Germania: NSU, Stato e politiche sull’immigrazione. Un articolo per approfondire.

Il gruppo terroristico tedesco NSU (National-Sozialistischer Untergrund, ovvero “Sottosuolo Nazionalsocialista” o “Clandestinità Nazionalsocialista”), composto da Uwe Böhnhardt, Uwe Mundlos e Beathe Zschäpe, è stato responsabile tra il 1998 e il 2008 di dieci omicidi, tre attentati dinamitardi e numerose rapine. La carriera terroristica del trio è terminata solo con la morte di Böhnhardt e Mundlos, presumibilmente suicidatisi dopo un tentativo fallito di rapina, e col successivo arresto della Zschäpe. È stato allora che l’opinione pubblica è venuta a conoscenza dell’esistenza di questa cellula terroristica neonazista, che è stata capace di uccidere otto persone di origine turca, una di origine greca, una poliziotta tedesca e di compiere attentati e rapine mentre i suoi membri, già noti alle autorità, si muovevano senza temere troppo di essere scoperti e le indagini sugli omicidi e sulle bombe prendevano più che altro di mira le vittime e il loro presunto coinvolgimento in giri malavitosi gestiti da connazionali. Con l’inizio del processo a Beathe Zschäpe è emerso come diversi apparati polizieschi e servizi segreti abbiano insabbiato le indagini, fatto sparire prove, taciuto e coperto gli assassini, mentre ottenevano informazioni da diversi neonazisti in cambio di denaro, a sua volta utilizzato per finanziare le sanguinose attività dell’NSU. Ufficialmente si è parlato di panne, cattivo coordinamento tra le forze di sicurezza e concorrenza tra i diversi reparti, al più di incompetenza individuale. La realtà invece è molto peggiore. Quella che può sembrare una teoria complottista, lo Stato -o alcuni settori che ne fanno parte- che usa gli estremisti di destra come braccio armato illegale per perseguire obiettivi politici e strategici che devono rimanere perlopiù estranei alla conoscenza dell’opinione pubblica, non è una fantasia. Chi pensasse diversamente farebbe bene a ricordare Piazza Fontana, Piazza della Loggia e il treno Italicus in Italia, le rapine e gli attentati del Brabante in Belgio, i colpi di stato in Grecia e Turchia- solo per citare alcuni esempi, i più noti e documentati fra i tanti. Rimane solo da chiedersi cosa ancora non sappiamo riguardo quelle strutture messe in piedi con l’inizio della Guerra Fredda, quanto queste siano ancora funzionanti e quale sia il loro attuale impiego e raggio d’azione al di là dei casi noti.

Nel caso tedesco, il ruolo dello Stato nell’ “affare NSU” èstato trattato approfonditamente in un articolo firmato dal collettivo tedesco Wildcat e ripubblicato in lingua inglese sulla rivista Viewpoint Magazine, del quale trovate qui sotto il link. Pur preferendo la segnalazione e la diffusione di articoli in italiano su questo blog, ritengo l’argomento particolarmente importante e l’articolo altamente informativo e corretto (al di là di qualche dettaglio sul quale dibattere o avere dubbi), quindi invito chiunque non abbia molta dimestichezza con l’inglese ma sia comunque interessato/a a saperne di più a fare uno sforzo nella lettura!

The Deep State: Germany, Immigration, and the National Socialist Underground.

deep stat

Controinformazione sul terremoto nel Centro Italia.

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Come ci viene raccontato dai massmedia il terremoto che in Italia ha colpito la zona appenninica compresa tra Lazio, Marche e Umbria provocando la distruzione di interi paesi, la morte di più di 300 persone e lo sfollamento di altre migliaia? Più che informazione corretta e scientifica, unita ad una seria e impietosa riflessione sull’impreparazione a tali catastrofi naturali tremendamente aggravate sia dall’incuria che dalla cinica speculazione umana, l’evento viene spettacolarizzato in chiave emotiva. Gli sciacalli sono lì alla ricerca di dettagli macabri, storie strappalacrime, immagini simbolo che devono tenere incollati/e i/le telespettatori/trici allo schermo, piangono lacrime di coccodrillo mentre pensano alla grande occasione di profitto che riempirà le tasche di pochi. Esiste però un altro tipo di mentalità e quindi un modo molto diverso di fare informazione e vorrei qui fornirne degli esempi, riportando alcuni articoli “di parte”, contro-informativi, contenenti testimonianze critiche, osservazioni tecniche e notizie utili su come aiutare sfollati/e e sopravvissuti/e:

Terremoto, e tutto tornerà come prima”, di Zatarra su Alternativa libertaria;

“Solo le montagne sono serene”, su Malamente;

“Terremoto: aumenta la solidarietà popolare e dal basso contro sciacalli, razzisti e istituzioni”, su InfoAut.

 

È sempre colpa dei rom…

Circa un mese fa mi sono imbattuto per caso in un’articolo molto interessante scritto da Carlo Gubitosa per l’Espresso. Solo oggi, essendomi finora mancato il tempo, riesco a riproporne il link su questo blog, ma a pensarci bene la mia intempestività risulta opportuna, un pò perchè ormai per le elezioni comunali a Roma i giochi sono fatti, ma soprattutto perchè quel che scrive Gubitosa è sempre valido anche a distanza di un mese e purtroppo temo che lo sarà anche a distanza di anni e proprio per questo va tenuto sempre presente e va ripetuto a voce alta in faccia a tutti i populisti, ignoranti e razzisti. Per sforzarsi di capire al di là dei pregiudizi, per dare voce a chi altrimenti resta solo un capro espiatorio, un sacco da boxe preso a cazzotti dai frustrati menati per il naso da opportunisti d’ogni risma, incapaci di individuare le cause reali della propria e dell’altrui sofferenza.

