A Erdogan non piace il diritto di satira.

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È iniziato tutto con una satira del comico Jan Böhmermann sul premier turco Recep Tayyip Erdogan andata in onda sul canale televisivo tedesco ZDF durante il programma “Neo Magazin Royale”, che ha fatto infuriare il governo turco che ha convocato a colloquio addirittura l’ambasciatore tedesco in Turchia. Per spiegare la differenza fra satira e volgare offesa, Böhmermann ha recitato nella puntata successiva della trasmissione una poesia da lui stesso definita diffamatoria, infarcita di insulti personali rivolti direttamente al presidente turco Erdogan, che lo ha denunciato e pretende la sua condanna non solo per diffamazione, ma addirittura per il reato di lesa maestà (ancora previsto dal codice penale tedesco), in quanto offendere il rappresentante di uno Stato è più grave che offendere un comune cittadino. Ora la vicenda si è trasformata in un caso diplomatico che spacca l’opinione pubblica tedesca e crea dissapori all’interno della Grosse Koalition al governo, con la cancelliera Merkel pragmaticamente conscia dell’importanza della Turchia nell’arginare i flussi migratori verso l’Europa che accoglie la richiesta a procedere per vie legali per il capo d’imputazione più grave. Fin qui i fatti esposti stringatamente. Ora una riflessione: partendo dal presupposto che la satira deve sempre e comunque attaccare il potere facendo ridere e al tempo stesso riflettere, Böhmermann ha esagerato? E la sua volgare poesia ( qui il testo, c’è pure la traduzione in francese!) è satira o oltraggio?  Proverò a rispondere…

Böhmermann ha affermato che Erdogan si chiava le capre e opprime le minoranze mentre guarda film pedopornografici. A parte la faccenda delle minoranze, il resto sono pure illazioni. Il passaggio sulla pedopornografia è pura confusione, si riferiva forse alla puntata sul Vaticano, mentre le capre le lascerei stare, meglio non far incazzare i vegani. Ora che Erdogan attacca per l’ennesima volta e così ferocemente la libertà di stampa ha trovato nuovi amici in Europa, se oggi il suo Paese entrasse nell’EU sarebbe in buona compagnia: Salvini, Le Pen, Orbán, AfD- più punti di vista in comune che differenze. E poi in Turchia la tortura non esiste: chissà cosa direbbe Giovanardi di tutti quei drogati anoressici morti in carcere laggiù. Anche la volontà dei curdi viene rispettata: “hai un’ultimo desiderio da esprimere?”. E pensare che ieri erano tutti Charlie Hebdo, si vede che la colpa più grande di Böhmermann è quella di non essere stato ammazzato in redazione da qualche jihadista. Ora il comico tedesco se la fa sotto dalla paura per le possibili conseguenze e non parla: cambierà idea fra un paio di scosse elettriche. I suoi amici raccontano che non ha più sul volto quella sua solita espressione da ebete sorridente, ora sembra solo un ebete preoccupato, mentre il suo avvocato dice che è talmente costernato per l’accaduto da essere gà andato a comprare corda e sapone. D’altra parte Erdogan, mentre sottolinea le libertà garantite in Turchia (“Certo che esiste il diritto di riunione, li raduniamo tutti in quel campo laggiù! E il diritto di parola, naturalmente parlano tutti, basta interrogarli nel modo giusto!”),  vuole la sua testa e esercita pressioni diplomatiche non indifferenti, ha anche assunto un avvocato (Carlo Taormina era già impegnato) che in passato ha difeso un movimento islamico reazionaro, un negazionista dell’olocausto e un complottista di destra: il presidente turco non poteva mancargli alla collezione. Un’altro fatto triste è che tra chi si schiera dalla parte di Böhmermann ci sono anche gli islamofobi di PEGIDA, che evidentemente non hanno mai visto le puntate della trasmissione dedicate a quelli come loro. Beh, non ci resta che aspettare per scoprire chi avrà la meglio, se la libertà di espressione o la ripicca personale del presidente di uno Stato membro della NATO che ha dalla sua parte leggi obsolete ma tuttora valide e che tiene per le palle l’Europa sulla questione del controllo dei flussi migratori…voi che ne dite?

