“War, Capitalism & Liberty”, le opere di Banksy in mostra a Roma.

 

2016-05-06-1462534828-9797183-xxx_2.jpgBanksy è un artista la cui identità è misteriosa, ma le sue opere sono oltremodo note. Sui muri e per le strade di innumerevoli città si possono ammirare i suoi messaggi ironicamente critici espressi attraverso il linguaggio della street art, veri e propri schiaffi che risvegliano le coscienze intorpidite e svelano le contraddizioni ed i fallimenti della nostra società, ma che sanno essere pungenti anche nei confronti di chi questa società la vorrebbe cambiare. Lo street artist di Bristol, Regno Unito (una delle poche informazioni presumibilmente certe che abbiamo su di lui, oltre al suo anno di nascita, 1974), non ama ovviamente rinchiudere le proprie opere nei musei, ma stavolta, ancora una volta, piaccia o meno, qualcuno lo ha fatto per lui. A Roma, dal 24 Maggio al 4 Settembre 2016, ha luogo presso il Museo Fondazione Roma la mostra War Capitalism & Liberty, che propone circa 150 opere provenienti da collezioni private, ma non sottratte alla strada, non rubate alla collettività. L’esposizione è suddivisa in base a tre temi (guerra, capitalismo e libertà) e comprende anche laboratori didattici per adulti e bambini. “E’ la prima volta che così tante opere di questo personaggio vengono esposte in un museo. Si è sempre detto che la street art non ha legittimazione nei musei. Che sia nata per esportare la bellezza dell’arte a tutti, indipendentemente dalla capacità economica. Ma era indispensabile e doveroso un omaggio a questo artista in un museo. Le sue opere di solito sono sui muri e quindi, anche se purtroppo è successo, non si possono strappare e muovere. In questo caso esponiamo opere certificate e realizzate su altri supporti”, afferma Emmanuele Emanuele, presidente della Fondazione Terzo Pilastro-Italia e Mediterraneo, che organizza la mostra.

Chissà se questa esposizione sarà un passo in più nel lungo percorso che vorrebbe portare ad un’accettazione di graffiti&co. nella percezione collettiva come opere d’arte piuttosto che come vandalismo e danneggiamento della proprietà pubblica o privata, oppure tenderà piuttosto ad acuire l’accesa polemica sull’ arte di strada contrapposta alla logica delle gallerie d’arte e dei musei. O quella sulla proprietà intellettuale di un’opera e sui suoi confini, non solo legali. Comunque vada, Banksy ha sempre saputo essere, tra le altre cose, originale e imprevedibile: forse stavolta lo sarà anche la sua reazione alla mostra.

Urupia, una comune libertaria nel Salento.

autogestioniurupia.jpg

Nel pubblicizzare, per così dire, l’interessantissimo incontro-dibattito sulle forme di autogestione e autoorganizzazione che si svolgerà a Roma il 2 Marzo prossimo presso lo Spazio Sociale 100celle, non posso fare a meno di cogliere l’occasione per “presentare” a grandi linee, per chi non ne avesse ancora sentito parlare, l’esperienza della comune libertaria di Urupia in Puglia, così come viene illustrata in un articolo tratto dal sito dello Spazio Sociale 100celle che promuove e ospita l’evento:

” URUPIA :: UNA COMUNE LIBERTARIA NEL SALENTO
Il progetto Urupia nasce all’inizio degli anni novanta dall’incontro tra un gruppo di salentini – all’epoca quasi tutti redattori della rivista Senza Patria – e alcune persone di origine tedesca, “militanti” della sinistra radicale in Germania.

