Andrés Ruggeri, “Le fabbriche recuperate”.

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Andrés Ruggeri, “Le fabbriche recuperate. Dalla Zanon alla RiMaflow. Un’esperienza concreta contro la crisi”, edizioni Alegre, 2014, ISBN 978-88-98841-07-3

Andrés Ruggeri, antropologo presso la facoltà di Lettere e filosofia di Buenos Aires, analizza in questo libro il fenomeno delle imprese recuperate dai/lle lavoratori/trici in Argentina, principalmente a partire dalla crisi economica del 2001 fino ad un paio di anni fa. Abbandonate dai padroni, occupate e rimesse in funzione dai/lle lavoratori/trici in un contesto spesso difficilissimo, le cosiddette fabbriche recuperate in Argentina sono più di 300 e consentono di lavorare a più di 15mila persone: una goccia nel mare dell’economia nazionale, forse, ma secondo l’autore di questo libro un esempio concreto e funzionante di come democrazia di base, mutuo appoggio, autogestione e soddisfacimento dei propri bisogni possano affermarsi anche nei momenti più difficili, in controtendenza rispetto al paradigma capitalista fondato su accumulo del capitale, massimizzazione dei profitti, sfruttamento, precarizzazione, predazione delle risorse e autoritarismo. Ne “Le fabbriche recuperate” vengono analizzati diversi elementi fondamentali, utili a comprendere il fenomeno in questione. Viene illustrato il contesto socio-economico nel quale nascono queste imprese, la loro tipologia, il loro sviluppo negli anni, il ruolo dei sindacati e dei diversi movimenti di lotta ma anche il rapporto spesso difficile o addirittura conflittuale con le istituzioni locali e nazionali, le strategie dei/lle lavoratori/trici e i loro obiettivi, la struttura e l’economia interna delle aziende recuperate ed il loro rapporto con il mercato, il ruolo delle tecnologie. Il tutto senza imbellettare la realtà e senza risparmiare critiche, parlando chiaramente di limiti ed errori, ma sempre sottolineando la genuinità, l’importanza e le potenzialità insite nell’autogestione operaia. Chi peró fosse interessato/a a conoscere meglio le esperienze di autogestione lavorativa in altri Paesi, ad esempio in Italia, dovrà procurarsi altri testi: nel titolo italiano del libro si cita infatti la fabbrica recuperata milanese RiMaflow, ma il libro in questione si concentra quasi esclusivamente sulla realtà argentina. Il che, secondo me, non è un limite e serve anche ad evitare che i contenuti risultino troppo dispersivi, mentre l’analisi di Ruggeri si presenta centrata e sintetica pur offrendo al tempo stesso un quadro generale di solide basi sulle imprese recuperate nel suo Paese e sul movimento, le idee e le forze che hanno permesso che un’aspirazione collettiva divenisse realtà tangibile.

A Berlino 250.000 attivisti/e in piazza contro TTIP e CETA.

Lo scorso 10 Ottobre 250 000 persone hanno manifestato nella capitale tedesca contro gli accordi commerciali TTIP e CETA. La manifestazione è stata la più partecipata degli ultimi 10 anni in Germania, la più grande in tutta Europa tra quelle svoltesi per dire no ai due accordi comerciali transnazionali. Le numerose organizzazioni che hanno indetto la protesta, dai sindacati (DGB) alle associazioni ambientaliste (WWF, NABU…) a quelle critiche nei confronti della globalizzazione (ATTAC) fino ad arrivare alle associazioni della società civile, sottolineano la necessità di accordi commerciali equi e trasparenti, che non danneggino gli standard di difesa dell’ambiente, i diritti dei/lle lavoratori/trici e dei/lle consumatori/trici e i principi democratici. Pertanto chiedono di interrompere le trattative relative all’accordo TTIP con gli USA e di non ratificare l’accordo CETA con il Canada.