I diritti agli italiani, i doveri ai Rom: Virginia Raggi, antiziganista a sua insaputa”, di Carlo Gubitosa.

In Francia si estendono le proteste contro la legge di riforma del lavoro.

Nonostante le minacce del governo e la violenza messa in campo dalle “forze dell’ordine (costituito!)”, si inaspriscono ed estendono in Francia le proteste contro la riforma del lavoro. Per saperne di più consiglio la lettura del seguente articolo ripreso da Infoaut; per altre informazioni e analisi da una prospettiva anarchica/libertaria, suggerisco di seguire i siti di Alternativa Libertaria e del sindacato CNT-F .

“Francia. Dopo le raffinerie, i manifestanti annunciano blocco delle centrali nucleari

I muscoli sono sempre più tesi in Francia nel contesto del braccio di ferro tra il movimento contro la Loi travail e il governo. Da diversi mesi studenti, giovani precari, sindacati e lavoratori immigrati chiedono il ritiro del jobs act francese con impotenti manifestazioni rifiutandosi di accettare ogni mediazione col governo di Manuel Valls. Numerosi in queste ultime settimane sono anche stati gli scontri con le forze dell’ordine viste da più parti come le truppe al soldo di uno dei governi più impopolari della storia della repubblica.

Se in Italia in Italia i sindacati sembrano ormai convinti che scioperi e assemblee sindacali siano possibili soltanto quando non creano “disagi” (ossia quando sono inefficaci), la strategia dei sindacati in Francia è ormai sempre più chiaramente quella di colpire gli interessi economici francesi per costringere il governo a indietreggiare. Già da diversi giorni numerosi porti, raffinerie e depositi di carburante sono bloccati grazie agli scioperi e ai picchetti provocando la reazione scomposta da parte del primo ministro Manuel Valls che ha dichiarato che ci sarà tolleranza zero verso i manifestanti. Martedì a Fos-sur-mer la polizia è intervenuta con una violenza inaudita usando lacrimogeni e un bulldozer mentre stamattina gli agenti sono arrivati a Douchy-les-Mines dove i manifestanti hanno dato alle fiamme barricate di copertoni prima di essere costretti a lasciare i presidi. Tutte le otto raffinerie che si trovano sul territorio francese sono parzialmente o completamente bloccate, suscitando la collera del padrone di Total che ha minacciato ieri di rivedere gli investimenti del gruppo nel paese nel tentativo di spaventare i lavoratori. Ai tentativi d’intimidazione si risponde con l’occupazione di nuovi snodi logistici con l’obiettivo di bloccare tutto: diventiamo ingovernabili è lo slogan che risuona da più parti in risposta alle proposte di dialogo offerte dal governo. Il ricatto degli appelli alla democrazia e alla moderazione sembrano infatti cadere nel vuoto davanti a un movimento sicuro delle proprie ragioni: “Conosciamo le nostre responsabilità, che il primo ministro prenda le sue ritirando la legge sul lavoro. Da qui non uscirà più una goccia di petrolio” ha dichiarato a Le Monde il segretario CGT della Compagnie industrielle maritime. Gli effetti si fanno ormai sempre più evidenti anche sulle pompe di benzina, centinaia di distributori sono a secco e lo spettro di una mancanza generalizzata di combustile si fa sempre più concreta con il segretario di Stato ai trasporti che ha ammesso che il governo ha iniziato ad utilizzare le riserve strategiche di prodotti petroliferi.

Ieri il sindacato ha deciso di giocare una nuova importante carta, minacciando il blocco delle centrali nucleari per domani, giorno dello sciopero generale. “Le sorti del progetto di legge si giocano ora, quindi è ora che bisogna agire” ha dichiarato il portavoce della CGT-energia “facciamo appello a tutto il personale per fare salire la pressione sul governo attraverso l’abbassamento della tensione elettrica o tagliando direttamente l’energia sulla rete”. Alla centrale Nogent-sur-Seine i lavoratori hanno già comunicato l’adesione allo sciopero e i tagli di corrente dovrebbero provocare l’arresto di almeno due dei reattori del complesso. Dei “sabotaggi” sulla rete elettrica hanno già avuto luogo ieri a Plan de Campagne, nei dintorni di Marsiglia, dove i dipendenti del più grande centro commerciale d’Europa hanno rivendicato di aver fatto saltare la corrente in opposizione alla Loi travail. “

Unioni civili e Paesi incivili.

Finalmente in Italia è stata approvata una legge sulle unioni civili che regolamenta a livello legale la situazione delle coppie di fatto, finora discriminate rispetto alle coppie eterosessuali sposate. Una legge-compromesso che per il momento offre solo un contentino a chi da decenni chiede di non essere più discriminato/a, alla quale si sono opposti fino all’ultimo i settori più retrivi, oscurantisti e tradizionalisti del Paese, teocon in primis, una legge mutilata che non concede nulla sul tema importantissimo delle adozioni e che arriva con ventisette anni di ritardo rispetto a quella approvata in Danimarca, primo Paese europeo a riconoscere i diritti delle coppie non sposate. Oltre ad introdurre la possibilità di unione civile tra persone dello stesso sesso, la legge riconosce e regolamenta anche i diritti delle coppie “di fatto”, eteterosessuali ma non sposate, anche se “riconosce” è un termine in questo caso esagerato. Da riconoscere piuttosto è ancora una volta il tranello del percorso parlamentare nell’istituzionalizzazione dei diritti civili, che dovrebbero innanzitutto essere parte delle coscienze e del patrimonio morale della società e non strumento di stampo elettoralistico negoziabile a seconda delle esigenze opportunistiche e delle alleanze del momento. L’isteria che ha accompagnato e tuttora accompagna la discussione intorno alla legge appena approvata e più in generale sul tema delle “famiglie non tradizionali” dovrebbe spingere chiunque si batta contro l’omofobia e le discriminazioni di genere a lottare con rinnovato vigore per un cambiamento culturale nella società nella quale si vive, per il rispetto e l’uguaglianza di diritti, contro il dominio del patriarcato e le derive reazionarie. La libertà di gay, lesbiche, trans-, bi- e intersessuali è anche la mia libertà. Risultati immagini per anarchists against homophobia

Sulla riforma del lavoro in Francia.

