“Faranno un deserto e lo chiameranno pace”- oppure l’utopia.

Le prime immagini che ricordo di aver visto in vita mia su uno schermo televisivo sono quelle della prima intifada in Palestina: bambini e adolescenti che lanciano pietre contro carri armati israeliani. Se oggi accendessi la tv e mi sintonizzassi su un canale che trasmette un qualsiasi tg vedrei ancora immagini relative allo stesso conflitto: lo Stato d’Israele si difende, stavolta dagli attacchi dei fondamentalisti islamici di Hamas, Israele cerca vendetta contro gli assassini di tre suoi giovanissimi cittadini e la esegue con le proporzioni che da sempre le competono. Israele si difende dal 1948, anzi da prima ancora che venisse formalmente creato, da un popolo che non ha mai rappresentato una minaccia nei suoi confronti. Si difende come già negli anni ’30 del secolo scorso, quando i sionisti capeggiati da David Ben Gurion programmarono e in seguito misero in atto un piano di pulizia etnica nei territori che sarebbero poi entrati a far parte dello Stato di Israele, il che portò tra le altre cose alla cacciata e all’esilio -la naqba-, eseguita con metodi terroristici anche da gruppi quali Haganah, Irgun e Stern, di 250 000 palestinesi. Si difende dalla verità storica, ridisegnando confini a proprio piacimento, insegnando menzogne ai bambini nelle sue scuole, educandoli all’odio nei confronti degli arabi, impedendogli di aprire gli occhi di fronte alla realtà dei fatti, indottrinandoli a venerare l’esercito e preparandoli a farne parte. Si difende dai nemici interni, dai traditori, da quelli che raccontano segreti scomodi come lo scenziato Mordechai Vanunu così come da chi si rifiuta di servire lo Stato indossando la divisa e imbracciando un fucile. Si difende dalle critiche a livello internazionale, dalle manifestazioni di protesta, dagli appelli al boicottaggio e alle sanzioni: l’etichetta di antisemita viene distribuita con generosità a chiunque non taccia di fronte ai crimini commessi dai sionisti nei confronti della popolazione palestinese. Si difende contro quei terroristi dei palestinesi asserragliati nella striscia di Gaza.

Gaza è uno dei territori più densamente popolati al mondo. Non ha aereoporti, porti, stazioni ferroviarie: per sfuggire ai bombardamenti, beffardamente annunciati durante quest’ultima operazione di “autodifesa” da parte dell’esercito israeliano tramite telefonate o sms ai civili palestinesi (guai ad avere il cellulare scarico!), si calcola che questi ultimi abbiano circa 15 secondi di tempo. È ben difficile muoversi liberamente, nella striscia di Gaza, che anche al suo interno vede la presenza di check point dell’ esercito israeliano: star lontani da presunti obiettivi militari non serve, dato che l’Israeli Defence Force ha bombardato finora, nel corso dell’operazione militare in corso (per non parlare nel corso di quelle precedenti) abitazioni, scuole, asili, orfanotrofi, moschee, ospedali, ambulanze, autoveicoli privati, parchi giochi -e chi ci si trovava dentro o nei pressi . Alcuni dei possibili rifugi dalle bombe sarebbero i tunnel che attraversano Gaza, quegli stessi tunnel che l’offensiva di terra dell’esercito israeliano dice di voler distruggere e attraverso i quali verrebbero trasportate le armi destinate ad Hamas. Peccato che attraverso quei cunicoli sotterranei passino anche beni di prima necessità che scarseggiano tra la popolazione palestinese, inclusi materiali da costruzione: i palestinesi non possono edificare a Gaza, mentre possono svegliarsi una mattina e scoprire che la loro casa o il loro uliveto sono stati rasi al suolo per far posto ad un nuovo insediamento di coloni israeliani, che con le inutili risoluzioni dell’ONU ci si puliscono il deretano. L’economia di Gaza dipende interamente da Israele e dai suoi capricci, cosicchè l’85% circa della popolazione che vi risiede vive -o per meglio dire sopravvive, fino alla prossima operazione di “autodifesa israeliana”- sotto il tasso di povertà.

