro si aggira per l’Europa: lo spettro del populismo. Dopo Brexit e Trump presidente degli USA, molti politici, analisti, commentatori, esperti e comuni cittadini sono preoccupati per l’ascesa di movimenti e partiti populisti in tutta Europa, fino a paventarne, in alcuni casi, una possibile presa di potere. Non si può negare che alcuni di questi partiti e movimenti abbiano recentemente raggiunto risultati elettorali importanti, né sarebbe irrealistico ritenere che alcuni di essi possano addirittura arrivare ad ottenere una maggioranza in qualche parlamento nazionale e a formare un governo*. Prima però di chiederci cosa ciò concretamente possa significare, quali cambiamenti potrebbero in tal senso prospettarsi sul piano politico, sociale, economico e culturale di un Paese o di un’unione di Paesi, dovremmo provare a rispondere ad una domanda fondamentale: cosa significa nei fatti il termine populismo?

Un tentativo di definizione del populismo.

Il vocabolario Treccani parla dei Narodniki russi, di Juan Perón, di arte e letteratura e, in mezzo a ciò, fornisce la definizione apparentemente più appropriata, che connota il populismo come “atteggiamento ideologico che, sulla base di principî e programmi genericamente ispirati al socialismo, esalta in modo demagogico e velleitario il popolo come depositario di valori totalmente positivi”. Il populismo emerge specialmente nei momenti di crisi politica o economica, è  caratterizzato dal riferimento centrale, perlopiù retorico, al popolo quale soggetto reale di riferimento della politica, non solo depositario di valori positivi e dotato della capacità istintiva di comprendere quali siano i veri problemi della società e le rispettive soluzioni, ma anche destinatario dei benefici di un governo ideale, ad esso vicino e pertanto attento alle sue esigenze. Oggi il termine “populista”, associato spesso a quello di “demagogo”, viene perlopiù affibbiato a persone o gruppi che attaccano la classe politica accusandola di essere lontana dagli interessi reali del soggetto denominato di volta in volta “popolo”, “cittadini”, “elettori” o “gente”. A loro volta tali persone e gruppi, quando non rifiutano il termine, lo connotano positivamente rivendicando la propria vicinanza nei confronti del popolo e dei suoi interessi. Il populista si fa portavoce di quello che, secondo lui/lei, la maggioranza pensa ma non dice, polarizza ricorrendo a facili schemi in stile “buono/cattivo”, propone argomenti e soluzioni semplificate. Populisti possono essere pertinentemente definiti quei partiti e movimenti dalla connotazione anti-establishment, “antipolitici”, anti-intellettuali, critici nei confronti delle istituzioni transnazionali e della globalizzazione, della corruzione e del malaffare, della classe politica e dei partiti tradizionali.  Per quanto concerne specificamente il populismo di destra, va aggiunta l’opposizione alla società multiculturale e all’immigrazione “incontrollata”. La dicotomia è comunque quella del discorso retorico del “noi qui sotto” contro “loro lá sopra”, dove per “noi” si intendono i comuni cittadini, mentre “loro” sono politici affermati, intellettuali, tecnocrati, vertici amministrativi istituzionali, spesso anche alta finanza. Da notare però che a far ricorso a tale retorica non sono solo esponenti di organizzazioni definite comunemente populiste, ma anche, a seconda delle circostanze, rappresentanti di partiti politici tradizionali , fatti a loro volta bersaglio degli attacchi dei populisti comunemente etichettati come tali. Questo anche perchè il populismo non è di per se un’ideologia come lo sono storicamente, ad esempio, il liberalismo o il socialismo, quanto una modalità di relazionarsi, è innanzitutto un approccio “anti-qualcosa”. Nonostante sia riconoscibile e definibile, è al tempo stesso flessibile, camaleontico. Questa è in parte la sua forza ma anche, probabilmente, la sua principale debolezza in termini di un suo possibile successo.

Caratteristiche specifiche del populismo di destra.