Il seguente articolo, che analizza la legge sulla riforma del lavoro proposta dall’attuale governo francese e le lotte sociali che ad essa si oppongono, è tratto dal sito di Umanità Nova. Segnalo anche un altro articolo pubblicato su Z-Net Italy, che affronta lo stesso argomento da una prospettiva non anarchica, soffermandosi maggiormente sull’aspetto governativo-istituzionale-parlamentare-partitico. Buona lettura!

” Blocchiamo tutto!

loi_travail-35-2“L’obiettivo è quello di adattarsi ai bisogni delle imprese”
Myriam El- 

Da un’intervista al settimanale Les Echos del 19 febbraio 2016
Chi, in Italia, si prendesse la pena di leggere cosa comporta il disegno di legge proposto da Myriam El Khomri, la giovane (ha solo 38 anni) ministra del Lavoro, che presentandolo si è conquistato un ruolo nella storia nazionale della , farebbe una scoperta a ben vedere nemmeno troppo sorprendente: fatto salvo che i nostri fratelli d’oltralpe non chiamerebbero mai una legge con termini inglesi, è assolutamente simile all’italianissimo Jobs Act.
Le questioni che vengono affrontate con toni, per la verità, non dissimili da quelli ai quali ci ha abituato l’attuale governo, sono infatti:

Possibilità per gli accordi aziendali di andare in deroga ai contratti di categoria e allo stesso codice del lavoro. Un apologeta ingenuo, o sedicente tale, della democrazia diretta e del federalismo radicale potrebbe far rilevare che si deve lasciare ai lavoratori ed alle lavoratrici la possibilità di peggiorare liberamente le proprie condizioni di vita e di lavoro. Noi che siamo di animo cattivo, siamo portati a ritenere che una liberalizzazione del genere in un contesto capitalistico non possa che produrre una esasperazione ulteriore della concorrenza fra gruppi di lavoratori sottoposti, a livello nazionale e internazionale, alla pressione della minaccia delle delocalizzazioni se non della chiusura dell’azienda.

Maggiore possibilità di licenziare, sia per ragioni “economiche”, sia per ragioni disciplinari; indebolimento del ruolo della magistratura del lavoro che ha in Francia caratteristiche specifiche assai diverse da quella italiana, visto che si tratta di giudizi eletti dai lavoratori e dalle imprese; riduzione secca delle cifre che si possono percepire nel caso di licenziamenti ingiustificati.
Taglio rilevante del sussidio di disoccupazione che andrebbe a colpire sia la massa crescente dei lavoratori precari, che piombano regolarmente nella condizione di disoccupato, che i lavoratori a tempo indeterminato più facilmente licenziabili. Insomma si riducono contemporaneamente i diritti dei lavoratori e quelli dei disoccupati.
Estensione della giornata lavorativa e taglio degli straordinari. L’ipotesi contenuta nella legge è di rendere possibili giornate di 12 ore lavorative (ora il tetto è di 10), di permettere che le settimane lavorative di 46 ore in un anno possano essere 16 e non più 12, di tagliare lo straordinario retribuito non con un 25%, come nella precedente legislazione, ma con un 10% in più. Un’ipotesi devastante soprattutto nel settore della grande distribuzione come ben sappiamo in Italia.

Va detto però che, se le riforme del diritto del lavoro italiana e francese sono, per ovvie ragioni, simili, la reazione delle lavoratrici e dei lavoratori hanno avuto caratteristiche tanto diverse che, probabilmente (purtroppo) esagerando, vi è stato chi ha parlato di un nuovo maggio francese.
Anche una valutazione più prudente non può tuttavia sottovalutare il fatto che, da più di un mese, la Francia vede un susseguirsi di scioperi e manifestazioni, una dialettica sindacale vivace come non si vedeva da anni, e la discesa in campo di parti del mondo intellettuale, e che ciò avviene contro un governo di sinistra e, per la verità, più di sinistra – ammesso che il termine abbia ancora un senso preciso – di quello italiano.
Non si tratta di esultare per l’ennesima riprova dell’impotenza del riformismo, sappiamo bene che i fallimenti del Partito Socialista Europeo nel suo pretendersi altro rispetto alla destra non aprono meccanicamente la strada ad ipotesi e pratiche sovversive, ma di prendere atto del fatto che, piaccia o meno, sul terreno della politica intesa come attività separata e professionale, non vi sono spazi degni di nota per scelte diverse rispetto a quelle dettate dagli interessi delle effettive élites del potere.
Una giovane ministra, una ministra socialista che potrebbe essere guardata con istintiva simpatia da chi si batte contro le discriminazioni su base sessuale ed etnica, propone una legge che devasta il diritto del lavoro, che apre lo spazio al pieno dispiegarsi, mi si consenta il gioco di parole, del dispotismo aziendale, e non lo fa perché “tradisca” qualcosa o qualcuno ma perché il ruolo assegnatole è quello ed a lei, come ai suoi sodali, sta solo applicare quanto viene deciso altrove.