Tre anni di seminari, scambi epistolari, incontri dibattiti, accompagnano un percorso di conoscenza, di chiarificazione degli obiettivi e dei contenuti del progetto, di definizione dei metodi organizzativi, delle prospettive economiche, delle possibilità politiche, ecc.
Il progetto decolla “uffucialmente” nel 1995, con l’acquisto di alcuni fabbricati rurali e di circa 24 ettari di terreno nelle campagne di Francavilla Fontana, nel Salento, a metà strada tra Brindisi e Taranto.
La masseria – così da noi si chiamano i cascinali di campagna – e i terreni vengono acquistati grazie alle (poche) possibilità economiche delle comunarde e a diverse sottoscrizioni, crediti e donazioni di compagne e compagni italiani e tedeschi. La proprietà di questi beni viene intestata all’Associazione Urupia, figura giuridica senza scopo di lucro, creata appositamente per poter sottrarre alla proprietà privata la disponibilità legale dei beni e dei mezzi di produzione della Comune.

La Comune Urupia diviene così realtà: suoi principi costitutivi sono soprattutto l’assenza della proprietà privata e il principio del consenso, ossia l’unanimità delle decisioni.

Questi “punti consensuali” vengono scelti nella convinzione che, in qualsiasi contesto sociale, una vera uguaglianza politica non sia realizzabile senza la base di una uguaglianza economica, e vengono assunti come corollario al desiderio di porre l’individuo, la sua autonomia e la sua felicità a fondamento di qualsiasi sviluppo sociale.
Urupia comincia a “vivere” nella primavera del ’95 con la ristrutturazione dei fabbricati – quasi 2000 metri quadri di strutture murarie coperte – e con la messa a coltura dei terreni della Comune, entrambi da anni in condizioni di avanzato abbandono.
Da allora tutti gli impianti fondamentali sono stati realizzati: acqua, luce, gas, riscaldamento, un impianto pilota di fitodepurazione per le acque di scarico, due impianti solari per la produzione di acqua calda, una fitta rete di tubazioni per l’irrigazione delle colture nelle campagne. Diversi spazi abitativi sono stati ristrutturati, così come molte delle infrastrutture della vita quotidiana: la cucina, i bagni, i magazzini , i forni, diversi laboratori, ricoveri per attrezzi, un campeggio attrezzato per gli ospiti estivi, un locale per lo stoccaggio e la vendita dell’olio, una nuova cantina, un capannone per le attività sociali e culturali…
I terreni sono stati quasi tutti messi a coltura, altri ne sono stati acquistati o presi in gestione: più di 15 ettari di oliveto – prevalentemente plurisecolare, tre ettari e mezzo di vigne, un ettaro di orto, i seminativi, i frutteti, ecc. per un totale di circa 30 ettari. Migliaia di nuove piante sono state messe a dimora.
Qualcuno ha detto che a Urupia si lavora “troppo”: e in realtà, se ci si guarda in giro, e si è stati qui almeno una volta all’inizio, non ci si può sottrarre alla sensazione di un’enorme, fervida, interminabile mole di attività che ha trasformato completamente, in poco più di 10 anni, l’aspetto di questo posto. Ma il lavoro a Urupia non è solo quello sui cantieri o nei campi: migliaia di ore di assemblee hanno impostato la nostra vita e le nostre scelte, regalandoci nello scambio maggiore consapevolezza e maggiore libertà praticamente su tutto: sui nostri limiti e sui nostri sogni, sulla cura dei figli e sull’uso delle auto, sulla guerra nei mille angoli del mondo e sull’allevamento degli animali, sui nostri consumi e sulle risorse del pianeta, sulla repressione politica ed economica e sulle nostre relazioni sociali…

Difficile descrivere oggi, dopo oltre 10 anni di vita, che cos’è la Comune Urupia; difficile dare un’idea, sia pure approssimativa, delle innumerevoli attività – poitiche, sociali, lavorative, economiche – svolte dal 1995 ad oggi dalle centinaia di persone che hanno animato questo laboratorio sociale dell’utopia.