Nella variante di destra del populismo, alcuni elementi ideologici centrali, tipici dei classici partiti dell’estrema destra, vengono modificati in modo da rendere messaggi e programmi più moderni ed accettabili, meno ideologici e al tempo stesso più vicini alle paure ed ai pregiudizi dell’ “uomo qualunque”: ad esempio, ai concetti di razza e nazione si sostituiscono quelli di tradizione, cultura, patria, etnia, mentre il modello di sistema auspicabile non è più quello di una dittatura fascista, piuttosto una trasformazione della democrazia in senso autoritario, etnocentrico ed esclusivo. I movimenti populisti di destra si dicono favorevoli all’uso di strumenti di democrazia diretta (referendum), che vorrebbero usare per legittimare, anche a livello legislativo, norme discriminatorie, così come strumentalizzano i diritti democratici e le conquiste sociali per escludere e criminalizzare quelle minoranze che, al lor dire, minaccerebbero tali diritti: secondo questo ragionamento, per esempio, i musulmani non riconoscerebbero il pluralismo religioso, i diritti LGBT, la parità fra i sessi ecc…, pertanto non sarebbero compatibili con la democrazia e la civiltà occidentale. Ciò non significa che i populisti di destra non siano essi stessi omofobi e transofobi, a favore della famiglia tradizionale o si mostrino aperti nei confronti di tutte le confessioni religiose, semplicemente quelle che sono rivendicazioni o conquiste tipicamente progressiste vengono strumentalizzate in chiave anti-inclusiva. Allo stesso modo, la libertà di espressione sarebbe minacciata dalla cultura del “politicamente corretto” e dalla presunta egemonia culturale della sinistra: il diritto di chiunque a dire ciò che pensa viene usato per rendere normali e accettabili discorsi beceri, xenofobi, intolleranti, ma soprattutto per chiedere a gran voce che la libertà la si tolga a qualcun’altro. Il discorso centrale vede l’identità collettiva della popolazione autoctona minacciata da influenze esterne, siano esse culturali o economiche, laddove per “esterne” si intendono anche quelle provenienti dall’establishment.

Fra i partiti della destra populista esistono sfumature e differenze nel posizionamento su alcuni temi, così come esistono differenze sul modo di etichettarli, considerato che da alcuni commentatori il termine “destra populista” viene usato come sinonimo di “estrema destra”, da altri invece come termine che indica una connotazione politica più moderata.**  Nell’ Europa occidentale diversi partiti della destra estrema, facendo ricorso a strategie e argomenti populisti, hanno ottenuto negli ultimi anni e decenni consistenti risultati elettorali: Front National in Francia, Lega Nord in Italia, PVV in Olanda, FPÖ in Austria, Nuova Democrazia in Svezia, SVP in Svizzera, Partito del Progresso in Danimarca, Veri Finlandesi in Finlandia e altri ancora. Di fronte a cambiamenti culturali, crisi economiche  e questioni cruciali di importanza globale, questi hanno saputo abilmente far leva sulle paure del ceto medio, preoccupato di un peggioramento della propria condizione, così come sul crescente impoverimento della classe lavoratrice e dei suoi membri disoccupati, sul suo risentimento e sui suoi pregiudizi, sulla paura dello sradicamento culturale, sull’inquietudine per il futuro. L’uso di slogan semplificati, i discorsi viscerali, la capacità di dividere settori della popolazione mettendoli gli uni contro gli altri in modo strumentale si sono rivelati metodi efficaci ed hanno portato ad una crescita di consenso nei confronti di queste organizzazioni, capaci di raccogliere i voti di chi in precedenza era astensionista o appoggiava partiti tradizionali, anche a fronte di una crisi della rappresentatività sempre più sentita.

 Obiettivi dichiarati e risultati reali.

Ma, a conti fatti, cosa vogliono ottenere i populisti? A cosa serve veramente il populismo, ad avvicinare la politica alle masse, a far agire un governo in difesa dei reali interessi del comune cittadino, ad affrontare questioni irrisolte sulle quali finora la politica ufficiale ha taciuto o non ha agito in modo efficace? Nella retorica di movimenti e partiti populisti dovrebbe essere proprio così, ma la realtà è diversa, a cominciare dal fatto che le promesse fatte in campagna elettorale sono perlopiù esagerate e a scopo propagandistico, così come il programma teorico di un partito il più delle volte non trova uguale applicazione nei fatti. Ciò vale per le liste elettorali tradizionali così come per quelle nate dal malcontento popolare. Nella retorica del populismo le masse vanno sostanzialmente bene così come sono, non devono prendere coscienza, né emanciparsi. I leaders e “quelli che stanno in alto” le hanno tradite, hanno disatteso le loro aspettative, perciò è tempo di nuovi leaders, magari gente comune estranea all’entourage finora ai vertici. Da un punto di vista prettamente democratico rappresentativo, l’affermarsi di tendenze populiste può portare da un lato a maggior partecipazione e interesse delle masse per la res publica, la cosa pubblica, rafforzando e spingendo le istituzioni a venir maggiormente incontro ad alcune esigenze particolarmente sentite dalla popolazione di un Paese. D’altro canto, può sfociare nell’affermarsi di tendenze spiccatamente autoritarie (nel senso comune del termine così come viene usato nelle democrazie liberali), all’esclusione sociale e alla discriminazione in senso negativo di fette della popolazione, alla chiusura di fronte alle politiche di cooperazione e partecipazione internazionali. Se la seconda ipotesi sembra la peggiore, va fatto notare come, alla fine, pur di inserirsi nei meccanismi della politica dominante, anche i populisti devono ripulirsi un pò, abbassare i toni rinunciando alle componenti più radicali dei loro discorsi. In quanto alla prima ipotesi, è poprio questo il meglio che ci si può aspettare da un certo populismo protestatario***(un caso fra tutti, quello degli indignados in Spagna), le cui rivendicazioni vengono inglobate dall’ideologia dominante allo scopo di rafforzarla, seppellendo qualsiasi aspirazione di rottura col presente, poichè se un movimento o organizzazione populista non scompare presto dalla scena, per affermarsi e durare nel tempo deve adeguarsi alla struttura dominante, non essendo esso realmente interessato a distruggerla per creare qualcosa di radicalmente nuovo. Anche i populisti più beceri fanno comodo, perchè se da un lato vengono attaccati da massmedia e politici affermati, la loro presenza giustifica un voto contro di essi e quindi a favore dei partiti tradizionali…che al tempo stesso non si vergognano di attingere da essi rivendicazioni e punti programmatici! A conti fatti, spesso il populismo funge da valvola di sfogo per poi rientrare nei ranghi, legittimando ancor più il sistema che critica, tutt’al più facendo in modo che cambi qualcosa affinchè tutto rimanga uguale. Non che ci si possa aspettare di meglio da chi concepisce il “popolo” come un blocco omogeneo, virtuoso così com’è, proteso verso un mondo ideale al quale si verrà condotti da nuovi, incorruttibili capipopolo…magari pure a marcia indietro!

