Il populismo e ciò che vi si nasconde dietro.

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Uno spettro si aggira per l’Europa: lo spettro del populismo. Dopo Brexit e Trump presidente degli USA, molti politici, analisti, commentatori, esperti e comuni cittadini sono preoccupati per l’ascesa di movimenti e partiti populisti in tutta Europa, fino a paventarne, in alcuni casi, una possibile presa di potere. Non si può negare che alcuni di questi partiti e movimenti abbiano recentemente raggiunto risultati elettorali importanti, né sarebbe irrealistico ritenere che alcuni di essi possano addirittura arrivare ad ottenere una maggioranza in qualche parlamento nazionale e a formare un governo*. Prima però di chiederci cosa ciò concretamente possa significare, quali cambiamenti potrebbero in tal senso prospettarsi sul piano politico, sociale, economico e culturale di un Paese o di un’unione di Paesi, dovremmo provare a rispondere ad una domanda fondamentale: cosa significa nei fatti il termine populismo?

Un tentativo di definizione del populismo.

Il vocabolario Treccani parla dei Narodniki russi, di Juan Perón, di arte e letteratura e, in mezzo a ciò, fornisce la definizione apparentemente più appropriata, che connota il populismo come “atteggiamento ideologico che, sulla base di principî e programmi genericamente ispirati al socialismo, esalta in modo demagogico e velleitario il popolo come depositario di valori totalmente positivi”. Il populismo emerge specialmente nei momenti di crisi politica o economica, è  caratterizzato dal riferimento centrale, perlopiù retorico, al popolo quale soggetto reale di riferimento della politica, non solo depositario di valori positivi e dotato della capacità istintiva di comprendere quali siano i veri problemi della società e le rispettive soluzioni, ma anche destinatario dei benefici di un governo ideale, ad esso vicino e pertanto attento alle sue esigenze. Oggi il termine “populista”, associato spesso a quello di “demagogo”, viene perlopiù affibbiato a persone o gruppi che attaccano la classe politica accusandola di essere lontana dagli interessi reali del soggetto denominato di volta in volta “popolo”, “cittadini”, “elettori” o “gente”. A loro volta tali persone e gruppi, quando non rifiutano il termine, lo connotano positivamente rivendicando la propria vicinanza nei confronti del popolo e dei suoi interessi. Il populista si fa portavoce di quello che, secondo lui/lei, la maggioranza pensa ma non dice, polarizza ricorrendo a facili schemi in stile “buono/cattivo”, propone argomenti e soluzioni semplificate. Populisti possono essere pertinentemente definiti quei partiti e movimenti dalla connotazione anti-establishment, “antipolitici”, anti-intellettuali, critici nei confronti delle istituzioni transnazionali e della globalizzazione, della corruzione e del malaffare, della classe politica e dei partiti tradizionali.  Per quanto concerne specificamente il populismo di destra, va aggiunta l’opposizione alla società multiculturale e all’immigrazione “incontrollata”. La dicotomia è comunque quella del discorso retorico del “noi qui sotto” contro “loro lá sopra”, dove per “noi” si intendono i comuni cittadini, mentre “loro” sono politici affermati, intellettuali, tecnocrati, vertici amministrativi istituzionali, spesso anche alta finanza. Da notare però che a far ricorso a tale retorica non sono solo esponenti di organizzazioni definite comunemente populiste, ma anche, a seconda delle circostanze, rappresentanti di partiti politici tradizionali , fatti a loro volta bersaglio degli attacchi dei populisti comunemente etichettati come tali. Questo anche perchè il populismo non è di per se un’ideologia come lo sono storicamente, ad esempio, il liberalismo o il socialismo, quanto una modalità di relazionarsi, è innanzitutto un approccio “anti-qualcosa”. Nonostante sia riconoscibile e definibile, è al tempo stesso flessibile, camaleontico. Questa è in parte la sua forza ma anche, probabilmente, la sua principale debolezza in termini di un suo possibile successo.

Caratteristiche specifiche del populismo di destra.