D’altro canto, sul terreno della soggettività, la situazione libera energie ed apre percorsi. Riporto parte di un documento interessante, l’appello “Blocchiamo tutto!”, firmato da oltre 500 militanti sindacali che vanno dai maggioritari ed istituzionali CGT, Force Oubriere, FSU a sindacati di opposizione come SUD e CNT:

“Il disegno di legge El Khomri è un insulto al mondo del lavoro. Raramente l’attacco è stato altrettanto pesante. Con l’inversione della gerarchia delle norme che permette agli accordi locali o aziendali al ribasso, ottenuti sotto ricatto, di sostituirsi agli accordi nazionali di categoria; lanciando l’offensiva contro lo strumento sindacale, tramite la promozione di referendum-bidone nelle singole imprese; organizzando e generalizzando la precarietà, la flessibilità e facilitando i licenziamenti, è una degradazione ulteriore del tempo e delle condizioni di lavoro di milioni di salariati quello a cui il Governo si sta preparando attivamente […]
La riduzione dell’orario di lavoro a 32 ore settimanali, senza riduzioni salariali, senza flessibilità, senza sconti o prese in giro, come sono effettivamente state in molti settori le “35 ore-Aubry”: ecco per esempio cosa è prioritario fare per contrastare il deterioramento delle condizioni di lavoro e imporre la creazione di veri posti di lavoro.

È insieme che andiamo alla lotta, è insieme che vinceremo!”

La richiesta delle 32 ore senza caratteristiche negative delle 35 ore concesse anni addietro per addomesticare l’opposizione sociale, quali la flessibilità e le deroghe, non è, di per sé, “rivoluzionaria”, ma pone al centro dell’agenda politico sindacale, contemporaneamente, la necessità di andare all’attacco e quella di una proposta capace di tenere assieme il mondo del lavoro salariato.
Soprattutto siamo di fronte ad un percorso unitario, non prodotto da alchimie organizzative, da trattative fra gruppi dirigenti, da operazioni di partito o, almeno, non principalmente da dinamiche di questa natura, ma dallo sviluppo del conflitto di classe.
La stessa considerazione, e ciò ha un valore ancora maggiore, va fatta sulla presenza massiccia, nella mobilitazione, di lavoratori e studenti di origine magrebina o dell’africa sub sahariana, in un paese segnato drammaticamente dal terrorismo Jihadista, da derive securitarie, da una tradizione nazionalista insopportabile.
C’è, in altre parole, da prendere atto del fatto che quando si verifica una mobilitazione con piattaforme chiare, sia in negativo (NO alla “riforma” del lavoro), sia in positivo, in quanto ricca di potenzialità sui temi dell’orario e dell’organizzazione del lavoro, sul salario, e sui diritti, la partita capitale-lavoro risulta oggi pienamente aperta, non nelle periferie del sistema mondo, ma in una nazione di medio rilievo situata nel cuore della fortezza Europa come la Francia.
La Francia gioca, insomma, oggi, un ruolo centrale, già immaginato da un famoso letterato tedesco dell’800 che ebbe ad affermare con tono oracolare:

“La filosofia non può realizzarsi senza l’eliminazione del proletariato, il proletariato non può realizzarsi senza la realizzazione della filosofia. Quando tutte le condizioni interne saranno adempiute, il giorno della ‘resurrezione tedesca’ sarà annunziato dal ‘canto del gallo francese’”

In ogni caso, il ‘canto del gallo francese’ andrà ascoltato con grande attenzione anche da questa parte delle Alpi oltre che al di là del Reno.

Cosa vuol dire sconfiggere lo Stato Islamico?

La domanda che mi ronza in testa da tempo è: “come si può sconfiggere lo Stato Islamico?”. A interrogarmi su tale questione non sono solo, infatti ho potuto leggere chilometri di articoli, analisi, interviste e altro ancora tra quanto è stato pubblicato in rete e su carta sull’argomento da due anni a questa parte, non tanto alla ricerca di una risposta definitiva ad un problema oltremodo complesso e in continua evoluzione, quanto nella speranza di poter avere una maggiore comprensione della natura dello Stato Islamico e delle possibili vie percorribili per raggiungere la sua sconfitta. Di certo la volontà di un ritorno ad un passato ideale, quello della comunità di fedeli islamici (umma) del VII secolo o giù di lì, da contrapporre all’islam odierno che i seguaci della branca salafita-jihadista rappresentata dall’IS considerano corrotto, non è nata ieri e non morirà in tempi brevi, se mai morirà. L’IS ha avuto l’astuzia e la perfidia di fomentare conflitti e divisioni di natura etnico-tribale-religiosa già presenti nelle zone nelle quali agisce, compiendo ad esempio, dopo il 2003, attentati in Iraq contro gli sciiti, che si vendicavano sui sunniti spingendo questi ultimi a cercare protezione tra le file dei combattenti di quella che all’epoca si chiamava Jamāʿat al-tawḥīd wa l-jihād, ribattezzata poi “al-Qaeda nel Paese dei due Fiumi”- un sodalizio, quello con al-Qaeda, che dura solo fino al 2006, quando l’organizzazione cambia nuovamente nome in “Mujaheddin del Consiglio della Shura” e, pochi mesi dopo, in “Stato Islamico in Iraq” (al-Dawla al-Islamiyya fi l-‘Iraq, in breve ISI), per divenire nell’Aprile del 2013 al-Dawla al-Islamiyya fi-l-‘Iraq wa-l-Sham, “Stato Islamico in Iraq e Siria (ISIS)” o “Stato Islamico in Iraq e Levante (ISIL)” e infine, con la fondazione del califfato nel Giugno 2014, semplicemente “Stato Islamico” (IS). Considerando solo i continui cambi di nome del gruppo e le diverse alleanze fatte e disfatte nel corso di pochi anni ci si accorge di trovarsi di fronte ad un’organizzazione versatile, che non ha, come al-Qaeda, solo l’obiettivo di un jihad globale, né tantomeno vuole (come ad esempio Hamas) circoscrivere il proprio potere ad un territorio delimitato,  ma ha l’ambizione di impore il proprio potere su tutti i territori da essa controllati militarmente stabilendovi subito la legge islamica (sharia) senza tener conto di confini statali esistenti e differenze di nazionalità: l’idea di Stato di questi personaggi rispetto alla concezione occidentale moderna di Stato-nazione è molto differente e va tenuta sempre presente. Lo Stato Islamico si fa portavoce di un ritorno all’essenza dell’islam e si richiama alla tradizione del califfato abbàside e della discendenza diretta da Maometto del nuovo califfo al-Baghdadi, rifiuta la modernità ma usa gli ultimi ritrovati della tecnologia per propagandare le proprie idee con strategie pubblicitarie degne di un’azienda leader sul mercato, dichiara guerra all’Occidente ma massacra più musulmani/e di chiunque altro, fa proprio il concetto di “scontro delle civiltà” di Samuel Huntington riadattandolo secondo le proprie esigenze. L’IS ostenta la propria crudeltà per intimorire gli avversari e allo stesso tempo applica nei territori sotto il suo controllo misure paternalistiche e caritatevoli atte a tenere a bada il malcontento della popolazione che, più per paura e mancanza di alternative che per convinzione, non sa opporsi efficacemente al potere totalitario del califfato. La forza dello Stato Islamico non si limita solo alla capacità di trarre vantaggi dalle divisioni etnico-religiose (ironia della sorte, uno degli acronimi ufficiosi del gruppo è Daesh, che in arabo significa qualcosa come “portatore di discordia”), ma è anche data dalla propria abilità propagandistica e dalla sua forza economica. Quest’ultima poggia solo in piccola parte su offerte di denaro dall’estero, le entrate principali derivano dal traffico di beni artistici e archeologici e da quello di esseri umani (donne in primis, ridotte a schiave del sesso), dal saccheggio di villaggi e città occupati e dalla rapina (ad es. banca di Mossul), dalle tasse imposte alla popolazione, ma soprattutto dalla vendita di petrolio. Ad essere reclutati per la “guerra santa” sono soprattutto volontari provenienti dall’estero, mercenari a tutti gli effetti.