A chi non serve il populismo.

C’è chi nella melma populista sguazza quotidianamente, dai massmedia che alimentano la tendenza per poi demonizzarla, ai vertici al potere che la usano a proprio vantaggio. A chi si sente dimenticato dalle istituzioni, vittima vera o presunta delle storture di un sistema che non viene percepito come storto nella sua essenza e totalità, serve una valvola di sfogo. È indubbiamente una bella sensazione quella di essere ascoltati da qualcuno che finge di capirti in maniera convincente e che afferma di portare avanti le tue istanze. Essere parte di una comunità ideale, un tassello di un grande progetto ha una funzione catartica che spesso si esaurisce nelle manifestazioni esteriori senza intaccare la sostanza del pensiero di un individuo che nemmeno si percepisce intimamente come tale. È qui che fa presa la strategia populista. Questo perchè manca la diffusione capillare di coscienza e maturità. Non possiamo aspirare a cambiamenti radicali senza prima cambiare radicalmente le persone. A tutti/e coloro i/le quali non servono identità fittizie e rappresentanti ai vertici di un sistema che agisce contro i nostri reali interessi, non serve nemmeno il populismo. Non serve a chi agisce direttamente per costruire realtà alternative tra le pieghe dell’esistente, né a chi aspira ad una realtà nuova. Agli/lle altri/e, rimarrà sempre la speranza disattesa di poter migliorare qualcosa affidandosi all’imbonitore di turno, finendo per essere pedine in un gioco che non si sono nemmeno realmente sforzati/e di comprendere.

 

*In Grecia è attualmente al governo un raggruppamento, SYRIZA, considerato da diversi commentatori populista (di sinistra).

**Per quanto mi riguarda considero valida, in termini generali, l’opinione del sociologo ed esperto di estrema destra Alexander Häusler, che definisce il populismo di destra come un “metodo stilistico della modernizzazione” dell’estrema destra.

***Il politologo Pierre-André Taguieff fa una distinzione analitica tra “populismo di protesta” e “populismo dell’identità”, laddove quest’ultimo radicalizza ed essenzializza il concetto di appartenenza ad un’identità comune (etnica, nazionale, culturale…) ritenuta migliore in contrappposizione a ciò che viene definito estraneo, “altro”. In alcuni casi queste due modalità di populismo si sovrappongono.

È sempre colpa dei rom…

Circa un mese fa mi sono imbattuto per caso in un’articolo molto interessante scritto da Carlo Gubitosa per l’Espresso. Solo oggi, essendomi finora mancato il tempo, riesco a riproporne il link su questo blog, ma a pensarci bene la mia intempestività risulta opportuna, un pò perchè ormai per le elezioni comunali a Roma i giochi sono fatti, ma soprattutto perchè quel che scrive Gubitosa è sempre valido anche a distanza di un mese e purtroppo temo che lo sarà anche a distanza di anni e proprio per questo va tenuto sempre presente e va ripetuto a voce alta in faccia a tutti i populisti, ignoranti e razzisti. Per sforzarsi di capire al di là dei pregiudizi, per dare voce a chi altrimenti resta solo un capro espiatorio, un sacco da boxe preso a cazzotti dai frustrati menati per il naso da opportunisti d’ogni risma, incapaci di individuare le cause reali della propria e dell’altrui sofferenza.