Nella variante di destra del populismo, alcuni elementi ideologici centrali, tipici dei classici partiti dell’estrema destra, vengono modificati in modo da rendere messaggi e programmi più moderni ed accettabili, meno ideologici e al tempo stesso più vicini alle paure ed ai pregiudizi dell’ “uomo qualunque”: ad esempio, ai concetti di razza e nazione si sostituiscono quelli di tradizione, cultura, patria, etnia, mentre il modello di sistema auspicabile non è più quello di una dittatura fascista, piuttosto una trasformazione della democrazia in senso autoritario, etnocentrico ed esclusivo. I movimenti populisti di destra si dicono favorevoli all’uso di strumenti di democrazia diretta (referendum), che vorrebbero usare per legittimare, anche a livello legislativo, norme discriminatorie, così come strumentalizzano i diritti democratici e le conquiste sociali per escludere e criminalizzare quelle minoranze che, al lor dire, minaccerebbero tali diritti: secondo questo ragionamento, per esempio, i musulmani non riconoscerebbero il pluralismo religioso, i diritti LGBT, la parità fra i sessi ecc…, pertanto non sarebbero compatibili con la democrazia e la civiltà occidentale. Ciò non significa che i populisti di destra non siano essi stessi omofobi e transofobi, a favore della famiglia tradizionale o si mostrino aperti nei confronti di tutte le confessioni religiose, semplicemente quelle che sono rivendicazioni o conquiste tipicamente progressiste vengono strumentalizzate in chiave anti-inclusiva. Allo stesso modo, la libertà di espressione sarebbe minacciata dalla cultura del “politicamente corretto” e dalla presunta egemonia culturale della sinistra: il diritto di chiunque a dire ciò che pensa viene usato per rendere normali e accettabili discorsi beceri, xenofobi, intolleranti, ma soprattutto per chiedere a gran voce che la libertà la si tolga a qualcun’altro. Il discorso centrale vede l’identità collettiva della popolazione autoctona minacciata da influenze esterne, siano esse culturali o economiche, laddove per “esterne” si intendono anche quelle provenienti dall’establishment.

Fra i partiti della destra populista esistono sfumature e differenze nel posizionamento su alcuni temi, così come esistono differenze sul modo di etichettarli, considerato che da alcuni commentatori il termine “destra populista” viene usato come sinonimo di “estrema destra”, da altri invece come termine che indica una connotazione politica più moderata.**  Nell’ Europa occidentale diversi partiti della destra estrema, facendo ricorso a strategie e argomenti populisti, hanno ottenuto negli ultimi anni e decenni consistenti risultati elettorali: Front National in Francia, Lega Nord in Italia, PVV in Olanda, FPÖ in Austria, Nuova Democrazia in Svezia, SVP in Svizzera, Partito del Progresso in Danimarca, Veri Finlandesi in Finlandia e altri ancora. Di fronte a cambiamenti culturali, crisi economiche  e questioni cruciali di importanza globale, questi hanno saputo abilmente far leva sulle paure del ceto medio, preoccupato di un peggioramento della propria condizione, così come sul crescente impoverimento della classe lavoratrice e dei suoi membri disoccupati, sul suo risentimento e sui suoi pregiudizi, sulla paura dello sradicamento culturale, sull’inquietudine per il futuro. L’uso di slogan semplificati, i discorsi viscerali, la capacità di dividere settori della popolazione mettendoli gli uni contro gli altri in modo strumentale si sono rivelati metodi efficaci ed hanno portato ad una crescita di consenso nei confronti di queste organizzazioni, capaci di raccogliere i voti di chi in precedenza era astensionista o appoggiava partiti tradizionali, anche a fronte di una crisi della rappresentatività sempre più sentita.

 Obiettivi dichiarati e risultati reali.