La situazione a Gaza, realisticamente parlando, non è destinata a migliorare, basti guardare come siano peggiorate le cose per la popolazione palestinese che vi risiede a partire dall’operazione Piombo Fuso lanciata da Israele alla fine del 2008. Probabilmente solo quando l’intera popolazione palestinese di Gaza (e possibilmente di tutti i territori facenti parte del fantomatico Stato Palestinese) sarà morta e/o emigrata e/o inglobata come cittadinanza di serie b nello Stato d’Israele, allora non ci saranno più aggressioni militari o conflitti di sorta, sempre che Israele non si senta minacciato da qualcun’altro e non ritenga necessarie nuove contromisure in nome della propria sicurezza a danno di altre popolazioni di altri territori in Medio Oriente. Da una prospettiva meramente utopica si potrebbe invece sognare qualcosa di diverso: un territorio senza Stati né governi centrali, dal quale vengano mandati in esilio solo i fondamentalisti d’ogni sorta e gli inguaribili nazionalisti, razzisti e guerrafondai, una terra nella quale i suoi abitanti possano insieme ed egualmente decidere, vivere, produrre, consumare, crescere, imparare, amare e un giorno morire possibilmente di morte naturale. Per arrivare ad un’utopia del genere, e badate che sto parlando di qualcosa di impossibile, i giovani e giovanissimi israeliani, ragazzi e ragazze non ancora maggiorenni, dovrebbero venire a sapere come siano andate le cose nelle terre da loro abitate ed in quelle limitrofi fin dagli inizi del secolo scorso; dovrebbero liberarsi dall’educazione che gli è stata imposta, dai dettami nazionalisti, militaristi, religiosi; dovrebbero rifiutarsi di prestare servizio militare nell’Israeli Defence Force, farsi magari sbattere in galera finchè non ci saranno più abbastanza galere, dopodiché i loro padri e le loro madri dovrebbero fare la stessa cosa, rendersi conto dei propri errori, della loro sudditanza, di come la vera e unica autodifesa nei confronti delle loro vite e di quelle dei loro cari sia smettere di credere alle menzogne del governo, smettere di seminare terrore, smettere di nutrire l’odio nei cuori di chi viene oppresso fabbricando sempre nuove generazioni di nemici. Quando in Israele si spegneranno le televisioni e si lasceranno a marcire nelle edicole i giornali della propaganda sionista, quando si sciopererà contro l’ennesima operazione militare nella Striscia di Gaza, quando ci si rifiuterà di applicare le leggi razziste promulgate dal knesset, quando le strade si riempiranno non di gente che sventola bandiere nazionali esultando ad ogni morto palestinese, ma di persone che si rifiutano di gettare bombe, innalzare muri o lavorare al servizio dell’ oppressione quotidiana o dell’ennesimo massacro, allora toccherà ai palestinesi fare la loro parte. Nessun inutile razzo, nessun kamikaze senza più nemmeno rispetto per la propria miserabile vita senza prospettive. I palestinesi dovranno prendere atto del cambiamento in corso nella società israeliana e fare il passo più difficile: perdonare. Senza volontà di vendetta, voltare pagina e ricominciare da capo insieme ai loro nuovi fratelli e sorelle. E, ovviamente, levarsi dai piedi gli irriducibili reazionari che ancora fossero rimasti tra le proprie file. Solo a questo punto si potrebbe realizzare la pace, una pace che non sia un deserto ma un presente degno di essere vissuto ed un futuro da costruire insieme.

Cercando l’impossibile, l’uomo ha sempre realizzato e conosciuto il possibile, e coloro che si sono saggiamente limitati a ciò che sembrava possibile non sono mai avanzati di un sol passo”. Michail Bakunin.
 
(Nelle foto sopra, alcune persone che hanno compiuto un passo in avanti: l’obiettore di coscienza israeliano Nathan Blanc e manifestanti israeliani che protestano contro l’ennesima aggressione militare del “loro” Stato nei confronti dei palestinesi di Gaza.)

Carta.