Nelle intenzioni delle comunarde che diedero vita al progetto, la Comune avrebbe dovuto rappresentare la realizzazione pratica di un’utopia libertaria: la possibilità, cioè, di raggiungere un alto livello di autosufficienza economica, di libertà politica e di solidarietà sociale attraverso il lavoro e l’agire collettivo, eliminando ogni forma di gerarchia, sia quelle determinate dalla proprietà che quelle legate al sesso, sia quelle fisiche che quelle intellettuali. Urupia doveva essere un laboratorio quotidiano dell’autogestione che riuscisse a permettere al tempo stesso il massimo sviluppo delle possibilità individuali e la massima negazione delle leggi del mercato, il rispetto delle diversità umane e l’opposizione alle leggi del privilegio e del profitto; la dimostrazione concreta, insomma, della possibilità di un vivere individuale e collettivo che negasse, di per sè, il più possibile, le ingiustizie del sistema dominante.
Quanto di tutto ciò siamo riusciti a realizzare, anche questo è difficile dire, e comunque, forse, non spetta neanche a noi, questo compito. Lontana da noi la presunzione di aver anche solo sfiorato il raggiungimento di simili ideali, viviamo invece quotidianamente la consapevolezza della difficoltà di un percorso di vera autogestione: i continui conflitti tra privato e collettivo, il costante riemergere di comodi meccanismi di delega e di ambigue gerarchie informali, la difficoltà del raggiungimento di una vera uguaglianza tra i sessi e di un rapporto di serena, efficace collaborazione tra uomini e donne, la risucchiante prepotenza delle peggiori leggi dell’economia, sono tutte contraddizioni che stanno lì ad indicarci quanta strada abbiamo ancora da fare, e quanto difficile sia questo percorso.
Contraddizioni alle quali, tuttavia, non abiamo alcuna intenzione di sottrarci, semplicemente rivendicando un ingenuo, quanto ipocrita, immobile “purismo”.
Ciò che è certo è che in questi anni non c’è stata critica – o suggerimento, o consiglio, o obiezione – che, per quanto brutalmente o confusamente espressa, non sia stata da noi seriamente presa in considerazione e discussa. Siamo sempre stati convinti del carattere sperimentale del nostro progetto e abbiamo sempre creduto di dover cercare soprattutto nelle nostre menti e nei nostri cuori le strade di una sincera e reale trasformazione sociale. Così alla fine Urupia potrebbe anche essere vista come un crocevia di esperienze e di idee, come un teatro di sofferenze e di emozioni, di speranze e di amori, di rabbie e di incertezze; una piccola – ma quotidiana, continua – rappresentazione di una personale e collettiva ricerca di quel mondo migliore, più libero e giusto, nel quale sarebbe anche ora che cominciassimo a vivere, noi che ci avveleniamo il sangue per questo schifo di mondo che invece dobbiamo sopportare.”

Proprietà, possesso e furto.

L’ anarchico francese Pierre-Joseph Proudhon affermava che “la proprietà è un furto”, ma cosa intendeva dire esattamente? Che differenza c’è tra proprietà e possesso? Qual’è in linea di massima la posizione degli anarchici sulla legittimità o meno di proprietà e possesso? E sul furto? Per capire meglio questi concetti e per tentare di rispondere, pur senza avere pretese di esaustività, agli interrogativi appena posti, propongo la lettura di due testi, il primo tratto dalla sezione “citazioni sulla proprietà” di Anarchopedia, il secondo pubblicato sul sito Finimondo:

    ” <<Per capire bene la proprietà privata, bisogna distinguere tra una “proprietà” ed un “possesso”.

La “proprietà” è un monopolio su certi oggetti o privilegi protetti dallo stato, che potrebbero essere usati per lo sfruttamento d’altri. Un “possesso”, d’altra parte, è l’occupazione di certi oggetti che non possono essere usati per sfruttare altri (l’auto, il frigo, lo spazzolino da denti!! ecc) Per esempio, la casa dove uno vive è un possesso, invece se uno affitta questa casa ad altri, diventa una proprietà. Come, se uno usa un trapano per lavorare, questo trapano è un possesso, ma se assume un altro per usare il trapano, sistematicamente, il trapano diventa una proprietà. Anche se inizialmente, potrebbe essere difficile distinguere, questa distinzione aiuta moltissimo a capire la natura del capitalismo. Si tende ad usare la parola “proprietà” per tutto, dallo spazzolino da denti alla multinazionale, ma sono due cose diverse e con impatti sociali molto diversi. La differenza tra una proprietà ed un possesso si può vedere dai tipi di relazioni autoritari che generano. Per esempio, sul posto di lavoro, si capisce subito chi determina come debbano essere usati gli “oggetti” e chi effettivamente li debba usare. Questo porta ad un sistema quasi totalitario.

