Elezioni greche, vittoria di Pirro? Un tentativo di analisi.

Il raggruppamento della sinistra (“radicale”, aggettivano in molti) Syriza ha vinto le elezioni politiche in Grecia con la proposta di un programma basato principalmente sull’opposizione alle politiche di austerità imposte al Paese da UE e BCE, sul rilancio del welfare e sull’aumento di salari e pensioni. È possibile che Syriza riesca veramente a mantenere le promesse fatte in campagna elettorale, si chiedono ora in molti? Innanzitutto, per formare un governo il partito di Tsipras dovrebbe appoggiarsi ad un secondo partito, vista la mancanza di due seggi in parlamento necessari per ottenere la maggioranza assoluta, ma a prescindere da ciò le probabilità che in Grecia vi possa essere una netta inversione di tendenza rispetto alle politiche di lacrime e sangue imposte dal capitale europeo è a mio parere remota. Non si tratta qui di speculare su ciò che avverrà nelle prossime settimane, quanto di prendere atto di alcuni dati di fatto dai quali non si può prescindere, pena l’astrazione di qualsiasi ragionamento da un contesto reale. Provo a mettere da parte per un attimo la mia ostilità a partiti, elezioni, governi, istituzioni varie e a vedere la faccenda in modo pragmatico e scarno, considerando come valida la via istituzionale. Partiamo dal presupposto che le proposte fatte da Syriza, pur essendo di stampo riformista, porterebbero sollievo, almeno a breve termine, tra gli stati sociali più deboli della popolazione. Tsipras e i suoi colleghi e simpatizzanti sono in gran parte persone giovani, così come è giovane il loro raggruppamento politico, difficile accusarli di essere attaccati al potere a tutti i costi, altrimenti non avrebbero investito le loro energie in una lista di recente creazione che fino a pochi anni fa raggiungeva risultati elettorali trascurabili, perciò prendiamo per buono il presupposto secondo il quale credono veramente in quel che fanno, non sono corrotti (o almeno non ancora…) e sono intenzionati in buona fede nel voler cambiare le condizioni sociali ed economiche del Paese all’interno del sistema parlamentare, governando. Forse lo sanno anche loro, forse non lo vogliono ammettere nemmeno a se stessi o forse hanno una loro strategia, per quanto improbabile, ma dovranno fare i conti col fatto che chi tiene i cordoni della borsa non lascerà che la Grecia scantoni dal corso di riforme neoliberiste imposte dai creditori del Paese. I capitali si sposteranno altrove, niente investimenti, UE e BCE si faranno sentire a modo loro, non ci saranno i soldi per portare avanti le riforme sociali promesse, per rimettere in piedi lo stato sociale, per aumentare stipendi e pensioni. Possibile che il nuovo governo trovi un modo efficace di finanziare il suo programma tramite altri canali, altri partner commerciali? Lo ritengo improbabile. Ritengo improbabile anche una possibilità di intervento esterno sotto forma di golpe per impedire che la Grecia si renda autonoma dai piani di austerità e di riforme neoliberiste, ma d’altra parte un vero e proprio colpo di stato non è l’unico modo nel quale il potere economico-finanziario riesce ad influenzare la situazione di un Paese: a volte basta il caos creato da disordini interni, un paio di parlamentari di maggioranza che fanno i franchi tiratori, nuove elezioni… in un modo o nell’ altro, magari con l’aiuto di quella polizia che per metà vota l’estrema destra e di quell’esercito o di quei servizi segreti eredi di una tradizione reazionaria (o reazionari per natura, a dirla tutta), qualcosa si combina, magari un nuovo governo “pragmatico” e ben disposto a seguire i diktat della troika… e addio sogni di gloria della sinistra parlamentare!

Un’altro aspetto importante, almeno per me in quanto anarchico (modus “validità della via istituzionale” off!), è quello dei movimenti di lotta. Che fine hanno fatto in Grecia? Sembra che proteste, lotte nelle piazze e organizzazione dal basso nei quartieri, esperimenti autogestionari, scioperi e quant’altro siano andati via via riducendosi, perdendo col tempo vitalità. È solo una mia impressione? E se non lo è, ciò dipende dal fatto che chi porta avanti le lotte è semplicemente esausto, messo in difficoltà dalla repressione o che altro, o forse una parte di queste persone, con l’avvicinarsi delle elezioni, ha iniziato a sperare in una via istituzionale per cambiare la situazione attuale? Sono convinto che questo discorso non riguardi gli/le anarchici/che, non almeno ad un livello numericamente degno di nota, ma questi/e non sono le uniche persone che dovrebbero portare avanti un cambiamento socio-economico radicale, nel quale devono invece venir coinvolti ampi strati della società. Se chi realmente vuole cambiare le cose in Grecia, dal basso e in modo radicale in chiave emancipatoria e antiautoritaria, fosse incappato (o dovesse d’ora in poi incappare) nell’illusione parlamentarista, dovrà fare i conti con una vittoria di Pirro. Vinte le elezioni, formato un governo, investiti tempo, energie, speranze e progettualità in tutto questo, dopo la grande delusione arriverebbe la vera sconfitta e difficilmente rimarrebbero risorse impiegabili a breve termine per riportare la lotta nei luoghi che ad essa realmente competono.

 

“Nao vai ter copa!”: i mondiali di calcio in Brasile.