Il 4 Novembre scorso il sindaco di Messina, tale Riccardo Accorinti, ha esposto durante la festa delle forze armate una bandiera della pace che, come si vede nell’ormai nota foto sopra, recava la scritta “l’Italia ripudia la guerra”. Diverse persone hanno applaudito di fronte a questo gesto e, devo ammetterlo, anche a me è venuta istintivamente voglia di farlo, senonchè mi si sono incrociate le mani. “L’Italia ripudia la guerra come mezzo di offesa alla libertà di altri popoli e come strumento per la risoluzione di controversie internazionali”, cito a memoria, è l’articolo numero undici di quella carta costituzionale che ancora qualche mese fa un guitto di corte definiva, di fronte ad un nutrito pubblico di lobotomizzati telespettatori, “la più bella del mondo”. Non mi sorprende che la legge di tutte le leggi sia ancora citata ad ogni spron battuto da tante persone ingenue o illuse, in fondo ci sono scritte su tante cose carine: la repubblica a sovranità popolare fondata sul lavoro che rimuove gli ostacoli che limitino libertà e uguaglianza dei cittadini dotati di pari diritti senza discriminazioni razziste e sessiste, che ripudia la guerra, che stabilisce che il lavoro debba essere adeguatamente remunerato, che s’impegna nella difesa dei beni pubblici, che proibisce la ricostituzione del disciolto partito fascista eccetera eccetera. Cito ancora a memoria, perchè l’ultima volta che ho avuto in mano una copia della Costituzione Italiana è stato nei tardi anni ’90, ricordo ancora che quella copia (datata 1994, se non ricordo male) ci venne data a scuola e conteneva un discorsetto introduttivo dell’allora presidente della camera dei deputati Irene Pivetti, eletta tra le file della Lega Nord. Sì, quel partito che voleva la secessione della fantomatica Padania dal resto d’Italia. Molto costituzionale! Da allora non ho più avuto bisogno di aprire quel libricino per rileggerne gli articoli, chè ad ogni assemblea o manifestazione alla quale io abbia partecipato in quegli anni qualcuno (compreso me) declamava o sbandierava o inalberava o indossava sotto forma di t-shirt qualche articolo della sacra charta magna suppostamente nata dai valori della resistenza. Lo ammetto, anche io sono stato ingenuo, ma crescendo si matura e si prende maggiormente coscienza della realtá che ci circonda, rendendosi anche conto che a declamare gli articoli della Costituzione non sono solo gli illusi o gli ingenui dei quali ho scritto sopra, ma anche e soprattutto le persone in malafede. Nemmeno oggi ho bisogno di riprendere in mano il testo della Costituzione Italiana per ricordare cosa reciti e non ho bisogno di fare molti sforzi per rammentare a me stesso e agli altri quante volte i suoi articoli siano stati calpestati senza il benchè minimo pudore da chi dovrebbe esserne il garante, da quegli stessi personaggi che quando gli fa comodo (fin troppo spesso) li declamano per tenere a bada il popolo illuso, salvo poi, tornando all’articolo undici, mandare contingenti militari in Afghanistan, tanto per dire, allo scopo di offendere la libertà di un altro popolo (e di cancellare dalla faccia della terra diversi suoi membri, soprattutto quelli che non indossano una divisa né portano armi e vengono convenzionalmente definiti col nome di “civili”) creando e non risolvendo controversie al solo scopo di garantire interessi economici e strategici a vantaggio proprio e dei propri alleati militari. Oggi io non mi appello più alle leggi di uno Stato, nello Stato non ci credo proprio e per questo molti mi definiscono come un sognatore che vive di utopie. Sono gli stessi che continuano a citare gli articoli costituzionali chiedendo a chi per primo da sempre li calpesta che questi vengano rispettati. Chi è il sognatore?

Provaci ancora, fascio!

I fascisti della Fiamma Tricolore tentano di farsi spazio nel movimento NO MUOS e proclamano una manifestazione per fine Agosto in Sicilia contro il progetto delle antenne militari. Non è la prima volta che estremisti di destra provano a immischiarsi in lotte che non gli appartengono, tentando di strumentalizzarle per raccogliere nuovi consensi: era già accaduto con le lotte contro globalizzazione, guerre imperialiste, TAV e al fianco del popolo palestinese, ma in tutte queste occasioni la risposta di movimenti e individui era stata sostanzialmente di netto rifiuto nei confronti di qualsiasi strumentalizzazione. I neofascisti, incapaci di brillare di luce propria e accortisi che la stantia riproposizione di artefatte storielle e vecchi cimeli del Ventennio non risulta abbastanza appetibile per le nuove generazioni, fanno leva oltre che sul solito ribellismo senza arte né parte, anche su slogan, tendenze e rivendicazioni appartenenti ai loro avversari politici di sempre. Lungi dall’interessarsi realmente alle lotte popolari e partecipate contro scempi ambientali, massacri fraticidi, politiche discriminatorie e di sfruttamento, questi sordidi personaggi e le loro organizzazioni parassitano battaglie altrui nella speranza di poter sdoganare le loro vere idee, per le quali non vi è posto nella società per chi non rientra nei canoni di normalità previsti dalle loro menti ristrette. Per i neofascisti quel che conta non è ad esempio che non venga realizzato un progetto dannoso come quello del MUOS, il problema per loro, da bravi militaristi sempre pronti a “credere-obbedire-combattere” è che a volerlo realizzare siano le forze armate statunitensi piuttosto che quelle italiane. Lo stesso discorso vale per il TAV: quelli che antepongono a qualsiasi altra cosa l'”interesse nazionale”, ovvero l’interesse autoritario e predace di chi all’interno di uno Stato-Nazione detiene il potere politico ed economico, non possono coerentemente far parte di una lotta come quella dei NO TAV.

In risposta al tentativo di strumentalizzazione neofascista della lotta contro il MUOS, il presidio NO MUOS di Niscemi indice un campeggio antifascista di due giorni in Contrada Ulmo e diffonde il seguente proclama ( tratto dal sito  www.nomuos.info):

” L’antifascismo vive in contrada Ulmo.

 

Da venerdì 30 Agosto il presidio No Muos di Niscemi indice una due giorni di campeggio Antifascista.

 

L’antifascismo non è soltanto una parola, ma è un valore quindi una pratica che deve essere seguita ogni giorno; una due giorni di campeggio che serva a radicare nelle coscienze politiche degli attivisti di tutta la Sicilia,  l’idea che i fascisti non sono scomparsi, ma agiscono tra le maglie delle amministrazioni e delle strutture borghesi e ancora a distanza di decenni dettano leggi atte a regolamentare e a imbrigliare la spontaneità dei compagni e delle compagne.

 

Con questa due giorni il presidio e le sue individualità chiedono alla rete antifascista siciliana e italiana di riunirsi in contrada Ulmo a Niscemi, dove si terrà un concerto antifascista e a seguire un corteo fino alla base militare U.S. Navy.

 

La formazione politica della fiamma tricolore di chiaro stampo fascista ha richiesto l’autorizzazione per una manifestazione contro l’istallazione del Muos. Il movimento  No Muos, come dichiarato nella carta d’intenti-  è antifascista e non può permettere che un corteo della destra estrema possa ostentare i loro slogan e appropriarsi dei nostri simboli e delle nostre bandiere. Il movimento non può permettere che i fascisti cavalchino i successi ottenuti dai  cittadini e dagli attivisti con anni di sacrifici, denunce e repressione. La lotta No muos è propria dei cittadini, è antipartitica, antipatriarcale e orizzontale quindi del tutto slegata dalle abitudini politiche della destra fascista italiana.

 

Il Movimento No Muos è e sarà sempre antifascista e non concederà un solo centimetro di contrada Ulmo alle schiere fasciste né concederà loro un minimo spiraglio di dialogo.

 

Dalla Val Susa ad Atene l’intera Europa è sottoposta a una capillare azione di repressione e a un rinvigorimento dei sistemi di controllo violenti e repressivi. Il movimento No Muos è convinto del fatto che permettere una manifestazione della fiamma tricolore sia rendersi complice del revisionismo storico e della fascistizzazione che stanno infestando le nostre realtà. Il movimento non è complice, il movimento non è inerte , il movimento è antagonista e dichiara in maniera ferma e irreversibile che il fascismo troverà a Niscemi e al presidio No Muos di contrada Ulmo una ferma opposizione;  tutti e tutte siamo e saremo fisicamente un blocco fermo e intenzionato a non permettere che le loro bandiere e i loro infamanti slogan possano essere ostentati.

Comitato di base di Niscemi”

Terra bruciata.

Il pomeriggio del 7 Agosto scorso alcuni incendi sono divampati in diverse zone della Sardegna. Il fumo proveniente da Sinnai, in provincia di Cagliari, era ben visibile dalla popolare spiaggia cagliaritana del Poetto; quello scoppiato nella zona di Laconi-Gadoni ha provocato quattro feriti ed ha costretto ad evacuare centinaia di persone da Laconi. Si tratta di incendi dolosi, sulle motivazioni che possano aver animato l’incoscienza e l’idiozia di chi li ha appiccati non m’interessa speculare. M’interessa piuttosto ricordare che con il denaro pubblico investito dallo Stato italiano, tra l’altro col consenso di numerosi parlamentari sardi, per l’acquisto di aerei militari F-35, si sarebbero invece pututi comprare aerei ad uso civile, quei Canadair necessari a spegnere gli incendi che con scadenza regolarmente mortale colpiscono anche e soprattutto la Sardegna. Gli/le stessi/e parlamentari, in occasione degli ultimi roghi che hanno colpito l’isola, sono solo stati capaci di rilasciare dichiarazioni ipocrite atte a mascherare la loro corresponsabilità nell’ intempestività dei soccorsi antincendio. È evidente che a lorsignori/e interessa favorire servitù militari e politiche militariste anzichè far fronte a problemi comuni che riguardano la popolazione del territorio dal quale loro stessi/e provengono. Un fatto da tenere sempre ben presente, un atteggiamento al quale si può rispondere solo facendo terra bruciata intorno agli infami ed ai loro interessi particolari.

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Appello per il sostegno ad alcuni/e compagni/e anarchici/che sotto processo.

Appello pubblicato sul sito di Umanità Nova:

” 10.000 euro di solidarietà

Cari compagni e compagne,
siamo obbligati a fare appello alla vostra solidarietà attiva. Numerosi compagni e compagne della Federazione Anarchica Torinese sono sotto processo per la loro attività politica e sociale. Abbiamo in corso ben due maxi processi per la nostra attività antirazzista, un processo per antifascismo, uno per antimilitarismo, uno per il nostro impegno nel movimento No Tav.
Banali azioni di informazione e lotta sono entrate nel mirino della magistratura. Un presidio antirazzista diventa violenza privata, una performance antimilitarista un’offesa alla sacralità dell’esercito, il buttare via un manifesto fascista danneggiamento, un’azione popolare di contrasto al Tav viene perseguita con durezza.
Alcuni di noi hanno già subito nel recente passato condanne per la propria attività politica. Alcuni di noi rischiano la galera.
Siamo convinti che il miglior modo per rispondere alla repressione dello Stato consista nel continuare con ancora maggior impegno le lotte nelle quali siamo impegnati.
Siamo anche convinti che campagne pubbliche di appoggio ai compagni finiti nel mirino della magistratura possano riportare sul terreno della lotta le vicende che lo Stato vorrebbe relegare in un’aula di tribunale.
I processi hanno anche un costo molto elevato, sia per gli avvocati che per tutte le carte che la burocrazia della repressione pretende.
Ci servono urgentemente circa 10.000 euro.
Non siamo in grado di farcela da soli.

Il conto corrente postale cui potete inviare i vostri contributi è il numero – 1013738032 – intestato a Maria Margherita Matteo, Torino.
I compagni e le compagne della Federazione Anarchica Torinese

Per info e contatti:
fai_to@inrete.it
338 6594361 “

“Droni di guerra e droidi di Stato”.

Fonte: Umanità Nova, n. 23 anno 93 Giugno.

” Droni di guerra e droidi di stato

 

Guerra tecnologia

 

Droni di guerra e droidi di stato

Lo scorso 23 maggio, alla National defence university, il presidente Obama ha tenuto un lungo discorso in materia di sicurezza internazionale e “controterrorismo”, affrontando anche – per la prima volta, in modo ufficiale – il micidiale e sistematico impiego offensivo dei droni in Pakistan, Afghanistan, Yemen e Somalia. Negli Stati Uniti, infatti, l’utilizzo su larga scala di queste armi guidate a distanza sta sollevando crescenti interrogativi politici, obiezioni morali e proteste civili come quella svoltasi a Washington in contemporanea con l’intervento del presidente.
Sostanzialmente, Obama ha sostenuto che «non è vero che i droni hanno causato un numero enorme di vittime civili; si tratta invece di uno sforzo preciso, calcolato, contro coloro che sono nella lista dei terroristi effettivi, e che vogliono danneggiare gli Stati Uniti», quindi ha annunciato due cambiamenti tattici: modificare i parametri tecnici (aggiustare la mira, passando dai “signature strike” ai “personal strike”) al fine di evitare ulteriori uccisioni di innocenti; inoltre, completare il trasferimento del potere decisionale sulle esecuzioni mirate dalla Cia all’esercito e quindi al presidente stesso (attualmente in Pakistan sono infatti anche i servizi segreti a gestire tale procedura di morte).
Aldilà della propaganda svolta in prima persona da Obama, già paradossale nobel per la pace, i dati e le informazioni note sulla guerra dei droni incrementata e condotta con logica da serial killer durante i suoi due mandati presidenziali parlano da soli.
Iniziato nel 2001 in Afghanistan sotto l’amministrazione Bush, il ricorso ai robot volanti è cresciuto in modo esponenziale con Obama. Negli ultimi nove anni, solo in Pakistan gli Usa hanno portato a termine 366 attacchi con droni e tra questi ben 314 sono stati ordinati dallo stesso Obama; a seguito di questa “campagna”, peraltro del tutto fuorilegge sul piano della legalità internazionale e condannate dal governo di Islamabad, sono rimaste uccise non meno di tremila persone, dei quali solo per una quarantina sarebbe stata accertato un ruolo significativo come “capo” di Al Qaeda o dei gruppi talebani. Per il resto si tratta di civili “sospetti”, tra cui innumerevoli donne, bambini e persino soldati governativi, la cui morte è stata derubricata a spiacevole effetto collaterale (Internazionale, 20 giugno 2013).
Ulteriore conferma dell’ambiguità di Obama è la recente ri-nomina che lui ha deciso, all’inizio di quest’anno, di John Brennan a capo della Cia. Brennan infatti è il teorico dei raid assassini dei droni (da stesso definiti «etici, proporzionati e conformi agli sforzi degli Stati Uniti di risparmiare la vita di civili innocenti»); proprio grazie a lui questi sono divenuti centrali nella strategia anti-terrorismo statunitense (Panorama, 8 gennaio 2013).
Per fortuna, se il presidente Obama ha ormai messo a nudo l’essenza del suo presunto pacifismo, persino tra coloro che guidano, comodamente seduti ad una consolle, i droni killer qualche scrupolo umano si fa strada. Significativa la recente testimonianza di uno di loro, tale Brandon Bryant che, dopo aver ucciso a distanza 1626 persone, è stato dichiarato affetto da “post traumatic stress disorder” a seguito della sua sopravvenuta crisi individuale. Seppur tardivamente, dopo aver asetticamente seminato morte, ad un’importante emittente televisiva americana ha confessato: «Non senti il rombo dei motori e la scia del missile, hai davanti un computer, ma il risultato è lo stesso […] ma come si fa a riconoscere un talebano da un innocente che impugna un Ak-47, in un Paese dove circolare armati è la norma? O come si fa a distinguere un uomo con la vanga in mano da un potenziale fiancheggiatore pronto a piazzare uno Ied?» ( http://www.spiegel.de/international/world/pain-continues-after-war-for-a…).
Domande vane per quanti s’illudono ancora di poter fare la guerra senza assumersi la responsabilità del suo orrore.
In Italia, invece, l’attenzione pubblica per questo sistema d’arma continua ad essere minima, nonostante che i droni siano già ben dentro la politica militare nazionale.
Oltre ai droni Usa e Nato che operano dalla base di Sigonella mettendo in pericolo il traffico aereo civile (si veda Sicilia Libertaria, novembre 2012), le “nostre” forze armate da tempo hanno dotazione un certo numero di droni.
I primi acquisti di droni Predator da parte dell’Aeronautica militare italiana risalgono al 2004, dislocati nella base di Amendola e impiegati in Afghanistan, da Herat, dal 2007 (durante il governo Prodi) con formali compiti di ricognizione e intelligence; ma, secondo alcune indiscrezioni divulgate da fonti statunitensi, lo stato italiano avrebbe ordinato sei droni Reapers con relativi armamenti. Ma l’Italia è ben dentro anche al business connesso ai droni: «L’industria italiana è presente in modo sostanziale in questo settore grazie a Finmeccanica che, con le sue controllate Alenia Aermacchi e Selex, produce diversi modelli di Rpa […] A livello europeo Finmeccanica è impegnata assieme alle altre maggiori industrie europee del settore, a collaborare con la Commissione Ue, per il comune scopo di arrivare all’integrazione dei droni nello spazio aereo entro il 2016, quindi per lo sviluppo di questo mercato» (Il Sole-24 Ore, 4 marzo 2013).
In prevalenza si tratta di programmi destinati al controllo sociale: dalla vigilanza anti-clandestini delle frontiere (come avviene già in Usa per monitorare i confini con il Messico) all’ordine pubblico (così come avviene già in Francia e Gran Bretagna (in Germania, è previsto persino un loro impiego contro i writers), ma dalla polizia interna alla polizia internazionale, si sa, il passo è breve.
Intanto, per far accettare alle persone questa ulteriore e invasiva tappa della videosorveglianza, è stata avviata una sottile campagna volta a promuovere una presunta utilità sociale dei droni (emblematica la sponsorizzazione televisiva del programma “Quarto grado”, col pretesto della ricerca degli scomparsi), con l’evidente scopo di prepararne l’impiego repressivo contro le insorgenze popolari che mirano in alto.

Altra Info
(Altri articoli sui droni sono apparsi in precedenza su Umanità Nova del 13 novembre 2011 e 20 maggio 2012) “

Dove va l’Egitto?

La cacciata, poche ore fa, del presidente egiziano Mohammed Morsi, leader del partito dei Fratelli Musulmani eletto un anno fa, è la notizia del momento. Di notizie dettagliate e analisi riguardanti questo evento se ne possono trovare sul web fino alla nausea, ma in concreto nessuno sa cosa avverrà ora. O per meglio dire, molti hanno una loro teoria e propongono analisi sugli eventi iniziati due anni fa che hanno visto milioni di persone invadere le strade di gran parte delle cittá egiziane per chiedere prima le dimissioni del vecchio dittatore Hosni Mubarak ed ora quelle del nuovo presidente democraticamente eletto Morsi. Personalmente, lontano tanto dai facili entusiasmi quanto dalle teorie azzardate, posso fare nel mio piccolo un paio di riflessioni, seppur confuse. Innanzitutto credo che in Egitto sia potenzialmente in atto un grande cambiamento, spinto da masse di milioni di persone che nella maggior parte dei casi hanno “poco” da perdere (se non la propria vita, vista la durezza degli scontri scoppiati due anni fa così come oggi e nel tempo intercorso), un cambiamento che per certi versi mi verrebbe di chiamare rivoluzione. Il fatto è che sono restio ad usare questo termine, perchè di rivoluzioni più nominali che effettive nella Storia ne abbiamo avute fin troppe, sedicenti rivoluzioni che cambiano un giogo con un altro, che lasciano inalterati i rapporti sociali e di produzione, che spargono sangue più di quanto sia strettamente necessario per poi deludere le migliori aspettative emancipatorie in nome di “interessi superiori”, la solita formula per fottere gli sfruttati e gli oppressi. È inevitabile però sperare che le cose possano veramente prendere una piega positiva per le classi sociali subalterne in Egitto, che sono state il motore delle rivolte di piazza e potranno continuare ad esserlo anche in futuro. Un dittatore è stato mandato via, ci sono stati momenti importanti fatti di lotta, autogestione, riorganizzazione, partecipazione decisionale, rivendicazioni, poi le elezioni ed il governo fallimentare dei Fratelli Musulmani ed ora una nuova ondata di proteste che porta alla destituzione di un presidente con numeri nelle piazze decisamente maggiori di quelli che lo avevano portato al potere alle urne. Eppure rimane l’ombra dei militari e degli interessi che si celano dietro essi. L’ultimatum imposto dal popolo egiziano a Morsi non è quello imposto dai militari, che hanno effettuato un vero e proprio colpo di Stato, anche se atipico  visto l’appoggio delle piazze. La repressione sistematica attuata in queste ore dai militari nei confronti del partito dei Fratelli Musulmani va al di là di uno sfogo di rabbia popolare. Ho letto nei giorni scorsi parecchi articoli di “esperti” e opinionisti vari, dei quali posso anche non fidarmi del tutto, ma che lasciano intendere in modo pressochè unanime, al netto di sfumatore d’opinione e considerazioni a margine, che il governo degli Stati Uniti stia muovendo le fila dell’esercito egiziano, indirizzandone a suo piacimento le azioni e le decisioni: un fatto che non può essere ignorato e che risulta essere pericoloso, anche a fronte della conclamata simpatia di vasti strati della popolazione nei confronti delle forze armate (simpatia che la polizia, vista con diffidenza e disprezzo come organo di difesa della passata dittatura, non ha mai riscosso). A prescindere da ciò, pur ammettendo che una “rivoluzione” spesso non segua un percorso lineare, si ha la netta impressione che ora tutto ricominci da metà percorso, come dal momento della cacciata di Mubarak: si tornerà a nuove elezioni, ne  frattempo c’é il governo di transizione di Adly Mansour all’ombra dell’esercito. Nei momenti di euforia è facile dimenticare cosa significò il periodo di transizione trascorso dalla caduta di Mubarak alle elezioni e guidato dalle forze armate, facile dimenticare le decine di morti per mano militare, mano che si trasforma all’occorenza in pugno di ferro, piaccia o meno alle masse. Nell’eterogeneità di movimenti, opinioni e prese di posizione si mescolano le istanze religiose e quelle laiche, l’avanzamento di rivendicazioni sociali e la conservazione/restaurazione dell’ordine vigente e dei privilegi delle classi agiate, i pro e contro Mubarak come i pro e contro l’esercito come i pro e contro Morsi, domani magari ci troveremo di fronte ad altre sfilate di milioni di persone divise tra pro e contro Mansour e poi tra pro e contro nuovo presidente “democraticamente” eletto. Sempre che non si scivoli prima nella guerra civile, come temono alcuni. O nell’apatia, nel disgusto senza sbocchi propositivi e infine nell’indifferenza, il che mi azzardo a dire sarebbe addirittura peggio: uno scacco matto a quella che, nonostante tutto, vorremmo poter chiamare rivoluzione.

Appello dell’ISM per un impegno diretto in Palestina.

Fonte: Rete Italiana ISM.

” Appello per un impegno diretto in Palestina

Non dubitare mai che un piccolo gruppo di cittadini responsabili possa cambiare il mondo. È invece l’unico modo in cui ciò è sempre accaduto.

Margaret Mead

 A pochi giorni dal 65° anniversario della Nakba, la Rete italiana ISM rinnova la propria solidarietà e rilancia il proprio impegno diretto al fianco del popolo palestinese.

 L’ISM (International Solidarity Movement) è un movimento a guida palestinese che si impegna a resistere alla apartheid israeliana in Palestina usando i principi e i metodi dell’azione diretta e non violenta. Fondata da un piccolo gruppo di attivisti palestinesi e israeliani nell’agosto del 2001 l’ISM aiuta la resistenza popolare del popolo palestinese fornendo due risorse fondamentali: la solidarietà internazionale e una voce a livello internazionale a chi continua ogni giorno a resistere in maniera non violenta a una preponderante forza di occupazione militare.

Noi della Rete Italiana ISM crediamo che sia dovere di tutti, in base alle proprie possibilità, impegnarsi in prima persona per far sì che la pulizia etnica in atto contro il popolo palestinese termini, che termini l’apartheid, che i milioni di profughi possano far ritorno ai loro villaggi e alle loro case e che il popolo palestinese possa liberarsi dall’occupazione militare israeliana.

L’impegno individuale rappresenta una via efficace per supportare il popolo palestinese nella sua lotta di liberazione. Ci crediamo perché l’abbiamo visto con i nostri occhi recandoci in Palestina.

Abbiamo visto che se accompagniamo i contadini nei campi, i pescatori sulle navi e gli shebab alle manifestazioni a Nabi Saleh, a Kufr Qaddoum, a Ni’lin ed a tutti gli altri villaggi che ci vogliono al loro fianco, l’esercito israeliano continua a sparare, ma lo fa di meno e usa metodi di repressione meno brutali.

Abbiamo visto che se manteniamo la nostra presenza di fronte al check point 56, come a quello che divide il mercato vecchio di Al Khalil (Hebron) dalla moschea di Abramo, come a tutti gli altri check point che limitano la libertà e la vita dei palestinesi, l’esercito di occupazione continua a perquisire coloro che li attraversano ma molte umiliazioni e molte violenze vengono risparmiate.

Abbiamo visto che se accompagniamo i bambini palestinesi a scuola, nella zona di Tel Rumeida, a Al Khalil, i figli dei coloni dell’insediamento illegale Kiryat Arba continuano a tirargli sassi, ma ne tirano di meno e dopo un po’ smettono.

Abbiamo visto che se siamo presenti nelle case delle famiglie palestinesi che vivono nei villaggi attorno a Nablus, totalmente circondati da insediamenti sionisti illegali e soggetti ad attacchi continui da parte dei coloni, questi ultimi riducono le loro violenze e a volte desistono e se ne vanno.

Abbiamo visto che funge da maggior deterrente la spia della telecamera di un cellulare o una macchina fotografica di un volontario internazionale che tutte le sanzioni ONU scritte contro Israele.

Crediamo poi, che sia importante andare a vedere con i propri occhi cosa succede dall’altra parte del Mediterraneo perché le informazioni trasmesse dai media main stream riflettono solo la voce di chi, in Italia come altrove, rappresenta la classe sociale dominante, perenne alleata di Israele.

Riteniamo, perciò, nostro dovere dare voce a chi non è mai stato ascoltato e farci testimoni della sofferenza del popolo palestinese. Infine, crediamo che valga la pena recarsi in Palestina per scoprire la forza di un popolo che resiste da oltre 65 anni con la dignità di chi non si arrende alla sopraffazione anche dopo aver perso tutto. O, semplicemente, per imparare quanto sia maleducato rifiutare una tazza di thè in una casa palestinese. E credeteci, quel thé vale veramente la pena di berlo.

Per tutti quelli che vorranno unirsi all’International Solidarity Movement recandosi in Palestina per un periodo anche breve (minimo richiesto quindici giorni), la Rete italiana ISM organizza delle giornate di formazione e informazione.

Le date dei prossimi training sono:

18 – 19 maggio: Pistoia

25 – 26 maggio Napoli

15 – 16 giugno: Milano

8 – 9 giugno: Palermo

Per iscrizioni o informazioni scrivere all’indirizzo italianism@inventati.org indicando nell’oggetto la città relativa al training al quale si vuole partecipare.

Ulteriori riferimenti ed informazioni:

Che cos’è la Rete italiana ISM: http://reteitalianaism.it/public_html/index.php/chi-siamo/

Sito in inglese dell’ISM (International Solidarity Movement): http://palsolidarity.org/

Sito del gruppo di supporto italiano: http://reteitalianaism.it/ e relativa pagina

facebook: https://www.facebook.com/ReteItalianaIsm

Riaperto il processo per i risarcimenti ai familiari delle vittime del massacro di Kunduz.

Il 4 Settembre del 2009 a Kunduz, Afghanistan, due aerei militari statunitensi bombardavano due camion cisterna di carburante (destinati a rifornire strutture delgli eserciti di occupazione) precedentemente sequestrati da guerriglieri afghani, nelle immediate vicinanze dei quali si trovavano numerosi civili intenti a prelevare benzina. Il bilancio del bombardamento, secondo fonti NATO, è stato di 142 tra morti e feriti, tra i quali numerosi bambini. L’ “uomo” che diede l’ordine di bombardare, mentendo in parte ai piloti stessi che compirono l’azione, era un ufficiale tedesco, Georg Klein.
Klein non solo non è stato mai condannato per il massacro (al contrario dei due piloti che ricevettero in seguito al bombardamento da loro compiuto sanzioni disciplinari, nonostante avessero ripetutamente messo in discussione l’ordine ricevuto prima di eseguirlo), ma è stato addirittura promosso generale. La Germania ha offerto ai familiari delle vittime del massacro 5000 Dollari ciascuna; lo stipendio di un generale di brigata dell’esercito federale tedesco è di 11000 Euro mensili. Ora, dopo che diverse indagini a suo carico sono state sospese, Klein si trova di nuovo a dover fare i conti con un processo. Alcuni familiari delle vittime del massacro di Kunduz chiedono risarcimenti più alti e sono riusciti, anche grazie al reperimento di nuove prove, ad ottenere un nuovo processo, iniziato ieri 17 Aprile presso il tribunale superiore (Oberste Landgericht) di Bonn. Di fronte al tribunale, ridecorato per l’occasione da ignoti, hanno protestato 30/40 antimilitaristi/e, per ricordare che quanto avvenuto a Kunduz il 4 Settembre del 2009 è stato un massacro a danno di civili e che dagli eserciti non ci si può aspettare nulla di diverso.
(Sui muri del tribunale imbrattati con vernice rossa si possono leggere le scritte “COLONNELLO KLEIN=ASSASSINO” e “KUNDUZ=MASSACRO [ad opera]DELL’ESERCITO TEDESCO”).