Ma, a conti fatti, cosa vogliono ottenere i populisti? A cosa serve veramente il populismo, ad avvicinare la politica alle masse, a far agire un governo in difesa dei reali interessi del comune cittadino, ad affrontare questioni irrisolte sulle quali finora la politica ufficiale ha taciuto o non ha agito in modo efficace? Nella retorica di movimenti e partiti populisti dovrebbe essere proprio così, ma la realtà è diversa, a cominciare dal fatto che le promesse fatte in campagna elettorale sono perlopiù esagerate e a scopo propagandistico, così come il programma teorico di un partito il più delle volte non trova uguale applicazione nei fatti. Ciò vale per le liste elettorali tradizionali così come per quelle nate dal malcontento popolare. Nella retorica del populismo le masse vanno sostanzialmente bene così come sono, non devono prendere coscienza, né emanciparsi. I leaders e “quelli che stanno in alto” le hanno tradite, hanno disatteso le loro aspettative, perciò è tempo di nuovi leaders, magari gente comune estranea all’entourage finora ai vertici. Da un punto di vista prettamente democratico rappresentativo, l’affermarsi di tendenze populiste può portare da un lato a maggior partecipazione e interesse delle masse per la res publica, la cosa pubblica, rafforzando e spingendo le istituzioni a venir maggiormente incontro ad alcune esigenze particolarmente sentite dalla popolazione di un Paese. D’altro canto, può sfociare nell’affermarsi di tendenze spiccatamente autoritarie (nel senso comune del termine così come viene usato nelle democrazie liberali), all’esclusione sociale e alla discriminazione in senso negativo di fette della popolazione, alla chiusura di fronte alle politiche di cooperazione e partecipazione internazionali. Se la seconda ipotesi sembra la peggiore, va fatto notare come, alla fine, pur di inserirsi nei meccanismi della politica dominante, anche i populisti devono ripulirsi un pò, abbassare i toni rinunciando alle componenti più radicali dei loro discorsi. In quanto alla prima ipotesi, è poprio questo il meglio che ci si può aspettare da un certo populismo protestatario***(un caso fra tutti, quello degli indignados in Spagna), le cui rivendicazioni vengono inglobate dall’ideologia dominante allo scopo di rafforzarla, seppellendo qualsiasi aspirazione di rottura col presente, poichè se un movimento o organizzazione populista non scompare presto dalla scena, per affermarsi e durare nel tempo deve adeguarsi alla struttura dominante, non essendo esso realmente interessato a distruggerla per creare qualcosa di radicalmente nuovo. Anche i populisti più beceri fanno comodo, perchè se da un lato vengono attaccati da massmedia e politici affermati, la loro presenza giustifica un voto contro di essi e quindi a favore dei partiti tradizionali…che al tempo stesso non si vergognano di attingere da essi rivendicazioni e punti programmatici! A conti fatti, spesso il populismo funge da valvola di sfogo per poi rientrare nei ranghi, legittimando ancor più il sistema che critica, tutt’al più facendo in modo che cambi qualcosa affinchè tutto rimanga uguale. Non che ci si possa aspettare di meglio da chi concepisce il “popolo” come un blocco omogeneo, virtuoso così com’è, proteso verso un mondo ideale al quale si verrà condotti da nuovi, incorruttibili capipopolo…magari pure a marcia indietro!

A chi non serve il populismo.

C’è chi nella melma populista sguazza quotidianamente, dai massmedia che alimentano la tendenza per poi demonizzarla, ai vertici al potere che la usano a proprio vantaggio. A chi si sente dimenticato dalle istituzioni, vittima vera o presunta delle storture di un sistema che non viene percepito come storto nella sua essenza e totalità, serve una valvola di sfogo. È indubbiamente una bella sensazione quella di essere ascoltati da qualcuno che finge di capirti in maniera convincente e che afferma di portare avanti le tue istanze. Essere parte di una comunità ideale, un tassello di un grande progetto ha una funzione catartica che spesso si esaurisce nelle manifestazioni esteriori senza intaccare la sostanza del pensiero di un individuo che nemmeno si percepisce intimamente come tale. È qui che fa presa la strategia populista. Questo perchè manca la diffusione capillare di coscienza e maturità. Non possiamo aspirare a cambiamenti radicali senza prima cambiare radicalmente le persone. A tutti/e coloro i/le quali non servono identità fittizie e rappresentanti ai vertici di un sistema che agisce contro i nostri reali interessi, non serve nemmeno il populismo. Non serve a chi agisce direttamente per costruire realtà alternative tra le pieghe dell’esistente, né a chi aspira ad una realtà nuova. Agli/lle altri/e, rimarrà sempre la speranza disattesa di poter migliorare qualcosa affidandosi all’imbonitore di turno, finendo per essere pedine in un gioco che non si sono nemmeno realmente sforzati/e di comprendere.