§         <<Nella società anarchica, non esisterebbero proprietà, ma soltanto possessi. Le case, come i mezzi di produzione, sarebbero possessi di chi li occupa, ma non ci sarebbe mai un diritto di proprietà, come nel sistema attuale. Pëtr Kropotkin affermava che lo stato era, “lo strumento per stabilire monopoli in favore della minoranza regnate.” Mentre certi di questi monopoli sono visibili, altri non si vedono e non hanno bisogno della forza per essere mantenuti.>>

§         <<Ci sono quattro tipi di proprietà che sono protetti dallo Stato:

1) Il potere di dare credito e denaro (la base del capitalismo bancario)

2) La terra e costruzioni (la base degli affitti)

3) I mezzi di produzione (la base del capitalismo industriale)

4) Le idee ed invenzioni (la base del copyright o “proprietà intellettuali”)

Mantenendo queste forme di proprietà, il capitalismo assicura che le condizioni oggettive dell’economia favoriscano il capitalista, con gli operai liberi soltanto di accettare i contratti di lavoro. Finché lo stato manterrà il controllo delle quattro condizioni suddette, il lavoratore può soltanto sognare l’emancipazione, ma non avverrà mai>>.

§         <<Il sistema attuale non può essere riformato, e quindi va distrutto, perché l’esistenza dello stato, “protettore” del monopolio dei poteri politici, giuridici, legislativi, militari e finanziari, permette l’esistenza dello sfruttamento, le classi sociali, l’oppressione ecc.

Anche certi sostenitori del capitalismo, riconoscono che la proprietà privata fu creata con la forza. Ma queste ammissioni contraddicono l’esistenza stessa della proprietà. L’utilizzo della forza rende illegittimo l’acquisizione di un oggetto. Il furto e vendita di un oggetto non rende la proprietà di un oggetto legittimo, tranne quando è acquistato in buon fede, ma certamente, questo non è il caso. Quindi, se l’iniziale acquisizione dell’oggetto era illegittimo, tutti i diritti seguenti sono pure loro illegittimi. L’appropriazione della terra necessita di uno stato che ne difenda il diritto. Senza uno stato, il popolo potrebbe liberamente usufruire delle risorse della terra per soddisfare i loro bisogni ed esigenze. Quindi, il privilegio e la proprietà sono la conseguenza dello stato>> (anonimo).”

 

“Furto ed espropriazione

Secondo il “Risveglio”, la soluzione anarchica del problema sta nella risposta al seguente questionario a cui, senza pretese ma con tutta franchezza, ci proponiamo di rispondere nell’ordine che troviamo.
 
– In linea generale è da consigliare o sconsigliare il furto?
Secondo noi, quando si tratta di fatti che sono proibiti dalla legge e quindi soggetti a sanzione penale, non si consigliano agli altri che con l’esempio proprio. Ma quando, indipendentemente dal nostro consiglio, codesti fatti sono avvenuti e l’autorità si cinge a giudicarli ed a punirli, noi abbiamo il diritto di giudicarli a nostra volta, di spiegarli se ne siamo capaci, di giustificarli anche, se, in coscienza, li consideriamo giustificabili. In quest’ultimo caso a noi incombe anzi il dovere di difenderne gli autori contro le rappresaglie e le vendette dell’autorità. Negli altri, noi non crediamo che l’anarchico possa mai associarsi alle repressioni della legge borghese.
 