I diritti agli italiani, i doveri ai Rom: Virginia Raggi, antiziganista a sua insaputa”, di Carlo Gubitosa.

Elezioni greche, vittoria di Pirro? Un tentativo di analisi.

Il raggruppamento della sinistra (“radicale”, aggettivano in molti) Syriza ha vinto le elezioni politiche in Grecia con la proposta di un programma basato principalmente sull’opposizione alle politiche di austerità imposte al Paese da UE e BCE, sul rilancio del welfare e sull’aumento di salari e pensioni. È possibile che Syriza riesca veramente a mantenere le promesse fatte in campagna elettorale, si chiedono ora in molti? Innanzitutto, per formare un governo il partito di Tsipras dovrebbe appoggiarsi ad un secondo partito, vista la mancanza di due seggi in parlamento necessari per ottenere la maggioranza assoluta, ma a prescindere da ciò le probabilità che in Grecia vi possa essere una netta inversione di tendenza rispetto alle politiche di lacrime e sangue imposte dal capitale europeo è a mio parere remota. Non si tratta qui di speculare su ciò che avverrà nelle prossime settimane, quanto di prendere atto di alcuni dati di fatto dai quali non si può prescindere, pena l’astrazione di qualsiasi ragionamento da un contesto reale. Provo a mettere da parte per un attimo la mia ostilità a partiti, elezioni, governi, istituzioni varie e a vedere la faccenda in modo pragmatico e scarno, considerando come valida la via istituzionale. Partiamo dal presupposto che le proposte fatte da Syriza, pur essendo di stampo riformista, porterebbero sollievo, almeno a breve termine, tra gli stati sociali più deboli della popolazione. Tsipras e i suoi colleghi e simpatizzanti sono in gran parte persone giovani, così come è giovane il loro raggruppamento politico, difficile accusarli di essere attaccati al potere a tutti i costi, altrimenti non avrebbero investito le loro energie in una lista di recente creazione che fino a pochi anni fa raggiungeva risultati elettorali trascurabili, perciò prendiamo per buono il presupposto secondo il quale credono veramente in quel che fanno, non sono corrotti (o almeno non ancora…) e sono intenzionati in buona fede nel voler cambiare le condizioni sociali ed economiche del Paese all’interno del sistema parlamentare, governando. Forse lo sanno anche loro, forse non lo vogliono ammettere nemmeno a se stessi o forse hanno una loro strategia, per quanto improbabile, ma dovranno fare i conti col fatto che chi tiene i cordoni della borsa non lascerà che la Grecia scantoni dal corso di riforme neoliberiste imposte dai creditori del Paese. I capitali si sposteranno altrove, niente investimenti, UE e BCE si faranno sentire a modo loro, non ci saranno i soldi per portare avanti le riforme sociali promesse, per rimettere in piedi lo stato sociale, per aumentare stipendi e pensioni. Possibile che il nuovo governo trovi un modo efficace di finanziare il suo programma tramite altri canali, altri partner commerciali? Lo ritengo improbabile. Ritengo improbabile anche una possibilità di intervento esterno sotto forma di golpe per impedire che la Grecia si renda autonoma dai piani di austerità e di riforme neoliberiste, ma d’altra parte un vero e proprio colpo di stato non è l’unico modo nel quale il potere economico-finanziario riesce ad influenzare la situazione di un Paese: a volte basta il caos creato da disordini interni, un paio di parlamentari di maggioranza che fanno i franchi tiratori, nuove elezioni… in un modo o nell’ altro, magari con l’aiuto di quella polizia che per metà vota l’estrema destra e di quell’esercito o di quei servizi segreti eredi di una tradizione reazionaria (o reazionari per natura, a dirla tutta), qualcosa si combina, magari un nuovo governo “pragmatico” e ben disposto a seguire i diktat della troika… e addio sogni di gloria della sinistra parlamentare!

Un’altro aspetto importante, almeno per me in quanto anarchico (modus “validità della via istituzionale” off!), è quello dei movimenti di lotta. Che fine hanno fatto in Grecia? Sembra che proteste, lotte nelle piazze e organizzazione dal basso nei quartieri, esperimenti autogestionari, scioperi e quant’altro siano andati via via riducendosi, perdendo col tempo vitalità. È solo una mia impressione? E se non lo è, ciò dipende dal fatto che chi porta avanti le lotte è semplicemente esausto, messo in difficoltà dalla repressione o che altro, o forse una parte di queste persone, con l’avvicinarsi delle elezioni, ha iniziato a sperare in una via istituzionale per cambiare la situazione attuale? Sono convinto che questo discorso non riguardi gli/le anarchici/che, non almeno ad un livello numericamente degno di nota, ma questi/e non sono le uniche persone che dovrebbero portare avanti un cambiamento socio-economico radicale, nel quale devono invece venir coinvolti ampi strati della società. Se chi realmente vuole cambiare le cose in Grecia, dal basso e in modo radicale in chiave emancipatoria e antiautoritaria, fosse incappato (o dovesse d’ora in poi incappare) nell’illusione parlamentarista, dovrà fare i conti con una vittoria di Pirro. Vinte le elezioni, formato un governo, investiti tempo, energie, speranze e progettualità in tutto questo, dopo la grande delusione arriverebbe la vera sconfitta e difficilmente rimarrebbero risorse impiegabili a breve termine per riportare la lotta nei luoghi che ad essa realmente competono.

