“Lampedusa, strage di Stato”.

Fonte: Umanità Nova.

” Lampedusa, strage di Stato

 

L’eccidio dei migranti

 

Lampedusa, strage di Stato

Quando i lettori di Umanità Nova leggeranno questo articolo, si sarà già detto e scritto molto sulla strage di immigrati di Lampedusa. Nel momento in cui scriviamo, i corpi recuperati sono 195. Nel ventre del motopeschereccio affondato davanti all’isola dei Conigli, poco più di uno scoglio accanto a Lampedusa, ci sono ancora decine di altri cadaveri.
Per chi si occupa di immigrazione, i fatti di Lampedusa non costituiscono una novità. Da quando, nella concezione di chi ci governa, i flussi migratori sono diventati una questione di ordine pubblico, le tragedie del mare scandiscono una “normalità” alla quale molti si erano praticamente assuefatti. Chi lotta per un miglioramento delle normative vigenti o per una loro radicale revisione, ha sempre posto una questione dirimente: se non fosse così difficile entrare legalmente in Italia (e in Europa), verrebbero meno le condizioni che stanno alla base di questi eventi luttuosi.
La logica proibizionista, d’altra parte, funziona così: un divieto assoluto alimenta la clandestinità e la speculazione affaristica. Basti pensare al proibizionismo degli alcolici negli Stati uniti nel secolo scorso, che fece le immense fortune di mafiosi e gangster; o all’attuale proibizionismo in fatto di consumo di droghe, che consente alla mafia e agli spacciatori di ingrassarsi, alle carceri di riempirsi all’inverosimile, e allo stato di esercitare una sua presunta superiorità morale.
Nel caso dell’immigrazione, ancora più brutalmente, la “merce” proibita sono gli esseri umani. Il proibizionismo imposto alla libera circolazione delle persone serve al capitalismo per garantirsi un serbatoio di manodopera ricattabile e a basso costo; serve agli stati per dare in pasto all’opinione pubblica l’idea che non siamo tutti uguali e che gli stranieri sono potenzialmente pericolosi; serve alle mafie per fare lucrosi affari sui traffici di esseri umani che si affidano ai viaggi della speranza.
La notte tra il 2 e il 3 ottobre scorsi, è successo quello che è successo tante altre volte, al largo di Lampedusa, o di Malta, o a pochi metri dalla battigia di una qualunque spiaggia siciliana. In questo caso, le proporzioni del disastro sono state talmente grandi da suscitare un disagio che, in questi tempi di bulimia informativa ed emotiva, sembrava non esistesse quasi più. Le immagini delle bare allineate, tantissime, tutte uguali, in un hangar dell’aeroporto di Lampedusa, si commentano da sole, e non c’è alcun bisogno di fare retorica, almeno non su queste pagine.
Vale la pena riferire qualcosa a proposito dei soccorsi, all’alba del 3 ottobre, a largo di Lampedusa. Fonti più che attendibili (l’associazione agrigentina Borderline Sicilia) rivela che quando sono arrivati sul posto i mezzi della Guardia costiera, i diportisti che avevano chiamato i soccorsi avevano già salvato 47 persone, tutte vive. Drammatiche le fasi del salvataggio: gli immigrati erano tutti intrisi di gasolio, scivolavano dalle mani dei loro soccorritori, erano sfiniti. Eppure, dall’s.o.s. all’arrivo delle autorità, sono passati almeno tre quarti d’ora. Davvero troppo per un’isola ipermonitorata da chi di dovere, e che si circumnaviga nel giro di un quarto d’ora. Durante le concitate fasi del salvataggio, uno dei diportisti ha chiesto ai militari il trasbordo veloce dalla sua barca al gommone della Guardia costiera fatto apposta per questo tipo di operazioni, ma gli è stato detto di no: «Dobbiamo rispettare i protocolli» ha chiarito – imperturbabile – un uomo in divisa.
Questa risposta, fredda e disumana, riassume perfettamente il senso delle cose. Di fronte a un’umanità in fuga da guerre e miseria, di fronte al bisogno umano di spostarsi e di vivere, si erge una burocrazia insensibile ed estranea. È questa burocrazia che uccide gli immigrati, ancor prima degli episodi singoli che provocano materialmente le tragedie.