Purtroppo, va ammesso, tra le tante realtà di natura riformista coinvolte nella campagna contro TTIP e CETA è mancata la presenza di quei gruppi della cosiddetta “sinistra radicale” e dell’area autonoma/antiautoritaria/libertaria, che avrebbero potuto contribuire con una profonda critica anticapitalista al discorso legato agli accordi commerciali in questione. D’altra parte l’attuale situazione tedesca vede gran parte di questi gruppi impegnati in altri contesti, come ad esempio l’aiuto concreto ai profughi che da mesi giungono in gran numero in Germania. Una giustificazione, questa, che non impedisce comunque di rimarcare l’importanza di un discorso critico e radicale nei confronti delle politiche globalizzatrici che hanno e avranno, se non verranno fermate in tempo, una ricaduta pesante sulle nostre vite, sull’ambiente e su intere società.

Movimento anarchico e rivolta sociale in Egitto.

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Non sono spuntati dal nulla i giovani col volto coperto e vestiti di nero che hanno fronteggiato le forze di sicurezza e attaccato i simboli del potere in Egitto durante il secondo anniversario della cosiddetta rivoluzione che riuscì a rovesciare il dittatore Hosni Mubarak. Già durante le lotte di due anni fa gli anarchici, pur rappresentando solo una piccola parte degli oppositori al regime, erano in prima linea negli scontri contro polizia, servizi segreti e picchiatori prezzolati dal governo, usando la tecnica di azione diretta tipica del black bloc. Al contrario di quanto pensano i male informati, il black bloc non è un’organizzazione politica, ma piuttosto una strategia di azione diretta. Ispirandosi agli autonomi italiani e tedeschi degli anni ’70 e ’80 del secolo scorso, gruppi di manifestanti vestiti di nero e col volto coperto (per dare l’impressione di un gruppo compatto e per sfuggire all’identificazione da parte delle forze repressive dello Stato) si organizzano in piccoli gruppi solitamente con l’obiettivo di compiere azioni dirette contro obiettivi simbolici che rappresentano l’oppressione e lo sfruttamento del capitale e dello Stato. La violenza (se di violenza si può parlare) viene indirizzata contro la proprietà, contro oggetti, raramente contro le persone – a volte vi sono scontri con le forze dell’ordine o con estremisti di destra. Salita alla ribalta della cronaca durante le proteste di Seattle contro il vertice del WTO nel 1999 e fortemente influenzata da princìpi anarchici (ma al tempo stesso non condivisa né praticata da tutti/e gli/le anarchici/che), la strategia del black bloc si è diffusa rapidamente in molti Paesi. Anche in Egitto.

È inevitabile che, di fronte all’estrema violenza della repressione governativa esercitata già ai tempi di Mubarak contro qualsiasi forma di opposizione o lotta sociale anche solo pacifica e/o riformista, prima o poi i più audaci e determinati oppositori a qualsiasi forma di oppressione e sfruttamento avrebbero adottato strategie di lotta adatte alle circostanze. Gli anarchici lottarono al fianco dei lavoratori del settore tessile in sciopero a El-Mahalla El-Kubra già nel 2008, poi durante la successiva rivolta del 2011 contro Mubarak. Oggi, di fronte ad un governo che ricorda quello da poco rovesciato a furor di popolo, incapace di risolvere le contraddizioni ed i problemi sociali del Paese, forte di una costituzione approvata con pochi voti e tesa a rafforzare il potere presidenziale, i giovani senza prospettive lavorative, gli ultras delle tifoserie calcistiche già abituati a scontrarsi con le forze di sicurezza, gli sfiduciati e i delusi da qualsiasi governante che vivono sulla propria pelle una situazione intollerabile hanno scelto lo scontro diretto con gli oppressori.