 

“Francia- I Rom, capri espiatori ad uso dei politici”.

Fonte: Anarkismo.

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” I Rom, capri espiatori ad uso dei politici


La campagna per le elezioni amministrative è iniziata ed i politici fanno a gara a fare leva sul razzismo.

Per due ragioni: la prima è che secondo loro è ciò che l’elettorato vuole sentirsi dire, e la seconda è che mentre i media non fanno che parlare di questo, la gente non bada alla disoccupazione, alla povertà ed alla distribuzione della ricchezza.

Una settimana la campagna razzista colpisce i musulmani e quella dopo tocca ai Rom.

In Francia ci sono circa 20.000 Rom provenienti dall’Europa dell’Est. L’Unione Europea ha creato un regolamento speciale per i Rom: hanno il diritto di stare ma non quello di lavorare. Niente reddito, niente casa, migrazioni di gruppo… ed ecco disposte le condizioni per la creazione delle baraccopoli di cui i politici ed i media parlano così tanto.

Nel frattempo, crescono le menzogne. L’estrema destra, per bocca del suo portavoce Manuel Valls, dice che i Rom sono destinati a far ritorno nel loro paese di origine oppure che non si vogliono integrare, fatto salvo per pochissime famiglie.

Logicamente, dato che Valls suona la musica che piace al governo su questi temi, sono aumentati gli sgomberi massicci dai campi e dalle baraccopoli: nel 2012, sono state sgomberate più di 11.000 persone da luogo in cui vivevano; nei primi sei mesi del 2013, la cifra è superiore a 10mila. E durante l’estate altre 3.700 persone hanno perso le loro case, che sebbene precarie sono pur esistenti.

Non facciamoci prendere in giro e non facciamoci distrarre. I nemici sono sempre le banche, i capitalisti ed i governi e non i poveri di ogni dove!

Alternative Libertaire

26 Settembre 2013 Traduzione a cura di FdCA – Ufficio Relazioni Internazionali. “

(Ancora) sull’astensionismo elettorale: botta e risposta.

Ho deciso di elencare alcune delle obiezioni che vengono rivolte più spesso nei confronti di chi afferma di non voler votare, corredate da quelle che sarebbero le mie risposte se tali obiezioni venissero rivolte a me personalmente- cosa che a volte è avvenuta…

-“Se non voti lasci che altri decidano chi ti deve governare”. Se invece andassi a votare eleggerei persone che in gran parte non rispettano il programma elettorale proposto agli/lle elettori/trici e che comunque non mi consultano prima di prendere decisioni, o meglio prima di ratificare decisioni prese altrove, insomma deciderei proprio che siano gli altri a governarmi senza nemmeno sapere fino in fondo chi sono questi “altri”. Inoltre se votassi non è detto che i delegati da me votati (nel caso vengano eletti!) riuscirebbero a far parte di un governo o perlomeno a influenzare le decisioni prese dal governo del quale non fanno parte. Se poi dovessero veramente formare un governo mostrerebbero il loro vero volto di burocrati aserviti alle esigenze del sistema economico. La democrazia rappresentativa è in teoria, tra le altre cose, una dittatura della maggioranza- nei fatti rappresenta solo un paravento per l’oligarchia che in realtà ci domina e decide per noi.

“Non votare non serve a cambiare le cose, col voto si può almeno provare”. Quante volte abbiamo/avete provato a cambiare le cose col voto? A cosa è servito? Solo a legittimare il potere delle istituzioni e le loro scelte che vanno in direzione opposta ai nostri interessi! Per cambiare qualcosa si deve agire in prima persona, non delegare ad altri il cambiamento. È chiaro che astenersi dal votare senza fare altro non serve, si deve andare oltre agendo in prima persona, proponendo in concreto alternative al sistema vigente e fornendo risposte pratiche alle nostre esigenze, cosa che i politicanti rinchiusi nei palazzi del potere mai hanno fatto né mai faranno.