– Giova o nuoce la pratica del furto alla nostra propaganda?
La grande massa degli uomini priva d’alcuna porzione del patrimonio sociale è vittima di un grande furto iniziale che è la proprietà privata. I detentori di privata proprietà hanno legittimato con la legge quel loro furto e con la legge hanno stabilito i modi e le forme con cui deve compiersi il trapasso della proprietà dalle mani di uno a quelle di un altro. E hanno chiamato furto tutti quei modi che non sono contemplati e giustificati dalle loro leggi.
Ma per noi, anarchici, il “furto” preveduto e punito dalla legge borghese ha lo stesso valore del contratto d’impiego industriale, d’affitto rurale od urbano, dell’appropriazione per eredità ecc.: è, cioè, un atto d’appropriazione a vantaggio personale senza corrispettivo di lavoro produttivo o di servizio utile.
Il furto è quindi possibile soltanto in regime di monopolio della ricchezza ed appartiene per sua natura all’ordine di cose fondato sulla proprietà privata.
Vuol dire questo che noi dobbiamo condannarlo a priori, come a priori condanniamo la rendita, l’interesse, lo sfruttamento capitalista, l’eredità?
No. Il disoccupato che ha fame è vittima del grande furto consumato ai suoi danni; e quando “ruba” si toglie una porzione della ricchezza che produsse e di cui fu arbitrariamente — per quanto legalmente — spogliato. Si sono trovati persino giudici borghesi disposti ad assolverlo.
Il diseredato che ruba compie — inconsapevolmente molte volte — un atto di rappresaglia contro coloro che, primi, l’hanno derubato e si restituisce nel possesso di ciò a cui ha in parte diritto — se è vero, come gli anarchici concordemente sostengono, che tutti gli uomini hanno eguale diritto all’uso della ricchezza sociale pel soddisfacimento dei propri bisogni.
La nostra propaganda si svolge in un ambiente dominato dalla morale borghese, tutta devozione ipocrita all’istituto della sacrosanta proprietà e non v’è dubbio che le nostre idee sulla proprietà stessa e sul furto si prestino ai nostri nemici per mettere in cattiva luce le nostre idee e i nostri caratteri.
Ma è pure certo che intorno all’istituto della proprietà noi abbiamo idee e sentimenti di recisa avversione; che il furto parziale illegale non può trovare presso di noi tanta ostilità quanta ve ne trova il furto totale legalizzato; che se non sempre noi riusciamo a giustificarlo, sempre lo spieghiamo come una conseguenza logica inevitabile dell’iniqua, ingiusta ripartizione del patrimonio sociale.
 
– Dato che un compagno si è trovato una prima volta a dover rubare, bisogna spingerlo a diventare un professionista del furto o distoglierlo?
Bisogna, prima di tutto, non lapidarlo, non schernirlo, non unire la nostra voce d’irosa riprovazione al coro vendicativo dei moralisti venali, dei poliziotti e dei giudici. Perché noi sappiamo — e non abbiamo come i moralisti venali, i poliziotti e i giudici alcuna ragione per fingere d’ignorarlo — che al “furto” non si è dato per passatempo, ma che profonde, spesso tragiche ragioni ve lo hanno spinto.
Poi, se ci sentiamo in vena di precettori, possiamo dirgli: compagno, l’anarchico non ruba mai, espropria, qualche volta. Nel furto la società d’oggi è specializzata ed è armata potentemente a reprimere quelle forme di furto che non le convengono. Rubando tu non risolvi nulla né per te né per gli altri. Non per te, perché dentro e fuori — più dentro che fuori — dalle galere, non avrai un momento di tregua; non per gli altri, perché quando tu riuscissi ad appropriarti la fortuna di un altro non avresti fatto che cambiare il titolare di una proprietà rimasta immutata sui diseredati costretti ad alimentarne col sudore e col sangue i privilegi. E se tu sei veramente anarchico non hai certo di mira di diventare un borghese. Siam d’accordo con te che i titoli della proprietà individuale sono nulli, che la rivoluzione sociale è inconcepibile ove non sia accompagnata dalla totale espropriazione della ricchezza dalle mani di coloro che arbitrariamente la detengono a beneficio di tutti; e se veramente l’inerzia t’umilia, se ti senti cuore e mente, volontà e spirito di sacrificio per lanciarti, sentinella avanzata, nella mischia sociale per sovvenire coi mezzi dell’espropriazione parziale ai molti infiniti bisogni della propaganda e della preparazione rivoluzionaria, nell’operosa attesa che l’ora scocchi al quadrante della storia dell’espropriazione totale, non noi cercheremo nei sacri testi della morale anarchica, la censura o l’anatema. Guarda però che l’attivo è dubbio ed irto di minacce; sicuro invece il passivo, di cui, con tutta probabilità, non resterà che l’esempio d’una rivolta e d’un sacrifizio maledetti dal nemico, scherniti dal volgo, sospetti ai tiepidi, che per riuscire suggestivi dovranno essere ed apparire incontaminati e puri.
E s’egli, compresa la gravità del compito che s’impone, si getta allo sbaraglio e diventa non “un professionista del furto” ma un espropriatore rivoluzionario anarchico — lapidateci, o moralisti censori — ma noi lo rispettiamo e l’ammiriamo come anche voi ammirate gli eroi che ritenete in regola coi precetti del vostro anarchismo morale e incompleto.
 
