Michel Onfray, “Pensare l’Islam”.

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Michel Onfray, “Pensare l’Islam” , Ponte alle Grazie, 2016, ISBN 9788868335038.

Michel Onfray, filosofo ateo e “libero pensatore”, espone nel libro “Pensare l’Islam” le sue idee riguardanti la religione musulmana in rapporto alla società francese e, in generale, occidentale, anche alla luce degli interventi militari in Iraq, Afghanistan, Libia, Mali e Siria susseguitisi nel corso degli ultimi decenni fino ad oggi e della risposta terroristica da parte di gruppi fondamentalisti islamici concretizzatasi anche con gli attentati del Gennaio e del Novembre 2015 a Parigi. Onfray illustra nella lunga intervista rilasciata alla giornalista algerina Asma Kouar -intervista che rappresenta la parte centrale del libro- la sua opinione sull’Islam, tanto religione di pace quanto di guerra a seconda di quali sure del Corano o passaggi della biografia di Maometto vengano presi in considerazione. Per Onfray è auspicabile cercare il dialogo con l’Islam che sceglie di far propri i valori compatibili con quelli della Repubblica francese e della sua storia forgiata dalla Rivoluzione e dall’Illuminismo, mentre le cause della reazione terroristica dei fondamentalisti islamici, appunto una reazione, va cercata nelle politiche neocoloniali delle potenze occidentali. Onfray attacca senza mezzi termini la politica francese, i massmedia e chi costruisce l’opinione nel mondo della cultura in Francia, scagliandosi contro l’omologazione delle reazioni susseguitesi agli attentati di Parigi, costruite ad arte sull’onda emotiva e sulla mancata volontà o capacità di riflettere razionalmente e sinceramente su quei tragici fatti; prende di mira la sinistra istituzionale moderata, quella dei Mitterrand e degli Hollande, sempre più simile alla destra, divenuta liberista almeno dal 1983, accusata di aver rafforzato e usato il Front National come strumento per spaccare la destra repubblicana e per ottenere quindi consensi elettorali, ma non risparmia nemmeno parte della sinistra “radicale” e “anticapitalista”, rea di correr dietro all’islam con l’intento di usarlo come ariete per sfondare, in chiave antiimperialista, laddove le masse “ignoranti” risultino impermeabili al verbo marxista e al contempo più inclini a recepire un messaggio di tipo religioso; condanna l’Europa unita dominata da interessi economici, priva di etica e morale, omologatrice, regno della mediocrità e del non-pensiero.

Nei dibattiti pubblici e sui media francesi Michel Onfray è stato accusato di tutto: di islamofobia e di complicità con lo Stato Islamico, di “sputare sui morti del Bataclan” e di fare il gioco di Marine Le Pen, il tutto a uso e consumo dello spettacolo mediatico e di chi si spartisce il potere politico. Ma se il pensiero di Onfray è quello esposto in “Pensare l’Islam”, queste accuse secondo me risultano infondate: Onfray non è una specie di Oriana Fallaci, non ragiona in modo viscerale, non è uno xenofobo, né un islamofobo. È un intellettuale ateo che critica razionalmente la religione musulmana, affermando che una religione può essere interpretata in diversi modi da ciascun credente, che deve decidere se recepire i messaggi di amore, fratellanza, pace e solidarietà contenuti nelle sacre scritture e nelle diverse tradizioni, oppure quelli spesso prevalenti che incitano a guerra e violenza, discriminazioni e conquista, oppressione e terrore. Per quanto io mi possa trovare in disaccordo con alcune sue osservazioni (una a caso, la confusione fra antisemitismo e antisionismo dei quali egli accusa parte della sinistra francese: quella sinistra potrà pur essere entrambe le cose, ma le due cose sono tra loro molto diverse) o considerarne altre di portata limitata (una volta per tutte: per me tutto ciò che non mette in discussione concetti e prassi legati al dominio è di portata limitata), apprezzo le critiche alla società del profitto, alle guerre di aggressione neocoloniale (e imperialista, aggiungo io), al pensiero unico dominante promosso da massmedia e pseudoesperti legati a interessi personali e di casta, ai politicanti di mestiere a caccia di voti e disposti a tutto pur di ottenerli. E a quel clima di omologazione al discorso retorico preconfezionato e utile al potere di turno che impedisce dibattiti sulle idee, privilegiando invece lo spettacolo, uno spettacolo al quale il filosofo francese dichiara di volersi sottrarre e dal quale non intende farsi strumentalizzare.

Lavoro, consumo, spettacolo, tecnologia: “Black Mirror”.

La doppia schiavitù del lavoro e del consumo in una società distopica altamente tecnologica, un mondo sterile dove i sentimenti sono falsi e servono ad alimentare la dipendenza, dove lo spettacolo ha raggiunto la sua funzione più alienante, dove la tecnologia che molti credevano mezzo per soddisfare agevolmente le esigenze umane si trasforma in droga e al tempo stesso in gabbia, perno dello sfruttamento. Se, come affermava Theodore Adorno, “La libertà non sta nello scegliere tra il bianco e il nero, ma nel sottrarsi a questo tipo di scelta prestabilita”, abbiamo ben presente che nella storia qui narrata non esistono vere vie d’uscita dal labirinto nel quale ci si trova, ma solo scelte obbligate. Lo scenario nella quale ci si muove, per quanto fantascientifico, è ispirato alla realtà nella quale viviamo in questo momento. Gli schermi ci nutrono di emozioni stereotipate studiate a tavolino dai servizievoli esperti di marketing e comunicazione, mentre noi ambiamo a conquistare il biglietto che ci permetterà di metterci in mostra -il che equivale ad esistere, in un mondo dove apparire è tutto- e di ottenere, forse, un passaggio di livello in una gerarchia fatta di piccoli e grandi ingranaggi, dove un pizzico di libertà può essere infine ottenuta solo vendendo la propria etica. In un mondo del genere ciò che è bello, autentico, non può che venir triturato, manipolato, corrotto, distrutto nella sua essenza e riproposto come involucro vuoto al fine di perpetuare il sistema e nutrire i suoi compiacenti schiavi.

Il video che segue è una puntata della miniserie televisiva Black Mirror. Un prodotto del sistema che si vuole criticare, direbbe qualcuno/a. Oppure un’operazione di riempimento di un involucro vuoto creato a scopo di lucro con contenuti che possano far riflettere e prendere coscienza di alcuni aspetti della realtà nella quale viviamo, una volta tanto non semplice intrattenimento, ma uso consapevole di uno strumento alienante per opposti fini?