“I nostri avi/ i partigiani sono morti perchè noi potessimo vivere in un sistema democratico. Votare significa anche onorare il loro sacrificio”. I nostri avi sono morti in tanti modi e per tanti motivi diversi. Molti sono morti sul lavoro, oppure di miseria e stenti o si sono suicidati perchè non avevano speranza nel futuro, altri sono stati uccisi dalla repressione e dalle galere, molti sono morti in guerre volute dai vari governanti degli Stati nei quali vivevano. Usare genericamente i morti per propagandare la scelta del voto mi sembra una cosa miserabile. In quanto ai partigiani, anch’essi erano tra loro diversi ed hanno combattuto per la liberazione dell’Italia dall’occupazione nazifascista portando avanti istanze diverse. C’erano repubblicani e monarchici, liberali e democristiani che volevano una (pseudo)democrazia in stile occidentale forzatamente condizionata dagli interessi statunitensi e comunisti che spesso si battevano per un regime su modello di quello sovietico, ma anche opportunisti che non disdegnavano un modello di governo autoritario solo in parte diverso dal fascismo che non avrebbe avuto bisogno nei fatti di conferme elettorali da parte del popolo e che si erano rivoltati contro il fascismo di Mussolini solo quando la guerra aveva preso una brutta piega. I partigiani che rappresentarono valori ai quali io mi sento vicino sono quelli che combatterono contro il nazifascismo ma che non accettarono l’occupazione americana, che sognavano una società libera senza sfruttati né sfruttatori e che non avevano certo rischiato o addirittura perduto le loro vite per una qualsiasi democrazia rappresentativa puramente simbolica con tutte le sue ipocrite costituzioni, istituzioni e autorità.

– “Il voto è servito a ottenere diritti civili e conquiste progressiste… Il diritto di voto stesso è una conquista civile!”. Le conquiste di diritti, per quanto parziali e pur sempre revocabili (revocabili da chi? Ma da governi “democraticamente” eletti!), sono state ottenute con lotte dure nei posti di lavoro, nelle scuole, per le strade, nella cosiddetta società insomma. Il parlamento le ha tutt’al più trasformate in leggi, smorzandone le reali potenzialità emancipatorie. Attraverso il processo di istituzionalizzazione delle rivendicazioni emancipatorie, queste perdono la loro carica rivoluzionaria e vengono integrate in un ambito comodo al sistema, ambito che contempla ovviamente anche il tanto decantato diritto di voto che serve in fondo solo a legittimare i governi nelle loro scelte nefaste ed antipopolari e può far esclamare ai governanti “se sto qui è perchè la maggioranza degli/lle elettori/trici mi ha votato!”.

– “La peggiore delle democrazie è pur sempre meglio della migliore delle dittature”. A ben guardare l’unica differenza è che almeno in una dittatura i sudditi hanno ben chiara la natura del sistema nel quale vivono e non vengono presi in giro dicendogli che godono della libertà di scelta e che il potere è nelle loro mani. Oltretutto non è raro che i confini tra dittature e governi cosiddetti democratici siano piuttosto sfumati e si basino su dettagli di forma. La scelta del meno peggio porta sempre al peggio e ci porta pure ad accettarlo, “non si sa mai, potrebbe andare peggio!”…che tristezza!

– “Se non vai a votare alcuni candidati verranno eletti lo stesso e un governo verrà formato, con o senza il tuo consenso. In più le schede nulle o bianche vengono conteggiate come premio di maggioranza per la coalizione vincitrice, in pratica se non voti regolarmente fai un favore al partito/coalizione che prende più voti”. Questa affermazione mostra implicitamente che il mio voto in pratica non vale una sega. Va da sè che governi vengono comunque formati senza il mio consenso. Per quanto riguarda l’annoso problema del “come astenersi”, devo ammettere di non sapere esattamente quale sia il più efficace. Esistono diatribe infinite sul web tra chi sostiene la tesi dei voti nulli distribuiti come premio di maggioranza e chi dice che ciò non sia vero, c’é chi cita leggi e chi con leggi controbatte, mentre c’é chi informa su come rendere ufficiale la propria astensione rifiutando la scheda presso il seggio- anche qui discussioni infinite sull’efficacia e sulla fattibilità di questo metodo. Personalmente, da quando ho deciso di non votare, non ho proprio messo piede in un seggio elettorale, ma a questo giro m’hanno spedito direttamente a casa il kit del “perfetto cittadino che fa il suo dirittodovere” con annessi certificato elettorale, schede e busta preaffrancata per rispedire il tutto, visto che secondo la legge sarei un cittadino italiano residente all’estero. Non ho ancora deciso se smaltire il tutto nel bidone della spazzatura previo stracciamento o se rispedire al mittente la scheda dopo averci scritto sopra qualcosa di più significativo di tutte le obiezioni all’astensionismo che ho sentito finora. Una frase breve ma molto significativa ce l’ho già in mente: “I MIEI SOGNI NON ENTRERANNO MAI IN UN’ URNA ELETTORALE”.

