“Ecos del desgarro”: un documentario sulla rivoluzione siriana.

“Ecos del desgarro” (Echi dello strappo o Echi della ferita), un documentario in spagnolo, inglese e arabo realizzato dal collettivo libertario spagnolo La Cámara Negra, racconta lo scoppio e gli sviluppi dell’attuale rivoluzione in Siria attraverso le parole ed il materiale audio e video di attivisti/e politici/che in esilio in Turchia.

Dopo il Venticinque Aprile.

Il 25 Aprile del 1945 è la data ufficiale della liberazione d’Italia dal nazifascismo. In realtà, dopo l’insurrezione e la liberazione di città chiave del Nord Italia quali Milano e Torino, dovranno esserci ancora scontri e morti prima di arrivare alla cessazione delle ostilità tra forze di occupazione e antifascisti/e. A guerra ufficialmente conclusa, poi, c’è chi tra i/le partigiani/e si rifiuta di deporre le armi, in alcuni casi nella speranza di creare nella penisola italica una repubblica di stampo sovietico, in altri semplicemente proseguendo coerentemente la battaglia contro tutti gli occupanti, i governi, le autorità. Ma anche quelli/e, la maggioranza, che cercano di tornare alla normalità, dovranno constatare che la nuova Repubblica Italiana non mantiene le promesse di riequilibrio delle ingiustizie e disuguaglianze sociali, né si libera dall’eredità del fascismo: moltissimi fascisti verranno amnistiati (grazie anche alla volontà della dirigenza del Partito Comunista Italiano) e torneranno a ricoprire cariche amministrative di rilievo, i nuovi occupanti statunitensi determineranno il corso della politica e dell’economia italiane nei decenni a venire e le istituzioni repressive colpiranno duramente le diverse forme di lotta che verranno messe in atto dalla classe lavoratrice. La strage di Portella della Ginestra avvenuta il 1 Maggio del 1947 è solo uno degli episodi tra i più noti e i più gravi che testimoniano come la “repubblica democratica fondata sul lavoro” sia solo uno slogan vuoto di significato reale, un fatto reiterato dagli eventi occorsi a Reggio Emilia il 7 Luglio del 1960, dove persero la vita cinque operai per mano delle forze dell’ordine.

La canzone composta lo stesso anno dal cantautore Fausto Amodei ricorda i morti di Reggio Emilia e li ricollega idealmente ai morti della resistenza antifascita, Lauro Farioli come Duccio Galimberti, il sangue versato a Reggio Emilia come quello versato dai sette fratelli Cervi, la citazione di uno dei canti partigiani più noti (“fischia il vento”), i nemici sempre gli stessi, lo stesso il messaggio, perchè finchè non ci sarà giustizia, finchè non ci sarà liberazione non ci sarà pace. Amodei invita i morti emiliani a risorgere e a cantare l’inno comunista Bandiera Rossa, pur non essendo mai stato lui un militante del PCI, come invece lo erano Serri, Franchi, Tondelli, Reverberi e Farioli, cinque dei tanti morti in tempo di pace e democrazia, cinque nomi che mai dovremmo dimenticare, così come non dovremmo dimenticare che, anche oggi, il nemico è sempre lo stesso.

Sembra passato un giorno dal 1915…

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La foto qui sopra, diffusa nelle ore scorse sui cosiddetti social networks e in seguito ripresa dai massmedia, mostra uno dei due appartenenti all’organizzazione marxista-leninista turca DHKP-C che tiene in ostaggio, puntandogli una pistola alla tempia, il procuratore Mehmet Selim Kiraz nel suo ufficio all’interno del palazzo di giustizia ad Istanbul, dove i due giovani armati hanno fatto stamane irruzione. Kiraz era l’incaricato che indaga sull’uccisione da parte della polizia del 14enne Berik Elvan, colpito nel Giugno 2013 da un candelotto lacrimogeno durante le proteste di Gezi Park. Berik non era coinvolto nelle proteste, a quanto sembra stava andando a comprare il pane e si era trovato per caso nel mezzo degli scontri; entrato in coma, il ragazzo morì dopo oltre nove mesi e il suo omicidio rimane tuttora impunito visto che la “giustizia” non è riuscita ad appurare l’identità del poliziotto che lo ha ucciso. Quello che però la “giustizia”, il governo di Erdogan e la polizia sono riusciti a fare è stato reprimere duramente le proteste popolari scoppiate a seguito della morte di Berik, che si sono riaccese nuovamente l’11 Marzo di quest’anno in diverse città turche (Ankara, Istanbul, Eskişehir, İzmir, Tekirdağ…), durante le quali un’altra giovanissima ragazza è rimasta gravemente ferita da un candelotto lacrimogeno e giace anche lei in coma.

“Chiedono chi stia dando ordini alla polizia. Li ho dati io stesso”, disse Erdogan, all’epoca primo ministro (oggi presidente) turco, riferendosi alla morte di Berkin Elvan, da lui definito in seguito un “terrorista”. Una frase che mi riporta alla mente, per immediata associazione di idee, le parole del famigerato discorso pronunciato da Benito Mussolini dopo l’omicidio di Giacomo Matteotti. Responsabilità morale. Come quella di Erdogan, dei suoi scagnozzi e dei suoi sostenitori, non solo di fronte alla morte di Berik Ervan e al ferimento di un’altra ragazzina che forse mai si risveglierà dal coma e alle decine di recenti arresti durante le proteste, ma anche di fronte alla morte di quasi 300 minatori nel Maggio 2014 e alla repressione della rabbia di chi scese per strada chiedendo le dimissioni del governo. Solo pochi giorni fa è stata approvata in Turchia una legge che prevede che la polizia possa sparare addosso ai manifestanti irrequieti, mentre la legge sulla censura dei massmedia per motivi di sicurezza nazionale è stata applicata, secondo il quotidiano turco Hurryet, 150 volte negli ultimi 4 anni, inoltre gli scioperi vengono sospesi o proibiti facendo ricorso a strumenti nati durante la dittatura militare, com’è accaduto con lo sciopero dei metalmeccanici proclamato lo scorso fine Gennaio dal sindacato di ispirazione socialdemocratica BMI. Se a tutto ciò si aggiungono le politiche razziste e di pulizia etnica perpetrate da decenni nei confronti dei curdi, la chiusura delle frontiere per i rifugiati e perseguitati dall’ISIS e l’appoggio solo in parte velato fornito a tale organizzazione, non sembrano passati esattamente 100 anni da quando la Turchia iniziò lo sterminio degli armeni, un genocidio conclusosi con almeno 1 milione di morti. Cambiano gli attori sul palcoscenico, le circostanze storiche, ma oggi come allora siamo di fronte alla barbarie. E di fronte all’evidenza dei fatti ci si può solo chiedere ancora una volta chi siano i veri terroristi: i due ragazzi morti poche ore fa dopo un bliz delle forze speciali nel palazzo di “giustizia” di Istanbul assieme al giudice da loro tenuto in ostaggio, o quelli che sono disposti ad affastellare cadaveri su cadaveri e produrre miseria, violenza e abruttimento pur di mantenere il potere e portare avanti i loro allucinanti progetti nazionalisti ed autoritari? Qual’è il vero terrorismo, un gesto disperato compiuto nel tentativo di ottenere “giustizia” o le cause di tale gesto e di tutta la rabbia che è finora scoppiata e ancora scoppierà in Turchia?

Se loro sono Charlie, io sono Cheeta.

Il seguente articolo è tratto dal sito Insorgenze:

“Non sono tutti Charlie, in scena a Parigi la grande sfilata dell’ipocrisia

Non sono tutti Charlie quelli che sono scesi sulle strade di Parigi per sfilare contro il massacro compiuto nella redazione del giornale satirico francese e la successiva scia di sangue che ne è seguita. Non lo sono soprattutto quelli che hanno preso la testa del corteo, una cinquantina di capi di Stato provenienti da mezzo mondo accompagnati dall’intero establishement francese. Tra loro c’è gente che a casa propria mal tollera la satira o ne fa strame, come quel tal Benyamin Nétanyahou  o Avigdor Lieberman, rispettivamente premier e ministro degli esteri di un Israele che ha sempre eliminato fisicamente vignettisti e poeti palestinesi, timorosa delle loro matite e dei loro versi considerati armi da guerra.
Non è Charlie nemmeno il ministro dell’economia israeliano, quel Naftali Bennett, capo del partito della destra religiosa, Foyer juif, che nel 2013 non ha avuto problemi nel dichiarare: «ho ucciso molti arabi nella mia vita. E tutto ciò non mi crea alcun problema».
Non sono Charlie il re di Jordanie Abdallah II, il capo della diplomazia russa Sergueï Lavrov, il primo ministro turco Ahmet Davutoglu, il ministro degli esteri degli Emirati arabi uniti, cheikh Abdallah ben Zayed Al-Nahyane, il capo del governo ungherese, Viktor Orban, il presidente della repubblica gabonese Alì Bongo, che Reporters sans frontières colloca nella sua classifica sulla libertà di stampa mondiale rispettivamente: la Turchia al 154° posto, la Russia al 148°, la Giordania al 141°, il Gabon al 98°, Israele al 96° e l’Ungheria al 64°.
In Giordania vengono arrestati giornalisti e chiusi canali televisivi, come recentemente è accaduto per una emittente della opposizione irachena. In Russia basta ricordare la sorte della Politkovskaja oppure il processo e la condanna delle Pussy riot. In Ungheria il governo in mano alla destra populista ha fatto votare una legge bavaglio contro la stampa. In Turchia sono all’ordine del giorno arresti di massa contro i media d’opposizione, per non parlare del sostegno militare e logistico fornito alle forze islamiste che combattono in Siria. Non sono Charlie il presidente ucraino Petro Porochenko e il rappresentante della diplomazia egiziana Sameh Choukryou, paesi dove la libertà di stampa ha vita difficile. Non lo è nemmeno lo spagnolo Mariano Rajoy che non ha problemi a colpire avvocati e stampa basca indipendentista.
Forse dopo il gran defilé che ha benedetto l’union sacrée mondiale per la difesa della libertà di stampa, il miglior regalo che si poteva inviare ai predicatori dell’odio religioso e ai loro dirimpettai fanatici dello scontro delle civiltà, non è più Charlie nemmeno Charlie Hebdo.
La satira è irriverenza assoluta contro il potere e i potenti, altrimenti è solo insulto e ghigno contro i deboli. L’endorsement delle cancellerie mondiali è un abbraccio mortale per un settimanale satirico che così rischia di divenire solo una delle tante gazzette delle grandi potenze. Charlie hebdo non è morto sotto i colpi dei fratelli Chauki ma calpestato dai passi delle cancellerie mondiali.”

Dieci anni fa: Oury Jalloh, morto nelle mani dello Stato.

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Un uomo è rinchiuso in una cella di sicurezza di un commissariato di polizia a Dessau, Germania, legato ad un materasso ignifugo dopo essere stato perquisito, sorvegliato da un sistema di controllo audio e da un agente che passa ogni mezz’ora a verificare le condizioni del detenuto. Quest’uomo si chiama Oury Jalloh, 36 anni, richiedente asilo immigrato dalla Sierra Leone, un uomo spinto ai margini della società che vive spacciando droga. Fermato dalla polizia per ubriachezza molesta, viene rinchiuso nella cella dell’edificio in Wolfgangstraße 25, Dessau, da dove non uscirà vivo. Oury Jalloh muore bruciato, carbonizzato. Durante i processi che si svolgeranno negli anni successivi, la ricostruzione dei fatti fornita dagli agenti parlerà di un detenuto che, nonostante sia legato, riesce a tirar fuori un accendino stranamente sfuggito alla perquisizione, a danneggiare il materasso ignifugo al quale è strettamente fissato con delle cinghie e a incendiarne l’imbottitura, mentre nessuno degli agenti incaricati della sua custodia si accorge di nulla: il volume dell’altoparlante è stato abbassato da un poliziotto che doveva telefonare, il sistema antiincendio sarebbe stato difettoso. Una serie di sfortunate coincidenze insomma, almeno secondo la versione degli agenti, ma messa in discussione e in più punti smentita durante le diverse udienze del processo. Ad aggiungere una nota inquietante alla morte di Jalloh e alle menzogne ad essa seguite c’è anche il caso di un’altra morte, quella di un senzatetto avvenuta nell’Ottobre del 2002 nello stesso luogo, durante il servizio dello stesso agente direttore di servizio. Al termine del processo per la morte di Jalloh la sentenza confermerà la tesi più improbabile (il detenuto si è dato fuoco da solo) e condannerà al pagamento di una multa ed alla sospensione dal servizio l’agente che avrebbe spento l’allarme antincendio evitando perciò di soccorrere l’uomo che bruciava. Da diverse perizie esterne è emerso invece che la vittima, che presentava fratture al naso e lesioni del timpano, non avrebbe potuto suicidarsi in quel modo, inoltre ad accelerare l’effetto devastante dell’incendio sarebbe stato un qualche combustibile, forse benzina. Quel che rimane, oltre alla conferma del fatto che lo Stato protegge i suoi servi a meno che non sia più proficuo sacrificarli per pure ragioni di calcolo, è la volontà da parte di chi si impegna sul fronte antirazzista e antirepressivo di non far dimenticare l’ennesimo morto nelle mani della polizia. Pertanto il 7 Gennaio di ogni anno, in diverse città tedesche, vengono organizzate iniziative in memoria di Jalloh, per gridare ancora una volta che “è stato un omicidio!”.

C’è da aggiungere, come ultima nota dolente, che Jalloh non fu l’unica persona a morire in Germania nelle mani della polizia quel 7 Gennaio del 2005. A Brema, Laye Alama Condé, anch’egli della Sierra Leone, entrato in coma e mai più risvegliatosi dopo esser rimasto soffocato perchè costretto ad ingerire quantità eccessive di un medicinale emetico, si aggiunge alle tante vittime della violenza di Stato in quello che da molti viene ritenuto un “Paese civile”, additato spesso come esempio positivo. La verità è che lo Stato uccide ovunque, in un modo o nell’altro, e come se non bastasse si fa pure beffa delle vittime.

“Nao vai ter copa!”: i mondiali di calcio in Brasile.

In molti/e non aspettano altro in tutto il mondo, animati da passione più o meno accesa nei confronti dello “sport più bello del mondo” o semplicemente dalla voglia di distrarsi dai problemi quotidiani che li/le affliggono: il 12 giugno inizia in Brasile il campionato mondiale di calcio. Non scrivo “dovrebbe iniziare” anche se sarei tentato: il fatto è che, piaccia o no, la logica del capitalismo che sta dietro i grandi eventi non ammette resistenze di sorta ed in nome del profitto si è disposti a passare anche sui cadaveri- letteralmente. A seguito delle proteste di massa contro il previsto aumento dei prezzi dei trasporti pubblici, la mancanza di investimenti statali nel settore sanitario e scolastico, gli sfratti e le politiche repressive nei confronti di poveri ed emarginati attuate dal governo brasiliano, strettamente connesse al grande evento calcistico, a livello internazionale ormai non è solo la voglia di pallone ad essere cresciuta, quanto la consapevolezza che il mondiale-almeno così come è stato organizzato nel Paese ospitante- vada boicottato. A tale proposito, la posizione maggiormente condivisa (che definirei “morbida” e “riformista”) viene efficacemente riassunta da un video visualizzatissimo sul web:

Difficile negare i fatti riassunti nel video, tutt’al più c’è chi corregge alcune affermazioni dell’autrice, ad esempio che la spesa affrontata è di 30 miliardi di reales e non di dollari- ora sì che mi sento sollevato! I “correttori”, che evidentemente non sono appena stati sfrattati da una baracca situata in una favela o pestati a sangue dai poliziotti impegnati a far pulizia in attesa di danarosi turisti, né stanno crepando di una qualche patologia altrimenti curabile a causa delle carenze del sistema sanitario pubblico, si impegnano nell’evidenziare le potenzialità economiche dell’evento per la popolazione tutta, invitando a lasciar perdere proteste e boicottaggi, fiduciosi che il mondiale cambierà in meglio il Brasile. Se così non dovesse essere, sarà allora per la prossima volta, no? Le olimpiadi in Grecia, il mondiale di calcio in Sudafrica, gli europei di calcio in Ucraina e Polonia- qualcuno si ricorda ancora di Italia ’90?: questi ed altri esempi dovrebbero bastare a chi ancora non avesse capito come funzionano certe cose. Chi abbocca alla balla del benessere diffuso scaturito dai grandi eventi di natura commerciale o è un boccalone, oppure è in mala fede e non ha capito che la passione per il calcio, sport popolare e “proletario” per origini storiche, ha poco a che vedere con gli interessi di multinazionali, grandi investitori e lacchè vari. Tra chi invece ha individuato le radici del problema c’è chi partecipa attivamente alle lotte in corso per le strade delle città brasiliane e chi tenta di appoggiare tali lotte con iniziative controinformative e con il boicottaggio attivo del grande evento sportivo di turno. Per chi fosse interessato/a, esiste in italiano una pagina su Facebook che promuove il boicottaggio attivo del mondiale; a chi cerca ulteriori informazioni sulle proteste e sulle ragioni di chi si oppone a questo mondiale di calcio, sulle politiche repressive e sui costi sociali, consiglio di seguire il sito in lingua italiana “Il Resto del Carlinho (Utopia)” che ritengo tra i migliori che io abbia trovato finora sul web; a tutti/e gli/le altri/e, auguro buona visione dell’ennesimo spettacolo sulla pelle degli sfruttati e dei senza diritti, ma tenete sempre presente che un giorno qualcuno potrebbe godersi un nuovo spettacolo costato la vostra miseria ed il vostro sfruttamento. Sempre che quel giorno non sia già arrivato e voi non ve ne rendiate nemmeno conto.

Ricordando ciò che non si sa: le foibe.

“Ma che cosa sa tuttora la maggioranza degli italiani sulla politica di sopraffazione del fascismo contro le minoranze slovena e croata (senza parlare dei sudtirolesi o dei francofoni della Valle d’Aosta) addirittura da prima dell’avvento al potere; della brutale snazionalizzazione (proibizione della propria lingua, chiusura di scuole e amministrazioni locali, boicottaggio del culto, imposizione di cognomi italianizzati, toponimi cambiati) come parte di un progetto di distruzione dell’identità nazionale e culturale delle minoranze e della distruzione della loro memoria storica?
I paladini del nuovo patriottismo fondato sul vittimismo delle foibe farebbero bene a rileggersi i fieri propositi dei loro padri tutelari, quelli che parlavano della superiorità della civiltà e della razza italica, che vedevano un nemico e un complottardo in ogni straniero, che volevano impedire lo sviluppo dei porti jugoslavi per conservare all’Italia il monopolio strategico ed economico dell’Adriatico. Che cosa sanno dell’occupazione e dello smembramento della Jugoslavia e della sciagurata annessione della provincia di Lubiana al regno d’Italia, con il seguito di rappresaglie e repressioni che poco hanno da invidiare ai crimini nazisti? Che cosa sanno degli ultranazionalisti italiani che nel loro odio antislavo fecero causa comune con i nazisti insediati nel Litorale adriatico, sullo sfondo della Risiera di S. Sabba e degli impiccati di via Ghega?”

(Enzo Collotti)

 

Il 10 febbraio si celebra in Italia per volere di un qualche decretolegge del 2004 il “giorno del ricordo”, uno degli ennesimi pasticci istituzionali nato dal connubio tra sensi di colpa e volontà revisionista di buona parte della “sinistra” parlamentare e volontà revisionista senza sensi di colpa da parte della “destra”. Quel che si è obbilgati a ricordare il 10 Febbraio è la tragedia delle foibe, almeno in teoria, perchè è impossibile ricordare ciò che non si sa. In un’occasione come questa risulta difficile scampare alle dichiarazioni retoriche, alle sceneggiate propagandistiche ed alle manipolazioni, impossibile farlo se non si hanno informazioni corrette sui fatti storici che occorsero in quella parte dei Balcani occupata militarmente dalle truppe italiane durante la Seconda Guerra Mondiale, ma anche negli anni precedenti- basterebbe parlare della pulizia etnica operata dagli italiani in Slovenia già nel primo dopoguerra mondiale…ma parlarne a chi? A quelli che stanno di fronte al televisore e si bevono la reinvenzione della storia ad uso e consumo di chi oggi vuole sdoganare il fascismo? Per chi non se la beve, per chi vuole capire le reali dimensioni della foiba nella quale si cade quando si lascia la memoria storica nelle mani di personaggi come Napolitano, Gasparri e soci, per chi non sa cosa sia avvenuto prima e dopo e vuole saperlo, ecco alcuni punti di partenza per iniziare a capire e avviare di conseguenza una riflessione seria sugli eventi in questione:

“L’invasione della Jugoslavia: crimini di guerra e lager fascisti per slavi”, da Anarcopedia;

“Fascist Legacy”, documentario della BBC (prima parte);

“Perchè l’Italia ricorda le Foibe ma non la pulizia etnica compiuta dai fascisti in Slovenia?”, dal sito Memoriastorica;

“Pulizia etnica all’italiana”, dal sito Osservatorio Balcani e Caucaso;

“La verità sulle foibe”, di Marco Ottanelli;

“Il cuore nel pozzo: un caso di revisionismo mediatico”, video.

“Lampedusa, strage di Stato”.

Fonte: Umanità Nova.

” Lampedusa, strage di Stato

 

L’eccidio dei migranti

 

Lampedusa, strage di Stato

Quando i lettori di Umanità Nova leggeranno questo articolo, si sarà già detto e scritto molto sulla strage di immigrati di Lampedusa. Nel momento in cui scriviamo, i corpi recuperati sono 195. Nel ventre del motopeschereccio affondato davanti all’isola dei Conigli, poco più di uno scoglio accanto a Lampedusa, ci sono ancora decine di altri cadaveri.
Per chi si occupa di immigrazione, i fatti di Lampedusa non costituiscono una novità. Da quando, nella concezione di chi ci governa, i flussi migratori sono diventati una questione di ordine pubblico, le tragedie del mare scandiscono una “normalità” alla quale molti si erano praticamente assuefatti. Chi lotta per un miglioramento delle normative vigenti o per una loro radicale revisione, ha sempre posto una questione dirimente: se non fosse così difficile entrare legalmente in Italia (e in Europa), verrebbero meno le condizioni che stanno alla base di questi eventi luttuosi.
La logica proibizionista, d’altra parte, funziona così: un divieto assoluto alimenta la clandestinità e la speculazione affaristica. Basti pensare al proibizionismo degli alcolici negli Stati uniti nel secolo scorso, che fece le immense fortune di mafiosi e gangster; o all’attuale proibizionismo in fatto di consumo di droghe, che consente alla mafia e agli spacciatori di ingrassarsi, alle carceri di riempirsi all’inverosimile, e allo stato di esercitare una sua presunta superiorità morale.
Nel caso dell’immigrazione, ancora più brutalmente, la “merce” proibita sono gli esseri umani. Il proibizionismo imposto alla libera circolazione delle persone serve al capitalismo per garantirsi un serbatoio di manodopera ricattabile e a basso costo; serve agli stati per dare in pasto all’opinione pubblica l’idea che non siamo tutti uguali e che gli stranieri sono potenzialmente pericolosi; serve alle mafie per fare lucrosi affari sui traffici di esseri umani che si affidano ai viaggi della speranza.
La notte tra il 2 e il 3 ottobre scorsi, è successo quello che è successo tante altre volte, al largo di Lampedusa, o di Malta, o a pochi metri dalla battigia di una qualunque spiaggia siciliana. In questo caso, le proporzioni del disastro sono state talmente grandi da suscitare un disagio che, in questi tempi di bulimia informativa ed emotiva, sembrava non esistesse quasi più. Le immagini delle bare allineate, tantissime, tutte uguali, in un hangar dell’aeroporto di Lampedusa, si commentano da sole, e non c’è alcun bisogno di fare retorica, almeno non su queste pagine.
Vale la pena riferire qualcosa a proposito dei soccorsi, all’alba del 3 ottobre, a largo di Lampedusa. Fonti più che attendibili (l’associazione agrigentina Borderline Sicilia) rivela che quando sono arrivati sul posto i mezzi della Guardia costiera, i diportisti che avevano chiamato i soccorsi avevano già salvato 47 persone, tutte vive. Drammatiche le fasi del salvataggio: gli immigrati erano tutti intrisi di gasolio, scivolavano dalle mani dei loro soccorritori, erano sfiniti. Eppure, dall’s.o.s. all’arrivo delle autorità, sono passati almeno tre quarti d’ora. Davvero troppo per un’isola ipermonitorata da chi di dovere, e che si circumnaviga nel giro di un quarto d’ora. Durante le concitate fasi del salvataggio, uno dei diportisti ha chiesto ai militari il trasbordo veloce dalla sua barca al gommone della Guardia costiera fatto apposta per questo tipo di operazioni, ma gli è stato detto di no: «Dobbiamo rispettare i protocolli» ha chiarito – imperturbabile – un uomo in divisa.
Questa risposta, fredda e disumana, riassume perfettamente il senso delle cose. Di fronte a un’umanità in fuga da guerre e miseria, di fronte al bisogno umano di spostarsi e di vivere, si erge una burocrazia insensibile ed estranea. È questa burocrazia che uccide gli immigrati, ancor prima degli episodi singoli che provocano materialmente le tragedie.
Basti pensare che i superstiti del naufragio, appena qualche giorno dopo dal disastro, sono stati inscritti nel registro degli indagati per il reato di immigrazione clandestina. Un atto dovuto, hanno spiegato alla Procura di Agrigento, in virtù della legge Bossi-Fini. Ecco come funziona lo stato, ecco come funzionano le sue leggi. Quelle stesse leggi che innescano paure e ritrosie anche nei lavoratori del mare, i pescatori che, tante volte, incrociando nelle loro rotte le carrette cariche di immigrati, preferiscono lanciare l’allarme guardandosi bene dal prestare alcun tipo di soccorso per non incorrere nell’odiosa accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e nel conseguente sequestro del peschereccio, unico e insostituibile strumento di lavoro. 
Non si vuole, qui, né generalizzare né puntare il dito. In moltissime occasioni, infatti, pescatori e diportisti siciliani hanno salvato vite umane senza derogare all’universale e atavica legge del mare che impone il mutuo soccorso al di là di ogni confine. Quello che si sottolinea, in questa sede, è la funzione terroristica delle attuali norme sull’immigrazione e, soprattutto, la maniera terroristica con la quale esse vengono applicate. Persino i trattati internazionali obbligano il salvataggio in mare, e il reato di favoreggiamento è comunque subordinato soltanto a determinate fattispecie, e dovrebbe essere segnalato nel corso degli appositi pattugliamenti predisposti dalle autorità competenti. Invece, questa minaccia viene fatta incombere sulle persone indiscriminatamente, a prescindere dai contesti concreti.
Non sappiamo nemmeno se sia il caso di riferire sulle dichiarazioni degli esponenti politici di tutti gli schieramenti all’indomani della tragedia. Grande dolore, grande commozione, grande indignazione, da destra a sinistra. Perfino il capo dello stato ha suggerito, bontà sua, la necessità di rivedere le norme sull’immigrazione in Italia. Peccato però che si tratti dello stesso Giorgio Napolitano che firmò nel 1998 – insieme a Livia Turco – la prima famigerata legge che istituì i centri di detenzione per immigrati e sulla quale fu impostato l’impianto normativo della Bossi-Fini, che tutti – oggi – criticano da sinistra. Dall’altra parte, gli esponenti di quel che resta del Popolo della Libertà cadono letteralmente dalle nuvole, difendono la Bossi-Fini, e scaricano ogni responsabilità sull’Unione europea che «dovrebbe fare di più, e non dovrebbe lasciarci soli». Quello che non si dice è che la Bossi-Fini risponde a un’esigenza che discende direttamente dalla concezione politica ed economica dei confini che delimitano la “fortezza Europa” di cui tante volte abbiamo parlato. In Italia, queste esigenze di dominio sono state declinate tecnicamente, e cavalcate politicamente, da personaggi dell’ultradestra razzista e fascista, con il contorno di un pressapochismo tutto italiano che rende le cose ancora più intollerabili: nessuna idea di accoglienza, gestione perennemente emergenziale dei fenomeni sociali, miopia politica ai limiti del dilettantismo.
Dopo la strage di Lampedusa è il momento del dolore, senza dubbio. Ma il nostro dolore esiste da moltissimi anni, ed è lo stesso, insopportabile dolore che proviamo tutte le volte che sappiamo di una morte, di una mutilazione, di uno stupro, di una violenza che si producono nel contesto della repressione sugli immigrati.
L’unica certezza, che può alleviare il profondo malessere che ci opprime il cuore, sta nella consapevolezza che questa situazione non può durare all’infinito. Le leggi sull’immigrazione sono così antistoriche e disfunzionali, di fronte agli eventi planetari del tempo in cui viviamo, che – prima o poi – dovranno essere profondamente modificate, se non spazzate via. Noi europei siamo senz’altro più fortunati degli “altri”, ma sono moltissimi i segnali che ci fanno capire quanto poco sia destinata a durare questa nostra “fortuna”. La miseria e l’oppressione che oggi bussano alle nostre porte sotto le spoglie di immigrati e profughi sono, per molti versi, delle lugubri presenze che condizionano già adesso le nostre vite di precari, di sfruttati, di senza futuro.
Ci sono due modi per affrontare la questione. Uno è quello irrazionale, egoistico, razzista: gli “altri” non sono come me, che stiano al loro posto, che muoiano. L’altro è quello razionale, squisitamente umano, antirazzista: gli “altri” sono come me, e sono vittime – come me – di quelli che rendono possibile questo scempio attraverso la politica e l’economia.

Alberto La Via “

La Siria, i “buoni” e i “cattivi”.

Finora ho evitato di trattare su questo blog l’argomento del conflitto in corso in Siria. Ho infatti cercato col trascorrere de tempo di farmi un’idea precisa di ciò che stava accadendo in quel Paese, confrontando la mole di informazioni che ci vengono riversate addosso quotidianamente dai massmedia e sul web, anche da fonti di cosiddetta controinformazione, prima di esprimere un qualsivoglia giudizio. Ora che si parla apertamente di intervento militare da parte degli USA e dei suoi alleati mi sento di esporre brevemente le conclusioni alle quali sono giunto finora.

Nel Dicembre del 2012 ho ricevuto per posta un opuscolo informativo dell’associazione “Adopt a Revolution”, che mi invitava a sostenere economicamente i comitati rivoluzionari siriani. Tali comitati sono nati dal movimento di protesta contro l’attuale governo di Bashar al-Assad, con l’intento di rovesciarlo in modo nonviolento per favorire una rivoluzione democratica -questo il sunto delle informazioni contenute nell’opuscolo, nel quale si parla anche di repressione nei confronti degli/lle attivisti, di escalazione del conflitto e dell’impossibilità di proseguire le lotte antigovernative a viso aperto e senza l’uso delle armi. Si parla anche di un codice di comportamento per il “libero esercito siriano” (nel volantino, in tedesco, “Freie Syrischen Armee”), che numerosi gruppi dell’esercito ribelle si sono impegnati a rispettare per evitare saccheggi ed esecuzioni sommarie, escludendo dal discorso i gruppi combattenti formati da fondamentalisti islamici: nelle intenzioni, questo codice di comportamento servirebbe anche a porre le forze combattenti che lo sottoscrivono sotto controllo civile. A queste informazioni si aggiungono quelle delle quali ero venuto a conoscenza mesi prima, tra cui un comunicato unitario di anarchici russi e siriani  ed un’altro comunicato di un anarchico siriano, entrambi schierati nettamente dalla parte delle forze antigovernative. Ora, il fatto che esistano ribellioni in atto contro un qualsiasi governo (a mio parere meno spazi di libertà e dialogo lascia un governo, più la ribellione è urgente), spinte dalla genuina volontà della popolazione nel voler porre fine a forme di autoritarismo ed oppressione politica e sociale può solo incontrare la mia simpatia ed approvazione. Il problema è che nel caso della Siria la situazione è molto più complessa di quanto si possa pensare.

Innanzitutto la posizione geografica del Paese è fondamentale sullo scacchiere internazionale per gli equilibri del Medio Oriente- e non solo. Conseguenza di ciò, come faceva notare il docente universitario Massimo Ragnedda in un suo vecchio articolo online, è anche una vera e propria guerra psicologica di (dis)informazione: gli Stati che vedrebbero di buon occhio la rimozione dell’attuale governo siriano (USA, Unione Europea, Israele, Turchia, Arabia Saudita) non hanno fatto altro che diffondere informazioni manipolate e di parte sul conflitto in corso, attribuendo i peggiori crimini alle forze governative, presentando i guerriglieri come martiri democratici e la popolazione civile vittima di terrorismo da parte delle forze armate di Assad, raccontandoci di attacchi chimici contro civili, città distrutte e rifugiati. Guarda caso, anche la carta della paura nei confronti di nuove ondate migratorie alle porte della fortezza Europa nel bacino del Mediterraneo è stata giocata senza scrupoli di sorta dai massmedia “occidentali”. D’altro canto, dagli Stati in buoni rapporti con Assad (Russia, Cina, Iran) provengono notizie ben diverse sul conflitto in corso, che mettono ad esempio in dubbio l’uso di armi chimiche da parte delle forze armate governative, attribuendolo piuttosto alle forze ribelli indicate come un coacervo di Alquaedisti che, per destabilizzare la regione e spodestare il governo laico e moderato di Assad, commettono ogni sorta di nefandezza anche contro i civili che non sostengono la loro lotta. Quel che è certo è che l’attuale regime siriano, il cui partito Ba’ath è in carica dal 1963, si regge sul potere dell’esercito e di 14 diversi servizi segreti spesso in concorrenza tra loro, ha una natura nazionalista e militarista e difende sostanzialmente gli interessi e i privilegi della minoranza religiosa degli alawiti (sciiti). È altrettanto chiaro che tra i ribelli, foraggiati opportunisticamente anche da potenze straniere, vi sono milizie armate salafite e wahhabite, ovvero composte da elementi islamici fondamentalisti e reazionari, che non si mettono problemi nel liquidare gli alawiti (e non solo!) nel più brutale dei modi. È questa la triste realtá dei fatti con la quale si deve fare i conti prima di esprimere opinioni affrettate e prendere posizione per l’uno o l’altro fronte. Eppure, tra le forze politiche della cosiddetta sinistra radicale (sic!) c’è chi sembra avere le idee chiare: i partiti stalinisti siriani e quelli europei (almeno in Francia e Belgio) stanno dalla parte del regime di Assad, considerato antiimperialista; i trotzkisti dal canto loro si schierano con i ribelli e vedono i fondamentalisti islamici come possibili alleati. Al di fuori di questo pattume, gli anarchici non sembrano avere idee precise, perchè se da un lato ancora non ne ho sentito uno che supporti in qualche modo il governo siriano, dall’altro non tutti sostengono il fronte antigovernativo, inquinato da interessi esterni e composto da forze troppo eterogenee che spesso hanno nulla a che fare con ideali di libertà, emancipazione e uguaglianza.
Si deve anche prendere atto di un’altra evidenza: il conflitto siriano è un conflitto ancora locare, ma la posta in gioco è a livello mondiale. I diritti umani non valgono una sega per le potenze interessate alla soluzione del conflitto a favore o contro il governo di Assad, queste nel sangue dei poveracci ci intingono il pane da tempi ormai immemori. Ogni mezzo è buono per portare acqua al proprio mulino, ai propri interessi geostrategici. A farne le spese sono coloro i quali in questa guerra crepano come mosche, uccisi dalle armi, siano chimiche o meno, delle truppe governative, o dalle rappresaglie di guerriglieri ben poco interessati a concetti quali democrazia o emancipazione, o quelli che -più fortunati?- si trovano a dover fuggire dal Paese dopo aver perso tutti i loro averi per finire in condizioni disastrose in qualche campo profughi. Il settarismo religioso ed etnico, alimentato soprattutto dagli Stati stranieri interessati a favorire l’una o l’altra fazione (creando divisioni soprattutto all’interno del fronte antigovernativo), precipita il conflitto in una dimensione che non lascia spazio a nessuno spiraglio per gli ideali tanto cari a noi anarchici. Un bel puttanaio, insomma, per dirla in modo tanto brutale quanto chiaro. Un intervento militare (che sembra ormai scontato, proprio quando gli ispettori ONU sono appena arrivati in Siria!) non farebbe altro che porre la parola fine non tanto alla violenza del regime di Assad, che verrebbe sostituita da altra violenza (basti pensare nell’immediato, visto che si parla “solo” di un possibile attacco aereo, al fatto che le bombe intelligenti sganciate dai deficienti non guardano in faccia nessuno, se qualcuno ricorda i bombardamenti NATO ai tempi del conflitto tra Serbia e Kosovo, tanto per fare un esempio, saprà a cosa mi riferisco), quanto a qualsiasi speranza residua di una rivoluzione in Siria. Al suo posto, solo un nuovo Stato devastato, colonizzato e privato della sua sovranità…e non sarebbe l’unico. Ma non finirebbe così, ne sono convinto, perchè l’obiettivo finale delle potenze occidentali e dei loro alleati in Medioriente è l’Iran. E se Russia e Cina assumono per ora un ruolo tutto sommato passivo nella vicenda siriana, non credo che farebbero lo stesso in caso di aggressione al loro alleato chiave mediorientale…

29 Luglio 1900: un fatto.

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La sera del 29 Luglio 1900 l’anarchico pratese Gaetano Bresci compì “un fatto” come lo chiamò lui, un’azione diretta: uccise a rivoltellate re Umberto I. Prima di lui anche l’anarchico lucano Giovanni Passannante aveva provato, nel Novembre 1878, ad assaltare il monarca con un temperino, fallendo nell’impresa e finendo condannato al carcere a vita, dove impazzirà. Bresci riuscirà invece nell’intento: abile tiratore, centrerà più volte con la sua rivoltella il corpo di Umberto I. Suddetto re era stato il mandante della repressione dei moti popolari (oggi li chiamerebbero riot) scoppiati a Milano nel Maggio 1898 a seguito degli aumenti dei prezzi di farina e pane. Durante quei moti decine di migliaia di persone appartenenti soprattutto alla classe lavoratrice ed al sottoproletariato si riversarono per le strade, assaltarono i forni e le caserme, eressero barricate per le strade. Al sopraggiungere della polizia e dei militari che presidiavano la città con l’intento di reprimere le proteste, dalle fila dei rivoltosi volarono pietre (oggi direbbero che sono stati quelli del black bloc e sbraiterebbero sulla necessità di isolare i violenti), addirittura venne esploso qualche colpo di pistola. A sparare però furono più che altro i militari e, dopo due giorni di scontri e di fronte all’accanita resistenza degli insorti, il comandante in campo generale Bava Beccaris ordinò l’uso dell’artiglieria contro la popolazione civile provocando la morte ed il ferimento di svariate persone: i morti furono, secondo le diverse fonti, dagli 88 agli 800; i feriti tra i 400 e gli 800 (oggi si parlerebbe di crimine contro l’umanità se commesso da forze armate “nemiche”, danno collaterale nel caso a far strage di civili sia il fuoco amico). Tra i militari ne morirono due: uno si sparò per sbaglio, l’altro venne fucilato per essersi rifiutato di sparare sulla folla. Il Bava Beccaris invece, che non s’era certo rifiutato di eseguire gli ordini del re, ricevette una bella onorificenza, “per rimeritare il grande servizio che Ella rese alle istituzioni ed alla civiltà e perché Le attesti col mio affetto la riconoscenza mia e della patria“, firmato Umberto I. Altrimenti detto il “re buono” -viene da chiedersi allora come potrebbe essere quello cattivo, di re.

Venuto a conoscenza degli eventi, Gaetano Bresci, che viveva da immigrato a Paterson negli USA, rimase profondamente sconvolto. Come dirà in seguito al processo organizzato contro di lui per il regicidio, «Dopo lo stato d’assedio di Sicilia e Milano illegalmente stabiliti con decreto reale io decisi di uccidere il re per vendicare le vittime. […] I fatti di Milano, dove si adoperò il cannone, mi fecero piangere e pensai alla vendetta. Pensai al re perché oltre a firmare i decreti premiava gli scellerati che avevano compiuto le stragi.» Bresci durante quel processo, per il quale venne condannato al carcere a vita ed ai lavori forzati,  sostenne inoltre di non aver voluto colpire Umberto I, ma il suo ruolo di re. A seguito del regicidio vi furono innumerevoli reazioni e non solo parenti, amici e compagni d’idee di Bresci vennero perseguitati dalla legge (oggi si parlerebbe di presunti fiancheggiatori), ma anche i socialisti ed il loro quotidiano L’Avanti ebbero problemi, nonostante quest’ultimo si premurò di condannare con vigore l’attentato ed il suo esecutore. Lunga sarebbe la lista dei condannisti, coi loro piagnistei per la morte del “re buono” ed i loro agghiaccianti (ovvero altrettanto buoni come il re) propositi e suggerimenti su come punire l’uccisore. Pochi furono quelli che ebbero il coraggio di esprimere ad alta voce la loro gioia per l’uccisione del re: una delle reazioni per me tra le più condivisibili fu quella di Errico Malatesta, che scrisse come fosse “essenziale e senza dubbio necessario non tanto uccidere la persona del re in carne ed ossa, quanto uccidere tutti i dominatori -nei campi, nelle fabbriche, in parlamento- nei cuori e nelle menti delle persone, ovvero estinguere il principio della fede nell’autorità alla quale ancora gran parte del popolo rende omaggio”. Gaetano Bresci morirà in circostanze misteriose nel carcere di S.Stefano nell’isola di Ventotene, forse ucciso da un’altro detenuto o dalle guardie, ufficialmente morto suicida – o per meglio dire suicidato. Il suo ricordo invece continuò a vivere nelle poesie, negli articoli di giornale e nei libri che narravano la sua vita e le sue azioni, nelle ballate popolari e nei monumenti che vennero eretti in sua memoria dai compagni, come quello di Carrara, ma anche nei numerosi monumenti monarchici “restaurati” da mani ignote. Nel 2011 un gruppo di volontari/e si premurò di sistemare dignitosamente le 47 tombe degli ergastolani morti nel carcere di Santo Stefano, oramai chiuso. Tra quelle 47 croci c’è anche quella di Gaetano Bresci.

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