– Se v’hanno tra noi compagni di rara audacia, energia e potenza d’azione dobbiamo applaudirli di perderle in volgarissime imprese di furto o grassazione od augurare che servano ad atti d’importanza storica?
I compagni di rara audacia energia e potenza, hanno generalmente anche una chiara coscienza dei propri atti e fanno a meno così dei nostri applausi come dei nostri consigli. Sopratutto, i compagni così descrivibili, non conducono una vita volgare.
Conducono una vita di lotta in cui non è mai un minuto di tregua. Insorti contro il più geloso dei privilegi costituiti, quello per cui esistono sopratutto gli eserciti, le leggi, i giudici, le galere e la morale che nei millenni ha avvelenato la mente e il sangue dei diseredati d’ogni più paurosa superstizione, essi hanno contro di sé più che l’organizzazione dello stato e l’interesse dei privilegiati; hanno contro di sé il pregiudizio devoto delle masse, gli scrupoli atavici dei loro stessi compagni.
Sono soli, o quasi, a proclamare la giustizia della loro causa, e la proclamano offrendo l’olocauso della propria libertà, del proprio sangue, della vita.
E non è “volgarissima” impresa quella a cui s’accingono. La proprietà privata è come il monarcato, il parlamento, l’esercito, un’istituzione d’un ordine sociale che la rivoluzione da noi preconizzata aspira ad eliminare. Quando Bresci attenta al re, quando Vaillant attenta al parlamento, quando Masetti spara su di un colonnello, noi tutti comprendiamo che il loro atto ha un contenuto di giustizia ed è determinato da un’aspirazione alla libertà che palpita nei cuori dell’universale. Chi oserà negare che non sia un identico contenuto di giustizia nell’atto di Pini che espropria il ricco e restituisce alla collettività perché si armi a conquistare la libertà a cui ha incontestato diritto?
Di volgare nell’espropriazione rivoluzionaria è soltanto al paura dei borghesi e l’omaggio anarchico alla morale che li protegge.
In quanto ai nostri desideri, noi non possiamo che augurare che colui il quale si mette sul terreno dell’espropriazione rivoluzionaria sappia nella buona e nell’avversa fortuna mantenersi uomo di fede, degno delle idee d’emancipazione sociale che professa. Il trionfo della rivoluzione sociale sarà nello stesso tempo un atto di giustizia politica e d’espropriazione economica e nel quadro storico in cui quella matura un grande atto di giustizia economica può assurgere alla stessa importanza d’un grande atto di giustizia politica.
 