Il voto, il vuoto.

La parola “democrazia” significa letteralmente “potere del popolo”. In una democrazia rappresentativa il popolo ha però ben poco potere, ovvero esercita questo potere andando a votare dei rappresenti nelle forme e nei tempo stabiliti dalla legge- legge che, a sua volta, non viene discussa e decisa in modo diretto dal popolo stesso, ma dai suoi rappresentanti.

In una società divisa in classi il potere politico è subordinato a quello economico, perciò i rappresentanti eletti dal popolo stesso fanno inevitabilmente quelli che molti definiscono “gli interessi della Nazione o del Paese”, il che sta a significare gli interessi della classe dominante. Le decisioni che riguardano tutti/e i/le cittadini/e (e non solo) di un Paese spesso non vengono nemmeno prese in parlamento, lì vengono solo ratificate: sono già state decise in cerchie ristrette di persone che detengono il potere economico.

In una democrazia rappresentativa gli eletti dal popolo non possono venir controllati né rimossi dalle loro cariche quando non rispettano il loro mandato (cioè quando non rappresentano più nei fatti chi li ha eletti,quando non si fanno più realmente portavoce delle istanze del popolo), inoltre godono di poteri e privilegi superiori a quelli degli/lle elettori/trici stessi/e.

Quando le decisioni vengono prese in cerchie ristrette di persone che hanno a cuore principalmente la difesa del sistema dominante e dei loro privilegi di categoria/classe/casta, i cittadini vengono automaticamente esclusi dalla partecipazione attiva alle discussioni ed al processo decisionale. Rinchiusi nei palazzi del potere, i politici decidono, o meglio come già detto ratificano decisioni spesso prese altrove, senza consultare il popolo, dicendo di fare il suo interesse senza nemmeno sapere quali siano le sue esigenze o ignorando tali esigenze per poi sbandierarle facendo promesse mai mantenute solo durante le campagne elettorali, quando hanno bisogno della delega del popolo per poter salire al governo.

Anche le persone meglio intenzionate, una volta entrate al far parte della ristretta cerchia dei cosiddetti rappresentanti del popolo, finiscono poi per giocare secondo le regole del sistema senza potersi sottrarre alle sue esigenze, senza poter superare i confini che ne garantiscono la perpetuazione e la sopravvivenza. Il popolo compie un vero e proprio suicidio quando concentra il potere in mani altrui, illudendosi di avere il controllo su rappresentanti per nulla rappresentativi solo perchè andrà a votare alle prossime elezioni scegliendo altri rappresentanti se quelli in carica non dovessero rivelarsi adeguati al ruolo, mentre i governi che si succedono nel tempo non fanno altro che rafforzare il potere costituito, senza eccezioni.

Votare in una democrazia rappresentativa non significa fare qualcosa, bensì delegare qualcuno a fare qualcosa per noi senza poi poter determinare o anche solo controllare veramente che la faccia. Quel qualcuno che eleggiamo a rappresentarci nella stragrande maggioranza dei casi non ci conosce, non sa esattamente quali siano le nostre reali esigenze, i nostri princìpi, ma anche se lo sapesse non se ne curerebbe…o non potrebbe farlo, vincolato com’è a regole e meccanismi che non lo permettono nel concreto.

Ma perchè si va a votare? Sempre più potenziali elettori/trici sono delusi e demotivati, addirittura nauseati dalla corruzione, dal malaffare e dai continui scandali che coinvolgono a diversi livelli i vari amministratori della cosa pubblica, eppure non vanno oltre la critica superficiale nei confronti dei “politici ladri”, non rendendosi conto che il problema di fondo è proprio il sistema della democrazia rappresentativa, che esclude la popolazione dal processo decisionale facendo sì che le diseguaglianze, lo sfruttamento e l’esclusione sociale subite da sempre più persone vengano perpetuate a beneficio di pochi, affinchè il sistema si perpetui… all’infinito? Spetta a noi mettere la parola fine a tutto ciò. Il rifiuto della delega in questo sistema che non ci rappresenta è solo il primo passo di un percorso sicuramente lungo e complesso, ma che vale la pena di intraprendere. Rifiutarsi semplicemente di legittimare il sistema attraverso il voto non è sufficiente, ma è il primo passo di un percorso emancipatorio.

Qualcosa sulla Grecia.