 

*In Grecia è attualmente al governo un raggruppamento, SYRIZA, considerato da diversi commentatori populista (di sinistra).

**Per quanto mi riguarda considero valida, in termini generali, l’opinione del sociologo ed esperto di estrema destra Alexander Häusler, che definisce il populismo di destra come un “metodo stilistico della modernizzazione” dell’estrema destra.

***Il politologo Pierre-André Taguieff fa una distinzione analitica tra “populismo di protesta” e “populismo dell’identità”, laddove quest’ultimo radicalizza ed essenzializza il concetto di appartenenza ad un’identità comune (etnica, nazionale, culturale…) ritenuta migliore in contrappposizione a ciò che viene definito estraneo, “altro”. In alcuni casi queste due modalità di populismo si sovrappongono.

Elezioni greche, vittoria di Pirro? Un tentativo di analisi.

Il raggruppamento della sinistra (“radicale”, aggettivano in molti) Syriza ha vinto le elezioni politiche in Grecia con la proposta di un programma basato principalmente sull’opposizione alle politiche di austerità imposte al Paese da UE e BCE, sul rilancio del welfare e sull’aumento di salari e pensioni. È possibile che Syriza riesca veramente a mantenere le promesse fatte in campagna elettorale, si chiedono ora in molti? Innanzitutto, per formare un governo il partito di Tsipras dovrebbe appoggiarsi ad un secondo partito, vista la mancanza di due seggi in parlamento necessari per ottenere la maggioranza assoluta, ma a prescindere da ciò le probabilità che in Grecia vi possa essere una netta inversione di tendenza rispetto alle politiche di lacrime e sangue imposte dal capitale europeo è a mio parere remota. Non si tratta qui di speculare su ciò che avverrà nelle prossime settimane, quanto di prendere atto di alcuni dati di fatto dai quali non si può prescindere, pena l’astrazione di qualsiasi ragionamento da un contesto reale. Provo a mettere da parte per un attimo la mia ostilità a partiti, elezioni, governi, istituzioni varie e a vedere la faccenda in modo pragmatico e scarno, considerando come valida la via istituzionale. Partiamo dal presupposto che le proposte fatte da Syriza, pur essendo di stampo riformista, porterebbero sollievo, almeno a breve termine, tra gli stati sociali più deboli della popolazione. Tsipras e i suoi colleghi e simpatizzanti sono in gran parte persone giovani, così come è giovane il loro raggruppamento politico, difficile accusarli di essere attaccati al potere a tutti i costi, altrimenti non avrebbero investito le loro energie in una lista di recente creazione che fino a pochi anni fa raggiungeva risultati elettorali trascurabili, perciò prendiamo per buono il presupposto secondo il quale credono veramente in quel che fanno, non sono corrotti (o almeno non ancora…) e sono intenzionati in buona fede nel voler cambiare le condizioni sociali ed economiche del Paese all’interno del sistema parlamentare, governando. Forse lo sanno anche loro, forse non lo vogliono ammettere nemmeno a se stessi o forse hanno una loro strategia, per quanto improbabile, ma dovranno fare i conti col fatto che chi tiene i cordoni della borsa non lascerà che la Grecia scantoni dal corso di riforme neoliberiste imposte dai creditori del Paese. I capitali si sposteranno altrove, niente investimenti, UE e BCE si faranno sentire a modo loro, non ci saranno i soldi per portare avanti le riforme sociali promesse, per rimettere in piedi lo stato sociale, per aumentare stipendi e pensioni. Possibile che il nuovo governo trovi un modo efficace di finanziare il suo programma tramite altri canali, altri partner commerciali? Lo ritengo improbabile. Ritengo improbabile anche una possibilità di intervento esterno sotto forma di golpe per impedire che la Grecia si renda autonoma dai piani di austerità e di riforme neoliberiste, ma d’altra parte un vero e proprio colpo di stato non è l’unico modo nel quale il potere economico-finanziario riesce ad influenzare la situazione di un Paese: a volte basta il caos creato da disordini interni, un paio di parlamentari di maggioranza che fanno i franchi tiratori, nuove elezioni… in un modo o nell’ altro, magari con l’aiuto di quella polizia che per metà vota l’estrema destra e di quell’esercito o di quei servizi segreti eredi di una tradizione reazionaria (o reazionari per natura, a dirla tutta), qualcosa si combina, magari un nuovo governo “pragmatico” e ben disposto a seguire i diktat della troika… e addio sogni di gloria della sinistra parlamentare!