Un’altro aspetto che gioca a favore dell’IS è la mancanza di unità d’intenti tra i diversi Stati nel trovare una soluzione al conflitto in corso, visto che ciascuna potenza, internazionale o regionale, si impegna a difendere i propri interessi nella regione a scapito di altri Stati e, manco a dirlo, a prescindere dai reali interessi di chi abita la regione nella quale divampa il conflitto: l’Iran (e le milizie hezbollah, sua diretta emanazione in Libano) è legato da decenni alla dittatura della famiglia Assad, lo stesso vale per la Russia, che ha forti interessi economici (come la Cina) e strategici in Siria. La potenze occidentali della NATO sono intenzionate invece a rovesciare il regime di Damasco e in tale ottica hanno foraggiato i gruppi del Libero Esercito Siriano (FSA), tra cui spiccano numerose milizie islamiche, salvo poi bombardare l’IS quando questo ha palesato la propria volontà di conquista a scapito degli interessi occidentali e ha effettuato attacchi terroristici sul territorio europeo e statunitense. La Turchia, pur essendo un Paese NATO, segue invece una propria agenda politica imperialista e, come Arabia Saudita, Kuwait e Qatar, sostiene le fazioni islamiche anti-Assad più che quelle laiche, inoltre impiega le proprie energie principalmente nella repressione anti-curda. I quattro Paesi in questione hanno aiutato in modo più o meno intenso l’IS e continuano tuttora a farlo.

Quali misure sarebbero quindi efficaci per sconfiggere il califfato in Siria e Iraq e il gruppo islamico che lo ha fondato? Serve realmente a qualcosa trattare con Assad, considerato fino a poco tempo fa il problema principale? I Paesi uniti (incollati con lo sputo, direi senza ricorrere a eufemismi) nella lotta contro l’IS dovrebbero inviare truppe di terra o continuare a bombardare? Pensiamo per un attimo agli interessi divergenti tra le potenze in gioco, ai rapporti tra Russia e Turchia, al destino dell’Iraq dopo l’invasione USA nel 2003 (i militari al servizio del dittatore decaduto saddam Hussein, licenziati dagli americani, finirono in gran parte tra le nuove reclute di Jamāʿat al-tawḥīd wa l-jihād, non dimentichiamolo), al fatto che le armi vendute da Paesi europei come la Germania ad Arabia Saudita e Qatar finiscano poi nelle mani dei mercenari del califfato e all’evidenza che i bombardamenti, anche quando non massacrano civili e colpiscono realmente obiettivi militari nemici, non servono a scalfire lo Stato Islamico (due predecessori di Abu Bakr al-Baghdadi, al-Zarqawi e Abu Omar al-Baghdadi, furono uccisi durante attacchi aerei statunitensi)…cosa si potrebbe realisticamente contrapporre alle milizie dello Stato Islamico, ma soprattutto, cosa significa veramente sconfiggere il califfato? Quella dell’IS è una visione del mondo manicheista, come già detto incentrata sullo scontro tra quell’islam definito autentico e il resto del mondo: sconfiggere lo Stato Islamico significa soprattutto sconfiggere questa visione. Alimentare l’odio, la disgregazione sociale e la contrapposizione violenta è fondamentale per creare artificialmente uno scontro di civiltà: rifiutarsi di prestare il fianco a questa logica è un atto di resistenza fondamentale contro i progetti jihadisti. Chi oggi in Europa si batte per l’accoglienza dei profughi, contro l’islamofobia e le logiche delle destre estreme e populiste sta automaticamente rifiutandosi di fare il pieno al serbatoio dello Stato Islamico. Occorrerebbe inoltre provocare diffuse proteste contro l’ipocrisia degli Stati coinvolti per procura nel conflitto, denunciare senza sosta le connivenze, le forniture d’armi, l’acquisto di petrolio, l’apertura mirata delle frontiere per far passare rifornimenti ai miliziani di al-Baghdadi, l’ambiguità e l’inefficacia delle soluzioni militari tanto quanto il fallimento pianificato di quelle diplomatiche. Inoltre ritengo fondamentale l’importanza dell’appoggio a quello che è un progetto politico, sociale ed economico diametralmente contrapposto alla visione del mondo di Daesh, ovvero al “modello Rojava”. In Rojava è in corso una rivoluzione dai tratti libertari che sta cambiando profondamente il volto della regione, una rivoluzione che ha come cardini la parità tra i sessi e tra le diverse etnie e religioni, il benessere collettivo, l’ecologismo, la democrazia di base, l’autogestione, l’antiautoritarismo. Un incubo non solo per l’IS, cacciato dalle milizie popolari volontarie del Rojava da Kobane e da altre città che aveva conquistato o che tentava di conquistare, ma anche per le potenze mondiali che vedono minacciati i propri interessi particolari nella regione da un progetto autonomo, creato dal basso nell’interesse di chi lo vive. La rivoluzione in Rojava avanza nonostante si trovi di fronte a difficoltà non indifferenti di varia natura, ma ha bisogno di tutto l’appoggio possibile, non solo in nome della lotta senza quartiere contro la barbarie di daesh, ma anche per la libertà e l’autodeterminazione di persone- altrimenti destinate ad essere sfruttate, discriminate, oppresse e soggiogate se non direttamente massacrate da poteri locali o esterni- che hanno deciso di alzare la testa e decidere del proprio futuro costruendolo con le proprie mani.