Ecco, forse questa è satira. Fatta da un dilettante, ma almeno non trabocca di offese a sfondo razzista e sessista, è indirizzata nei confronti del potere, fa sorridere ma anche riflettere (almeno spero). D’altra parte sono cittadino di un Paese democratico che vive in un’altro Paese democratico, pertanto, fiducioso nel rispetto dei miei diritti fondamentali tra cui quello di espressione, mi sento di poter concludere affermando che Recep Tayyp Erdogan secondo me è un

Il fondo del barile.

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Il 17 Aprile si terrà in Italia un referendum che propone l’abrogazione della legge che consente lo sfruttamento illimitato, “a vita”, dei giacimenti petroliferi in zona marina. A prescindere dalla mia opinione sullo strumento referendario, da molti definito una forma di democrazia diretta sancita dalla Costituzione, da me ritenuto invece un contentino distrattivo per chi vorrebbe attivarsi per influenzare le decisioni politiche prese da pochi/e nell’interesse di pochi/e sulla pelle di tutti/e, ritengo interessante condividere alcune informazioni trovate sul blog “Paradisi Artificiali”, che potrebbero aiutare a comprendere meglio su cosa verte la questione delle trivellazioni anche al di là del referendum. A me pare evidente che il governo italiano stia mostrando per l’ennesima volta (banche fallimentari e TAV sono altri due esempi fra i tanti che potrei citare) il proprio volto lobbista e clientelare e stia tentando disperatamente di illudere i/le potenziali elettori/trici sul tema della ripresa economica, sul rilancio del made in Italy, sulla difesa dei posti di lavoro e sull’autosufficienza energetica, insomma stia ancora raschiando il fondo del barile. Di petrolio, stavolta. Pertanto mi prendo la briga di segnalare una riflessione, che considero almeno in buona parte condivisibile, sul tema delle trivellazioni e del referendum, pubblicata su InfoAut. Non solo vi invito alla lettura, ma come sempre ad una riflessione più ampia sui risvolti che presenta il tema in questione, dalla contrapposizione fra occupazione e salvaguardia ambientale al paradigma fallimentare e distopico dello sviluppo infinito dell’economia capitalista, alla scelta delle energie rinnovabili tra limiti,  potenzialità e alternative al nostro attuale stile di vita… Non si tratta di questioni astratte o lontane, ma faccende che ci riguardano tutti/e e con le quali siamo costretti/e a fare i conti, volenti o nolenti, prima che sia davvero troppo tardi.

Cosa vuol dire sconfiggere lo Stato Islamico?

La domanda che mi ronza in testa da tempo è: “come si può sconfiggere lo Stato Islamico?”. A interrogarmi su tale questione non sono solo, infatti ho potuto leggere chilometri di articoli, analisi, interviste e altro ancora tra quanto è stato pubblicato in rete e su carta sull’argomento da due anni a questa parte, non tanto alla ricerca di una risposta definitiva ad un problema oltremodo complesso e in continua evoluzione, quanto nella speranza di poter avere una maggiore comprensione della natura dello Stato Islamico e delle possibili vie percorribili per raggiungere la sua sconfitta. Di certo la volontà di un ritorno ad un passato ideale, quello della comunità di fedeli islamici (umma) del VII secolo o giù di lì, da contrapporre all’islam odierno che i seguaci della branca salafita-jihadista rappresentata dall’IS considerano corrotto, non è nata ieri e non morirà in tempi brevi, se mai morirà. L’IS ha avuto l’astuzia e la perfidia di fomentare conflitti e divisioni di natura etnico-tribale-religiosa già presenti nelle zone nelle quali agisce, compiendo ad esempio, dopo il 2003, attentati in Iraq contro gli sciiti, che si vendicavano sui sunniti spingendo questi ultimi a cercare protezione tra le file dei combattenti di quella che all’epoca si chiamava Jamāʿat al-tawḥīd wa l-jihād, ribattezzata poi “al-Qaeda nel Paese dei due Fiumi”- un sodalizio, quello con al-Qaeda, che dura solo fino al 2006, quando l’organizzazione cambia nuovamente nome in “Mujaheddin del Consiglio della Shura” e, pochi mesi dopo, in “Stato Islamico in Iraq” (al-Dawla al-Islamiyya fi l-‘Iraq, in breve ISI), per divenire nell’Aprile del 2013 al-Dawla al-Islamiyya fi-l-‘Iraq wa-l-Sham, “Stato Islamico in Iraq e Siria (ISIS)” o “Stato Islamico in Iraq e Levante (ISIL)” e infine, con la fondazione del califfato nel Giugno 2014, semplicemente “Stato Islamico” (IS). Considerando solo i continui cambi di nome del gruppo e le diverse alleanze fatte e disfatte nel corso di pochi anni ci si accorge di trovarsi di fronte ad un’organizzazione versatile, che non ha, come al-Qaeda, solo l’obiettivo di un jihad globale, né tantomeno vuole (come ad esempio Hamas) circoscrivere il proprio potere ad un territorio delimitato,  ma ha l’ambizione di impore il proprio potere su tutti i territori da essa controllati militarmente stabilendovi subito la legge islamica (sharia) senza tener conto di confini statali esistenti e differenze di nazionalità: l’idea di Stato di questi personaggi rispetto alla concezione occidentale moderna di Stato-nazione è molto differente e va tenuta sempre presente. Lo Stato Islamico si fa portavoce di un ritorno all’essenza dell’islam e si richiama alla tradizione del califfato abbàside e della discendenza diretta da Maometto del nuovo califfo al-Baghdadi, rifiuta la modernità ma usa gli ultimi ritrovati della tecnologia per propagandare le proprie idee con strategie pubblicitarie degne di un’azienda leader sul mercato, dichiara guerra all’Occidente ma massacra più musulmani/e di chiunque altro, fa proprio il concetto di “scontro delle civiltà” di Samuel Huntington riadattandolo secondo le proprie esigenze. L’IS ostenta la propria crudeltà per intimorire gli avversari e allo stesso tempo applica nei territori sotto il suo controllo misure paternalistiche e caritatevoli atte a tenere a bada il malcontento della popolazione che, più per paura e mancanza di alternative che per convinzione, non sa opporsi efficacemente al potere totalitario del califfato. La forza dello Stato Islamico non si limita solo alla capacità di trarre vantaggi dalle divisioni etnico-religiose (ironia della sorte, uno degli acronimi ufficiosi del gruppo è Daesh, che in arabo significa qualcosa come “portatore di discordia”), ma è anche data dalla propria abilità propagandistica e dalla sua forza economica. Quest’ultima poggia solo in piccola parte su offerte di denaro dall’estero, le entrate principali derivano dal traffico di beni artistici e archeologici e da quello di esseri umani (donne in primis, ridotte a schiave del sesso), dal saccheggio di villaggi e città occupati e dalla rapina (ad es. banca di Mossul), dalle tasse imposte alla popolazione, ma soprattutto dalla vendita di petrolio. Ad essere reclutati per la “guerra santa” sono soprattutto volontari provenienti dall’estero, mercenari a tutti gli effetti.

Un’altro aspetto che gioca a favore dell’IS è la mancanza di unità d’intenti tra i diversi Stati nel trovare una soluzione al conflitto in corso, visto che ciascuna potenza, internazionale o regionale, si impegna a difendere i propri interessi nella regione a scapito di altri Stati e, manco a dirlo, a prescindere dai reali interessi di chi abita la regione nella quale divampa il conflitto: l’Iran (e le milizie hezbollah, sua diretta emanazione in Libano) è legato da decenni alla dittatura della famiglia Assad, lo stesso vale per la Russia, che ha forti interessi economici (come la Cina) e strategici in Siria. La potenze occidentali della NATO sono intenzionate invece a rovesciare il regime di Damasco e in tale ottica hanno foraggiato i gruppi del Libero Esercito Siriano (FSA), tra cui spiccano numerose milizie islamiche, salvo poi bombardare l’IS quando questo ha palesato la propria volontà di conquista a scapito degli interessi occidentali e ha effettuato attacchi terroristici sul territorio europeo e statunitense. La Turchia, pur essendo un Paese NATO, segue invece una propria agenda politica imperialista e, come Arabia Saudita, Kuwait e Qatar, sostiene le fazioni islamiche anti-Assad più che quelle laiche, inoltre impiega le proprie energie principalmente nella repressione anti-curda. I quattro Paesi in questione hanno aiutato in modo più o meno intenso l’IS e continuano tuttora a farlo.

Quali misure sarebbero quindi efficaci per sconfiggere il califfato in Siria e Iraq e il gruppo islamico che lo ha fondato? Serve realmente a qualcosa trattare con Assad, considerato fino a poco tempo fa il problema principale? I Paesi uniti (incollati con lo sputo, direi senza ricorrere a eufemismi) nella lotta contro l’IS dovrebbero inviare truppe di terra o continuare a bombardare? Pensiamo per un attimo agli interessi divergenti tra le potenze in gioco, ai rapporti tra Russia e Turchia, al destino dell’Iraq dopo l’invasione USA nel 2003 (i militari al servizio del dittatore decaduto saddam Hussein, licenziati dagli americani, finirono in gran parte tra le nuove reclute di Jamāʿat al-tawḥīd wa l-jihād, non dimentichiamolo), al fatto che le armi vendute da Paesi europei come la Germania ad Arabia Saudita e Qatar finiscano poi nelle mani dei mercenari del califfato e all’evidenza che i bombardamenti, anche quando non massacrano civili e colpiscono realmente obiettivi militari nemici, non servono a scalfire lo Stato Islamico (due predecessori di Abu Bakr al-Baghdadi, al-Zarqawi e Abu Omar al-Baghdadi, furono uccisi durante attacchi aerei statunitensi)…cosa si potrebbe realisticamente contrapporre alle milizie dello Stato Islamico, ma soprattutto, cosa significa veramente sconfiggere il califfato? Quella dell’IS è una visione del mondo manicheista, come già detto incentrata sullo scontro tra quell’islam definito autentico e il resto del mondo: sconfiggere lo Stato Islamico significa soprattutto sconfiggere questa visione. Alimentare l’odio, la disgregazione sociale e la contrapposizione violenta è fondamentale per creare artificialmente uno scontro di civiltà: rifiutarsi di prestare il fianco a questa logica è un atto di resistenza fondamentale contro i progetti jihadisti. Chi oggi in Europa si batte per l’accoglienza dei profughi, contro l’islamofobia e le logiche delle destre estreme e populiste sta automaticamente rifiutandosi di fare il pieno al serbatoio dello Stato Islamico. Occorrerebbe inoltre provocare diffuse proteste contro l’ipocrisia degli Stati coinvolti per procura nel conflitto, denunciare senza sosta le connivenze, le forniture d’armi, l’acquisto di petrolio, l’apertura mirata delle frontiere per far passare rifornimenti ai miliziani di al-Baghdadi, l’ambiguità e l’inefficacia delle soluzioni militari tanto quanto il fallimento pianificato di quelle diplomatiche. Inoltre ritengo fondamentale l’importanza dell’appoggio a quello che è un progetto politico, sociale ed economico diametralmente contrapposto alla visione del mondo di Daesh, ovvero al “modello Rojava”. In Rojava è in corso una rivoluzione dai tratti libertari che sta cambiando profondamente il volto della regione, una rivoluzione che ha come cardini la parità tra i sessi e tra le diverse etnie e religioni, il benessere collettivo, l’ecologismo, la democrazia di base, l’autogestione, l’antiautoritarismo. Un incubo non solo per l’IS, cacciato dalle milizie popolari volontarie del Rojava da Kobane e da altre città che aveva conquistato o che tentava di conquistare, ma anche per le potenze mondiali che vedono minacciati i propri interessi particolari nella regione da un progetto autonomo, creato dal basso nell’interesse di chi lo vive. La rivoluzione in Rojava avanza nonostante si trovi di fronte a difficoltà non indifferenti di varia natura, ma ha bisogno di tutto l’appoggio possibile, non solo in nome della lotta senza quartiere contro la barbarie di daesh, ma anche per la libertà e l’autodeterminazione di persone- altrimenti destinate ad essere sfruttate, discriminate, oppresse e soggiogate se non direttamente massacrate da poteri locali o esterni- che hanno deciso di alzare la testa e decidere del proprio futuro costruendolo con le proprie mani.