Un’altro aspetto importante, almeno per me in quanto anarchico (modus “validità della via istituzionale” off!), è quello dei movimenti di lotta. Che fine hanno fatto in Grecia? Sembra che proteste, lotte nelle piazze e organizzazione dal basso nei quartieri, esperimenti autogestionari, scioperi e quant’altro siano andati via via riducendosi, perdendo col tempo vitalità. È solo una mia impressione? E se non lo è, ciò dipende dal fatto che chi porta avanti le lotte è semplicemente esausto, messo in difficoltà dalla repressione o che altro, o forse una parte di queste persone, con l’avvicinarsi delle elezioni, ha iniziato a sperare in una via istituzionale per cambiare la situazione attuale? Sono convinto che questo discorso non riguardi gli/le anarchici/che, non almeno ad un livello numericamente degno di nota, ma questi/e non sono le uniche persone che dovrebbero portare avanti un cambiamento socio-economico radicale, nel quale devono invece venir coinvolti ampi strati della società. Se chi realmente vuole cambiare le cose in Grecia, dal basso e in modo radicale in chiave emancipatoria e antiautoritaria, fosse incappato (o dovesse d’ora in poi incappare) nell’illusione parlamentarista, dovrà fare i conti con una vittoria di Pirro. Vinte le elezioni, formato un governo, investiti tempo, energie, speranze e progettualità in tutto questo, dopo la grande delusione arriverebbe la vera sconfitta e difficilmente rimarrebbero risorse impiegabili a breve termine per riportare la lotta nei luoghi che ad essa realmente competono.

 

A me piace ricordarlo così.

Ieri Giorgio Napolitano si è dimesso dalla carica di Presidente della Repubblica. A me, personalmente, rimarranno impressi quelli che ritengo i connotati salienti del personaggio in questione: il trasformismo, legato alla necessità di difendere e rappresentare il potere in qualsiasi forma esso si presenti, a seconda delle opportunità; la retorica, più vuota che mai, tipica dei suoi discorsi di sempre; la rappresentazione del vecchio che avanza- e quel che avanza lo si può metter da parte e servire riscaldato alla prossima occasione… Napolitano è stato fascista quando conveniva esserlo, comunista quando il  PCI era la seconda forza politica del Paese, filoamericano ed europeista, ma comunque nel rispetto del potere che ha sempre servito e che gli ha consentito l’accesso a innumerevoli privilegi. Un ottimo esempio per gli opportunisti di tutti i tempi: sempre meglio che continuare a fare l’operaio, no?

Ipse dixit:

-«L’Operazione Barbarossa civilizza i popoli slavi: dato che il nostro sicuro Alleato [è] lanciato alla conquista della Russia vi è la necessità assoluta di un corpo di spedizione italiano per affiancare il titanico sforzo bellico tedesco, allo scopo di far prevalere i valori della Civiltà e dei popoli d’Occidente sulla barbarie dei territori orientali.» (GIORGIO NAPOLITANO, in “BÒ”, giornale universitario del GUF di Padova, Luglio 1941).

-« L’intervento sovietico ha non solo contribuito a impedire che l’Ungheria cadesse nel caos e nella controrivoluzione ma alla pace nel mondo.»(GIORGIO NAPOLITANO,1956: citato in Gian Antonio Stella, «Principe rosso», violò il tabù del Viminale, Corriere della sera, 8 maggio 2006).