Contro il razzismo, il sessismo e tutte le forme di oppressione.

Ogni giorno, in Europa, le donne vengono fatte oggetto di violenze fisiche e psicologiche, partendo dalle battute da ubriachi al bar e finendo con stupri e omicidi. Ma basterebbe dire che ogni giorno, in Europa, le donne vengono fatte oggetto, punto. Oggetti sul mercato del lavoro, tra le mura domestiche, negli spettacolini televisivi per decerebrati, negli spot pubblicitari. Richiami sessuali, carne sul banco della macelleria capitalista, stereotipi, pallide ombre di se stesse e di ciò che potrebbero realmente essere. Eppure non si assite a ondate di indignazione come quella alla quale ci troviamo di fronte dopo gli episodi di violenza collettiva avvenuti a Colonia, in Germania, nella notte di Capodanno, quando numerose donne sono state derubate e molestate sessualmente da gruppi di uomini nei pressi della stazione centrale. La cosa che sembra interessare maggiormente chi discute dell’argomento è l’origine “straniera” di gran parte degli aggressori, una parte dei quali sarebbero addirittura profughi. Dall’indignazione all’isteria collettiva il passo è breve:ancora un passo e siamo alla strumentalizzazione politica. Partiti e movimenti razzisti, insieme ai vertici degli Stati europei che fanno il possibile per accogliere il minor numero di profughi rendendo loro la vita talmente difficile da spingerli ad andarsene senza nemmeno dover fare la fatica di espellerli, parlano di emergenza, “jihad sessuale”, chiudere le frontiere, cacciare i musulmani. Come sempre la strategia del criminalizzare intere categorie di persone in base a singoli episodi funziona, la gente ha paura, le masse sono irrazionali, tanto quelle degli aggressori di Capodanno quanto quelle che vomitano commenti razzisti ad ogni occasione e che scendono per strada in forme organizzate, come Pegida NRW e Ho.Ge.Sa. Con lo slogan “Pegida protegge”, un miscuglio di circa 1700 tra hooligans, neonazisti e razzisti della porta accanto hanno tentato di manifestare a Colonia lo scorso 9 Gennaio. Scrivo “tentato” non perchè il loro corteo sia stato impedito dalla contemporanea mobilitazione antirazzista di 1300 persone nella stessa città, ma perchè, dopo aver come sempre faticato a formare un servizio d’ordine interno al loro corteo composto da persone che non avessero consumato alcool e che non avessero precedenti penali, i razzisti sono stati fermati e riaccompagnati ai loro treni dalla polizia appena hanno iniziato a lanciare contro di essa bottiglie e petardi. Un grande successo, insomma. D’altra parte non ci si poteva aspettare altro da personaggi xenofobi, omofobi e maschilisti che parlano delle “nostre donne da difendere” come se le donne fossero una proprietà, come se le donne non fossero in grado di difendersi non solo fisicamente ma mettendo innanzitutto in discussione i meccanismi di oppressione e dominio sessista ancora vivi nella nostra società, meccanismi che non vengono “da fuori”, ma sono parte integrante della cultura di dominio patriarcale che finora non è certo stata sconfitta, ma ha solo in parte cambiato forma. La strumentalizzazione securitaria delle violenze sulle donne serve solo a rafforzare i meccanismi di controllo e repressione tanto nelle stazioni quanto alle frontiere, la strumentalizzazione razzista delle violenze sulle donne usa la sofferenza di alcune vittime trasformandola in un’arma contro altre vittime: ad esempio, quelle che fuggono dal terrore delle milizie di ISIS/Daesh che hanno fatto del femminicidio e della distruzione di qualsiasi forma seppur minima di emancipazione femminile la propria bandiera. E chi si oppone con maggior fervore alle orde di Daesh, non solo militarmente ma anche progettando concretamente una società liberata dal patriarcato, sono proprio le donne, in Rojava e altrove. Ciò dovrebbbe insegnare qualcosa di fondamentale a noi tutti/e, al di là dell’indiscutibile diritto all’autodifesa: se non si cambia la struttura delle società nelle quali viviamo non si affronta la radice dei problemi che ci affliggono, siano essi razzismo, sessismo, sfruttamento sul lavoro o negazione e repressione dei nostri desideri e delle nostre esistenze. La lotta dei soggetti oppressi è comune, non ha frontiere, sarà sempre in salita, ma è la più degna e necessaria che si possa combattere.

Come e perchè la Turchia supporta l’ISIS.