Basti pensare che i superstiti del naufragio, appena qualche giorno dopo dal disastro, sono stati inscritti nel registro degli indagati per il reato di immigrazione clandestina. Un atto dovuto, hanno spiegato alla Procura di Agrigento, in virtù della legge Bossi-Fini. Ecco come funziona lo stato, ecco come funzionano le sue leggi. Quelle stesse leggi che innescano paure e ritrosie anche nei lavoratori del mare, i pescatori che, tante volte, incrociando nelle loro rotte le carrette cariche di immigrati, preferiscono lanciare l’allarme guardandosi bene dal prestare alcun tipo di soccorso per non incorrere nell’odiosa accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e nel conseguente sequestro del peschereccio, unico e insostituibile strumento di lavoro. 
Non si vuole, qui, né generalizzare né puntare il dito. In moltissime occasioni, infatti, pescatori e diportisti siciliani hanno salvato vite umane senza derogare all’universale e atavica legge del mare che impone il mutuo soccorso al di là di ogni confine. Quello che si sottolinea, in questa sede, è la funzione terroristica delle attuali norme sull’immigrazione e, soprattutto, la maniera terroristica con la quale esse vengono applicate. Persino i trattati internazionali obbligano il salvataggio in mare, e il reato di favoreggiamento è comunque subordinato soltanto a determinate fattispecie, e dovrebbe essere segnalato nel corso degli appositi pattugliamenti predisposti dalle autorità competenti. Invece, questa minaccia viene fatta incombere sulle persone indiscriminatamente, a prescindere dai contesti concreti.
Non sappiamo nemmeno se sia il caso di riferire sulle dichiarazioni degli esponenti politici di tutti gli schieramenti all’indomani della tragedia. Grande dolore, grande commozione, grande indignazione, da destra a sinistra. Perfino il capo dello stato ha suggerito, bontà sua, la necessità di rivedere le norme sull’immigrazione in Italia. Peccato però che si tratti dello stesso Giorgio Napolitano che firmò nel 1998 – insieme a Livia Turco – la prima famigerata legge che istituì i centri di detenzione per immigrati e sulla quale fu impostato l’impianto normativo della Bossi-Fini, che tutti – oggi – criticano da sinistra. Dall’altra parte, gli esponenti di quel che resta del Popolo della Libertà cadono letteralmente dalle nuvole, difendono la Bossi-Fini, e scaricano ogni responsabilità sull’Unione europea che «dovrebbe fare di più, e non dovrebbe lasciarci soli». Quello che non si dice è che la Bossi-Fini risponde a un’esigenza che discende direttamente dalla concezione politica ed economica dei confini che delimitano la “fortezza Europa” di cui tante volte abbiamo parlato. In Italia, queste esigenze di dominio sono state declinate tecnicamente, e cavalcate politicamente, da personaggi dell’ultradestra razzista e fascista, con il contorno di un pressapochismo tutto italiano che rende le cose ancora più intollerabili: nessuna idea di accoglienza, gestione perennemente emergenziale dei fenomeni sociali, miopia politica ai limiti del dilettantismo.
Dopo la strage di Lampedusa è il momento del dolore, senza dubbio. Ma il nostro dolore esiste da moltissimi anni, ed è lo stesso, insopportabile dolore che proviamo tutte le volte che sappiamo di una morte, di una mutilazione, di uno stupro, di una violenza che si producono nel contesto della repressione sugli immigrati.
L’unica certezza, che può alleviare il profondo malessere che ci opprime il cuore, sta nella consapevolezza che questa situazione non può durare all’infinito. Le leggi sull’immigrazione sono così antistoriche e disfunzionali, di fronte agli eventi planetari del tempo in cui viviamo, che – prima o poi – dovranno essere profondamente modificate, se non spazzate via. Noi europei siamo senz’altro più fortunati degli “altri”, ma sono moltissimi i segnali che ci fanno capire quanto poco sia destinata a durare questa nostra “fortuna”. La miseria e l’oppressione che oggi bussano alle nostre porte sotto le spoglie di immigrati e profughi sono, per molti versi, delle lugubri presenze che condizionano già adesso le nostre vite di precari, di sfruttati, di senza futuro.
Ci sono due modi per affrontare la questione. Uno è quello irrazionale, egoistico, razzista: gli “altri” non sono come me, che stiano al loro posto, che muoiano. L’altro è quello razionale, squisitamente umano, antirazzista: gli “altri” sono come me, e sono vittime – come me – di quelli che rendono possibile questo scempio attraverso la politica e l’economia.

Alberto La Via “

Atene: rapper antifascista ucciso da neonazista di Alba Dorata.

Nelle prime ore di Mercoledì 18 Settembre un neonazista appartenente al famigerato partito Alba Dorata ha accoltellato ed ucciso ad Atene il rapper antifascista Pavlos Fissas, noto col nome d’arte di Killah P. Il fatto è avvenuto alle prime luci dell’alba, ma la dinamica viene riportata in modo differente a seconda delle fonti: secondo il racconto del padre dell’ucciso, Pavlos si sarebbe trovato in un bar a guardare una partita di calcio con alcuni amici, che tra di loro avrebbero pronunciato frasi di disprezzo nei confronti dei neonazisti di Alba Dorata; un’avventore seduto ad un tavolo vicino, sentendoli, avrebbe telefonato ad alcuni neonazisti per informarli dell’ “affronto” ed essi, giunti sul posto, avrebbero aggredito Pavlos ed i suoi amici: uno avrebbe estratto un coltello e pugnalato a morte il rapper antifascista. Secondo altre versioni, la vittima al momento dell’agguato mortale passeggiava con la fidanzata e altri due amici nel quartiere ateniese di Keratsini, quando sarebbe stato inseguito da un gruppo di neonazisti, al quale se ne sarebbero uniti altri poco dopo; da un’auto fermatasi nei pressi degli aggrediti sarebbe sceso un uomo che avrebbe pugnalato Fissas. Sembrerebbe anche che un gruppo di agenti di polizia dell’unità motorizzata DIAS fossero presenti sul luogo dell’aggressione e non siano intervenuti. Solo in un secondo momento l’assassino è stato fermato e identificato: si tratta di Giorgos Roupakias, 45 anni, residente a Nikaia. I rapresentanti di Alba Dorata hanno cercato di negare i legami tra il loro partito e l’omicida, ma questi ha confessato sia il gesto che la sua affiliazione politica. Nella foto sotto si vede Roupakias durante un’iniziativa di Alba Dorata (accanto al parlamentare di Alba Dorata Barbarousis):

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In risposta all’omicidio del rapper sono state organizzate manifestazioni antifasciste in tutta la Grecia, durante alcune di esse vi sono stati momenti di tensione e scontri con numerosi feriti tra i manifestanti. La polizia ha fatto largo uso di gas lacrimogeni sparati ad altezza d’uomo (a causa di ciò un manifestante ha perso un’occhio), in alcuni casi ha sparato pallottole di gomma. La rabbia per il vile assassinio di Pavlos Fissas non si placa, non ci sarà pace finchè i neonazisti continueranno a scorrazzare liberi di ammazzare chi vogliono con la copertura di polizia, capitalisti e istituzioni compiacenti alle quali fa comodo che i teppisti di estrema destra facciano per loro il lavoro di sporca manovalanza contro chi si oppone alle attuali condizioni sociali ed economiche lottando per una società migliore e radicalmente diversa da quella attuale.

Per continui aggiornamenti sulla vicenda di Pavlos Fissas consiglio di seguire il sito in lingua inglese Occupied London, che riporta aggiornamenti continui sulla vicenda e sulla risposta antifascista a seguito dell’ennesimo omicidio per mano dei neonazisti in Grecia.

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Terra bruciata.

Il pomeriggio del 7 Agosto scorso alcuni incendi sono divampati in diverse zone della Sardegna. Il fumo proveniente da Sinnai, in provincia di Cagliari, era ben visibile dalla popolare spiaggia cagliaritana del Poetto; quello scoppiato nella zona di Laconi-Gadoni ha provocato quattro feriti ed ha costretto ad evacuare centinaia di persone da Laconi. Si tratta di incendi dolosi, sulle motivazioni che possano aver animato l’incoscienza e l’idiozia di chi li ha appiccati non m’interessa speculare. M’interessa piuttosto ricordare che con il denaro pubblico investito dallo Stato italiano, tra l’altro col consenso di numerosi parlamentari sardi, per l’acquisto di aerei militari F-35, si sarebbero invece pututi comprare aerei ad uso civile, quei Canadair necessari a spegnere gli incendi che con scadenza regolarmente mortale colpiscono anche e soprattutto la Sardegna. Gli/le stessi/e parlamentari, in occasione degli ultimi roghi che hanno colpito l’isola, sono solo stati capaci di rilasciare dichiarazioni ipocrite atte a mascherare la loro corresponsabilità nell’ intempestività dei soccorsi antincendio. È evidente che a lorsignori/e interessa favorire servitù militari e politiche militariste anzichè far fronte a problemi comuni che riguardano la popolazione del territorio dal quale loro stessi/e provengono. Un fatto da tenere sempre ben presente, un atteggiamento al quale si può rispondere solo facendo terra bruciata intorno agli infami ed ai loro interessi particolari.

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Hambacher Forst: resistenza contro la centrale elettrica a carbone.

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Hambacher Forst è un’antichissima foresta (12mila anni!) che originariamente comprendeva 5500 ettari di terreno (oggi ne restano solo 1100), situata nella regione tedesca della Renania Settentrionale-Westfalia. Già dal XVI Secolo esisteva una rigida regolamentazione a salvaguardia della foresta, ma nell’epoca contemporanea, specialmente dal 1978 in poi, l’industria mineraria del carbone ha portato alla parziale distruzione dell’aera boschiva. Quel che rimane di Hambacher Forst, con i suoi alberi secolari ed alcune specie animali e vegetali in pericolo d’estinzione, è oggi minacciato dal progetto di costruzione di una centrale elettrica a carbone ad opera dell’azienda RWE, il più grosso produttore di CO2 su scala europea. Mentre in Germania si parla tanto di svolta a favore di energie “pulite” e rinnovabili prevedendo l’addio definitivo, almeno teoricamente, a fonti di energia inquinanti e pericolose, esistono ancora colossi del settore energetico che mettono in pericolo l’ambiente e la salute umana in nome del profitto. La distruzione della foresta per far posto ad una centrale elettrica a carbone è legale: le leggi tedesche dicono che si può fare, in barba alle specie animali e vegetali che popolano Hambacher Forst, alla faccia della salute degli/lle abitanti delle città che sorgono in prossimità della futura miniera, nonostante anche i costi economici dell’inquinamento non ricadano su chi lo produce. È illegale invece resistere contro un simile progetto, chi lo fa rischia di scontrarsi con la violenza della polizia e di beccarsi denunce, processi, sanzioni economiche e carcere. La differenza tra ciò che è legale e ciò che è giusto è sotto gli occhi di tutti, chi decide di opporsi a simili progetti di devastazione ambientale compie una scelta in base alla propria coscienza, a ciò che ritiene legittimo e necessario- anche per il bene della comunità e dell’ambiente.

È per questo che la resistenza alla distruzione di Hambacher Forst non manca, nonostante chi la porta avanti sappia quali siano i rischi ai quali va incontro. Ispirati da movimenti contro la distruzione di foreste e contro la produzione di energia carbonifera, diverse persone hanno dato vita ad una serie di azioni e progetti per salvare l’area boschiva, prima fra tutte la sua occupazione nell’Aprile 2012 e, dopo il violento sgombero da parte della polizia nel Novembre successivo (durante il quale un singolo attivista riuscì a tenere in scacco per quattro giorni le forze dell’ordine rintanandosi in un cunicolo sotterraneo appositamente scavato prima di essere tirato fuori), la rioccupazione di alcuni prati ai margini della foresta. Tra le altre azioni messe in campo dagli/lle attivisti vi sono l’adozione di alberi dell’ Hambacher Forst, la partecipazione a camping ecologisti, l’organizzazione di tour in bicicletta, manifestazioni e presidi informativi in diverse città tedesche. Le attività intraprese per salvare quella che ormai può essere definita l’ultima foresta millenaria d’Europa continuano, per evitare l’ennesimo scempio ambientale i cui costi in materia di inquinamento, danni alla salute e impoverimento della biodiversità ricadranno inevitabilmente su tutti, soprattutto sulle future generazioni.

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Per altre informazioni (in tedesco e inglese) su Hambacher Forst e sulle lotte passate, presenti e future di chi la difende: http://hambacherforst.blogsport.de/

Per sostenere gli/le attivisti/e con offerte (in denaro e non):http://hambacherforst.blogsport.de/kontakt/was-wird-benoetigt/

Come distruggere Venezia.

Venezia, antica e bellissima città, muore oggi di ciò di cui vive: turismo. Soprattutto di un certo tipo di turismo. Come se non bastassero il fenomeno dell’acqua alta e l’inquinamento provocato dal polo industriale di Porto Marghera, ora ci si mettono pure le Grandi Navi che attraversano numerose la laguna nella quale sorge la città più fragile d’Europa, provocando danni alle infrastrutture ed agli edifici ma soprattutto forte inquinamento, con tutte le conseguenti ricadute per la salute umana. Contro l’attraversamento della laguna veneziana da parte di queste enormi imbarcazioni turistiche è nato un comitato di base di cittadini che organizza da anni iniziative per richiamare l’attenzione sulle conseguenze che ricadono sulla città e i/le suoi/e abitanti. L’ultima iniziativa, una tre giorni di lotta dal 7 al 9 Giugno di quest’anno, ha visto la partecipatione di attivisti/e con delegazioni da tutta Italia e anche dall’estero, ed è culminata con una manifestazione sulla terraferma alla quale ne è seguita una in mare con dozzine di piccole imbarcazioni che hanno bloccato il traffico nella laguna.

La lotta contro le Grandi Navi a Venezia è una lotta per la difesa dell’ambiente, del patrimonio artistico e culturale, della salute umana e più in generale contro tutte le grandi opere inutili e dannose che pongono il profitto economico al di sopra di qualsiasi altra cosa.

Marcia mondiale contro Monsanto-25 Maggio 2013.

Per il prossimo 25 Maggio è stata indetta una giornata di mobilitazione internazionale contro Monsanto, multinazionale leader nel mercato degli organismi geneticamente modificati. L’iniziativa è stata lanciata dal gruppo Occupy Monsanto per richiamare l’attenzione e protestare contro le politiche particolarmente aggressive del colosso degli OGM, mettendo in guardia sulle conseguenze derivate dalla scelta e dalla diffusione di organismi geneticamente modificati. Finora, in particolare negli Stati Uniti d’America, la Monsanto ha avuto il sostegno del governo grazie ad un’intensa attività di lobbing ed ha tentato più volte di far cambiare a suo favore la legislazione europea in materia di OGM trovando sempre una forte opposizione suprattutto tra agricoltori, movimenti dei consumatori ed ecologisti.  Per conoscere meglio la questione OGM, le multinazionali che ne traggono vantaggio, le conseguenze per economia, ambiente e salute umana e le lotte intraprese finora, consiglio la lettura dei tre articoli linkati qui sotto. I tre link successivi rimandano invece alla pagina Facebook dei promotori dell’iniziativa, alla pagna che spiega le motivazioni della protesta e le soluzioni proposte ed infine alla lista di iniziative contro Monsanto che avranno luogo un pò in tutto il mondo il prossimo 25 Maggio.

“L’anno del granoturco”, di Paolo Soldati;
Biopirati: la storia del pizzo legalizzato”, di Earth Riot;
Monsanto semina la morte tra i contadini indiani”, di Vandana Shiva.

Pagina Facebook (english);
Obiettivi e proposte (english);

Lista degli eventi.

 

 

 

Greed economy.

Alcuni giorni fa sono venuto con piacere a sapere dell’ultima operazione compiuta dagli hacktivisti di Anonymous Italia, che si sono schierati contro la costruzione di rigassificatori e la conseguente devastazione ambientale da essi provocata. I motivi del sabotaggio di alcuni siti internet legati alla costruzione dei rigassificatori sono ben spiegati nel comunicato pubblicato sul sito ufficiale di Anonymous Italia.


Nonostante i motivi di natura ambientale (e di conseguenza quelli legati alla salute ed alla sicurezza umana) siano -giustamente- posti in primo piano da chi si oppone alla costruzione dei rigassificatori, l’aspetto tra quelli elencati dagli hacktivisti di Anonymous che ha maggiormente attratto la mia attenzione è di natura economica. Cito:
Forte rischio economico: i costi di costruzione sono esosi, fino a 500 milioni di euro. Gran parte delle spese relative al progetto di rigassificazione è sostenuto dallo Stato il quale è intervenuto per la copertura di gran parte della spesa. Con la delibera 178/2005 (finalizzata ad aiutare la competizione), lo Stato ha incentivato la costruzione degli impianti di rigassificazione azzerando il rischio di impresa per le società che vogliono investire in tale ambito. In caso di mancato utilizzo dell’impianto, ad esempio per mancanza di GNL da acquistare sul mercato, o per eccesso di domanda, i gestori godrebbero comunque di un introito minimo: lo Stato interverrebbe prelevando i fondi dalle bollette degli utenti.” 

Ma come, lo Stato deve aiutare la competizione economica?!?! Ma allora dov’è la “mano invisibile”, dov’è la magica dote del capitalismo che si regola da se??? Domanda retorica, ovviamente. Così come è retorico chiedersi come mai, in una fase di crisi economica come quella attuale, lo Stato debba correre il rischio di far accollare ai contribuenti già tartassati gli eventuali costi di un’operazione economica potenzialmente fallimentare: basterebbe leggere alcuni documenti prodotti ad esempio dal movimento No TAV per capire cosa significhi concretamente il termine “socializzazione delle perdite”- un pò come giocare a poker coi soldi altrui mettendo in tasca il ricavato di un’eventuale vincita senza essere obbligati a restituire la somma giocata in partenza, anzi facendo pagare ad altri gli eventuali debiti contratti in caso di perdita. Ci si potrebbe anche chiedere cosa ne sia stato di tutti gli strombazzati discorsi retorici sulla green economy…oppure ci si potrebbe finalmente rendere conto che nel capitalismo l’unico verde che conta è quello di certe banconote. Greed, not green.

Catastroika.

“Catastroika- Privatisation Goes Public” è un documentario greco del 2012, realizzato da Aris Chatzistefanou e Katerina Kitidi, che tratta il tema delle privatizzazioni di servizi pubblici. Prodotto con un budget limitato, ha raggiunto milioni di persone grazie anche alla sua distribuzione su internet attraverso canali gratuiti. L’analisi del documentario mette in relazione crisi economica, ideologia neoliberista, autoritarismo e privatizzazioni, spiegando dinamiche e conseguenze di un processo tutt’ora in corso non solo in Grecia. Quella che potrebbe sembrare a prima vista una presa di posizione in favore del monopolio statale su determinati settori dell’economia si rivela essere (specialmente nella parte finale dell’opera) un’invito ad una maggiore democratizzazione dell’economia in chiave partecipatoria, concetto a mio parere valido e interessante, ma poco sviluppato in questa occasione dagli/lle autori/trici del documentario.  Nella versione che ho deciso di pubblicare qui, è possibile attivare i sottotitoli in diverse lingue selezionando quella preferita cliccando sulla prima icona che si trova in basso a destra nella schermata del video. Buona visione e, come sempre, se vi piace diffondete!

Trapani: Anno nuovo, stessa vergogna (comunicato sulla tragedia di Tre Fontane).

Fonte: A-Infos.

Il 2013 non poteva cominciare peggio. Uno sbarco di immigrati sulla
costa tra Capo Granitola e Tre Fontane (TP) è finito in tragedia.
Decine di tunisini sono stati costretti a raggiungere la riva a nuoto,
ma non tutti ce l’hanno fatta. Quelli che, dopo l’arresto, sono stati
identificati come scafisti hanno gettato in mare il loro carico umano
per non perdere tempo e agevolarsi la fuga. Il mare ha già restituito
un corpo, e potrebbe non essere il solo. Altri immigrati ammazzati
dalle leggi e dalla mafia che specula su queste leggi.
Non è la prima volta che succede, perché è così che funziona. Molte
volte, prima di abbandonare i barconi per squagliarsela con altri
mezzi, gli scafisti mettono il timone in mano a uno dei “passeggeri” e
gli augurano buona fortuna. Spesso gli immigrati ammassati su queste
bagnarole non sanno nemmeno nuotare, perché è la prima volta che
vedono il mare in vita loro. In altre occasioni, per alleggerire i
barconi, gli scafisti non esitano a buttare in acqua i migranti.
Moltissimi sono morti così, seppelliti in questo cimitero che è
diventato il Canale di Sicilia.
Inutile ribadire (o forse non basta mai) che se non ci fossero le
frontiere e le leggi che rendono impossibile la libera e sicura
circolazione degli individui, tutte queste tragedie non avrebbero
luogo. Ecco perché la responsabilità politica ricade, ogni volta,
sugli stati e i governi. Tutta questa repressione non può che favorire
gli interessi criminali, italiani e stranieri, che nell’immigrazione
hanno trovato una nuova fonte di lucro e di speculazione.
La tragedia di Tre Fontane conferma, nella maniera più sinistra,
quanto sia urgente e attuale la lotta contro il razzismo, contro
questo modo di gestire i flussi migratori, contro la repressione che
annienta i diritti e la libertà.
Solo pochi giorni prima, il 28 dicembre, una piccola ma significativa
manifestazione antirazzista aveva attraversato le strade della città
di Trapani per ricordare i sei immigrati morti dentro il centro di
trattenimento “Serraino Vulpitta”.
Chi si è chiesto a cosa potesse servire un’iniziativa di questo tipo,
dopo ben tredici anni da quei fatti, ha avuto – purtroppo – una
risposta stridente nel drammatico sbarco di Capodanno: di immigrazione
si continua a morire.
Gruppo Anarchico “Andrea Salsedo” – Trapani
04/01/2013

Incendio in una fabbrica tessile del Bangladesh provoca più di 100 morti.

Fonte: Campagna Abiti Puliti.

Nuovo incendio in Bangladesh. Oltre 100 morti

tazreenLa Clean Clothes Campaign, insieme ai sindacati e alle organizzazioni impegnate per i diritti dei lavoratori in Bangladesh e in tutto il mondo, chiede un intervento immediato da parte dei marchi internazionali a seguito dell’incendio divampato in Dhaka – Bangladesh nei giorni scorsi, in cui hanno perso la vita più di 100 operai tessili.

I lavoratori morti e feriti stavano producendo indumenti per brand internazionali del tessile quando la loro fabbrica, la Tazreen Fashions, è andata a fuoco. Secondo il loro sito internet, la Tazreen produceva per una moltitudine di ben noti marchi, tra cui C&A, Carrefour, KIK e Walmart. La Clean Clothes Campaign è convinta che questi soggetti abbiano dimostrato negligenza per non aver preso contromisure efficaci ai problemi di sicurezza evidenziati da incendi precedenti, divenendo responsabili per l’ennesima tragica perdita di vite umane.

Molti dei lavoratori hanno trovato la morte mentre cercavano di scappare dal palazzo a sei piani; altri, non potendo scappare, sono arsi vivi. Il bilancio delle vittime continua a salire mentre i soccorritori cercano di farsi largo tra le macerie della fabbrica devastata. Un vigile del fuoco presente sulla scena ha riferito che non c’era nessuna uscita antincendio all’esterno dell’edificio. Le prime analisi suggeriscono che il fuoco sia partito da un corto circuito elettrico. La causa dell’80% di tutti gli incendi industriali in Bangladesh è dovuto a cablaggi difettosi.

“Molti brand sanno da anni che molte delle fabbriche in cui scelgono di produrre sono delle trappole mortali. Il loro fallimento nell’adottare misure adeguate è una negligenza criminosa” ha detto Ineke Zeldenrust della Clean Clothes Campaign.

Insieme ai partner bengalesi, la CCC chiede un’inchiesta indipendente e trasparente sulle cause dell’incendio, per una piena e giusta compensazione da pagare alle vittime e ai loro familiari e per individuare le azioni necessarie a prevenire simili tragedie in futuro.

“L’ennesima perdita di vite umane, sacrificate sull’altare di un modello industriale che produce profitti per i grandi gruppi internazionali a discapito dei lavoratori impiegati senza diritti nelle fabbriche per l’export, fortifica la nostra convinzione che occorrono cambiamenti strutturali, concreti e rapidi per rimuovere la cause alla base di tragedie come queste” continua Deborah Lucchetti di Abiti Puliti, la CCC italiana.

La CCC, insieme ai sindacati e alle organizzazioni per i diritti dei lavoratori, ha messo a punto un piano d’azione specifico che include un programma di ispezioni indipendenti e trasparenti, una rivalutazione obbligatoria degli edifici in cui si riforniscono i marchi internazionali, una ricognizione di tutte le leggi e le norme di sicurezza esistenti, un impegno a pagare prezzi adeguati a coprire i costi e il coinvolgimento diretto dei sindacati in corsi di formazione per i lavoratori su salute e sicurezza. La CCC invita nuovamente i marchi a sottoscrivere immediatamente questo piano d’azione.

I datori di lavoro e il governo bengalese devono assumersi la loro parte di responsabilità. Il governo deve effettuare un’indagine immediata sulle cause dell’incendio e perseguire coloro la cui negligenza ha causato la morte di queste donne e uomini. Inoltre, deve investire in un programma di ispezioni in tutto il Paese per accertare che gli edifici attualmente in uso siano adatti allo scopo cui sono destinati e rispettino gli standard di sicurezza. Tutti gli imprenditori in Bangladesh devono immediatamente rivedere le procedure di sicurezza in vigore nelle loro fabbriche, effettuare controlli alle strutture e agli impianti elettrici e, soprattutto, impegnarsi a collaborare con i sindacati per formare i loro operai sulle procedure di sicurezza e recepire le loro istanze.

La CCC continuerà a lavorare con i partner sul campo per accertare la dinamica esatta dei fatti e pretendere giustizia per le vittime di questa ennesima tragedia. Nel frattempo chiede a tutti coloro che operano nel settore dell’abbigliamento in Bangladesh di passare ai fatti attraverso un’azione significativa e concreta per evitare che un’altra terribile perdita di vite si ripeta in futuro.”

Vedi anche: “Bangladesh: Mehr als 100 Arbeiterinnen bei C&A-Zulieferfirma verbrannt” articolo in tedesco pubblicato sul sito della FAU.