Della Grecia abbiamo sentito parlare recentemente sui principali organi di “informazione” per due motivi principali: i campionati europei di calcio e le elezioni per il rinnovo del parlamento nazionale. Entrambe gli argomenti hanno a mio parere la stessa importanza, con la differenza che almeno il calcio, nonostante tutte le magagne, rimane pur sempre un’entusiasmante forma di intrattenimento. Il discorso sulle elezioni greche ci è stato presentato dalla stampa di pensierounicolandia come una battaglia tra sostenitori vs. affossatori dell’Euro e delle misure di austerità per uscire dalla crisi economica, ma in realtà le differenze tra le posizioni della coalizione di sinistra SYRIZA (che non é esatto definire “radicale” perché nulla di radicale sta in parlamento o ambisce a starci) e quelle dei socialdemocratici del PASOK e dei liberal-conservatori di Nea Dimokratia non sono sulla permanenza nell’ Euro o sull’accettazione o meno del memorandum dell’austerità, quanto sulle condizioni di tale permanenza e su possibili alleggerimenti di tali misure. Il mio sottovalutare l’importanza delle elezioni non é una posizione isolata, tant’é che proprio molti dei/lle diretti/e interessati/e aventi diritto al voto in Grecia decisero di astenersi: il 40%, astensione record -e i record sono fatti per essere battuti…

Ora, più che interessarmi di quale forza politica avrà l’onere o l’onore di mettere in pratica direttive di massacro sociale decise dall’èlite economica dominante, mi chiedo come la cosiddetta crisi economica (in realtà crisi di tutto un modello socioeconomico dato per vincente e inamovibile dagli esperti pagati per convincerci che tanto non serve a nulla ribellarsi perché nulla si può cambiare e viviamo nel migliore dei mondi possibili) vada a ripercuotersi sul tessuto sociale greco e quali siano le contromisure adottate da chi mette in pratica i principi anarchici e antiautoritari, ma anche semplicemente da chi tenta di sopravvivere in un contesto come quello dell’attuale crisi. Ho quindi letto col passare del tempo un certo numero di articoli e testimonianze e visto qualche documentario o videoinchiesta che dir si voglia, ottenendo un approssimativo quadro della situazione che, se da un lato risulta allarmante e sconfortante, dall’altro conferma quello che gli/le anarchici/che vanno dicendo (e possibilmente facendo) da sempre. Da un lato cresce il numero dei disoccupati, aziende e piccole imprese meno competitive falliscono, c’é chi si suicida e c’é chi emigra, aumentano i consensi non solo elettorali nei confronti di partiti fascisti e xenofobi -lampante è l’esempio del movimento neonazista Chrysi Avgi- i cui militanti usano la violenza nelle strade, spesso con la complicità passiva o attiva delle forze dell’ordine, per terrorizzare e colpire fisicamente immigrati, omosessuali, emarginati e persone politicamente “non gradite”. A questo quadro di disperazione, rassegnazione e accanimento su capri espiatori con conseguenti guerre tra poveri, degno dei più realistici romanzi distopici, fa da contraltare la tenacia di chi non solo si sforza quotidianamente di sopravvivere, ma tenta anche di autogestire la propria vita al di là delle regole e dei ritmi imposti dalle politiche di austerità. Nascono cooperative di produzione e consumo diretto, scambi di prodotti e servizi su base di accordi volontari senza l’uso del denaro, mense popolari, nuove situazioni di aggregazione e socialità non commerciali. A fronte della disastrosa situazione del sistema sanitario i lavoratori ospedalieri occupano le strutture di cura; non solo per sfuggire alla disoccupazione, ma per divenire padroni del proprio lavoro, gli operai occupano le fabbriche che i padroni dichiarano fallite; quelli del “movimento di solidarietà, disobbedienza e resistenza” ALANYA dirottano il traffico automobilistico evitando di farlo passare per i caselli autostradali a pagamento; laddove la corrente elettrica é stata tagliata per punire chi non é in grado di pagarla, i collegamenti vengono ripristinati dagli utenti; le obliteratrici su tram e autobus vengono messe fuori uso consentendo alla gente di poter viaggiare gratis. Accanto a questi ed altri innumerevoli esempi vi é la resistenza quotidiana alle prepotenze e violenze poliziesche e fasciste, la solidarietá con gli immigrati e gli emarginati, la difesa degli spazi occupati e autogestiti minacciati di continuo con sgomberi ed arresti degli occupanti.

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C’é da chiedersi quale piega prenderanno col passare del tempo gli eventi, come si svilupperanno le lotte e le pratiche di autogestione, se prevarranno la disperazione e la rassegnazione ad una vita di stenti e sacrifici inutili o la voglia di lottare per riappropriarsi della propria dignitá e felicità, se le svolte ancor più autoritarie che si profilano all’orizzonte avranno o meno la meglio sul desiderio di libertà e sulla volontá di molti di scrollarsi di dosso il peso di un sistema parassitario dagli effetti intollerabili. La storia non é finita e le sue pagine vengono scritte quotidianamente, il cammino é lungo e riguarda tutti noi, abitanti o meno di quel territorio geografico chiamato Grecia.