I movimenti politico-religiosi islamici sono stati usati dalle potenze occidentali in diversi luoghi e occasioni, soprattutto dall’inizio della guerra fredda tra USA e URSS, come diga all’espansione di idee comuniste, socialiste o semplicemente progressiste, come strumento di controllo sociale e politico sulle popolazioni locali e come bacino di reclutamento anche per forze paramilitari e terroristiche. La Turchia in particolare non è nuova a questo genere di cose, in bilico fin dai tempi della fondazione della repubblica ad opera di Kemal Atatürk tra severo laicismo e spinte alla (re)islamizzazione, ha attraversato fasi durante le quali le frange islamiche più radicali sono state foraggiate dai potenti del Paese con il benestare degli USA e della CIA. Tanto gli Hezbollah sono stati impiegati nella guerra contro le popolazioni curde in Turchia accanto ai fascisti del partito MHP, quanto movimenti come quello di Fetullah Gülen (che si presenta come democratico e moderato, ma ad un’analisi attenta si rivela essere uno dei motori della nuova ondata di islamizzazione in Turchia) hanno ricevuto sostegno e legittimazione non solo dal partito di Erdogan, ma anche da autorità politiche e religiose internazionali. Il problema per le potenze occidentali, insomma, nasce solo quando lo strumento, in questo caso il fondamentalismo islamico, sfugge al controllo e/o non adempie più alle funzioni richieste da chi si erge, a volte con troppe pretese, al ruolo di burattinaio. L’articolo che segue, tratto da Z-Net Italy, illustra alcuni aspetti dell’appoggio offerto dal governo dell’AKP di Erdogan all’organizzazione terroristica Daesh (ISIS):

 “Il segreto di Pulcinella della collaborazione tra la Turchia e lo Stato Islamico

rojava

Di Yasin Sunca

29 Novembre 2015

L’espansione del gruppo terrorista denominato Stato Islamico è sostenuto dall’appoggio risoluto della Turchia, insieme ad alcuni altri stati.

Fin dall’inizio della guerra civile in Siria, il governo turco dell’AKP (Partito per la Giustizia e lo Sviluppo)  ha cercato di perseguire una politica estera informata e motivata dalla sua mentalità esclusoria riguardo alle sue comunità etniche e religiose e anche ai gruppi progressisti e rivoluzionari in Turchia. Il governo dell’AKP, allo scopo di reprimere e contrastare qualsiasi  successo politico  dei Curdi che stanno costruendo un progetto politico radical-democratico in Siria, appoggia qualsiasi tipo di gruppo estremista, compresi il gruppo Stato Islamico, il Fronte al-Nusra, ecc.

Il motivo per cui la Turchia appoggia il Gruppo Stato Islamico

La rinascita dell’approccio neo-Ottomano del governo dell’AKP, che fondamentalmente implica il diventare una regione egemone, e oltre alle questioni socio-politiche della Turchia storicamente radicate, ha spinto il  governo verso una politica regressiva strategicamente programmata che alcuni indicano sia sull’orlo del collasso.

Prima della cosiddetta “Primavera Araba”  il primo ministro allora in carica,  Ahmet Davutoğlu, aveva introdotto una nuova, più aggressiva politica estera intesa a dominare la regione. Ma considerando se stesso come il “grande fratello” della regione, l’AKP credeva che la Turchia potesse essere uno stato egemonico per coordinare l’area insieme alle potenze imperialiste occidentali. In base a questo ragionamento, l’AKP ha attuato una politica a due facce. Da una parte, la Turchia è intervenuta nei paesi della regione attraverso una serie di organizzazioni islamiste, che andavano da diversi rami della Fratellanza Musulmana alle organizzazioni estremiste jihadiste, per rimodellare la formazione della regione nel loro migliore interesse,  dal 2007 in poi. D’altra parte, il governo dell’AKP tentava di costruire buoni rapporti con i poteri regionali allo scopo di far avanzare l’influenza economica e culturale della Turchia, che è stata definita come “soft power turco” dall’attuale   primo ministro Davutoğlu, nel suo controverso libro intitolato “Strategic Depth” (Stratejik Derinlik) , “Profondità strategica”. Questa politica del governo dell’AKP è stata  appoggiata dalle potenze imperialiste occidentali fino alla fine del 2012, poiché cercavano un’alternativa all’Islam politico radicale nel paese.

Tuttavia, per prima cosa gli sviluppi in Egitto e in Tunisia nel contesto della cosiddetta “Primavera Araba” e, secondo, la guerra civile in Siria, hanno cambiato moltissimo tutto per l’AKP nella regione e anche nei loro rapporti con le potenze imperialiste, rendendo visibile il loro impegno/collaborazione con le organizzazioni terroriste/jihadiste.

La Turchia ha eccessivamente appoggiato, facilitato e collaborato con vari gruppi jihadisti, compreso lo Stato Islamico, allo scopo di dare forma al futuro della Siria in linea con i suoi interessi. Per ironia, la collaborazione tra la Turchia e lo Stato Islamico è emersa  in parte grazie alla divisione delle potenze occidentali in schieramenti diversi riguardo alla guerra in  Siria. Durante il vertice del G20 tenutosi in Turchia, il presidente russo Vladimir Putin, che non vuole perdere il suo ultimo alleato nella zona del Mediterraneo, cioè Bashar Assad, ha citato circa 40 nazioni che sostengono  Daesh (ISIS), una delle quali, come il mondo ha appreso in seguito, è la Turchia.