In molti/e non aspettano altro in tutto il mondo, animati da passione più o meno accesa nei confronti dello “sport più bello del mondo” o semplicemente dalla voglia di distrarsi dai problemi quotidiani che li/le affliggono: il 12 giugno inizia in Brasile il campionato mondiale di calcio. Non scrivo “dovrebbe iniziare” anche se sarei tentato: il fatto è che, piaccia o no, la logica del capitalismo che sta dietro i grandi eventi non ammette resistenze di sorta ed in nome del profitto si è disposti a passare anche sui cadaveri- letteralmente. A seguito delle proteste di massa contro il previsto aumento dei prezzi dei trasporti pubblici, la mancanza di investimenti statali nel settore sanitario e scolastico, gli sfratti e le politiche repressive nei confronti di poveri ed emarginati attuate dal governo brasiliano, strettamente connesse al grande evento calcistico, a livello internazionale ormai non è solo la voglia di pallone ad essere cresciuta, quanto la consapevolezza che il mondiale-almeno così come è stato organizzato nel Paese ospitante- vada boicottato. A tale proposito, la posizione maggiormente condivisa (che definirei “morbida” e “riformista”) viene efficacemente riassunta da un video visualizzatissimo sul web:

Difficile negare i fatti riassunti nel video, tutt’al più c’è chi corregge alcune affermazioni dell’autrice, ad esempio che la spesa affrontata è di 30 miliardi di reales e non di dollari- ora sì che mi sento sollevato! I “correttori”, che evidentemente non sono appena stati sfrattati da una baracca situata in una favela o pestati a sangue dai poliziotti impegnati a far pulizia in attesa di danarosi turisti, né stanno crepando di una qualche patologia altrimenti curabile a causa delle carenze del sistema sanitario pubblico, si impegnano nell’evidenziare le potenzialità economiche dell’evento per la popolazione tutta, invitando a lasciar perdere proteste e boicottaggi, fiduciosi che il mondiale cambierà in meglio il Brasile. Se così non dovesse essere, sarà allora per la prossima volta, no? Le olimpiadi in Grecia, il mondiale di calcio in Sudafrica, gli europei di calcio in Ucraina e Polonia- qualcuno si ricorda ancora di Italia ’90?: questi ed altri esempi dovrebbero bastare a chi ancora non avesse capito come funzionano certe cose. Chi abbocca alla balla del benessere diffuso scaturito dai grandi eventi di natura commerciale o è un boccalone, oppure è in mala fede e non ha capito che la passione per il calcio, sport popolare e “proletario” per origini storiche, ha poco a che vedere con gli interessi di multinazionali, grandi investitori e lacchè vari. Tra chi invece ha individuato le radici del problema c’è chi partecipa attivamente alle lotte in corso per le strade delle città brasiliane e chi tenta di appoggiare tali lotte con iniziative controinformative e con il boicottaggio attivo del grande evento sportivo di turno. Per chi fosse interessato/a, esiste in italiano una pagina su Facebook che promuove il boicottaggio attivo del mondiale; a chi cerca ulteriori informazioni sulle proteste e sulle ragioni di chi si oppone a questo mondiale di calcio, sulle politiche repressive e sui costi sociali, consiglio di seguire il sito in lingua italiana “Il Resto del Carlinho (Utopia)” che ritengo tra i migliori che io abbia trovato finora sul web; a tutti/e gli/le altri/e, auguro buona visione dell’ennesimo spettacolo sulla pelle degli sfruttati e dei senza diritti, ma tenete sempre presente che un giorno qualcuno potrebbe godersi un nuovo spettacolo costato la vostra miseria ed il vostro sfruttamento. Sempre che quel giorno non sia già arrivato e voi non ve ne rendiate nemmeno conto.

2- Schiavi del lavoro.

” wish i could cut the cord
that ties you to their lies
there must be more than buying their rubbish
i know it feels so good
to show them what you’ve got
but you can’t take it to your grave

i just want to live
i just want to sleep
why are we competing with our friends?
we’re all filled with grudge
don’t want to compete with my friends
i just want to be myself

your thoughts are powerless
but you want to be so strong
for the sake of your society
yet another lifeless week
spent at the factory
it’s modern day slavery

i just want to live
i just want to sleep
why are we competing with our friends?
we’re all filled with grudge
don’t want to compete with my friends
i just want to be myself

why are we competing with our friends?
we’re all filled with grudge
don’t want to compete with my friends “

Sulla protesta del “movimento dei forconi”.

Solo in questi ultimissimi giorni ho avuto tempo di leggere notizie e analisi sulle proteste messe in atto di recente un pò in tutta Italia dal cosiddetto movimento dei forconi. Il loro programma, o meglio quello che si legge sul sito del “movimento del popolo de i forconi“, è in sostanza una lista di riforme che hanno un senso solo se si riconosce come legittima e auspicabile l’esistenza del sistema capitalista con tutte le sue conseguenze (ad esempio la divisione in classi sociali), che si indirizzano contro quelle che vengono ritenute le “storture” di tale sistema (neoliberismo, delocalizzazioni, corruzione, clientelismo, scarsa mobilità sociale, eccessiva pressione fiscale …) e che risultano palesemente fallaci perchè mancano di risonoscere questi aspetti come intrinsechi al sistema capitalista stesso. A scendere in piazza nelle scorse settimane sono stati principalmente lavoratori autonomi e piccoli imprenditori impoveriti dalla crisi, spesso trascinandosi dietro la loro mentalità piccoloborghese col relativo strascico di razzismo, classismo, qualunquismo e patriottismo. Eppure, pur scegliendo i loro obiettivi in modo magari discutibile (perchè bloccare nel traffico i mezzi di trasporto di chi torna dal lavoro e non indire direttamente un bel blocco delle attività produttive?), pur avendo tra le loro fila elementi di destra o addirittura dichiaratamente neofascisti, pur cercando percorsi legalitari e appoggio da parte delle forze dell’ordine, i forconi non possono essere ignorati, né etichettati sbrigativamente come fascisti tout court. Chi accusa i piccoli imprenditori di aver evaso da sempre le tasse e di lamentarsi ora per l’eccessiva pressione fiscale dovrebbe interrogarsi, anarchici/che in primis, sulla legittimità stessa del concetto di tasse come imposizione di un contributo da parte dello Stato (vogliamo forse rileggere cosa dicevano sull’argomento i vari Proudhon, Warren o Tucker?), ma anche ricordare che al di là delle generalizzazioni è vero che le condizioni di vita di tanti esponenti della cosiddetta piccola borghesia spesso non si allontanano molto da quelle dei lavoratori dipendenti, né che quel tipo di mentalità reazionaria e per me ripugnante della quale parlavo poco sopra è tristemente diffusa anche tra tanti elementi di quelle classi sociali definite storicamente come proletariato e sottoproletariato. Sono tanti gli aspetti che accomunano queste classi sociali, non ultimo il fatto che le critiche al sistema, indirizzate solo ad alcuni dei suoi aspetti, siano mosse da chi non vuole abbattere tale sistema perchè ritenuto ingiusto, ma da persone che vengono escluse dal fittizio benessere da esso prodotto, quelli del “vorrei ma non posso”, che non detestano tanto i “padroni” quanto il fatto di non essere al loro posto: una conseguenza della mancanza di coscienza di classe, anche frutto dell’opera di molti di quelli che  lo scorso 9 Dicembre si sono ritrovati a protestare in piazza solo perchè scivolati più in basso nella scala sociale. Eppure, come tutti i movimenti di protesta, quello dei forconi non dovrebbe venir liquidato sbrigativamente, magari usando schemi e strumenti di analisi ormai superati, bensì seguito con attenzione. Finite le manifestazioni e i blocchi stradali il problema è ancora lì e con la rabbia di chi è sceso in piazza e continuerà a scendervi, anche se spesso con parole d’ordine molto diverse dalle nostre, bisogna fare i conti. Qual’è dunque il posto degli/lle anarchici/che in questo tipo di lotta, o meglio come rapportarsi nei confronti del malessere delle classi medie con l’acqua ormai alla gola, “proletarizzate”? In quanto persona “esterna” alle proteste, vivendo a troppi chilometri di distanza dai luoghi nelle quale esse si sono svolte e (probabilmente) continueranno a svolgersi, in questo frangente posso solo leggere ciò che avviene e farmi un’opinione, non certo dare consigli, piuttosto porre interrogativi. Di sicuro qui non sono tanto i metodi a dover essere radicalizzati, quanto i contenuti, il che è la cosa più lunga e difficile. Cercare altri luoghi e spazi di conflitto, altri soggetti partecipi? Ciò non esclude il fatto di doversi confrontare prima o poi, volenti o nolenti, con nuove componenti del disagio ormai diffuso ed esacerbato dalla crisi economica e con i loro discorsi. Confrontare e, chissà, magari anche scontrare: lo stringersi intorno all’appartenenza alla Nazione contro il potere delle banche e delle regie oscure aspirando ad una guida del Paese che sia trasparente ed incorruttibile non è solo ingenuo, ma anche pericoloso, vi ricorda qualcosa? In mezzo all’inconsapevolezza ed alla mancanza di chiarezza si può provare a inserire contenuti di critica radicale al sistema e costruire un percorso comune di lotta, pur rischiando di partire mezzi sconfitti vista la difficoltà dell’impresa, oppure lasciare tutto in mano a chi nella confusione ideologica ci sguazza?

La vita, non la morte.

Non ho pensato molto alla morte di Nelson Mandela, lo ammetto. Più che altro mi è capitato non di rado, in diverse occasioni, di pensare alla sua vita. Mi è capitato soprattutto da alcuni anni a questa parte di riassumere il mio giudizio su di lui con la banale formula del “non mi piace”, come se si trattasse di una pietanza che non mangio volentieri. In realtá ciò che di Mandela non mi è mai piaciuto è il fatto che sia salito al potere, per così dire: più che salire è sceso, a compromessi, molto in basso, abdicando a quella battaglia per il cambiamento e l’uguaglianza nel suo Paese che tanti sacrifici gli era costata. Eppure la sua lotta è stata indubbiamente legittima e il fatto che abbia trascorso quasi trent’anni in galera non è cosa da poco. Sarei io in grado di sopportare trent’anni di galera per aver lottato per le mie idee? Posso criticare sbrigativamente e con sufficienza  chi ci è riuscito? Il punto è che la vita di una persona a volte è troppo complessa e ricca di sfumature per poter essere giudicata con sentenze lapidarie, senza tenere conto di ogni suo singolo aspetto. Qualcuno ha messo insieme un paio di riflessioni che mi sento di condividere, parola per parola (sottolineo in particolare la parte riguardante il paragone con Gandhi) , appunto alcuni aspetti della vita di una persona con tutte le sue contraddizioni, i suoi sforzi e dilemmi, i suoi gesti ammirevoli o meno che siano, di fronte ai quali si dovrebbe riflettere prima di appiccicare etichette o unirsi ai calcolatissimi cordogli ipocriti di chi come al solito usa le persone da vive ma ancor più da morte infilandole addosso abiti che in vita loro non hanno mai indossato:

“Due o tre cose su Mandela”, dal blog  Ἐκβλόγγηθι Σεαυτόν Asocial Network di Riccardo Venturi.

Che vadano a FARE in culo.

Crescita e competitività sono i due termini che sento pronunciare più spesso quando assisto a discussioni sulla ripresa economica e sull’uscita dalla crisi (per oggi tralascerò il terzo diffusissimo termine, tagli alle spese– quelle sociali, ovviamente). Cosa significa “crescita” in questo contesto? Aumento della produzione e dei consumi, espansione dei mercati: tradotto, significa immettere sul mercato più merci, senza badare al fatto che le risorse del nostro pianeta non sono inesauribili, né tutte rinnovabili. Perché invece non ripensare produzione e consumo al di fuori delle logiche capitaliste,che oggi ci portano a gettare via un terzo degli alimenti prodotti per mantenere alti i prezzi e che ci stanno trascinando sul baratro del disastro ecologico dal momento che sfruttiamo attualmente più di quanto il pianeta abbia da offrire, ipotecando scelleratamente il futuro delle prossime generazioni? Non si dovrebbe produrre di più, ma redistribuire meglio ciò che viene già prodotto, riducendo ciò che è inutile, dannoso, sinonimo di spreco. La crescita in senso capitalista è fine alla moltiplicazione del profitto ed al suo reinvestimento, fine a se stessa, l’espansione è teoricamente infinita (ma le risorse non lo sono), così come l’espansione dei mercati avviene come vera e propria rapina a danno dei territori e delle popolazioni più deboli. Per quanto riguarda la concorrenza, al posto della gara tra imprese dove ci sono vincitori e sconfitti e dove inevitabilmente le classi sociali subalterne, nel migliore dei casi, raccolgono le briciole (s)vendendo la propria forza lavoro, il proprio tempo, rinunciando alle infinite possibilità che un diverso modo di produzione potrebbe offrire ai singoli e all’intera umanità, si dovrebbe e si potrebbe collaborare fra individui e comunità unendo gli sforzi per soddisfare i bisogni- non più indotti dalle logiche del “libero mercato”- vivendo in libertà, mutuo accordo e appoggio, consapevolezza. L’unico vero modo per uscire dalla crisi, l’unica cosa da fare , è farla finita una volta per tutte con l’origine della crisi: il sistema capitalista, quel sistema che, oltretutto, cerca giorno dopo giorno di convincerci che non esistono alternative e ci toglie energie, creatività e spazi per pensare e progettare un mondo diverso. In realtà non solo altri mondi sono possibili, ma già esistono. Creiamone altri a misura nostra e dell’ambiente nel quale viviamo, usciamo dalla crisi che ci hanno imposto e che ci fanno subire quelli che vogliono che tutto rimanga com’è.

Svendita totale.

Tre notizie risalenti ai giorni scorsi che non sarebbero dovute passare inosservate: in Polonia viene formalmente abolita la giornata lavorativa di 8 ore, in Italia i sindacati confederali e Confindustria siglano un accordo contro il diritto di sciopero, in Grecia il governo chiude la radiotelevisione pubblica disoccupando in blocco 2500 dipendenti. Reazioni? A parte quelle in Grecia, in Polonia solo qualche debole protesta di circostanza da parte dei sindacati asserviti, mentre in Italia nemmeno quelle: sono i sindacati asserviti ad aver sottoscritto l’ennesimo accordo-scempio coi padroni. Mi chiedo solo cosa pensino della faccenda i lavoratori e le lavoratrici iscritti a CGIL, CISL e UIL…

Sulla condizione della classe lavoratrice in Romania.

 

Fonte: Anarkismo.

"Perdonateci, per favore: non riusciamo a produrre tanto quanto rubate!”
“Perdonateci, per favore: non riusciamo a produrre tanto quanto rubate!”


” La classe lavoratrice rumena: come anatre inermi sotto il fuoco del capitalismo


Ci sono oggi circa 5 milioni di lavoratori in Romania. Altri 3 milioni (un quarto della forza-lavoro locale) lavorano in altri paesi dell’Unione Europea, per lo più in Spagna ed Italia. Il tasso ufficiale dei disoccupati è stimato al 6,7%, ma non è un dato affidabile. Questo dato riguarda solo le persone che sono registrate come disoccupati e non considera il totale di persone che potrebbe lavorare ma viene escluso. Per cui il numero reale dei disoccupati in realtà non è noto (o non viene reso noto dal governo), ma in base a logiche deduzioni, ci sarebbe da contare un ulteriore milione di persone.

Un quarto dei disoccupati ufficiali sono giovani laureati. Il 53% dei disoccupati registrati hanno esaurito il periodo nel quale hanno titolo a ricevere il sussidio (il 75% del loro salario) ed attualmente non hanno alcun reddito. I lavoratori, per dirla in modo gentile, sono in una situazione terribile. Più dei 2/3 dei 5 milioni di lavoratori sono occupati nel settore privato. Non sono sindacalizzati: ci vorrà una grande solidarietà tra i lavoratori unitamente a dure lotte contro la classe dominante (la classe dei padroni, protetta dallo Stato), per spezzare la loro opposizione e consentire che ci siano i sindacati nel settore privato.

Gli unici sindacati esistenti in Romania sono quelli  “gialli” – una sinistra farsa – all’interno di alcuni settori dello Stato (nella polizia, in parte dell’istruzione e della sanità) o all’interno delle aziende di Stato e di quelle aziende ex-statali che sono state privatizzate. Questi sindacati non fanno altro che tradire sistematicamente i loro iscritti. Le uniche lotte efficaci che questi sindacati hanno condotto sono state quelle per ottenere gli avanzamenti di carriera a livello dirigenziale nell’apparato statale per i loro funzionari. Ecco alcuni casi esemplari: un primo ministro della fine degli anni ‘90 era un sindacalista (nel 1999 giunse a licenziare 100.000 minatori in una notte su indicazione del FMI, portando intere regioni alla rovina e ad una indicibile situazione di povertà), poi ex-ministri, diversi membri di partito e legislatori che erano stati dirigenti sindacali, alcuni dei rumeni che compaiono nella classifica Forbes delle 500 persone più ricche sono ex-dirigenti sindacali.

In mancanza di organizzazioni sindacali, il livello di vulnerabilità della classe lavoratrice rumena è il più alto in Europa, e questo comporta tragiche conseguenze sull’intera società, come è clamorosamente emerso nel corso degli ultimi 3 anni di feroce attacco capitalista contro i lavoratori. Nel 2009, lo Stato rumeno fu il primo nell’Unione Europea ad imporre al popolo le ricette dell'”austerity”, appoggiato dal FMI, dalla Commissione Europea e dalla Banca Mondiale. Nel volgere di una notte, il governo raddoppiò intenzionalmente il numero dei disoccupati costringendo alla bancarotta centinaia di migliaia di piccole imprese. Si trattava di piccole imprese, spesso a conduzione familiare, con pochi dipendenti. Di fatto il governo le mise deliberatamente in ginocchio, imponendo loro una tassa che sapeva che non avrebbero potuto pagare. “Le imprese che non possono pagare la tassa di €500 devono chiudere”, disse l’allora ministro delle finanze, Gheorghe Pogea.

Questo ha portato al raddoppio dei disoccupati del settore privato. Fu il primo passo di una chiara guerra capitalista guidata dallo Stato contro i lavoratori. Il secondo atto contro i lavoratori compiuto dallo Stato – il quale pubblicamente ha ammesso di essere dalla parte delle imprese – fu quello di cambiare la legislazione sul lavoro, togliendo ai lavoratori persino quella fragile ed apparente protezione contro il chiaro e totale sfruttamento padronale. Sono stati resi possibili i licenziamenti a volontà, la demolizione dei contratti di lavoro a tempo indeterminato,  il ripristino dell’apprendistato, con cui si rendono i giovani lavoratori vittime vere  e proprie degli abusi legali da parte dei datori di lavoro. Gli annunci di lavoro ora chiedono apertamente disponibilità al lavoro “volontario” per fare “esperienza” – il che significa schiavitù, lavoro non pagato ed è un fenomeno drammaticamente diffuso. E come se non bastasse, i guru delle imprese vogliono altri cambiamenti nella legislazione del lavoro per rendere i lavoratori ancora più vulnerabili. Le aziende sono libere di militarizzare il lavoro a volontà, rivolgendosi alla polizia e spiando legalmente i dipendenti.

Lo sfruttamento e le misere condizioni di lavoro portano ad un alto numero di incidenti sul lavoro – 4.000 nel 2012, di cui 215 mortali. Anche in questo caso, il numero reale è probabilmente più alto, dal momento che molti di questi incidenti non vengono nemmeno registrati come “incidenti sul lavoro” (poiché il datore di lavoro verrebbe costretto a pagare i danni ai lavoratori o alle loro famiglie). Di nuovo, questo succede perché la classe lavoratrice non è sindacalizzata, succede a causa della spaventosa corruzione e della fraterna combutta tra Stato e classe padronale. (Alcuni media sono riusciti a far emergere come funziona questa fraterna combutta: nel 2010, è venuto fuori che alcuni alti funzionari dell’Ispettorato del Lavoro hanno preso mazzette dalle imprese a nome del partito al governo per coprire degli abusi contro i dipendenti). Il fatto è che il piano di austerità imposto dallo Stato è stato un attacco brutale contro i lavoratori, dal momento che ha artificialmente creato un tasso di disoccupazione che viene usato per spaventare i lavoratori ed indurli a lavorare di più ed ha reso più facili i licenziamenti per garantire più alti profitti, cosa che consente alle imprese di assumere poi altri dipendenti a salari pesino più bassi. Questo artificiale tasso di disoccupazione, creato dallo Stato a beneficio della classe padronale, diventa un potente strumento disciplinare che impedisce ai lavoratori di sindacalizzarsi e mette nella mani dei datori di lavoro i mezzi per tenere i salari al più basso livello possibile.

Lo scopo della “austerity” nel creare un alto tasso di disoccupazione era anche quello di paralizzare ogni possibile resilienza popolare nel momento in cui ci sarebbero stati ulteriori tagli agli stipendi nel settore pubblico ed in quello privato, sui redditi degli insegnanti, dei dottori, degli studenti, dei pensionati, contemporaneamente ad un brutale aumento dell’IVA di 5 punti fino al tetto del 24% su tutti i beni ed i servizi.  Tutti provvedimenti giustificati “in nome della crisi”, tramite una montagna di bugie ed una furiosa propaganda ideologica da parte dei media controllati dal padronato, sebbene ad un certo punto nel marzo 2009, il presidente rumeno, che aveva guidato l’attacco al mondo del lavoro, giunse ad ammettere che il paese aveva bisogno di un grosso prestito (€20 miliardi, cioè un 1/5 del PIL, quasi 4 volte di più di quanto realmente necessario, come riconosciuto da alcuni banchieri) allo scopo  “di dare alle banche ed alle imprese una chance”. Tutte queste misure contro il mondo del lavoro e contro i salari hanno in ultima analisi portato alle stelle il costo della vita, che tradotto significa che oggi metà del paese vive in condizioni di povertà. Le statistiche indicano che 1/5 dei lavoratori dipendenti non riesce più a vivere col proprio salario e vive in assoluta povertà, sebbene la realtà potrebbe essere persino peggiore.

Inoltre, lo Stato ha chiuso d’ufficio almeno 1.300 scuole (su 3.000 chiusure pianificate) ed 1/4 degli ospedali, per creare le condizioni verso una totale privatizzazione dell’istruzione e della sanità. I trasporti pubblici sono quasi tutti privatizzati, lo Stato sta ora cercando di vendere anche le Ferrovie e le Poste. I servizi sono quasi tutti privatizzati, senza che per questo si sia creato nulla di quella promessa di “libera competizione di mercato per abbassarne i prezzi”, invece i prezzi dei servizi sono in costante crescita, visto che lo Stato ha effettivamente creato monopoli privati territorialmente separati. Durante questa povertà pianificata imposta dallo Stato, che viene chiamata “austerity”, i prezzi hanno continuato a crescere in modo insostenibile, specialmente quelli degli alimentari e dei servizi, rendendo il costo della vita insostenibile e costringendo le persone a fare più lavori o a lavorare strenuamente. Il tasso dei suicidi è cresciuto drammaticamente. Nel 2011, uno studio dell’UNICEF su 30 paesi ha rivelato che la Romania ha il più alto tasso di bambini che vivono in povertà.

La propaganda di Stato, per far passare sui lavoratori la povertà pianificata, è stata incentrata un giorno sì ed un giorno no sulla stigmatizzazione dei lavoratori: i politici li hanno accusati senza sosta di essere “pigri”, mentre lor signori si concedono più spesa pubblica per finanziare i loro sponsors nel settore privato e per far sì che gli apparati della polizia antisommossa e dei servizi segreti siano ben retribuiti. L’intera situazione può ben essere illustrata dal tormentone scandito dal popolo che ha protestato nelle strade, per settimane di fila, durante il duro inverno del 2012, contro gli abusi, contro la corruzione diffusa e contro la povertà indotta: “Perdonateci per favore: noi non riusciamo a produrre tanto quanto voi rubate”. La realtà è che la classe lavoratrice rumena è la più sfruttata d’Europa: per il più alto numero di ore lavorate (legalmente dovrebbero essere 8 ore al giorno, ma tutti gli studi parlano di 10-12 ore effettive di lavoro, a volte anche durante la fine settimana), e per i peggiori salari in Europa, mentre il costo della vita è comparabile (se non più alto in certe zone) con quello dell’Europa Occidentale.

La classe lavoratrice non è sindacalizzata, nel settore privato i sindacati non esistono, e quelli nel settore statale sono esclusivamente sindacati “gialli”. I sindacati “gialli” sono altamente responsabili dello stato di disaffezione che si sta diffondendo tra i lavoratori rumeni. Sebbene sia un fattore cruciale, non è questo il fattore più pernicioso nella terribile situazione della classe lavoratrice. Ancora peggio della mancanza di sindacati è la mancanza di coscienza dei lavoratori della loro condizione reale: una condizione di persone costrette a lavorare per un salario, di cui i 2/3 se ne vanno per la mera sopravvivenza. Tuttavia, la maggior parte dei lavoratori si identifica nella condizione di consumatori, nel tentativo di sfuggire alla generale denigrazione della classe lavoratrice, quale risultante da decenni di propaganda statale, politica, mediatica e culturale. Quanto prima le persone prenderanno coscienza della loro condizione di lavoratori, di schiavi salariati, e ne coglieranno le cause, tanto prima dissolveranno la cortina fumogena delle illusioni imposte loro dal capitalismo e meglio riusciranno a cercarsi ed a trovarsi l’un l’altro, ad organizzarsi ed a ribellarsi, nella solidarietà, nella lotta per l’emancipazione. Cosa difficile, perché la propaganda capitalista domina su tutti i media, ma non impossibile. Ci sono i modi per informarsi sulla vera storia della classe lavoratrice e delle sue lotte, per informarsi sugli sviluppi in corso tra le classi lavoratrici di altri paesi, sui modi migliori per sindacalizzarsi ed organizzarsi. Non c’è nessun altro modo per la classe lavoratrice per sollevarsi, organizzarsi e lottare per se stessa.