7 Novembre: proteste a Cagliari.

Ieri 7 Novembre ha avuto luogo a Cagliari una grossa manifestazione organizzata dalla cosiddetta Consulta Rivoluzionaria. L’iniziativa, definita dagli organizzatori come “Assemblea generale del Popolo Sardo” e che ha visto la partecipazione di alcune migliaia di persone, è nata dopo mesi di incontri e dibattiti tra le diverse componenti della Consulta. I motivi della protesta sono molteplici e non suoneranno certo nuovi a chi conosce la realtá sarda: gli alti tassi di disoccupazione, ormai cronica, e la chiusura di realtá produttive spesso avviate in modo avventuristico da multinazionali che lasciano dietro di sé persone senza lavoro, danni ambientali e distruzione dell’economia locale spinge molti giovani ad emigrare da una terra che è stata sempre gestita con piglio colonialista dallo stato centrale italiano, grazie anche al supporto della locale classe dirigente. Un’isola che è in parte laboratorio di pratiche repressive e in parte “pattumiera”, da un lato occupata da carceri- anche “speciali”- e da numerose installazioni militari dove si stoccano armamenti nucleari ( La Maddalena) e si sperimenta con i proiettili all’uranio impoverito (Teulada e Quirra), dall’altro cementificata e deturpata per gli interessi dei più ricchi e potenti e a favore del turismo d’élite, una terra alla quale la classe dirigente preferisce elargire qualche briciola di assistenzialismo piuttosto che allentare la morsa delle banche e delle sanguisughe di Equitalia, dove ad essere senza prospettive ed a sentirsi disperati sono tanto gli studenti quanto i pastori, gli agricoltori, i piccoli imprenditori ed artigiani, i lavoratori che rischiano di perdere il loro impiego (come quelli dell’ Alcoa o della Carbosulcis, per citare i due casi più recenti e più noti) e quelli che un impiego lo hanno già perso o non lo trovano affatto. Sono proprio questi soggetti e queste realtá ad aver partecipato alla manifestazione tenutasi sotto il palazzo della Regione Sardegna nella centralissima Via Roma a Cagliari, un’iniziativa preceduta da una serie di misure di sicurezza grottesche messe in atto dalle autoritá evidentemente timorose che l’esasperazione dei/lle partecipanti potesse trasformarsi in concrete esplosioni di rabbia. Come aspetto “coreografico” non si poteva fare a meno di notare alcuni cappi con nodi scorsoi, appesi accanto ai nomi delle istituzioni ritenute maggiormente colpevoli dell’attuale situazione: Regione, Governo centrale, Equitalia, banche, INPS, agenzia delle entrate…

Da sottolineare la forte adesione da parte di organizzazioni indipendentiste, che si rispecchia anche nelle rivendicazioni tese all’autodeterminazione in materia economica dell’isola ed alla valorizzazione della cultura e dell’identitá sarda. Ma sará veramente una soluzione quella dell’indipendenza? Serve a molto avere un proprio Stato con governanti della propria terra che stilano documenti nelle lingue locali quando poi continuano ad esistere disuguaglianze sociali e sfruttamento del lavoro salariato? Ci si può sentire liberi sapendo che comunque il capitale che comanda è quello internazionale e che, se anche così non fosse, il capitale nazionale o locale non è cosa migliore? Queste sono solo alcune delle contraddizioni con le quali la Consulta Rivoluzionaria e chi la appoggia dovranno fare i conti, fermo restando le sacrosante ragioni di fondo che animano l’iniziativa e le potenzialitá insite nelle proposte finora avanzate e nei loro eventuali sviluppi. Tra chi era in piazza c’é chi ha la consapevolezza di rappresentare in qualche modo un’avanguardia, con la convinzione che in molti si uniranno in un futuro prossimo alle lotte. Lo sviluppo degli eventi mostrerà se questi hanno avuto ragione, se finalmente si è innescato un processo di reale ribellione nei confronti di uno stato di cose intollerabile che permane da troppo tempo e quali saranno i frutti di questo processo.