– Il genere di vita che deriva da tale illegalismo eleva od abbassa l’individuo?
E un genere di vita che comporta promiscuità pericolose. Per uno che ha coscienza, ve ne sono forse cinque o dieci che non ce l’hanno, o la perdono. Perché il denaro è corruttore e molti che cominciano coll’espropriare, finiscono poi per rubare nel senso volgare, borghese della parola.
Ma quell’uomo c’è, c’è stato, ci sarà sempre; la sua vita è fatta di sacrificio, di audacia e di fede e nessuno di noi ha il diritto di inveire contro di lui.
Del resto, poi, quell’ambiente non è più corruttore degli altri che in intensità. Tutta la società in cui viviamo è corruttrice. Ci sono i propagandisti dell’anarchia che adolescenti mossero i primi passi insieme a noi e son finiti al parlamento, al governo, nelle sinecure sindacali, o son rientrati nei ranghi della gente per bene che bada ai fatti suoi. Vuol dire questo forse che tutti i propagandisti vanno diffidati, condannati?
Non lo penso. L’anarchico che diventa ladro, è in rapporto a quello che diventa espropriatore, ciò ch’è l’anarchico finito in parlamento in rapporto all’anarchico rimasto anarchico: un transfuga.
 
– Cosa insegnano le esperienze già avute, in quale senso, cioè, sono concludenti?
Devo confessare la modestia delle mie esperienze in materia. Ma posso dire che se molti i quali amano atteggiarsi ad anarchici espropriatori hanno evidentemente mal compresa la propria vocazione — come molti che si credono altrettanti Bresci o Kropotkin hanno mal compresa la loro — esistono veramente uomini superiormente dotati che all’espropriazione rivoluzionaria si danno anima e corpo, con fede e disinteresse assoluti, convinti di affondare il piccone demolitore nel più solido istituto dell’ordine costituito, facendo opera due volte benemerita perché è esempio di ribellione in un campo chiuso dall’insuperata barriera di secolari devozioni e timori e perché il risultato delle loro audacie può servire ad alimentare le infinite iniziative rivoluzionarie che stanno loro a cuore.
Secondo il mio modo di vedere la loro attività ha, sinora, maggior valore in quanto è esempio di ribellione temeraria e di sacrifizio eroico, che non in quanto sia riuscita a sopperire ai bisogni delle altre attività rivoluzionarie. Ma, per me, il valore morale dell’esempio è infinitamente superiore a quello materiale del profitto. Non il denaro farà la rivoluzione sociale, ma il disprezzo del pericolo e delle sante istituzioni.
 
– L’ambiente in cui viene a trovarsi l’illegalista, la necessità di cedere la refurtiva a prezzi derisori, i contatti colla peggiore depravazione non fanno di lui un corrotto, uno sfruttato, un brutale?
Chi pone questa domanda pensa evidentemente ai ladri incoscienti, buttati al furto dalla cattiva conformazione della società, nei quali noi vediamo più delle vittime che dei colpevoli, contro i quali in ogni modo, noi lasciamo ai preti e ai giudici il triste compito d’inveire.
Noi discutiamo degli anarchici espropriatori, i soli che c’interessino, pel momento. E se non esitiamo a riconoscere che, dato l’ambiente in cui sono costretti a muoversi, possono essere facile preda dell’ingordigia dei ricettatori, quindi sfruttati, non riusciamo a comprendere perché debbano essere necessariamente dei corrotti e dei brutali.
Se hanno una coscienza illuminata da un grande ideale — ed allora soltanto restano anarchici — ed a questo, con abnegazione suprema, fanno dono della libertà e della vita, nel cimento quotidiano ineffabile; se nel martirio delle lunghe infernali detenzioni hanno dimostrato di saper essere uomini sempre, incutendo in ogni più avversa occasione ai loro stessi aguzzini, il rispetto alla loro dignità di uomini e di anarchici, vuol dire che quella coscienza può e sa resistere alle corrosioni dell’ambiente e che della rettitudine e della delicatezza dei sentimenti possono essere in grado di dare esempio, anziché riceverlo.
Si dirà ancora che qui si parla d’eccezioni e che la regola è ben diversa.
Ma non è così in tutto il movimento anarchico, la tutti i movimenti rivoluzionari dove molti possono bensì fregiarsi del nome, ma pochi vivono la sostanza intima dell’idea?
 
M.S.
 
 
[L’Adunata dei Refrattari, anno IX, n. 12 del 5 aprile 1930]”