A seguito delle manifestazioni avvenute tra il 20 e il 28 Gennaio in ricordo della rivoluzione iniziata due anni prima e che hanno assunto carattere antigovernativo e in parte confrontativo con le forze repressive, con cortei molto partecipati nelle principali città egiziane,  il governo dei Fratelli Musulmani presieduto da Mohammed Morsi ha dichiarato il giorno 28 lo stato di emergenza in tre città (Port Said, Ismailía e Suez) ed ha promesso di schiacciare con la forza qualsiasi forma di opposizione radicale al suo governo, in particolare chi si organizza nel black bloc. Dal canto loro alcuni rivoluzionari organizzati nel black bloc hanno attaccato e danneggiato sedi del partito di governo nella capitale. Ma non è tanto la forma della protesta quanto le idee di chi protesta ad essere il problema per il potere costituito, come dimostra il recente arresto ad Alessandria di 31 persone (tra cui 5 anarchici del Movimento Socialista Libertario) che presidiavano pacificamente il tribunale durante l’udienza di un processo a carico di agenti di polizia accusati di aver ucciso dei manifestanti durante le rivolte del Gennaio 2011.

Egipto Anarquistas

( Nelle foto: 1-manifestanti organizzati nel black bloc durante le proteste per il secondo anniversario della rivoluzione egiziana; 2- una bandiera anarchica sventola all’interno di una sede del partito Fratelli Musulmani assaltata dai manifestanti).

Per approfondire:

“Repression und Todesdrohungen gegen black bloc- Mursi kürzt Europareise Programm”, pubblicato su Anarchistischer Funke (in tedesco);

“Egipto, un pueblo sediento de libertad. Declarado Estado de Emergencia”, pubblicato su A Las Barricadas (in castigliano);

“Sui rinvii a giudizio di Alessandria”, pubblicato su Anarkismo (in italiano e in altre lingue);

Revolution Black Bloc (pagina facebook del black bloc di Il Cairo);

– Black Blocairo (nuova pagina del Black BloCairo);

– Black Bloc Egypt.

David Graeber, “Critica della democrazia occidentale”.

David Graeber, “Critica della democrazia occidentale. Nuovi movimenti, crisi dello Stato, democrazia diretta”, prefazione di Stefano Boni. Elèuthera, 2012.

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Una delle tesi centrali di questo breve saggio dell’antropologo statunitense David Graeber è che il sistema politico nel quale viviamo non sia realmente democratico. “Ha scoperto l’acqua calda!”, ho pensato nell’accingermi a leggere il libricino, curioso di scoprire quali fossero gli argomenti portati dall’autore a sostegno della sua tesi e cosa egli intendesse con il termine “democrazia”. Innanzitutto per Graeber i termini “anarchia” e “democrazia” sono sinonimi, interpretando quest’ultimo secondo la sua etimologia, “potere del popolo”, esercitato in modo egualitario attraverso processi decisionali collettivi e orizzontali. Un modello che poco o nulla ha a che vedere con la cosiddetta democrazia rappresentativa tanto sbandierata in Occidente, ma che nasce piuttosto tra le pieghe degli Stati e nonostante essi, in diversi tempi e luoghi. Le forme democratiche orizzontali ed autogestite delle quali parla Graeber si contrappongono alla presunta democrazia (tale solo nominalmente) sbandierata dal paradigma occidentalista, autoritaria e promotrice di diseguaglianze, impossibilitata a esistere senza uno Stato che detenga il monopolio della violenza. È proprio a causa della negazione sempre più evidente da parte del sistema dominante di forme reali di democrazia se queste forme vengono rivendicate da movimenti di critica radicale e lotta sociale – movimenti che Graeber affronta in questa sua opera purtroppo solo di sfuggita. In effetti “Critica della democrazia occidentale” è un libro fin troppo breve che richiede al lettore di approfondire altrove le tematiche trattate, ma sicuramente è un’ottima fonte di ispirazione, scritto con uno stile sempice ma capace di spiazzare per via degli argomenti sostenuti, un efficace approccio dal punto di vista antropologico ad un tema di vitale importanza sul quale, ora più che mai, è urgente riflettere senza i paraocchi imposti dalla propaganda del pensiero unico.