Come detto sopra, la questione curda in Turchia è un fattore determinante per la politica estera della Turchia dalla formazione  della repubblica. Perciò la diplomazia turca è stata orientata a impedire categoricamente qualsiasi genere di progresso politico curdo. Questo si può osservare sia nel Kurdistan iracheno in seguito all’invasione statunitense dell’Iraq che nel Rojava (Kurdsitan Occidentale, Siria Settentrionale), dove i Curdi hanno ottenuto l’attenzione internazionale grazie alla loro eroica resistenza seguita da una vittoria storica contro il gruppo Stato Islamico a Kobanê. Dal momento che qualsiasi progresso politico dei Curdi altrove, catalizzerebbe la lotta dei Curdi nel Kurdistan Settentrionale (Turchia Orientale) contro la Turchia, il blocco dei Curdi a livello internazionale è diventata una delle massime priorità per lo stato turco.

A questo riguardo, il primo aspetto della resistenza curda contro lo Stato Islamico di fronte alla collaborazione tra la Turchia e tale gruppo estremista, è che il governo dell’AKP ha fatto una guerra per procura contro i Curdi del Rojava tramite il gruppo terrorista islamista allo scopo di bloccare o almeno di contenere un successo curdo in Siria. Il governo dell’AKP è anche responsabile degli attacchi dello Stato Islamico contro i Curdi e le persone di sinistra in Turchia e di non aver condotto un’effettiva indagine, malgrado tutte le prove. Lo Stato Islamico ha compiuto tre attacchi con le bombe: a Diyarbakir durante una manifestazione elettorale del partito di sinistra filo-curdo HDP; a Suruç, una città sul confine tra Turchia e Siria, e ad Ankara, durante una dimostrazione pacifista.

Il secondo aspetto è che     la resistenza curda nel  Rojava ha smascherato questa sporca collaborazione, specialmente durante la guerra a Kobanê. Infatti, la collaborazione della Turchia con i gruppi jihadisti e il loro utilizzo, specialmente contro i Curdi, non era iniziata con lo Stato Islamico e non era venuta fuori dal nulla. La Turchi l’ha fatto nell’ambito del suo approccio interventista al Medio Oriente che si può far risalire all’inizio del 2011 quando  appoggiava un altro gruppo jihadista, il Fronte Nusra, il ramo siriano di Al-Qaida che non è meno crudele del gruppo Stato Islamico. In seguito a una divisione interna nel Fronte Nusra, questo è stato rimpiazzato dallo Stato Islamico che fin da allora ha continuato a fare attacchi contro la terra curda liberata,  con l’aiuto del governo AKP. La collaborazione tra AKP e lo Stato Islamico continuerà fino a che uno avrà bisogno dell’altro. Ma c’è ora un equilibrio del terrore per la Turchia, creato dalla Turchia. Nel caso che questo paese interrompa la collaborazione con il gruppo Stato Islamico, e alquanto probabile che il gruppo terrorista gli  si rivolterà contro, dal momento che l’unica porta per le sue necessità logistiche è il confine turco.

In che modo la  Turchia appoggia il Gruppo Stato Islamico

La Turchia è in  collaborazione con lo Stato Islamico sia politicamente che ideologicamente e questa si espande in molti canali come è stato elencato in dettaglio

Da David L. Phillips sull’Huffington Post. Lo  Stato Islamico ha servito gli interessi turchi militarmente combattendo i Curdi, mentre il governo dell’AKP facilitava logisticamente e finanziariamente  la campagna omicida dello Stato Islamico. Il governo dell’AKP forniva anche equipaggiamento militare allo Stato Islamico. Tre camion carichi di armi si sono fermati nella regione di Adana il 19 gennaio 2014. Malgrado la smentita del governo, era chiaro che queste armi sarebbero state consegnate allo Stato Islamico. Secondo molti documenti venuti alla luce e in base alla copertura dei media, oltre a questi tre, ci sono stati molti altri camion di armi consegnate allo Stato Islamico, cosa confermata anche da video e foto fatte dai combattenti curdi dell’YPG (Unità di Difesa del Popolo)  e dell’YPJ (Unità di Difesa delle Donne). Inoltre il suolo turco era usato dai Sauditi per il trasporto di armi all’IS.

Il governo dell’AKP ha anche facilitato l’attraversamento del confine per i membri dello Stato islamico di recente reclutati, secondo un documento firmato dal ministro dell’Interno , Muammer Güler il 13 giugno 2014. E’ stato anche affermato dai media internazionali che il governo di Erdoğan  ha chiuso un occhio sulla “entrata per la jihad” attraverso il confine del pese con la Siria. Molti emendamenti ufficiali e domande nel Parlamento della Turchia proposti dai partiti di opposizione per avere una risposta ufficiale del governo riguardo alle facilitazioni per l’attraversamento del confine date ai jihadisti, sono rimaste senza risposta. Tra  molte di queste domande, il Membro del Parlamento del partito filo-curdo HDP, Ibrahim Ayhan, ha chiesto al ministro se il governo forniva rifugio ai membri dello Stato Islamico nel campo profughi di Akçakale.

Il gruppo dei combattenti  dello Stato Islamico, compresi i comandanti di alto rango, hanno ricevuto assistenza medica e sono stati curati negli ospedali delle città di confine della Turchia. Il giornalista turco Fehim Taştekin sostiene che il governo ha permesso l’acquisto e la vendita di petrolio proveniente dal territorio dello Stato Islamico. Inoltre, secondo altre fonti, alcuni dei membri della famiglia del presidente

Erdoğan, sono coinvolti nel commercio del petrolio dello Stato Islamico.

Nel trattare di questo, è fondamentale tenere a mente che un intervento militare internazionale non servirà a nulla se non al rafforzamento dello Stato Islamico e ad analoghi gruppi terroristi. Invece, appoggiare le forze di terra che combattono per la loro terra e per la loro libertà sarebbe del massimo rendimento.

Infine, essere di continuo solidali con l’esperienza unica  radical-democratica nel Rojava, al centro di una regione piena di violenza e di atrocità, è una responsabilità per tutto il globo e il modo migliore per andare avanti.

Yasin Sunca  è un attivista politico curdo e ricercatore indipendente. Seguitelo su Twitter @kurdeditir

Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo”