Iniziative No TAV, No MUOS e No Ponte.

Fonte: Notav.Info 

” Difendiamo la nostra terra, e difendiamo il nostro futuro!

574951_530297293681553_1917674626_nAncora una volta scendono insieme in piazza i movimenti che lottano per la difesa della salute e del territorio contro le grandi opere inutili , dannose ed imposte ai cittadini:

il 16 MARZO a MESSINA per chiudere definitivamente la partita del Ponte sullo Stretto e continuare le lotte per la Rinascita del Territorio, ribadendo la necessità di sopprimere la Stretto di Messina Spa, il recesso dal contratto con Eurolink (General Contractor per la progettazione e costruzione del Ponte), il non riconoscimento di alcuna penale e alcun debito.

il 23 MARZO in VALSUSA per impedire che una nuova linea TAV devasti inutilmente una valle. Mentre un intero sistema di trasporto pubblico è al collasso le grandi lobby guardano alle linee di alta velocità come al più grande business del secolo: impedire lo scempio e smascherare le complicità del forte intreccio politica/mafia è possibile e più che mai urgente.

il 30 MARZO a NISCEMI per revocare ed impedire la costruzione del Muos, il sistema d’antenne satellitari ad alto inquinamento elettromagnetico pensato per governare le guerre planetarie del terzo millennio (quelle degli aerei senza pilota, della guerra automatizzata), per smantellare le 46 micidiali antenne già installate , per la smilitarizzazione dei nostri territori .

Un mese di mobilitazione in cui faremo sentire le nostre voci all’unisono, in cui ricorderemo nuovamente che le lotte contro il ponte sullo stretto, contro il TAV in Val di Susa, e contro il MUOS in Sicilia si intrecciano naturalmente in un’unica battaglia per la difesa dei beni comuni. Diverse sono le specificità delle nostre lotte ma un filo rosso le unisce nei comuni obiettivi di fondo e nelle forme di una protesta la cui forza è continuamente alimentata da un’ampia partecipazione popolare.

Le nostre lotte hanno un forte legame con quelle per il lavoro e per la difesa dei diritti, unite purtroppo anche dalla stessa dura repressione, mentre rimane inascoltata la domanda sempre più urgente di una democrazia in cui cittadini possano decidere del loro futuro.

Una democrazia incompatibile con le grandi opere che devastano territori e utili solo ad alimentare il grande business del malaffare sottraendo risorse pubbliche alla sanità, alle pensioni, alla scuola, alla cultura, alla messa in sicurezza del territorio e degli edifici; una democrazia che rifiuta l’occupazione militare di vaste aree del nostro paese per preparare nuove micidiali guerre in tutto il mondo.

Difendiamo la nostra terra, e difendiamo il nostro futuro!

Facciamo appello a tutte le realtà che lottano contro le grandi opere inutili a mobilitarsi con noi promuovendo iniziative nel proprio territorio

Movimento NoPonte
Movimento NoTav
Coordinamento regionale dei comitati NoMuos

“Fermiamo la guerra in Mali”: comunicato della FAI.

Fonte: Anarchaos.

” Fermiamo la guerra in Mali! [Comm. Rel. Internazionali FAI]

http://federazioneanarchica.org/archivio/20130216cri.html

Fermiamo la guerra in Mali!

L’11 gennaio il governo francese ha dato inizio ad un’operazione militare in Mali. Ha dichiarato di intervenire per sostenere le unità maliane contro il terrorismo di matrice islamica che imperversa in quell’area e per difendere la popolazione dalle violenze. Qualche giorno dopo, il 14 e il 17, rispettivamente la Germania e l’Italia, attraverso i loro ministri degli esteri, hanno affermato di appoggiare l’attacco francese in Mali e di essere disponibili a offrire supporto logistico. Passano poche settimane e, all’inizio di febbraio il presidente francese Hollande “atterra” tra le sue truppe a Timbuctu, ripreso dalle telecamere delle TV internazionali, sottolineando che le milizie islamiche/tuareg sono in fuga e il Mali è quasi completamente liberato: “Sosterremo i maliani fino alla fine di questa missione nel nord – ha dichiarato – ma non intendiamo star qui per sempre”.

Una frase che deve essere interpretata in senso esattamente opposto se si allarga lo sguardo alla politica estera dei governi francesi degli ultimi anni.
Infatti, c’è perfetta continuità tra Sarkozy che bombarda la Libia e Hollande che bombarda il Mali.
Sin dal 2007, in Niger, si è sviluppato un movimento tuareg, e dopo quasi cinquantanni di rapporti esclusivi con la Francia,questo paese aveva di recente aperto a compagnie non francesi lo sfruttamento delle risorse minerarie.
Certo, si potrebbero evidenziare le contraddizioni di chi interviene militarmente, ora in difesa della popolazione, ora per togliere di mezzo il dittatore scomodo. Insomma un giorno si spargono i “semi” della democrazia, l’altro si sostengono le forze ribelli con soldi e armi. A volte capita che i nemici di oggi siano stati gli amici di ieri (durante l’attacco alla Libia, Francia e Gran Bretagna hanno fatto ampio uso degli islamisti per combattere le forze armate di Tripoli, poiché i separatisti della Cirenaica non erano interessati a rovesciare Mu‘ammar Gheddafi una volta che Bengasi fosse diventata indipendente).
La campagna di comunicazione massmediatica preferisce mostrare le folle festanti che sventolano la bandiera francese invece delle migliaia di profughi che si sono concentrati in pochi giorni presso i confini maliani. Il ritornello si ripete mostrando i danni che i fondamentalisti hanno provocato al patrimonio culturale, (la biblioteca di Avicenna e i mausolei di Timbouctou) sottolineando il divieto di ascoltare la musica o di vestirsi senza seguire i dogmi religiosi. La distruzione generata dai bombardamenti dell’aviazione, invece, non appare mai.
L’opinione pubblica occidentale si confronta con l’ennesimo conflitto in modo apparentemente indolore: la distanza che ci separa dagli scenari di guerra favorisce, infatti, un certo “distacco”.
Non dobbiamo, però, scordare che gli interventi degli eserciti degli stati alimentano il pericolo “terrorista” (i recenti fatti che hanno interessato l’impianto energetico di In Amenas in Algeria rappresentano un esempio lampante).
Gli effetti di queste politiche neocolonialiste, travestite da missioni umanitarie, si estendono, comunque, anche all’interno dei confini dei paesi europei grazie alle legislazioni speciali antiterrorismo che, in nome della “sicurezza” continuano a erodere gli spazi di libertà e costituiscono uno “strumento repressivo e politico pronto all’uso” per fronteggiare le forme più pericolose e crescenti della protesta sociale.
Esaminando più nel dettaglio l’intervento militare in Mali ci si rende conto dell’infondatezza delle motivazioni ufficiali e delle mille contraddizioni che ne scaturiscono.
L’esercito francese era, da tempo, pronto a intervenire; la richiesta d’aiuto del presidente golpista Dioncounda Traorè è stata solo il pretesto.
È’ impossibile credere che sia stata l’emergenza umanitaria a spingere l’Europa a intraprendere questa nuova guerra. L’Africa è vessata, da decenni, da miriadi di focolai di violenza e nessuna potenza occidentale se ne è mai seriamente interessata. Si dirà che in Mali ad aggravare la situazione c’è l’emergenza “terrorismo islamico”.
Non dimentichiamo, inoltre,il ruolo degli Stati Uniti,in questa guerra,che da decenni contendono alla Francia il controllo della FrancAfrique.
Significativo il fatto che circa tre settimane dopo l’intervento francese in Mali, gli Stati Uniti abbiano siglato un accordo con il governo di Niamey per l’installazione di una base militare statunitense ad Agadez, nel nord del Niger nella zona uranifera del paese.

Dobbiamo considerare questa “nuova” guerra come la prosecuzione naturale della campagna libica e renderci conto che, probabilmente, ci troviamo di fronte a una precisa strategia neo-coloniale di controllo politico del territorio, finalizzato allo sfruttamento delle risorse naturali e inquadrato in un’ottica di contrasto dell’avanzata dei capitali cinesi in Africa. La Cina, infatti, è il primo partner commerciale di Tanzania, Zambia, Congo ed Etiopia (dove il PIL cresce con una media del 5,2% l’anno, cifre impressionanti) e in molte zone vanta l’esclusiva sui diritti di estrazione delle risorse.
Il governo francese ha enormi interessi economici nell’area centro-nord africana e sta cercando, anche con mosse azzardate, di mantenere sotto la propria influenza quelle zone di interesse strategico per l’abbondanza di risorse minerarie ed energetiche.
Il Mali potrà diventare importante nel prossimo futuro, ma il Niger lo è già ora. Non può sfuggire che, poco oltre il confine sud-est del Mali, sono collocate le più importanti miniere d’uranio nigeriane. Il riferimento è alla miniere di Arlit ed Akokan da cui la multinazionale Areva ricava gran parte dello “yellowcake” destinato ad alimentare i 58 reattori nucleari francesi. Nella stessa zona è prevista l’apertura di quella che è destinata a diventare una delle più grandi miniere al mondo per l’estrazione dell’uranio, Imouraren. Non mancano poi l’oro e il petrolio. Quindi, un grande affare che lo Stato francese – “spalla” di multinazionali come Total e Areva (giusto per fare due nomi) non può lasciarsi scappare.
Non si può dimenticare che la politica energetica francese è fondata sull’energia nucleare, una scelta che ha radici nel passato perché direttamente legata alla necessità di rafforzare il proprio ruolo militare nello scenario geopolitico internazionale. Sappiamo bene che non c’è soluzione di continuità tra gli impieghi, cosiddetti, civili dell’energia atomica e quelli finalizzati alla costruzione di ordigni destinati a minacciare l’umanità. Una scelta di sistema che rende, nell’attuale contesto d’instabilità, difficile, per il governo francese, individuare fonti energetiche alternative. La disponibilità dell’uranio rimane, quindi, una questione essenziale almeno in una prospettiva di medio periodo.
Quando l’esercito francese tornerà in patria sarà solo perché il controllo della situazione sarà affidato alle armi amiche delle forze africane alleate con la Francia.
Non è un caso che le forze armate della CEDEAO (Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale) siano state, velocemente, schierate lungo il confine tra Mali e Niger. La necessità di “proteggere” le aree d’interesse minerario da una possibile espansione della rivolta è stata subito evidente.
La nostra epoca è già contraddistinta da crisi energetiche e difficoltà di approvvigionamento di materie prime e non c’è da stupirsi che il capitalismo mondiale stia cercando di correre al riparo, ancora una volta, per garantirsi, con ogni mezzo, una parte del bottino. Tutti noi sappiamo che la guerra e la finanziarizzazione dell’economia sono mezzi per movimentare repentinamente enormi capitali, per riorganizzare equilibri politici di governi, stati e confini nazionali non più funzionali al profitto di multinazionali e società finanziarie.

Nel vicino Niger, da 40 anni, Areva e le sue consociate estraggono l’uranio senza alcun rispetto per l’ambiente e per i lavoratori, gli abitanti vicini ai siti di Arlit e Akokan hanno pagato e pagano un prezzo altissimo in termini di salute e di morte, come risulta da studi indipendenti (CRIIRAD – ROTAB). I minatori di uranio sfruttati infatti, sono esposti a radiazioni ionizzanti nelle cave, nelle miniere sotterranee, nelle officine di lavorazione del minerale grezzo, ma anche nelle città e nelle loro case. In questa zona 35 milioni di scorie radioattive sono raccolte all’aria aperta sin dall’inizio dell’attività estrattiva. Grazie al vento gas radon e altri derivati considerati cancerogeni si spargono nell’ambiente. Ma l’Areva opera anche sul territorio italiano. Il trasporto di materiale irraggiato passa per il nostro paese verso l’impianto di la Hague dove si estrae plutonio (per le bombe) e produce il mox (un combustibile di riciclo con cui funzionano alcune centrali). In Mali è la guerra di sempre, di stato e capitale, dove sfruttamento e saccheggio ai danni della popolazione non conoscono confini nazionali!

Diffondere l’informazione contro l’ipocrisia del potere, rafforzare la consapevolezza per far crescere la voglia di giustizia sociale sono solo i presupposti per sostenere le lotte che in ogni parte del mondo devono liberare gli oppressi da vecchie e nuove schiavitù, economiche, militari o religiose che siano.
Solo attraverso l’internazionalismo, l’antimilitarismo e la solidarietà di classe possiamo da anarchiche ed anarchici fermare l’orda di questo ennesimo, nuovo e lurido conflitto.

Fermiamo la guerra in Mali!
Solidarietà a tutte le popolazioni colpite dalla guerra!

Commissione Relazioni Internazionali
della Federazione Anarchica Italiana”

Sulla rivolta sociale in corso in Slovenia.

Fonte: Anarkismo, pubblicato il 18/12/2012.

 

” Rivolta di massa in Slovenia

La scintilla ha acceso la rivolta contro l’elite politico-economica e contro l’intero sistema capitalistico

La Slovenia è scossa dalla prima rivolta di massa degli ultimi 20 anni e dalla prima rivolta in assoluto contro il sistema politico, contro le politiche di austerity, tanto che in alcune città sta assumendo un carattere anti-capitalista.

In meno di tre settimane ci sono state 35 manifestazioni in 18 città, dove più di 70.000 persone sono scese in piazza insieme. Le manifestazioni si sono spesso trasformate in scontri con la polizia che cerca di reprimerle violentemente. 284 persone sono state arrestate, alcune sono state rilasciate, altre no. Molti sono i feriti.

Tutto è iniziato a metà di novembre con le persone che protestavano contro il corrotto sindaco della seconda città della Slovenia, Maribor (già dimessosi). Lo slogan che scandivano era Gotof je (sei finito) che è stato poi utilizzato contro quasi tutti i politici sloveni. In pochi giorni le proteste si sono diffuse in tutto il paese. Stanno diventando sempre più il canale tramite cui le persone esprimono la rabbia verso le condizioni generali in cui versa la società: niente lavoro, nessuna sicurezza, nessun diritto, nessun futuro.

Le manifestazioni sono decentrate, antiautoritarie e non gerarchiche. Ci sono persone che non hanno mai preso parte ad una manifestazione prima d’ora. Ci sono manifestazioni in villaggi e città in cui non si era mai vista una sola protesta fino ad oggi. Le persone stanno creando nuove alleanze, diventano compagni di lotta e sono determinate ad andare avanti fino a che serve. Non sappiamo per quanto riusciranno a restare nelle strade. Ma una cosa è sicura. Le persone stanno sperimentando il processo di emancipazione e stanno acquistando quella voce che gli era stata sempre strappata con la violenza nel passsato. E questo è qualcosa che nessuno gli può più togliere. Qui sotto il comunicato dei gruppi della Federation for Anarchist Organizing (FAO).


 

Nessuna discriminazione, sono tutti finiti!

Negli ultimi giorni la storia ci è caduta addosso con tutta la sua forza. La rivolta a Maribor ha dato inizio a ciò che solo pochissimi immaginavano fosse possibile: il popolo auto-organizzato che mette lo sceriffo locale all’angolo, quindi lo costringe a fuggire in disgrazia. Questa è stata la scintilla che ha acceso una rivolta ancora più grande contro l’elite politico-economica e contro l’intero sistema capitalistico. Noi non abbiamo la sfera di cristallo per sapere cosa succederà, ma ciò di cui siamo certi è che non possiamo aspettarci nulla da romanticherie e atteggiamenti naif, ma possiamo attenderci molto dall’organizzazione e dal coraggio.

Dal basso verso l’alto e dalla periferia verso il centro

Mentre le proteste si diffondevano in tutto il paese, si trasformavano in crescente rivolta contro l’elite al potere e contro l’ordine esistente. Persone di ogni regione stanno usando creativamente i loro dialetti per esprimere lo stesso messaggio ai politici: voi siete tutti finiti. Il carattere decentralizzato della rivolta è uno degli aspetti chiave degli eventi succedutisi. Un altro aspetto è il fatto che l’intero processo fin qui sviluppatosi è del tutto dal basso; non ci sono dirigenti dal momento che le persone non sono rappresentate da nessuno. Al fine di difendere questa solidarietà tra le persone ed al fine di impedire che la rivolta venga recuperata dalla classe politica, è esattamente il decentramento che dobbiamo difendere, promuovere e rafforzare!

Polizia ovunque, giustizia da nessuna parte

Che la polizia si mostri brutale verso le proteste è cosa che non dovrebbe sorprendere. Ciò che sorprende sono le illusioni di guadagnarsi l’appoggio della polizia. E’ vero che la polizia non è l’obiettivo primario di questa rivolta e che lo scontro tra la polizia ed manifestanti non ne costituisce l’unico e definitivo orizzonte. Il bersaglio del popolo in questo conflitto è la classe politica e capitalista ed il sistema nella sua globalità. Tuttavia è anche assolutamente vero che la polizia non è nostro alleato ed in ragione del ruolo che essa svolge all’interno del sistema non potrà mai ed in nessun modo essere alleata di questa rivolta. Non ce lo dimentichiamo: la polizia fa parte dell’apparato repressivo dello Stato. La sua funzione strutturale è quella di difendere l’ordine esistente e gli interessi della classe dominante. Non ha importanza quanto possano essere sfruttati gli individui in uniforme! Finché eseguono gli ordini dei loro superiori essi restano poliziotti e poliziotte. Solo quando si sottraggono a questi ordini, potranno diventare parte della rivolta.

Nutrire qualsiasi illusione sul fatto che la polizia possa stare dalla nostra parte è dunque essere naif fino all’estremo. L’intervento della polizia su queste manifestazioni degli ultimi giorni è stato davvero così non problematico come qualcuno lo dipinge e davvero a favore del popolo in strada? Abbiamo già dimenticato la brutale repressione delle proteste a Maribor e le minacce di Gorenak (ministro degli interni) di dare la caccia a tutti gli organizzatori delle proteste “illegali”?

Non siamo sorpresi nemmeno dal moralismo che si fa sui “rivoltosi” e sulla “violenza”, che si è sviluppato sui social network. il Governo ed i media ci hanno lanciato l’osso e qualcuno c’è subito cascato. Ma cosa sono alcune decine di vetrine rotte, una porta del municipio abbattuta ed i sanpietrini divelti da una strada in confronto alla violenza strutturale dello Stato? Una gioventù senza futuro, la disoccupazione, la precarietà, la riduzione della scolarità, la riduzione dei pasti nelle scuole pubbliche, il decremento di assistenza negli asili, i tagli alla sanità, i tagli ai fondi per la formazione e la ricerca, l’allungamento forzato dell’età pensionabile, il taglio di salari e pensioni, la riduzione delle ferie, il taglio all’edilizia popolare, gioventù forzata a vivere in appartamenti in affitto o con i genitori fino ad età adulta, negazione di ogni diritto agli omosessuali, ai migranti, alle donne ed alle persone la cui origine sociale non rientra tra le religioni e le etnie maggioritarie e molto altro ancora. Per non parlare della corruzione, del nepotismo, del clientelismo e della criminalità della classe dominante. Ci costringono a lavorare di più, ma i frutti del nostro lavoro finiscono sempre nelle mani della classe capitalista. Questo sfruttamento è ciò che costituisce il cuore di questo sistema. Diteci ora, chi commette violenza contro chi? Come osare condannare persone a cui è stato rubato ogni futuro? La gioventù è arrabbiata e non ha niente da perdere. Basta col condannarli; dobbiamo insieme rimettere a fuoco i problemi reali.

Ancora più pericolosi sono i vari appelli per l’auto-repressione e per la cooperazione con la polizia. Non dobbiamo già fare i conti con inaccettabili livelli di sorveglianza, con l’uso delle telecamere e con la repressione? Ci vengono a proporre costoro di aiutare la polizia nella caccia ai “rivoltosi”, consegnarli alla polizia e quindi escludere tanti giovani dalla rivolta a cui hanno contribuito in modo significativo? Cooperare con la polizia significa spararci sui piedi e condannare i giovani che esprimono le loro posizioni in modo più diretto significa divenire strumentali al blocco di ulteriori sviluppi del potenziale di questa rivolta.

Oggi infrangere una vetrina è un atto che viene definito violento dalle autorità. Ma deve essere chiaro che lo stesso metro può essere ben presto applicato a tutte le forme di protesta che non saranno approvate o permesse dalle stesse autorità, che non saranno abbastanza passive e perciò non saranno completamente benevoli. Che sia chiaro agli occhi di questo sistema che ci umilia, che ci deruba e ci reprime anno dopo anno, che siamo tutti rivoltosi. Ancora una volta ribadiamo la nostra piena solidarietà a tutti gli arrestati, chiediamo il loro immediato rilascio, chiediamo di mettere fine alla persecuzione giudiziaria e mediatica nei loro confronti e che vengano resi nulli i provvedimenti amministrativi e le sanzioni emesse a carico delle persone che hanno partecipato alle proteste.

Potere al popolo, non ai partiti politici

Dopo l’iniziale esplosione della rivolta, quando la creatività delle masse si è pienamente manifestata, si è aperto anche un nuovo spazio per la riflessione strategica. Se vogliamo che la rivolta si sviluppi in direzione di un movimento sociale con concrete rivendicazioni, scopi e prospettive, dobbiamo trovare modalità per articolare queste stesse rivendicazioni, che sono già espresse nella rivolta, e pervenire alla forma organizzativa che possa rendere possibile questo processo. Altrimenti la rivolta entrerà rapidamente in agonia e le cose resteranno come sempre.

Per quanto riguarda le rivendicazioni dobbiamo precedere passo dopo passo ed iniziare coll’assumere quelle che sono già state espresse dalla rivolta. Sicuramente dobbiamo preservare quelle strutture del welfare come la sanità e l’istruzione. Dobbiamo anche preservare gli esistenti diritti dei lavoratori. Detto questo dobbiamo altrettanto chiaramente dichiarare che non stiamo lottando per la preservazione del vecchio sistema. Se non possiamo permettere che ci vengano tolti i diritti che abbiamo conquistato con le lotte del passato, dobbiamo altresì mantenere una prospettiva strategica di fondo. Finché esisteranno il capitale e lo Stato, resteranno anche i progetti di sfruttamento e di oppressione nel sistema scolastico, nella sanità ed in tutto il sistema del welfare. Ecco perché dobbiamo auto-organizzarci in queste strutture e non solo negoziare per le briciole. I diritti non sono garantiti per sempre, bisogna conquistarseli con la lotta!

Un segmento della corrotta elite politica si accorgerà forse che nei fatti sono tutti finiti ed abbandoneranno lo scenario politico. Ma ben presto verranno sostituiti da nuovi politici che nuovamente, senza ottenere alcuna legittimazione popolare, prenderanno delle decisioni in nostro nome. I loro interessi non sono i nostri, e ce lo dimostrano ogni giorno i numerosi esempi di nepotismo, di corruzione e di riforme anti-crisi che ci stanno spingendo sempre di più ai margini della società ed oltre.

Ecco perché se ne devono andare via tutti, dal primo all’ultimo. Sarebbe molto ingenuo e naif credere che da qualche parte ci sono politici puri e non corrotti, politici che hanno nel loro cuore nient’altro che il nostro interesse, politici che ci porterebbero fuori dalla crisi e che attendono solo che noi li si voti alle prossime elezioni. E’ il sistema politico ed economico con le sue caratteristiche autoritarie e gerarchiche che rende impossibile poter vivere in modo non alienato e secondo i nostri desideri ed i nostri bisogni. Finché ci sarà il capitalismo, finché una minoranza governa sulla maggioranza e ci spinge ai margini della vita sociale ed economica, le nostre non saranno che vite vuote. Se non resistiamo e se non lottiamo per l’alternativa, ci sarà sempre qualcuno che governerà per noi; i patriarchi nelle famiglie, i decani e la burocrazia studentesca nelle università, i padroni sul lavoro ed i politici al governo. La falsa democrazia che ci offrono in forma di elezioni non è l’unica forma possibile di organizzare la nostra vita sociale.

Organizziamoci lì dove viviamo, dove lavoriamo e dove studiamo

Se vogliamo che questa rivolta e le sue rivendicazioni producano un vero potere sociale, dobbiamo auto-organizzarci. Quando parliamo di organizzazione della rivolta, pensiamo necessariamente a forme che sono diverse dalle modalità di organizzazione socio-politica a cui siamo adusi. Dobbiamo organizzarci dal basso, senza gerarchie e dirigenti; ovunque siamo sfruttati ed oppressi: nei nostri quartieri, nei posti di lavoro, nelle istituzioni della formazione. I contadini dovrebbero unirsi in cooperative; le cooperative dovrebbero connettersi con l’ambiente urbano. L’auto-organizzazione dovrebbe essere spontanea e creativa; dovrebbe sviluppare libere relazioni e stabilire strutture che favoriscano la piena emancipazione degli individui. Dovrebbe seguire i principi della democrazia diretta, della mutua solidarietà, dell’anti-autoritarismo e dell’anti-fascismo.

Quale metodo iniziale per organizzarci suggeriamo l’istituzione di assemblee a democrazia diretta che sono state la prassi dei movimenti insorgenti in tutto il mondo negli ultimi due anni. Possiamo organizzarci localmente in piccoli gruppi ed insieme dare forma al futuro riconoscendo i nostri bisogni e quindi i bisogni delle città e dei villaggi. Insieme possiamo avanzare proposte e scoprire le nostre potenzialità, tanto da accorgerci che siamo noi stessi capaci di realizzare più o meno tutto della nostra vita. Questo è come costruiremo un’unità fatta di fratellanza e sorellanza, in cui ci sia abbondanza per tutti, ma nulla per coloro che vorrebbero governarci.

Il passo successivo potrebbe essere il coordinamento mutualistico di questi gruppi e la stabilizzazione di nuove forme di organizzazione di questa rivolta dispersa ed in evoluzione. Suggeriamo che, sulla base dei nostri principi comuni, ci si unisca in un fronte di gruppi, di organizzazioni e di individualità. Questo fronte dovrebbe essere ideologicamente aperto, inclusivo e basato su rivendicazioni comuni. Dovrebbe essere un fronte organizzato orizzontalmente, senza organismi centrali e senza burocrati; e basato sull’autonomia degli individui e su un processo decisionale fondato sulla democrazia diretta.

Invitiamo tutti i gruppi, le organizzazioni e le individualità che si ritrovano con queste proposte ad organizzarsi nelle loro comunità locali in assemblee aperte, che possano più tardi connettersi l’un l’altra. Riprendiamoci le nostre vite tutti insieme!
Dalle strade e dalle piazze, 6 dicembre 2012

Federation for Anarchist Organizing (FAO), Slovenia

Traduzione a cura di FdCA-Ufficio Relazioni Internazionali.

http://a-federacija.org inter@a-federacija.org

 

Cronologia della rivolta

(Città, data, numero di partecipanti, numero di arresti, numero di feriti):Maribor (Marburgo), mercoledì, 21 novembre, 1.500 persone
Maribor, lunedì, 26 novembre, 10.000 persone, 31 arresti (tutti rilasciati il giorno seguente)
Lubiana, martedì, 27 novembre, 1.000 persone
Jesenice, mercoledì, 28 novembre, 200 persone
Kranj (Cragno), giovedì, 29 novembre, 1.000 persone, 2 arresti
Lubiana, venerdì, 30 novembre, 10.000 persone, 33 arresti, 17 feriti
Koper (Capodistria), venerdì, 30 novembre, 300 persone
Nova Gorica (Nuova Gorizia), venerdì 30 novembre, 800 persone
Novo Mesto (Nova Urbe), venerdì 30 novembre, 300 persone
Velenje, venerdì 30 novembre, 500 persone
Ajdovščina (Aidussina), venerdì 30 novembre, 200 persone
Trbovlje, venerdì 30 novembre, 300 persone
Krško, sabato, 1 dicembre, 300 persone
Maribor, lunedì, 3 dicembre, 20.000 persone, 160 arresti, 38 feriti
Lubiana, lunedì, 3 dicembre, 6.000 persone
Celje (Cilli), lunedì, 3 dicembre, 3.000 persone, 15 arresti
Ptuj (Poetovio), lunedì, 3 dicembre, 600 persone
Ravne na Koroškem, lunedì, 3 dicembre, 500 persone
Trbovlje, lunedì, 3 dicembre, 400 persone
Jesenice, martedì, 4 dicembre, 300 persone, 41 arresti
Brežice, martedì, 4 dicembre, 250 persone
Lubiana, mercoledì, 5 dicembre, protesta degli studenti davanti alla Facoltà di Arti, 500 persone
Lubiana, giovedì, 6 dicembre, protesta degli studenti davanti al parlamento, 4.000 persone
Koper, giovedì, 6 dicembre, 1.000 persone, 2 arresti
Kranj, giovedì, 6 dicembre, 500 persone
Izola (Isola d’Istria), giovedì, 6 dicembre, 50 persone
Murska Sobota, venerdì, 7 dicembre, 3.000 persone
Bohinjska Bistrica, venerdì, 7 dicembre, 50 persone
Ajdovščina, venerdì, 7 dicembre, 150 persone
Lubiana, venerdì, 7 dicembre 3.000 persone
Nova Gorica, sabato, 8 dicembre, 300 persone
Brežice, domenica, 9 dicembre 200 persone
Lubiana, lunedì, 10 dicembre, 100 persone
Maribor, lunedì, 10 dicembre, 200 persone (protesta di solidarietà per i fermati)
Ptuj, lunedì, 10 dicembre, 200 persone

ANNUNCIATE:

Lubiana, giovedì, 13 dicembre
Maribor, venerdì, 14 dicembre
SLOVENIA (in ogni città), 21 dicembre

La polizia fa parte dell'apparato repressivo dello Stato. La sua funzione strutturale è quella di difendere l'ordine esistente e gli interessi della classe dominante.

Quale metodo iniziale per tale organizzazione suggeriamo l'istituzione di assemblee a democrazia diretta che sono state la prassi dei movimenti insorgenti in tutto il mondo negli ultimi due anni.

Vedi anche:

-Radio Blackout, “Rivolta sociale in Slovenia”, con intervista a due compagni di Maribor.

L’altra Israele.

Nel momento in cui scrivo vige finalmente la tregua, ma le vittime dell’aggressione israeliana nella striscia di Gaza, giunta al suo settimo giorno, sono salite a 164: persone con nomi e cognomi, con le loro vite alle quali è stata posta fine per mano del governo e delle strutture militari di uno Stato che non vuol sentire ragioni e va avanti nel tempo con la sua politica fatta di massacri, razzismo, prepotenza, una politica che nuoce in primo luogo ai palestinesi ma anche, collateralmente, agli stessi cittadini israeliani. Questi ultimi si trovano a dover vivere sotto la costante minaccia di attentati compiuti da persone disperate, alle quali i governi israeliani succedutisi negli anni hanno tolto sempre piú la speranza di una vita dignitosa e di una soluzione equa e pacifica del conflitto. Il terrorismo dello Stato d’Israele non viene perciò appoggiato da tutti/e gli/le israeliani/e: chi si rifiuta di obbedire all’autoritá e di partecipare ai soprusi, alla negazione di diritti elementari ed ai massacri nei confronti della popolazione di Gaza fa parte per ora di una minoranza di persone consapevoli e coraggiose che si spera diventi col tempo sempre più numerosa. Quelle che seguono sono solo alcune tra le tante storie di cittadini/e israeliani/e che hanno voltato le spalle al nazionalismo, al militarismo, al lavaggio del cervello imposto dai dogmi religiosi, all’obbedienza cieca, in nome di altri valori.

Natan Blanc, diciannovenne di Haifa, preferisce la prigione all’arruolamento nell’esercito;

Manifestazione di attivisti/e israeliani nel centro di Tel-Aviv contro l’attacco a Gaza, 15 Novembre;

Sbirri impediscono manifestazione di attivisti/e israeliani a Gerusalemme contro l’attacco a Gaza, 15 Novembre;

Obiettori/trici di coscienza israeliani;

Noam Gur and Alon Gurman refuses to serve in the Israeli military;

Refuseniks and Israeli Soldiers speaks out;

La storia di Jonathan Ben Artzi;

Lettera di un obiettore di coscienza israeliano;

Anarchici contro il muro.

7 Novembre: proteste a Cagliari.

Ieri 7 Novembre ha avuto luogo a Cagliari una grossa manifestazione organizzata dalla cosiddetta Consulta Rivoluzionaria. L’iniziativa, definita dagli organizzatori come “Assemblea generale del Popolo Sardo” e che ha visto la partecipazione di alcune migliaia di persone, è nata dopo mesi di incontri e dibattiti tra le diverse componenti della Consulta. I motivi della protesta sono molteplici e non suoneranno certo nuovi a chi conosce la realtá sarda: gli alti tassi di disoccupazione, ormai cronica, e la chiusura di realtá produttive spesso avviate in modo avventuristico da multinazionali che lasciano dietro di sé persone senza lavoro, danni ambientali e distruzione dell’economia locale spinge molti giovani ad emigrare da una terra che è stata sempre gestita con piglio colonialista dallo stato centrale italiano, grazie anche al supporto della locale classe dirigente. Un’isola che è in parte laboratorio di pratiche repressive e in parte “pattumiera”, da un lato occupata da carceri- anche “speciali”- e da numerose installazioni militari dove si stoccano armamenti nucleari ( La Maddalena) e si sperimenta con i proiettili all’uranio impoverito (Teulada e Quirra), dall’altro cementificata e deturpata per gli interessi dei più ricchi e potenti e a favore del turismo d’élite, una terra alla quale la classe dirigente preferisce elargire qualche briciola di assistenzialismo piuttosto che allentare la morsa delle banche e delle sanguisughe di Equitalia, dove ad essere senza prospettive ed a sentirsi disperati sono tanto gli studenti quanto i pastori, gli agricoltori, i piccoli imprenditori ed artigiani, i lavoratori che rischiano di perdere il loro impiego (come quelli dell’ Alcoa o della Carbosulcis, per citare i due casi più recenti e più noti) e quelli che un impiego lo hanno già perso o non lo trovano affatto. Sono proprio questi soggetti e queste realtá ad aver partecipato alla manifestazione tenutasi sotto il palazzo della Regione Sardegna nella centralissima Via Roma a Cagliari, un’iniziativa preceduta da una serie di misure di sicurezza grottesche messe in atto dalle autoritá evidentemente timorose che l’esasperazione dei/lle partecipanti potesse trasformarsi in concrete esplosioni di rabbia. Come aspetto “coreografico” non si poteva fare a meno di notare alcuni cappi con nodi scorsoi, appesi accanto ai nomi delle istituzioni ritenute maggiormente colpevoli dell’attuale situazione: Regione, Governo centrale, Equitalia, banche, INPS, agenzia delle entrate…

Da sottolineare la forte adesione da parte di organizzazioni indipendentiste, che si rispecchia anche nelle rivendicazioni tese all’autodeterminazione in materia economica dell’isola ed alla valorizzazione della cultura e dell’identitá sarda. Ma sará veramente una soluzione quella dell’indipendenza? Serve a molto avere un proprio Stato con governanti della propria terra che stilano documenti nelle lingue locali quando poi continuano ad esistere disuguaglianze sociali e sfruttamento del lavoro salariato? Ci si può sentire liberi sapendo che comunque il capitale che comanda è quello internazionale e che, se anche così non fosse, il capitale nazionale o locale non è cosa migliore? Queste sono solo alcune delle contraddizioni con le quali la Consulta Rivoluzionaria e chi la appoggia dovranno fare i conti, fermo restando le sacrosante ragioni di fondo che animano l’iniziativa e le potenzialitá insite nelle proposte finora avanzate e nei loro eventuali sviluppi. Tra chi era in piazza c’é chi ha la consapevolezza di rappresentare in qualche modo un’avanguardia, con la convinzione che in molti si uniranno in un futuro prossimo alle lotte. Lo sviluppo degli eventi mostrerà se questi hanno avuto ragione, se finalmente si è innescato un processo di reale ribellione nei confronti di uno stato di cose intollerabile che permane da troppo tempo e quali saranno i frutti di questo processo.

Tre film che fanno riflettere.

Un regalo indirizzato a chiunque avesse voluto esser presente all’iniziativa che ho pubblicizzato nello scorso post ma, per un motivo o per l’altro, non ne ha avuto (e non ne avrá) la possibilità: i tre film in questione, che hanno in comune non solo la presenza come attore protagonista dello straordinario Gian Maria Volontè, ma anche il fatto di essere film per molti aspetti tremendamente attuali, sconosciuti ai più giovani, quasi mai mostrati sui teleschermi. Pellicole che offrono uno spaccato lucido e spietato di alcuni aspetti non solo dell’epoca che raccontano, ma anche della società nella quale viviamo tutt’ora, con i suoi rapporti di forza, stili di vita, esercizi di potere e manipolazioni dell’opinione pubblica, elementi che restano immutati in un sistema che può cambiare in parte forma solo per mantenere inalterata la sostanza. Storie drammatiche, raccontate non senza ironia e sfaccettature grottesche, ma non per questo meno adatte a far riflettere. Buona visione quindi, e soprattutto buona riflessione.

Anti-Flag, “The General Strike”.

Band: Anti-Flag
Album: The General Strike
Year: 2012

Tracklist:

1. Controlled Opposition = 0:00
2. The Neoliberal Anthem = 0:21
3. 1915 = 3:39
4. This is the New Sound = 6:31
5. Bullshit Opportunist = 9:17
6. The Ranks of the Masses Rising =11:52
7. Turn a Blind Eye = 14:21
8. Broken Bones =15:40
9. I Don´t Wanna =18:44
10. Nothing Recedes Like Progress = 21:10
11.Resist = 23:28
12. The Ghost of Alexandria = 24:29

Innanzitutto grazie all’utente che ha postato su YT quest’album. Chi volesse leggere/scaricare i testi, cosa che consiglio vivamente, li può trovare su questa pagina web. La mia opinione su quest’album può essere condensata in 10 lettere: entusiasmo assoluto per la musica, ancor più per i testi. Per quanto riguarda la solita vecchia polemica sul fatto che una band che si dichiara anarchica o comunque “contro il sistema” non dovrebbe mai firmare un contratto con una major discografica, non ho un’opinione netta o definitiva sulla questione, anche se tendenzialmente sono disposto ad accettare la spiegazione fornita da Justin Sane, chitarrista e voce della band, in un’intervista del 2006 al quotidiano inglese The Guardian:

“We’ve been approached by the major labels over the past seven or eight years but we thought we were having an impact where we were. They were never willing to give us complete control. This time they were willing to give us complete control over what we record, the artwork, who we tour with. We won’t be censored. If there was ever a time to take a chance to be heard on a mass scale then this is the time. I feel like we’ve been a voice in the wilderness for too long.”
Che poi, il loro rapporto con una major (RCA Records) è durato solo un paio d’anni e i soldi guadagnati dall’impennata di vendite dei due album pubblicati con tale etichetta sono serviti agli Anti-Flag per fondare un’associazione no-profit (Military Free Zone) contro la propaganda militarista nelle scuole statunitensi tesa al reclutamento nell’esercito degli studenti.

Nessun M346 a Israele!

Mentre i massmedia allineati ci frantumano periodicamente i maroni con il presunto programma di sviluppo atomico ad uso militare portato avanti dal governo iraniano, c’é chi si preoccupa invece di parlare di pericoli più concreti ed immediati che non riguardano possibilitá ma certezze, ricordandoci la vera natura di quello Stato che per molti è l’avamposto della democrazia occidentale in Medioriente di fronte alla barbarie islamica. A tale proposito diffondo una e-mail giuntami alcuni giorni fa e invito gli/le eventuali lettori/trici non solo a diffonderla a loro volta, ma anche ad attivarsi concretamente riguardo al tema in questione. In quanto anarchico posso anche ritenere superflui e/o inoppurtuni i richiami a leggi ed istituzioni nazionali e internazionali per sostenere gli argomenti, peraltro ben condivisibili, del testo, ma si tratta in fin dei conti di dettagli di fronte ai quali il discorso centrale- il rifiuto della guerra e del militarismo e lo schierarsi dalla parte degli oppressi- prende il sopravvento e senza esitazione spinge le nostre coscienze ad agire. Inutile aggiungere che il titolo della e-mail potrebbe essere efficacemente completato con “…né a nessun altro Stato!”, ma mi pare che il rifiuto in generale della guerra e degli strumenti di morte che la consentono risulti in modo chiaro da alcuni inequivocabili passaggi presenti nel testo.

” Nessun M346 a Israele
Dedicato a Stefano Ferrario

Fin dal 2005 è operativo uno scellerato accordo di “cooperazione
militare”, economica e scientifica tra il nostro Paese ed Israele.
Un accordo che non è stato scalfito neppure dall’ “Operazione
piombo fuso” del dicembre 2008 – gennaio 2009, che ha visto Israele
colpire con il suo “potere aereo” la popolazione palestinese
civile inerme (1400 uccisi, di cui ca 400 bambini).  Un’ azione
militare brutale, senza giustificazioni, nella quale sono state usate
anche armi sconosciute o già vietate dalle Convenzioni internazionali
(fosforo bianco, bombe D.I.M.E., uranio impoverito) e nella quale
Israele ha commesso crimini di guerra e contro l’umanità (come
documentato dall’ ONU nel “Rapporto Goldstone”). Un’operazione
condannata dalle principali organizzazioni internazionali per la
promozione e la difesa dei diritti umani.

L’Italia, almeno di fronte a ciò, avrebbe dovuto condannare Israele
e recedere da quegli accordi di cooperazione militare. Ma come avrebbe
potuto quando anch’essa, dopo l’introduzione del “Nuovo Modello
di Difesa” nel 1991 – che ammette interventi militari “ovunque i
propri interessi siano minacciati” – viola sistematicamente
l’articolo 11 della nostra Costituzione, che invece “ ripudia la
guerra”?  Quando partecipa alle iniziative militari USA e NATO e fa
“carta straccia” dello Statuto dell’ONU che voleva
“risparmiare la guerra alle generazioni future”, vietandola
esplicitamente ?

Il nostro paese non avrebbe dovuto sottoscrivere quell’accordo di
cooperazione militare perché esso viola la  Legge 185/90 che pone
limiti all’export di armi verso paesi belligeranti; a maggior
ragione verso Israele, paese in conflitto e fuorilegge per la
sistematica violazione delle Risoluzioni ONU e dei pareri della Corte
Internazionale  di Giustizia dell’Aja a tutela dei diritti del popolo
palestinese.

Il Tribunale Russell (un’istituzione composta da personalità
emerite, giuristi e intellettuali, tra cui diversi premi Nobel) ha
infatti affermato che il popolo palestinese è “soggetto a un regime
istituzionalizzato di dominazione che integra la nozione di Apartheid
come definita nel diritto internazionale”. E lo Statuto della Corte
Penale Internazionale all’art. 7 comma 1 include l’Apartheid tra i
“crimini contro l’umanità”, definendolo  “atto inumano
commesso nel contesto di un regime istituzionalizzato di oppressione
sistematica e dominazione di un gruppo razziale su di un altro, e
commesso con l’intento di mantenere quel regime”.

Invece accade che, facendo “carta straccia” anche della L.185/90,
AleniaAermacchi, la società di Finmeccanica con sede nazionale e
stabilimenti significativi a Venegono (Varese), si accinge a
consegnare ad Israele 30 jet M346 , definiti come “addestratori
tecnologicamente avanzati” ma in realtà già  strutturati per
essere armati con missili o bombe. Queste armi verranno sicuramente
testate contro i palestinesi, prima di tutti.

Nella sua qualità di addestratore l’M346 è finalizzato a formare i
piloti all’uso di cacciabombardieri  tecnologicamente più evoluti
tra i quali il “netcentrico” e “invisibile” F35, di cui
Israele si vuole dotare (19 + 56 in opzione), e che anche l’Italia
sta purtroppo acquistando per le guerre future.

Negli ultimi mesi è cresciuta in Italia una significativa opposizione
all’acquisto degli F35  per il loro costo esorbitante ( non meno di
15 miliardi di euro) che sottrae risorse all’economia civile e ai
settori dello “Stato Sociale” già colpiti dai tagli operati da
governi più o meno tecnici, capaci solo di colpire i più deboli. Ma
l’opposizione agli F35 non è certo solo economica; è soprattutto
opposizione alla “neoguerra”, pratica affermatasi negli ultimi 20
anni che chiama “pace” la guerra, e la vorrebbe giustificare  come
strumento di “sicurezza preventiva” e di “esportazione di
democrazia”, giungendo così a definirla “umanitaria”.

Ma “guerra umanitaria” è un ossimoro: la guerra provoca solo
morti, feriti, distruzioni e genera odio, rancori e vendette; essa è
quanto di più disumano si possa immaginare.

L’acquisto da parte di Israele degli M346 e degli F35 – questi
ultimi verranno prodotti e periodicamente revisionati a Cameri
(Novara) proprio da AleniaAermacchi  – è inoltre inserito
all’interno di un quadro di riarmo ad alta tecnologia, che impegna
l’industria bellica israeliana e che fa perno anche sulle sue armi
nucleari (come già denunciò nel 1986 il fisico israeliano Mordechai
Vanunu  che scontò per questo 18 anni di carcere in isolamento).

Grazie ad una accorta manipolazione mediatica Israele, che non ha mai
firmato il “Protocollo di Non Proliferazione Nucleare” e che è
ben dotato di armi nucleari, si presenta come   legittimato ad
intraprendere una guerra contro l’Iran, che invece quel Protocollo
ha firmato e che afferma di voler utilizzare l’energia prodotta da
generatori nucleari solamente a fini civili. Una guerra questa che
dobbiamo scongiurare a tutti i costi perché, tra l’altro, potrebbe
degenerare in un’escalation incontrollata.

Mai più  guerra, avventura senza ritorno.
Questi aerei non devono essere venduti.
Le armi non devono essere prodotte.

Nel maggio di quest’anno si è già svolto a Varese un importante
convegno contro l’F35 e sui temi del ripudio della guerra, del
taglio alle spese militari e della riconversione al civile.

Chiediamo ai lavoratori di AleniaAermacchi e di tutte le aziende a
produzione militare di non accettare il ricatto occupazionale e di
adoperarsi affinché le fabbriche non  producano strumenti di morte ma
siano destinate alla produzione di beni socialmente utili ed
ecologicamente compatibili.

Tra l’altro, in questo caso, la “vendita” degli M346 ad Israele
sarà “ compensata”dalla cessione all’Italia di altre armi:
infatti a fronte della commessa da 1 miliardo per la fornitura dei 30
velivoli, l’accordo commerciale prevede che noi acquistiamo da
Israele materiale bellico per il  valore di  2 miliardi.
Non possiamo più attendere, diciamo:

Solidarietà ai lavoratori che si trovano costretti a contraddirsi
nell’ etica,
ma NO alla Guerra, NO alle produzioni belliche ed ai mercanti di
morte.
Nessun M346 né altra arma deve essere data ad Israele.
L’Italia receda dall’accordo di cooperazione con quel Paese.
Siano riconosciuti i diritti del popolo palestinese.
Siano garantite Pace e Giustizia per tutti i popoli di quella
regione.
Un nuovo apartheid merita una nuova mobilitazione.

Uniamo le forze di tutti quelli che si oppongono alla violenza, alla
prepotenza, alla falsità di chi (parlando di pace e giustizia e
facendo la guerra) pratica e promuove la predazione delle nostre vite,
delle nostre speranze, delle nostre idee, del nostro lavoro. Di chi ci
fa continuamente passare sopra la testa, come malefici
cacciabombardieri, scelte di morte, di sopraffazione, di subdolo
dominio finanziario che minano la democrazia e vanificano la
sovranità popolare.
Sostenitori della Palestina, pacifisti, antinucleari, tutori dei beni
comuni, ambientalisti, oppositori di “grandi opere”e servitù
militari, associazioni umanitarie, culturali e sociali, collettivi,
reti, lavoratori e rappresentanze sindacali, disoccupati, precari,
studenti, tutti uniti in quanto vittime, o dalla parte delle
vittime…., troviamoci allora in tanti, tanti, arricchiti delle
nostre differenze, nonviolenti, a Venegono Superiore davanti ad
AleniaAermacchi, così come abbiamo fatto in passato davanti alle basi
militari di Comiso, Camp Darby, Vicenza, Solbiate Olona e alle aziende
belliche di tutta Italia, così numerose in provincia di Varese. 

VI INVITIAMO ALLA MANIFESTAZIONE NAZIONALE
di sabato13 Ottobre 2012
presso l’AleniaAermacchi di Venegono-Varese

Il Comitato promotore varesino  (segreteria tel 0332-238347)

Da allora molte sono state le associazioni anche nazionali che hanno
aderito all’iniziativa, tra le quali Pax Christi – Ponti e non
muri, la Commissione Giustizia e Pace dei Missionari Comboniani,
Attac, Arci – Servizio Civile, Assopace e una serie di altri
soggetti che sostengono il popolo palestinese, ecc. (vedi anche
nessunm346xisraele.blogspot.it)

Lo Stesso Padre Alex Zanotelli interverrà durante la manifestazione
che si terrà attorno agli stabilimenti di AleniaAermacchi che produce
l’M346 (che ha peraltro sede legale proprio a Venegono).

Per adesioni (di associazioni, gruppi e singole persone) invia una
mail a nessunm346xisraele@gmail.com

Venegono (Varese), 30 Giugno 2012

Per favore fate girare a tutte le vostre conoscenze.

Per sostegno economico, all’organizzazione della Manifestazione
“Nessun M346 a Israele” del 13 ottobre 2012, potete effettuare un
versamento, in posta, su:
CARTA POSTA PAY, intestata a Uslenghi Anna Maria n°4023600590951168
causale (se richiesta): No M346 ad Israele

Molte Grazie

Elio Pagani (per il Comitato promotore) “

 

Intervista con l’anarchico nigeriano Sam Mbah.

Fonte: Anarkismo.

Sam Mbah

“Nigeria, Marzo 2012

Intervista con Sam Mbah


Intervistatore: E’ con grande piacere che presento Sam Mbah, autore dell’innovativo libro African Anarchism, avvocato, giornalista, attivista. Questa intervista è stata realizzata a Enugu, in Nigeria, nel marzo 2012. Sam, ti ringrazio moltissimo per aver trovato il tempo per questa intervista.

Sam: Il piacere è il mio, Jeremy.

Sono passati 15 anni dalla pubblicazione del tuo libro sulle prospettive dell’anarchismo in Africa. C’è forse qualcosa che oggi aggiungeresti o che cambieresti?

Sì, ci sono delle idee che aggiungerei, ma senza fare dei cambiamenti. In questi anni ho raccolto del materiale aggiuntivo in cui mi sono imbattuto nel corso delle mie ricerche.

Penso che si possano fare delle integrazioni al libro, ma senza cambiamenti né riduzioni. C’è spazio per fare delle aggiunte ed è qualcosa che ho già iniziato a fare con l’edizione spagnola del 2000, la quale è più ampia e contiene degli approfondimenti su alcuni punti trascurati nella edizione originale. Ho cercato di andare più a fondo su quelle società africane che condividono medesime caratteristiche, come gli Igbo, i Tiv, gli Efik, i Tallensi nonché quella molteplicità di tribù e di gruppi sociali che abbiamo in Nigeria e che avevo già menzionato nell’edizione originale. Ho provato anche ad esplorare altri gruppi in altre parti del mondo come l’America Latina, riuscendo poi a tracciare dei parallelismi tra le rispettive esistenze sociali e sistemi di organizzazione sociale, relativamente alle caratteristiche ed alle peculiarità dell’anarchismo, per come lo intendo io.

Per coloro che non hanno letto il libro, puoi riassumere cosa intendi per anarchismo e come lo leghi ad alcuni aspetti intrinseci della cultura africana?

OK, nel libro ho messo in evidenza fin dall’inizio in maniera molto esplicita come l’anarchismo in quanto ideologia, in quanto corpus ideologico ed in quanto movimento sociale sia lontano dall’Africa. Ma l’anarchismo in quanto forma di organizzazione sociale, in quanto base delle società organizzate – non è affatto lontano per noi. E’ invece parte integrante della nostra esistenza in quanto popolo. Mi riferisco al sistema comunitario di organizzazione sociale che esisteva ed ancora esiste in diverse parti deIl’Africa, dove le persone vivono le loro vite in comunità e si percepiscono come parte integrante delle loro comunità, a cui contribuiscono immensamente per la loro sopravvivenza in quanto unità. Ho messo in evidenza gli aspetti della solidarietà, della coesione sociale e dell’armonia che esisteva in tante società comunitarie in Africa ed ho cercato di trovare dei collegamenti con i precetti dell’anarchismo, compreso il mutuo appoggio, compreso lo sviluppo autonomo di piccole unità ed un sistema che non è fondato sulla monetizzazione dei mezzi di produzione e delle forze produttive della società. Così, mi guardo indietro ed avverto, come dicevo prima, che se su questi aspetti si sviluppassero ulteriori ricerche, queste potrebbero portare ad ulteriori acquisizioni su come queste società fossero in grado di sopravvivere. Ma, con l’avvento del colonialismo e con l’integrazione delle economie e delle società africane all’interno dell’orbita globale del capitalismo, alcune di queste cose sono oggi cambiate. Abbiamo così iniziato ad avere delle classi ricche, ad avere una classe politica dominante che sta sopra e controlla ogni persona. Abbiamo iniziato ad avere una società altamente militarizzata in cui lo Stato e coloro che lo controllano hanno il monopolio degli strumenti di violenza e sono pronti ad usarli contro la gente comune. Questo è il loro business.

Negli ultimi anni abbiamo visto un aumento del potere autoritario in diverse parti del mondo, le misure di austerità, sia all’indomani dell’attacco terroristico dell’11 settembre agli USA sia più di recente con la crisi finanziaria globale. Come vedi quello che sta accadendo e come influisce sull’Africa e sulle lotte qui?

Quando scrissi African Anarchism con un mio amico, avevamo sullo sfondo tre decenni, quasi quattro, di governo militare, in Nigeria. Il governo militare era una forma di governo che centralizzava oltremodo i poteri e che si configurava come una dittatura, quale era, e come una emanazione del capitalismo. Se allora la società nigeriana e gran parte dell’Africa erano sotto la stretta dei governi militari e dell’autoritarismo militare, oggi abbiamo una amministrazione nominalmente civile, una democrazia nominalmente civile. Alcuni l’hanno chiamata democrazia di governo, altri l’hanno chiamata democrazia disfunzionale, tutti i tipi di definizione, nel tentativo di cogliere il fatto che fosse qualcosa di ben lontano dalla democrazia. Per me, ad esempio, si tratta di una estensione del governo militare. Questa è nei fatti una fase di governo militare. Perché se si guarda alle democrazie in Nigeria e nel resto dell’Africa, coloro i quali stanno dando forma e futuro a queste democrazie sono in modo predominante ex-militari di governo nonché i loro apologeti e collaboratori all’interno della classe civile.

Ora, guardando a livello globale, il capitalismo è in crisi. In ogni caso, il capitalismo non può esistere veramente senza crisi. La crisi è la salute del capitalismo. Questa crisi è proprio quella di cui molti filosofi, da Marx ad Hegel, da Lenin a Kropotkin, da Emma Goldman fino ad oggi a Noam Chomsky hanno trattato in modo estensivo: cioè la tendenza alla crisi insita nel capitalismo. Quindi, tra l’uscita di African Anarchism e l’oggi, abbiamo avuto l’11 settembre, la cosiddetta “guerra al terrore”, la crisi finanziaria del 2007-2008, e oggi dobbiamo affrontare una crisi economica ancora più grande che ci ricorda la grande depressione degli anni ’30. E non vi è assolutamente nessuna garanzia che, se anche l’economia globale uscisse dalla crisi, non si ricada in un’altra crisi, perché la tendenza alla crisi è parte integrante del capitalismo. Per noi, qui, questi sviluppi storici hanno avuto un grave impatto sulla nostra società, sulla nostra economia, sul nostro governo.

Se poniamo come inizio l’incidente dell’11 settembre, vediamo che oggi il mondo è stretto nella morsa sia del terrorismo che dell’anti-terrorismo. Qui in Nigeria nel corso di un anno, tutto il paese è stato oggetto di attacchi dinamitardi, esplosioni, ogni giorno c’è una bomba messa da qualche parte. E come reagisce lo Stato nigeriano? Reagisce con sempre maggiore forza, e facendo così produce danni collaterali e vittime dovunque. Dunque neanche noi siamo immuni dalle ondate di terrorismo e dalla “guerra al terrorismo” in cui l’Occidente ci ha imbarcato dopo l’11 settembre. Anche il nostro paese è sottoposto alla stretta del terrorismo. Ed è ironico che ogni volta che una bomba esploda in qualche posto, il governo si metta a sbraitare: “Questo è terrorismo! Questo è terrorismo!”. Ma c’è la tendenza alla linea dura da parte del governo e delle agenzie di Stato che fanno ricorso ad una forza e ad una violenza inadeguate a risolvere una questione che potrebbe essere risolta altrimenti senza perdita di vite – cosa su cui si sorvola come se fosse normale. Ogni volta che una bomba viene messa in qualche posto, il governo risponde dicendo che si tratta di terrorismo. Vorrei dire che sono piuttosto i governi e gli Stati in Africa la maggiore fonte del terrore. Lo Stato in Africa è la maggiore fonte di terrorismo. Credo che la società non potrebbe che stare meglio se lo Stato cessasse di agire insieme alle sue agenzie quali strumenti di terrore contro la popolazione comune e la gente normale.

Dunque, la crisi economica globale, la crisi globale del capitalismo, ha avuto un impatto negativo sulle economie africane, compresa la Nigeria – dato che noi siamo parte e componente del sistema capitalistico globale, sebbene noi siamo partners disuguali nello scambio capitalistico globale. La nostra economia dipende dalle materie prime. La nostra economia è a mono-coltura. Qualunque cosa accada al petrolio ha subito un effetto di crisi si di noi. E questa è una delle ragioni per cui i nigeriani e lo stato nigeriano sono in una situazione di stallo dagli inizi del 2012, in seguito alla vicenda delle sovvenzioni fantasma che il governo aveva detto di voler rimuovere incontrando la resistenza popolare.

Potresti spiegare meglio come funziona la tassa/sovvenzione sul carburante in Nigeria?

OK. La tassa sulla benzina, o “sovvenzione alla benzina” come la chiama il governo nigeriano, vuol dire che il governo sta sovvenzionando il costo della benzina per i cittadini. E cioè che i nigeriani non pagano un valore realistico per la benzina. Ma il contro-argomento è che noi siamo un paese produttore di petrolio, e non c’è nessuna ragione per cui il costo della benzina dovrebbe far riferimento al mercato globale o internazionale. Noi abbiamo le raffinerie, le quali tutte insieme hanno una capacità di raffinazione di 500.000 barili al giorno. Ma si scopre che negli ultimi 20 anni queste raffinerie non hanno funzionato. E non hanno funzionato a causa della corruzione. Non hanno funzionato perché i poteri forti che ci sono nel paese non sono interessati a che queste raffinerie funzionino. L’unica ragione per cui queste raffinerie non funzionano è perché c’è la corruzione ed un sacco di gente nel governo, nell’esercito e nella burocrazia, trae vantaggio dall’intera importazione di prodotti della raffinazione del petrolio. La Nigeria è forse l’unico paese dell’OPEC che importa il 100% dei suoi bisogni di petrolio raffinato.

Quindi all’inizio del 2012…

Allora la gente comune in Nigeria dice, se le nostre raffinerie lavorassero e raffinassero il nostro greggio, il governo dovrebbe dirci qual è il costo del greggio e dei prodotti raffinati. E sulla base di questi costi stabilire un prezzo. Se invece non sei in grado di far funzionare le raffinerie e fissi il costo dei prodotti petroliferi sulla base del prezzo sui mercati internazionali, allora state commettendo un grave errore. Perché il costo della vita in Nigeria è diverso dal costo della vita negli Stati Uniti. Allora il governo dice: “Paghiamo molto gli importatori di prodotti petroliferi sottoforma di sovvenzioni” – cioè la differenza tra il prezzo all’importazione e quello di vendita dei prodotti raffinati. Ma poi scopri che persino quelli che stanno al governo, persino i ministri del petrolio, se ne escono dicendo che gran parte di quello che paghiamo come sovvenzione si basa su una corruzione documentata, su cui il governo non indaga e su cui non intende fare chiarezza, che coinvolge dirigenti di lunga carriera degli organismi e delle agenzie che si suppone debbano regolamentare l’industria del petrolio. Costoro sono quelli che pagano a se stessi ed alle loro compagnie enormi somme. Faccio un esempio per far capire il concetto di sovvenzioni petrolifere. Il governo nigeriano consente ad una molteplicità di operatori di commerciare in prodotti petroliferi. Questi comprano i prodotti petroliferi da una molteplicità di operatori internazionali, quando nei fatti la National Petroleum Corporation – la NPC – che è la nostra compagnia petrolifera nazionale, può fare accordi con le raffinerie all’estero ed acquistare direttamente da loro i prodotti raffinati. Invece questi preferiscono ricorrere a dei mediatori che procurano i prodotti raffinati dalle raffinerie estere e li vendono alla NPC a tassi esorbitanti.

Allora cosa è accaduto agli inizi del 2012?

All’inizio di quest’anno il governo intendeva deregolamentare il settore alla pompa dell’industria del petrolio. E la società civile insieme ai lavoratori hanno protestato e fatto resistenza. In breve venne indetto uno sciopero di 2 settimane. In queste due settimane, la gente non andava a lavorare e protestava nelle strade di Lagos, di Kaduna, di Port Harcourt, di Kano, di Ibadan, in diverse parti del paese. E siccome il governo aveva capito la determinazione dei nigeriani nel resistere a questi aumenti arbitrari, fece marcia indietro, portando l’aumento del prezzo dei prodotti petroliferi dal 100% in più al 30% in più. E naturalmente il mondo sindacale in pratica si ritenne soddisfatto, mentre la società civile e la massa della popolazione era pronta a proseguire la protesta ed a rifiutarsi di pagare l’aumento del 30%, ma i sindacati erano d’accordo ed ora siamo a questo punto.

Insomma è una lotta non conclusa. Io credo che il governo intenda ancora raggiungere l’obiettivo dell’aumento del 100% del prezzo dei prodotti petroliferi. Ma se nel governo c’è ancora qualcuno che pensa con la sua testa e che sia mosso da un qualche senso di obiettività, si renderebbero subito conto del fatto che non sarà facile placare i nigeriani i quali sono determinati a resistere a questi aumenti arbitrari basati su false analisi relative allo strumento delle sovvenzioni. La gente si sta mobilitando. Proprio mentre il governo sta studiando altre strategie con cui aumentare subdolamente il prezzo del petrolio, la gente si reincontra e cerca di capire come sostenere la propria causa.

In queste mobilitazioni di massa così foriere di speranze, ci sono elementi che riflettono il movimento globale che abbiamo visto di recente in azione, fino ad usare in certi casi il nome “Occupy Nigeria”. Abbiamo visto l’esplosione dell’Occupy movement e della primavera araba, cosa ne pensi?

Sì, sì, Occupy movement in azione in alcune parti dell’America e dell’Europa ha davvero ispirato un sacco di gente in Nigeria. La determinazione ed il coraggio che hanno caratterizzato Occupy movement in diverse parti dell’America e nelle capitali europee, è un indicatore delle infinite possibilità che si aprono quando il popolo decide di lottare. La primavera araba da parte sua è stata una delle più innovative esperienze per tutti noi in Africa. Infatti, ne ho parlato con i miei amici e secondo me la primavera araba sarebbe dovuta verificarsi nell’Africa sub-sahariana, piuttosto che nel mondo arabo, poiché le brutte condizioni di vita in Africa sono peggiori degli standards di vita relativamente avanzati nella maggior parte dei paesi arabi e dei nostri vicini in nord-Africa. Sì, la primavera araba sarebbe dovuta succedere nell’Africa sub-sahariana. Questo è quello che credo. Ma perché non è successo? Perché non siamo stati capaci di trasformare la nostra rabbia in determinazione, non siamo stati capaci di costruire la necessaria coscienza sociale, tale da spingere a sostenere una simile lotta.

Ma sulla base di ciò che è successo di recente in Nigeria, non ho dubbi che la gente sta iniziando a trarre lezione da quello che è accaduto nel mondo arabo. E si pone delle domande – se è potuto succedere nel mondo arabo, perché non anche da noi? Se persone che stanno meglio di noi possono scegliere di lottare, di protestare nelle strade per giorni e mesi, come mai noi non abbiamo nemmeno la luce? La luce in Nigeria è un lusso. La nostra economia si basa sui generatori. [L’energia elettrica di Stato funziona molto poco; i ricchi usano generatori privati di elettricità] Ognuno deve pensare a procurarsi l’acqua per sè, a procurarsi la propria sicurezza. Qui non funziona niente. Non è come in Libia. Non ci sono mai stato, ma ho letto storie sulla Libia, sull’Egitto, sulla Tunisia. Queste sono società meglio organizzate, dove i servizi pubblici funzionano. Ma qui nell’Africa sub-sahariana non c’è nulla che funzioni. Allora, posso dire senza paura di essere smentito che le proteste di gennaio in Nigeria, sono state ispirate dall’Occupy movement di America ed Europa, come pure dalla primavera araba. Allora, non so se le nostre proteste sono giunte al punto di poterle chiamare “primavera nigeriana”, ma scommetto che la primavera nigeriana deve ancora venire.

Sam, i cambiamenti climatici sono un’altra grande minaccia per i nigeriani, come per chiunque sulla Terra. Quali sono le questioni ambientali qui? Quale coscienza esiste sulla giustizia ambientale e sullo sviluppo sostenibile?

Risponderò alla tua domanda da due prospettive. Prima sul piano generale e poi su un piano più personale. La minaccia dei cambiamenti climatici è reale. Noi, in questa parte di mondo, non ne siamo immuni. Se ci guardiamo intorno ci accorgiamo che stanno salendo i livelli di umidità. Recentemente, nel posto in cui vivo (un piccolo bungalow di 3 stanze), se non c’è luce [senza elettricità, niente ventilatori], non riesco a dormire. I miei figli non riescono a dormire, tranne che durante la stagione delle piogge. A peggiorare la situazione il fatto che la nostra erogazione di elettricità è saltuaria. Mi sono accorto che negli ultimi 3 anni, tra i mesi di aprile e marzo, prima che inizino di nuovo le piogge, sudo come non ho mai sudato in vita mia. La temperatura si è alzata a livelli che non ho mai visto da piccolo e nemmeno negli anni ’80 e ’90. Negli ultimi 5 anni, bisogna abituarsi a vivere a temperature altissime. E non bisogna andare a cercarne le cause tanto lontano.

Basta guardare le foreste intorno a noi… Nel mio villaggio, c’erano fitte foreste dove persino i bambini più piccoli facevano fatica ad entrare. Oggi la maggior parte di quelle foreste non ci sono più. Sui piccoli alberi e sulle mini-foreste non c’è nessuna forma di controllo quotidiano. Nei villaggi, il controllo si fa a livelli davvero ridicoli. Non c’è nessuna agenzia governativa in questa parte del paese che faccia qualcosa per regolamentarlo, per ridurlo, per ridurlo al minimo. Allora gli alberi vengono tagliati come non era mai successo prima e nessuno fa niente per rimpiazzarli. La superficie delle foreste è andata decrescendo costantemente in questa parte del paese dove la densità abitativa è probabilmente la più alta in Africa a parte il Delta del Niger, e dove le attività umane stanno avendo un grave impatto negativo sull’ambiente. La gente costruisce senza controlli, si fanno le strade e si bruciano i cespugli. C’è una deforestazione altissima. Ed una delle conseguenze della deforestazione in questa parte del paese è l’erosione del suolo, i calanchi, in certi posti ci sono strade spezzate in due. Poi per forza i torrenti, i fiumi ed i ruscelli che avevano una notevole presenza di vita acquatica sono oggi in secca. C’è un torrente a 200 metri dal mio villaggio. Quando ero piccolo non l’ho mai visto in secca. Negli ultimi 10 anni, se per caso non piove tra febbraio-marzo-aprile, va in secca.

E cosa ne pensa la gente? Vogliono lo sviluppo, ma come lo giustificano a fronte della sostenibilità?

La gente comune non ha una chiara coscienza di quello che sta succedendo. Se la prendono con le forze del male, con mani invisibili e con tutti gli oggetti metafisici per quello che succede. Ed infatti spetta al governo informare la gente sulla conseguenze negative della deforestazione, dello squilibrio nell’utilizzo delle risorse, sui benefici derivanti da uno sviluppo sostenibile e pianificato – sia a livello individuale che sociale in maniera più ampia. Ma il governo non sta facendo molto qui. C’è proprio una assenza totale di azione pubblica e di coscientizzazione sui principi di base.

E poi succede che anche nei nostri villaggi, i terreni che erano di solito fertili, non producano più molto cibo, né raccolti abbondanti come una volta. Queste sono le conseguenze dei cambiamenti climatici.

Certo, a livello di elite, di minoranze illuminate, c’è il realizzare che sì, c’è qualcosa di sbagliato. Ma a livello di gente comune, non c’è nessuna coscienza, nessuno sforzo per capire che è nel loro interesse far sì che l’ambiente sia protetto.

Hai citato il Delta del Niger. Si tratta di un’area in cui la lotta ambientale e sul petrolio è stata particolarmente acuta, con fuoriuscite massicce di petrolio ma anche attività militanti che hanno avuto un impatto reale sulla produzione cercando di rivendicare per il popolo parte della ricchezza derivata dal petrolio. Qual è il tuo punto di vista su queste attività militanti nel Delta del Niger?

Queste attività militanti non devono essere considerate come un fatto isolato. Esse sono la conseguenza dello sfruttamento messo in atto dalle compagnie petrolifere che operano nel Delta del Niger, dove non applicano i migliori regolamenti internazionali che invece osservano in qualsiasi altra parte del mondo. In Nigeria, questo succede perché vi è complicità tra queste compagnie, lo Stato nigeriano ed il governo locale, per cui fanno quello che vogliono. Come se il domani non esistesse. Possono farlo perché nessuno le richiama all’ordine, nessuno che le richiami alle loro responsabilità. Allora l’emergere dei gruppi militanti nel Delta del Niger è conseguente a queste pratiche e tendenze sfruttatrici, nonché all’assoluta mancanza di cura per l’ambiente nell’esplorazione, perforazione e produzione da parte della maggior parte delle compagnie petrolifere che operano nel Delta del Niger.

Allora, se li inquadriamo in questo contesto, i gruppi militanti stanno rispondendo ad una minaccia ben chiara e presente nei confronti della sopravvivenza delle comunità che vivono nel Delta. Quando eravamo piccoli, siamo cresciuti sapendo che la maggior parte dei villaggi, delle tribù e dei gruppi sociali del Delta erano essenzialmente pescatori. Ma con la costante estrazione di petrolio, la spoliazione dell’ambiente, la scomparsa della fauna e della vita acquatica del Delta, gran parte dell’industria collegata alla pesca è scomparsa. Molte delle attività industriali ed agricole che si facevano sono ora scomparse.

Allora, quando hai rubato ad un popolo il suo ambiente, come ci si può aspettare, in buona coscienza, che possa sopravvivere o continuare ad esistere come popolo? Vedi, il nostro popolo ha un detto per cui la natura ha messo a disposizione di ogni gruppo i mezzi per la sopravvivenza. Ti faccio un esempio. Nel sud-est, nella terra degli Igbo per esempio, il nostro popolo vive soprattutto di terra. Sopravviviamo grazie alle nostre palme, facciamo olio di palma, coltiviamo, questa è la base della nostra sussistenza. Se vai a nord, lì non ci sono le palme. Sopravvivono con altri tipi di agricoltura, piantano cipolle, patate, fanno pastorizia. Se vai nel Delta del Niger, i mezzi di base per la sopravvivenza sono la pesca ed alcune forme di agricoltura e di coltivazione. Allora se siamo d’accordo che la natura ha disposto per ogni gruppo certe forme di sussistenza, siamo testimoni di una situazione in cui i mezzi di sussistenza in gran parte del Delta del Niger sono stati spazzati via. Per colpa delle attività delle compagnie petrolifere che non badano a nessuna forma di interesse e responsabilità sociale.

Allora, questo è il contesto in cui collocare i militanti che sono insorti nel Delta del Niger dalla fine degli anni ’90 in poi. Sì, la maggior parte di questi gruppi sono coinvolti in varie forme di criminalità ed anche di banditismo, che non servono affatto agli interessi dei nigeriani abitanti comuni del Delta. E questo va condannato, ma non inficia in nessun modo il peccato originale che li ha spinti a peccare ulteriormente.

D’accordo. Parlando di peccato, la Nigeria è una società molto religiosa. La religione qui è molto radicata. E spesso assume forme molto conservatrici ed a volte violente. Qual è la tua opinione e cosa comporta questo per l’anarchismo e per l’organizzarsi nel senso più più ampio?

Ti dirò che la religione e le pratiche religiose sono entrate in una nuova fase in Nigeria. Prima del colonialismo, la nostra gente era per lo più di religiosità africana, con l’adorazione dei nostri piccoli dei- dei del tuono, del fiume e così via. Con l’arrivo del colonialismo, le due principali religioni globali – l’Islam ed il Cristianesimo – sono diventate le forze predominanti nelle vite dei nigeriani.

La rivalità e la competizione tra le due religioni portava a non considerare il fatto che non tutti i nigeriani erano musulmani o cristiani. Anche nel centro-nord, ci sono tribù pagane con diverse forme di religiosità africana. Ma oggi la Nigeria viene presentata e stereotipata con un sud cristiano ed un nord musulmano. Eppure se vai nel nord ci trovi tanti che non aderiscono all’Islam, se vai al sud troverai tanti che non aderiscono al cristianesimo.

Ma direi che negli ultimi 20-30 anni la singola influenza del cristianesimo o dell’Islam ha assunto una valenza negativa nella società nel senso che entrambe le religioni sono diventate fonti di manipolazione, manipolazione politica della gente comune. Quando senti che ci sono disordini religiosi nel nord, disordini religiosi ad Est, e poi vai ad analizzare i fatti, si scopre che non hanno una base religiosa. I politici usano la religione per manipolare la gente comune nelle lotte per la conquista di posizioni politiche e per assoggettarla alle elite.

La religione è divenuta uno strumento di manipolazione, di sfruttamento, di inganno, una sorta di bendaggio sugli occhi su larga scala della gente comune in Nigeria. E’ uno degli elementi militanti contro la coscienza sociale e lo sviluppo di una classe operaia, in quanto classe, in Nigeria. Contro lo sviluppo di una classe dei deprivati, degli oppressi, degli emarginati, che sentano e condividano interessi comuni e siano pronti a lottare per questi comuni interessi. La religione viene posta in mezzo come un cuneo, come una fonte di conflitti tra gente comune. Come ha detto Karl Marx, la religione diventa l’oppio delle società. Ad ogni piccola cosa viene dato un significato ed una colorazione religiosa che in realtà non ha. Si tratta di una tremenda remora allo sviluppo della coscienza sociale in Nigeria e in tutta l’Africa.

Sì. L’hai già detto, ma queste divisioni religiose sono spesso collegate (ma non solo collegate) a divisioni etniche, razziali e di genere per dividere le persone le une dalle altre. Cosa ne pensi?

Beh, il problema che sta di fronte a noi non è la razza come tale, quanto la religione, l’etnicità. La religione in Nigeria ed in Africa è una questione geografica. Trovi che quella religione tende a conformarsi in certi confini etnici. Quando si parla di un Fulani, si pensa ad un musulmano. Quando si parla di un Igbo, si immagina un cristiano cattolico. Quando si parla di uno della cintura centrale della Nigeria, pensi ad un cristiano evangelico. Allora, molte differenze religiose sono diventate differenze geografiche in natura, nel senso che certi confini etnici coincidono con certe religioni. La gente è stata portata a vedere queste differenze come caratteristiche permanenti di vita, e non come cose che si possono superare. La verità è che prima della mercificazione dello scambio e dei mezzi di sussistenza nella nostra società, prima della monetizzazione dell’economia, la gente si relazionava reciprocamente e non badava alle differenze religiose. Ognuno pensava che la religione dell’altro dovesse essere una sua questione personale. Ma con la politicizzazione della religione, per come la vediamo oggi, le differenze sociali sono state esaltate dai politici, che le usano per manipolare e controllare la massa della popolazione.

E che ci dici della questione di genere? Ci sono dei cambiamenti nella lotta di liberazione delle donne?

La lotta per la liberazione delle donne in Nigeria e nel resto dell’Africa deve fare un lungo cammino. Nel senso che, la nostra società, che è naturalmente patriarcale, pone l’enfasi sul ruolo dell’uomo. In molte società africane, come ho cercato di far vedere nel mio libro, il ruolo delle donne è diminuito, ridotto quasi a note a piè pagina. Ma la verità è che persino nelle tradizionali società africane, se uso la tradizionale società degli Igbo come esempio, il ruolo delle donne è decisivo, è centrale nella creazione di equilibrio ed armonia sociale. Ma è in gran parte un ruolo misconosciuto.

Stai parlando del ruolo di leaders che le donne svolgono?

Sì. Non ci crederesti, ma lascia che ti dica una cosa – una delle meno ovvie manifestazioni della società africana. Nelle tradizionali società africane, nella tradizionale società Igbo, per esempio, una donna che non riesca a dare figli a suo marito, si trova -nel caso il marito muoia- nella situazione di non poter dare continuità alla discendenza del defunto, per cui è cosa comune per le donne che si trovino in questa situazione, sposare un altro uomo. Allora quando gli africani dicono che il lesbismo o le donne che sposano altre donne, o uomini che sposano altri uomini sono cose che non fanno parte della nostra tradizione, qualsiasi analista politico con le idee chiare, qualsiasi antropologo o sociologo africano, dovrebbe sapere che nella società degli Igbo era cosa comune per una donna sposarsi con un’altra donna, quando si trovava a far fronte ad una situazione di vedovanza, ed essere considerata moglie di una donna più anziana. La quale poteva anche portare a casa un uomo che giacesse con la donna più giovane e fare figli alla memoria dell’ultimo marito.

La tradizionale società africana sarebbe squilibrata e disarmonica senza il ruolo delle donne. Il cui ruolo era decisivo per la risoluzione di dispute. Tra gli Igbo, la risoluzione delle dispute per le terre, nelle famiglie e nei casi di difficili questioni sociali, lo sguardo delle donne, specialmente di quelle che avevano fatto qualche emancipazione materiale, veniva costantemente consultato dagli uomini nelle tradizionali società africane.

Spostandoci dalla tradizionale società africana ai giorni nostri, l’istruzione è stata la forza decisiva per la liberazione delle donne. Le donne vanno a scuola, nei territori degli Igbo ci sono oggi più donne che uomini a frequentare le scuole. Perché gli uomini vanno in giro a fare affari, si dedicano al tradizionale commercio. Sempre più spesso, in molte scuole primarie e secondarie il numero delle studentesse supera quello degli studenti. Molte famiglie hanno capito che se le donne sono istruite, se ne giova tutto il paese, se mandi a scuola un uomo, in certi casi, stai solo formando un individuo.

L’importanza delle donne nella nostra società viene costantemente riconosciuta. I tribunali hanno svolto un certo ruolo nel cercare di liberare le donne dallo stato di inferiorità sociale. In passato tra gli Igbo, le donne non potevano ereditare gli immobili paterni, anche se erano le uniche figlie dei loro genitori. Ora c’è una sentenza di tribunale che dice che un uomo può fare testamento e lasciare le sue proprietà ai figli ed alle figlie in modo uguale. Nei casi in cui non ci sono figli maschi, l’eredità può andare alle figlie.

Quindi c’è stato un qualche progresso. Non c’è un corso di laurea nelle università in cui non ci siano donne – a medicina, ingegneria, geologia, informatica, e non solo materie umanistiche o artistiche. Le donne sono ovunque, persino nell’esercito. Ma devo dire comunque, che dato il fatto che la nostra società è divisa al 50% tra uomini e donne, c’è ancora molto spazio per l’emancipazione delle donne. E’ una lotta continua. Non è qualcosa che ha un termine. In questo momento siamo ad un punto tale da poter prevedere un futuro molto luminoso per la liberazione delle donne e per l’uguaglianza di genere nella nostra società.

Sam, tu hai avuto un ruolo importante nella Awareness League, che era una organizzazione anarchica nigeriana attiva negli anni ’90. Puoi raccontarci della sua ascesa e del suo declino?

E’ con una certa nostalgia che ne parlo, perché la Awareness League era un’idea romantica. Quando siamo andati all’università nei primi anni ’80, abbiamo trovato gruppi socialisti, un insegnamento socialista, un insegnamento più che altro marxista. E fummo attratti dal marxismo, nel senso che esso parlava di una nuova alba futura nella società, e per estensione, nel continente africano. Fummo completamente coinvolti dalle prospettive del marxismo e dalla critica al capitalismo fatta da Marx e dal marxismo. Non ci volle molto perché ci definissimo marxisti all’interno del campus, e continuammo ad esserlo anche dopo l’università. Mi sono laureato con una tesi in economia politica sul debito estero della Nigeria costruita con gli strumenti dell’analisi marxista. Come quello per cui Marx dice che l’economia si pone come un asse attorno a cui girano gli altri aspetti della società, siano essi politici o culturali. Parlai anche della tendenza del capitalismo alla crisi. Queste erano le idee che mi coinvolgevano. Ma anche l’idea della rivoluzione. Marx diceva che la storia di tutte le società esistenti era la storia della lotta di classe, e che la rivoluzione era la levatrice della nuova società, dando alla luce quella nuova.

In genere in Nigeria, dopo la laurea, devi fare un anno di servizio civile. Così fui mandato nella regione di Oyo la cui capitale è Ibadan. E’ stato lì che ho incontrato un paio di giovani socialisti come me, ed iniziammo ad organizzarci ed a parlare di marxismo, socialismo, resistenza di sinistra. Ci siamo definiti essenzialmente come organizzazione di sinistra. In quel periodo alcuni di noi si abbonarono al giornale “The Torch” (La Fiaccola, ndt), che si pubblicava a New York. Fu allora che iniziammo a prendere conoscenza per la prima volta delle prime idee anarchiche. E’ stato così che gradualmente, dopo la fine dell’anno di servizio nazionale, alcuni di noi che vivevano nel sud-est, iniziarono a pensare ad una piattaforma duratura. Anche perché il socialismo stava entrando in una crisi molto seria. La crisi dell’impero sovietico era in corso. Poco tempo dopo, il comunismo collassava in tutta Europa. E fu nel mezzo di questa crisi che noi iniziammo a pendere sempre di più verso posizioni anarchiche. Di conseguenza è nata la Awareness League, e il resto è storia.

La Awareness League trae la sua linfa prima di tutto dalla resistenza contro il governo militare in Nigeria. La continuazione del governo militare funzionava da fertilizzante. Fu una delle ragioni che continuarono a dare ossigeno alla nostra esistenza come Awareness League. E’ ormai storia che tra la fine degli anni ’80 e la fine degli anni ’90, la Nigeria ha vissuto il picco della lotta contro i militari. La Awareness League unì le sue forze con altri gruppi anti-militari nella resistenza alla dittatura in Nigeria. Fu nel corso dei contatti intrapresi con diversi gruppi anarcosindacalisti in tutto il mondo, tra Europa ed America, che insieme ai miei compagni decidemmo di scrivere un libro sull’anarchismo.

La lotta contro il governo militare finì con l’avvento del governo civile nel 1999. Posso dire che l’antagonismo espresso non solo dalla Awareness League ma da tutta la società civile, dai gruppi di quartiere e dalle organizzazioni di sinistra nel paese, virtualmente svanì. Perché i militari erano un fattore di unità, nel senso che ogni persona – anarchico, marxista, socialista, di sinistra – vedeva nei militari un nemico comune a cui resistere, a cui opporsi, da rovesciare se possibile. Con l’avvento del governo civile, non avevamo più quel tipo di nemico comune. Perché alcuni di quei gruppi, alcune individualità di questi gruppi, avevano iniziato a gravitare intorno alla politica borghese. Ma va detto che nella maggior parte dei casi il problema non stava in queste individualità che si avvicinavano alla politica borghese, perché erano tutti i gruppi della società civile insieme alle organizzazioni ed ai gruppi di sinistra che non erano preparati alle conseguenze di un avvento del governo civile. Non analizzammo seriamente quali sarebbero state le conseguenze della fine del governo dei militari e dell’avvento dei civili al loro posto. Demmo per scontato che si trattava della stessa cosa, di affari. Ma, come poi accadde, la fine del governo dei militari singolarmente segnò la fine della maggior parte di questi gruppi di quartiere e della società civile. La maggior parte di questi gruppi, compresa la Awareness League, si frammentarono.

All’alba del nuovo millennio, eravamo poche individualità di sinistra, alle prese con la realtà dell’esistenza sociale e degli sviluppi politici del nostro paese. Alcuni di noi sono ritornati a scuola, prendendo incarichi da insegnante in alcune università, altri sono alle prese con la realtà della sopravvivenza e dell’esistenza nel nostro tipo di società. Io ho dovuto affrontare delle sfide sul piano della salute – cosa di cui preferisco non parlare. Tra il 2007 ed il 2009, ho avuto seri problemi di salute. Per me è impossibile ricostituire la Awareness League nelle circostanze in cui ci troviamo oggi.

Mi dico che non possiamo ricreare la Awareness League, ma forse dobbiamo mantenere qualche forma di interazione tra di noi e con altri nella società civile. Dobbiamo continuare ad impegnarci, anche con quelli che sono coinvolti nella politica istituzionale, in qualche forma di appello a poter contare. Dobbiamo cercare modalità più realistiche per essere più rilevanti nella società e cercare noi di fare la differenza nelle nostre rispettive comunità e nella società in senso più ampio.

Per cui mi sono messo in contatto con un po’ di persone per creare una organizzazione non-governativa nota come Tropical Watch. Che si occupa soprattutto di sviluppo sostenibile e di ambiente, tra cui i cambiamenti climatici. In questo percorso ci siamo imbattuti anche in qualche lotta contro la corruzione. Poiché ci siamo accorti che una della maggiori minacce allo sviluppo sostenibile è proprio la corruzione. Questa rende impossibile allocare le risorse in maniera legale e trasparente. Ne trarrebbero beneficio tutti i settori dell’economia e della società. E’ la corruzione che rende impossibile ad esempio che il governo controlli le foreste in molte comunità. E’ la corruzione che rende impossibile procedere nella costruzione di strade, nella fornitura di acqua, nelle bonifiche. E’ talmente vasta la corruzione che è impossibile creare un equilibrio armonico tra l’utilizzo delle risorse e l’esistenza dell’ambiente e della società. Queste sono alcune delle cose che personalmente, insieme ad altri amici ed individualità, sto cercando di mettere in piedi.

Ma non è stato facile. Perché come ti ho detto quello che è successo alla Awareness League non è un caso unico – è successo ad ogni altro singolo gruppo della società civile, ad ogni altra organizzazione sociale organica nel paese che aveva preso parte alla lotta contro i militari. Ti faccio un esempio. Una delle più grosse ONG degli ultimi 15-20 anni in Nigeria è stata la Civil Liberties Organisation. Era un organismo impegnato nella lotta per i diritti umani, per un governo costituzionale, contro le violenze della polizia e contro tutte le forme di violenza ai danni dei civili, uomini e donne. La Civil Liberties Organisation (CLO) era cresciuta così tanto da avere sedi in diverse parti del paese. Ma ti posso assicurare che nel giro di 7-8 anni la CLO è quasi morta. Infatti, oggi è più o meno una sorta di fantasma, perché non c’è un solo stato della Nigeria in cui abbia una sede aperta e funzionante. Chi faceva il direttore di zona qui a Enugu è stato praticamente lasciato in balìa di se stesso. Non hanno pagato l’affitto della sua sede per 5 anni. Quello che voglio dire è che ciò che è successo alla Awareness League è quello che è capitato alla maggior parte delle altre organizzazioni. Anche la Tropical Watch stenta ancora a stare in piedi da sola.

Ci sono organizzazioni della classe operaia, sindacati, in Nigeria, che possono essere considerati come veicoli per la lotta di classe?

I sindacati in Nigeria sono stati molto attivi nelle prime lotte anti-coloniali. Ti ho già raccontato tempo fa delle lotte del minatori delle miniere di carbone qui a Enugu, che era il centro minerario della Nigeria. Durante le lotte anti-coloniali per l’indipendenza, i padroni coloniali fecero uccidere 49 minatori qui in città, minatori che stavano lottando contro lo sfruttamento. Fu una pietra miliare per lo sviluppo della lotta anti-coloniale in questa parte della Nigeria. Anche nella città di Jos, dove c’era una fiorente industria mineraria, gli operai erano ben organizzati. Le industrie minerarie diventarono un trampolino di lancio per la sindacalizzazione nel paese, compreso il servizio civile regolare. Alla svolta dell’indipendenza, avevamo un consistente sindacalismo operaio nel paese, che è proseguito fino all’arrivo dei militari.

Il governo militare riuscì ad irretire lo sviluppo del sindacalismo nel paese. Ci riuscirono facendo ricorso a sentimenti primordiali, alla religione, al tribalismo ed alle divisioni regionali, come a dire, dividi e governa, per manipolare i lavoratori. Dipende da chi è al governo. Il movimento sindacale nazionale in Nigeria – verso la fine della dittatura militare – cercò di far sentire la sua voce, iniziando ad indire scioperi nazionali sempre più forti ed iniziando a riorganizzarsi su scala nazionale.

Ma ti posso dire che le fortune del sindacalismo sono state ostacolate dal processo di deindustrializzazione che sta avendo luogo nel paese, a partire dagli ultimi giorni della dittatura militare. La maggior parte delle industrie hanno chiuso. Uno dei settori che impiegava più lavoratori nel paese era l’industria tessile ed ora non c’è più. L’industria tessile è stata completamente spazzata via. Ora importiamo prodotti tessili a buon mercato dalla Cina, dai paesi vicini, dall’India. L’industria tessile occupava più di 200mila operai in tutto il paese. Il settore dell’automobile aveva degli impianti di assemblaggio della Anammco qui a Enugu, la Peugeot era a Kaduna, la Peleot era a Bauchi, la Volkswagen era a Lagos. Ora sono tutti chiusi. Avevamo un settore dell’acciaio in diversi posti. Tutti chiusi. Dunque c’è stata una massiccia deindustrializzazione nel paese che nel giro di 20 anni ha colpito le speranze dei lavoratori.

Ora i settori che tirano sono quello pubblico, il settore bancario o l’industria del petrolio. Qui i lavoratori si sentono come dei privilegiati. E quindi fanno fatica a fare attività sindacale, tranne i più giovani. Lo stesso accade nel settore bancario, infatti una delle clausole di impiego è che non si organizzi attività sindacale. Per circa 10-20 anni i lavoratori hanno accettato questa situazione. Ma dopo i primi fallimenti di banche in Nigeria, che sono avvenuti alla fine degli anni ’90, i lavoratori più giovani del settore bancario stanno iniziando a ri-organizzarsi. Ma non sono più così efficaci. Per cui, fondamentalmente, i sindacati che ci sono in Nigeria, sono praticamente quelli del settore pubblico. E sarai d’accordo con me che l’esperienza sindacale industriale si fonda sui luoghi di lavoro dell’industria e non negli uffici con l’aria condizionata ed i colletti bianchi dietro le scrivanie.

Così lo stato delle attività sindacali in Nigeria è deplorevole. E la maggior parte dei dirigenti sindacali guardano alla loro posizione con un occhio alla loro carriera. Pensano alla carriera prima e più di ogni altra cosa. Questo è uno dei fattori chiave che ha influenzato le ultime manifestazioni nazionali, nel senso che i dirigenti del sindacato del Nigerian Labour Congress hanno capitolato all’ultimo minuto.

Lasciami spiegare che i ceti professionali in Nigeria – l’associazione dei medici, degli avvocati, degli architetti, degli ingegneri e professioni simili non sono interessate ad organizzarsi sindacalmente. Questi partono dalla prospettiva di percepirsi come membri privilegiati della società. Anche se le condizioni di una porzione significativa di questi ceti sono oggi a livello dei nigeriani comuni. Per loro non c’è un incentivo ad organizzarsi. Cercano invece come singole persone di sfruttare il gruppo professionale per usare il sistema a loro vantaggio personale o per gli interessi di gruppo.

Sam, quali sono le cose su cui la gente si attiva – gli attivisti di base nel sindacato, o le persone come te in Tropical Watch oppure le organizzazioni della società civile – quali sono le cose per cui la gente cerca di costruire le lotte? Tipo questioni pratiche quotidiane, in cosa le persone impiegano il loro tempo nel cercare di costruire le lotte sociali?

Noi, in quanto attivisti, cerchiamo di vederci. Cerchiamo di fare workshops. Teniamo alcuni workshops che sono sponsorizzati da agenzie di donatori, in cui si riesce a mettere insieme gli attivisti. Abbiamo fatto dei seminari e tenuto workshops sulla brutalità della polizia, sulla violenza della polizia, sulla violenza di genere, sui cambiamenti climatici. Questi seminari e questi workshops puntano a mettere insieme attivisti di tutte le tendenze. E di volta in volta, partendo dai cambiamenti sociali, politici ed economici intorno a noi, cerchiamo di organizzare riunioni tra gruppi ed individualità, e vediamo se riusciamo a trovare un accordo ed a costruire qualcosa.

Ma ad essere sinceri, specialmente nel sud-est non siamo stati capaci di costruire una salda società civile. La gente di Lagos è stata capace di creare modelli migliori perché essenzialmente loro hanno più esperienza in questo campo, che risale agli anni della dittatura militare. La gente di Abuja sta lavorando bene, perché a partire dal movimento per la sede del governo ad Abuja, siamo stati testimoni della concentrazione di attivisti che si organizzano per il riconoscimento governativo in un modo o nell’altro. Ma qui non abbiamo avuto fortuna. Credo che una parte del problema stia nel fatto che la maggior parte delle persone è occupata nella lotta quotidiana per la sopravvivenza. Ma riconosco che questa non è una scusa sufficiente per non essere capaci di organizzarsi.

Ecco l’esperienza di uno dei nostri compagni, Osmond Ugwu, il quale non molto tempo fa è stato vittima di una grande prepotenza di stato. Si era messo ad organizzare i lavoratori nella protesta contro la mancata adozione del salario minimo. Il salario minimo faceva parte del programma politico del governo del PDP (People’s Democratic Party, ndt), ed una legge sul salario minimo nazionale era passata in entrambe le camere della assemblea nazionale. Tutti gli stati del paese erano dunque tenuti ad adottare il salario minimo, a metterlo in pratica nei territori di competenza. Ma qui il governo di Enugu si è rifiutato di applicare la legge o ha cercato di dilazionarne l’applicazione. E quando Osmond ed altri 2 compagni hanno cercato di organizzare i lavoratori, di sensibilizzarli a reagire a questa ingiustizia da parte del governo, è stato messo in prigione. E’ istruttivo osservare che mentre Osmond stava cercando di organizzare i lavoratori, i dirigenti locali del sindacato (il Nigerian Labour Congress, ndt) stavano collaborando con il governo locale e stavano negoziando una attenuazione del diritto dei lavoratori ad organizzarsi. Infine è stato Osmond a pagarne il prezzo restando in carcere e finendo sotto processo. E’ stato rilasciato solo alla fine di gennaio. [2012]. Grazie soprattutto alle proteste sollevate da Amnesty International. Ed oggi deve affrontare delle accuse criminali che sono del tutto ridicole. Questo per capire quali sono le minacce che deve affrontare chi in questo paese intenda lottare per creare una nuova società in questo contesto ambientale.

Un ultima domanda Sam: come potresti definire la solidarietà globale? Cioè, come possono gli attivisti che vivono nei paesi cosiddetti “sviluppati” sostenere le lotte nella maggior parte del mondo e viceversa?

Sì, gli attivisti nel mondo sviluppato possono fare molto per sollecitare la coscienza della gente qui. Ma credo che in fin dei conti deve essere la gente qui ad assumersi la responsabilità per la propria vita, assumersi la responsabilità di resistere ai governi autocratici, assumersi la responsabilità di cercare di portare i governi a rispondere del loro operato.

La gente del mondo metropolitano può assisterci aiutandoci a costruire le nostre capacità. Vedi, i gruppi della società civile qui non se ne stanno a casa ad usare gli strumenti della moderna comunicazione – i social media – quelli che hanno avuto un ruolo molto importante nell’Occupy movement in diverse parti d’Europa e in America, e nella primavera araba. Rimarresti sorpreso se ti dicessi che la protesta nigeriana non è stata sostenuta in modo rilevante dall’uso dei social media. Sì, ci sono stati esempi in cui i social media hanno avuto la loro importanza, ma la nostra nozione di social media qui è quella di usare la posta elettronica o di gestire il tuo profilo su FB. Questa è la nozione media che hanno i nigeriani rispetto ai social networks. Ma ci sono ancora molte difficoltà su come utilizzare twitter o YouTube, come mettere in rete foto e altro, come creare un blog che sia facilmente accessibile agli altri attivisti che sono in rete.

E’ anche vero che qui l’accesso a internet si deve ancora sviluppare. In base ad una mia valutazione siamo sotto il 20% della popolazione. O ancora molto molto meno. Sì, la gente accede alla rete quando usa la posta elettronica, o quando usa Facebook. Ma se si parla di lotta sociale collegata alla rete, l’accesso a Internet scende a meno del 10%.

Così la gente del mondo metropolitano può davvero aiutarci cercando di costruire la capacità di usare gli strumenti della comunicazione dei social media. E’ cruciale fare dei progressi nell’organizzare e nel costruire la solidarietà col mondo esterno. Se avessimo accesso a questi mezzi, sarebbe più facile tenersi in contatto con il resto del mondo, e per quest’ultimo poter conoscere esattamente la vera situazione qui. Le persone qui dovrebbero essere messe nelle condizioni, dovunque si trovino, non solo nelle aree urbane, di poter fare delle foto e metterle in rete per trarne il maggior vantaggio possibile.

Sì. C’è qualcos’altro che vorresti aggiungere prima di chiudere?

Sì, vorrei dire poche cose ai nostri amici anarchici ed ai gruppi che in passato hanno lavorato con noi, che ci hanno aiutato, in un modo o nell’altro, specialmente dall’Europa e dal Nord America. Voglio dir loro che l’anarchismo in Africa non è morto. E’ importante sapere che l’anarchismo come movimento, come movimento politico, come piattaforma ideologica, ha bisogno ancora di un po’ di tempo per potersi cristallizzare qui. E nel frattempo, proseguiamo ad impegnarci del resto della società. Dobbiamo continuare a stanare il governo per costringerlo a dibattere sul nostro terreno. Ecco perché alcuni di noi si sono messi a fare le ONG. Quando qui parli alla gente di anarchismo, ti dicono:”Ah, bene. Cioè? Ah, no no no l’anarchismo è disordine, caos, confusione”. Naturalmente quando fai un’analisi adeguata dell’organizzazione sociale e di come questa [scorretta visione dell’anarchismo] conformi i principi anarchici [su come l’ideologia controlla le persone], capisci qual è il senso.

E’ difficile qui iniziare a costruire un movimento fondato solo sui principi anarchici. Ma possiamo costruire un movimento che chiami il governo alle sue responsabilità, cercando di lottare per l’ambiente, di lottare per l’uguaglianza di genere, per i diritti umani. Perché questi sono i principi minimi su cui una gran parte della popolazione si ritrova, ed ha senso per noi continuare ad interagire ed a interrogare ciò che esiste a livello sociale e di politica pubblica su queste basi. E cercare di far sì che la società civile non si estingua del tutto. Mentre quelli tra noi che continuano sinceramente a credere nell’anarchismo continueranno ad organizzarsi ed a sviluppare gli strumenti organizzativi che un giorno porteranno all’emergere del movimento anarchico.

Sì. Grazie Sam. Ci hai dato tanti spunti su cui riflettere. Credo che con persone come te così a conoscenza delle cose, così critici ed attivi, c’è sicuramente speranza che possa nascere quel movimento di cui ci hai parlato.

Grazie a te Jeremy.

* Questa è una traduzione della trascrizione completa dell’intervista fatta a Sam, nel marzo 2012 a Enugu, in Nigeria. Alcuni estratti sono su questo blog. Si può ascoltare o scaricare il file audio nella sezione audio del blog. L’intervistatore, Jeremy, fa parte del Jura Books Collective – un collettivo anarchico di Sydney in Australia. La traduzione è a cura di FdCA-Ufficio Relazioni Internazionali. “