IASR – Iniziativa Anarco-Sindacalista di Romania

Traduzione a cura di FdCA-Ufficio Relazioni Internazionali

Verwandter Link: http://iasromania.wordpress.com

“Fermiamo la guerra in Mali”: comunicato della FAI.

Fonte: Anarchaos.

” Fermiamo la guerra in Mali! [Comm. Rel. Internazionali FAI]

http://federazioneanarchica.org/archivio/20130216cri.html

Fermiamo la guerra in Mali!

L’11 gennaio il governo francese ha dato inizio ad un’operazione militare in Mali. Ha dichiarato di intervenire per sostenere le unità maliane contro il terrorismo di matrice islamica che imperversa in quell’area e per difendere la popolazione dalle violenze. Qualche giorno dopo, il 14 e il 17, rispettivamente la Germania e l’Italia, attraverso i loro ministri degli esteri, hanno affermato di appoggiare l’attacco francese in Mali e di essere disponibili a offrire supporto logistico. Passano poche settimane e, all’inizio di febbraio il presidente francese Hollande “atterra” tra le sue truppe a Timbuctu, ripreso dalle telecamere delle TV internazionali, sottolineando che le milizie islamiche/tuareg sono in fuga e il Mali è quasi completamente liberato: “Sosterremo i maliani fino alla fine di questa missione nel nord – ha dichiarato – ma non intendiamo star qui per sempre”.

Una frase che deve essere interpretata in senso esattamente opposto se si allarga lo sguardo alla politica estera dei governi francesi degli ultimi anni.
Infatti, c’è perfetta continuità tra Sarkozy che bombarda la Libia e Hollande che bombarda il Mali.
Sin dal 2007, in Niger, si è sviluppato un movimento tuareg, e dopo quasi cinquantanni di rapporti esclusivi con la Francia,questo paese aveva di recente aperto a compagnie non francesi lo sfruttamento delle risorse minerarie.
Certo, si potrebbero evidenziare le contraddizioni di chi interviene militarmente, ora in difesa della popolazione, ora per togliere di mezzo il dittatore scomodo. Insomma un giorno si spargono i “semi” della democrazia, l’altro si sostengono le forze ribelli con soldi e armi. A volte capita che i nemici di oggi siano stati gli amici di ieri (durante l’attacco alla Libia, Francia e Gran Bretagna hanno fatto ampio uso degli islamisti per combattere le forze armate di Tripoli, poiché i separatisti della Cirenaica non erano interessati a rovesciare Mu‘ammar Gheddafi una volta che Bengasi fosse diventata indipendente).
La campagna di comunicazione massmediatica preferisce mostrare le folle festanti che sventolano la bandiera francese invece delle migliaia di profughi che si sono concentrati in pochi giorni presso i confini maliani. Il ritornello si ripete mostrando i danni che i fondamentalisti hanno provocato al patrimonio culturale, (la biblioteca di Avicenna e i mausolei di Timbouctou) sottolineando il divieto di ascoltare la musica o di vestirsi senza seguire i dogmi religiosi. La distruzione generata dai bombardamenti dell’aviazione, invece, non appare mai.
L’opinione pubblica occidentale si confronta con l’ennesimo conflitto in modo apparentemente indolore: la distanza che ci separa dagli scenari di guerra favorisce, infatti, un certo “distacco”.
Non dobbiamo, però, scordare che gli interventi degli eserciti degli stati alimentano il pericolo “terrorista” (i recenti fatti che hanno interessato l’impianto energetico di In Amenas in Algeria rappresentano un esempio lampante).
Gli effetti di queste politiche neocolonialiste, travestite da missioni umanitarie, si estendono, comunque, anche all’interno dei confini dei paesi europei grazie alle legislazioni speciali antiterrorismo che, in nome della “sicurezza” continuano a erodere gli spazi di libertà e costituiscono uno “strumento repressivo e politico pronto all’uso” per fronteggiare le forme più pericolose e crescenti della protesta sociale.
Esaminando più nel dettaglio l’intervento militare in Mali ci si rende conto dell’infondatezza delle motivazioni ufficiali e delle mille contraddizioni che ne scaturiscono.
L’esercito francese era, da tempo, pronto a intervenire; la richiesta d’aiuto del presidente golpista Dioncounda Traorè è stata solo il pretesto.
È’ impossibile credere che sia stata l’emergenza umanitaria a spingere l’Europa a intraprendere questa nuova guerra. L’Africa è vessata, da decenni, da miriadi di focolai di violenza e nessuna potenza occidentale se ne è mai seriamente interessata. Si dirà che in Mali ad aggravare la situazione c’è l’emergenza “terrorismo islamico”.
Non dimentichiamo, inoltre,il ruolo degli Stati Uniti,in questa guerra,che da decenni contendono alla Francia il controllo della FrancAfrique.
Significativo il fatto che circa tre settimane dopo l’intervento francese in Mali, gli Stati Uniti abbiano siglato un accordo con il governo di Niamey per l’installazione di una base militare statunitense ad Agadez, nel nord del Niger nella zona uranifera del paese.

Dobbiamo considerare questa “nuova” guerra come la prosecuzione naturale della campagna libica e renderci conto che, probabilmente, ci troviamo di fronte a una precisa strategia neo-coloniale di controllo politico del territorio, finalizzato allo sfruttamento delle risorse naturali e inquadrato in un’ottica di contrasto dell’avanzata dei capitali cinesi in Africa. La Cina, infatti, è il primo partner commerciale di Tanzania, Zambia, Congo ed Etiopia (dove il PIL cresce con una media del 5,2% l’anno, cifre impressionanti) e in molte zone vanta l’esclusiva sui diritti di estrazione delle risorse.
Il governo francese ha enormi interessi economici nell’area centro-nord africana e sta cercando, anche con mosse azzardate, di mantenere sotto la propria influenza quelle zone di interesse strategico per l’abbondanza di risorse minerarie ed energetiche.
Il Mali potrà diventare importante nel prossimo futuro, ma il Niger lo è già ora. Non può sfuggire che, poco oltre il confine sud-est del Mali, sono collocate le più importanti miniere d’uranio nigeriane. Il riferimento è alla miniere di Arlit ed Akokan da cui la multinazionale Areva ricava gran parte dello “yellowcake” destinato ad alimentare i 58 reattori nucleari francesi. Nella stessa zona è prevista l’apertura di quella che è destinata a diventare una delle più grandi miniere al mondo per l’estrazione dell’uranio, Imouraren. Non mancano poi l’oro e il petrolio. Quindi, un grande affare che lo Stato francese – “spalla” di multinazionali come Total e Areva (giusto per fare due nomi) non può lasciarsi scappare.
Non si può dimenticare che la politica energetica francese è fondata sull’energia nucleare, una scelta che ha radici nel passato perché direttamente legata alla necessità di rafforzare il proprio ruolo militare nello scenario geopolitico internazionale. Sappiamo bene che non c’è soluzione di continuità tra gli impieghi, cosiddetti, civili dell’energia atomica e quelli finalizzati alla costruzione di ordigni destinati a minacciare l’umanità. Una scelta di sistema che rende, nell’attuale contesto d’instabilità, difficile, per il governo francese, individuare fonti energetiche alternative. La disponibilità dell’uranio rimane, quindi, una questione essenziale almeno in una prospettiva di medio periodo.
Quando l’esercito francese tornerà in patria sarà solo perché il controllo della situazione sarà affidato alle armi amiche delle forze africane alleate con la Francia.
Non è un caso che le forze armate della CEDEAO (Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale) siano state, velocemente, schierate lungo il confine tra Mali e Niger. La necessità di “proteggere” le aree d’interesse minerario da una possibile espansione della rivolta è stata subito evidente.
La nostra epoca è già contraddistinta da crisi energetiche e difficoltà di approvvigionamento di materie prime e non c’è da stupirsi che il capitalismo mondiale stia cercando di correre al riparo, ancora una volta, per garantirsi, con ogni mezzo, una parte del bottino. Tutti noi sappiamo che la guerra e la finanziarizzazione dell’economia sono mezzi per movimentare repentinamente enormi capitali, per riorganizzare equilibri politici di governi, stati e confini nazionali non più funzionali al profitto di multinazionali e società finanziarie.

Nel vicino Niger, da 40 anni, Areva e le sue consociate estraggono l’uranio senza alcun rispetto per l’ambiente e per i lavoratori, gli abitanti vicini ai siti di Arlit e Akokan hanno pagato e pagano un prezzo altissimo in termini di salute e di morte, come risulta da studi indipendenti (CRIIRAD – ROTAB). I minatori di uranio sfruttati infatti, sono esposti a radiazioni ionizzanti nelle cave, nelle miniere sotterranee, nelle officine di lavorazione del minerale grezzo, ma anche nelle città e nelle loro case. In questa zona 35 milioni di scorie radioattive sono raccolte all’aria aperta sin dall’inizio dell’attività estrattiva. Grazie al vento gas radon e altri derivati considerati cancerogeni si spargono nell’ambiente. Ma l’Areva opera anche sul territorio italiano. Il trasporto di materiale irraggiato passa per il nostro paese verso l’impianto di la Hague dove si estrae plutonio (per le bombe) e produce il mox (un combustibile di riciclo con cui funzionano alcune centrali). In Mali è la guerra di sempre, di stato e capitale, dove sfruttamento e saccheggio ai danni della popolazione non conoscono confini nazionali!

Diffondere l’informazione contro l’ipocrisia del potere, rafforzare la consapevolezza per far crescere la voglia di giustizia sociale sono solo i presupposti per sostenere le lotte che in ogni parte del mondo devono liberare gli oppressi da vecchie e nuove schiavitù, economiche, militari o religiose che siano.
Solo attraverso l’internazionalismo, l’antimilitarismo e la solidarietà di classe possiamo da anarchiche ed anarchici fermare l’orda di questo ennesimo, nuovo e lurido conflitto.

Fermiamo la guerra in Mali!
Solidarietà a tutte le popolazioni colpite dalla guerra!

Commissione Relazioni Internazionali
della Federazione Anarchica Italiana”