Kazova, un’esperienza autogestionaria dalla Turchia.

La fabbrica tessile turca Kazova è stata per una sessantina d’anni un centro di produzione di maglioni di lusso a Istanbul, fino a quando nel Febbraio del 2013 il padrone decide di chiuderla. 94 operai/e rimangono senza lavoro e con cinque mesi di stipendio non pagati, alcuni/e di loro decidono di organizzare picchetti per evitare che il “proprietario” porti via i macchinari dallo stabilimento, da lui già danneggiati, dopodichè, a seguito delle proteste di Gezi Park avvenute durante l’estate dello stesso anno, occupano la fabbrica. È durante tali proteste che nascono numerose esperienze autogestionarie come assemblee (forum) di quartiere, che in parte rimangono in vita nonostante la brutale repressione poliziesca e lo sgombero di Gezi Park. In questa fase i/le lavoratori/trici resistono allo sgombero della fabbrica, vendono alcuni macchinari danneggiati per acquistarne altri e si costituiscono in cooperativa, ma soprattutto intrecciano legami con individualità e collettivi nati durante le proteste, ricevendo attenzione e solidarietà a livello nazionale e internazionale. A Novembre riparte la produzione di maglioni. Tra l’Agosto del 2014 e il Marzo del 2015 avvengono numerosi cambiamenti nella cooperativa a seguito dei quali i/le protagonisti/e dell’esperienza di autogestione si dividono: mentre la maggior parte di loro rimangono organizzati/e nella cooperativa Diren Kazova (Kazova resiste), altri/e cinque creano un’altra società sotto il nome di Özgür Kazova (Kazova libera). La Diren Kazova, legatasi all’organizzazione marxista DIH, si pone teoricamente come obiettivo il raggiungimento di standard lavorativi superiori alla media e accusa i “fuoriusciti” dalla cooperativa di aver abbracciato le idee capitaliste perchè i profitti verrebbero utilizzati per aumentare gli stipendi, d’altro canto i membri della Özgür Kazova raccontano di come una parte del denaro raccolto da iniziative internazionali di solidarietà sia stato fatto sparire per scopi privati da lavoratori/trici rimasti nella Diren o sia confluito senza previo consenso collettivo nelle casse del DIH. Inoltre gli stessi lavoratori/trici della Diren ammettono (in un’intervista del 2014, nel frattempo la situazione potrebbe essere cambiata…) il persistere di divisione del lavoro, alienazione e standard lavorativi insoddisfacenti. Anche i processi decisionali della Özgür risultano, da quanto riportato da osservatori esterni (sempre nel 2014), più trasparenti e orientati all’autogestione di quelli della Diren, che pare essere stata praticamente cooptata dal DIH. Al di là dei conflitti e delle differenze tra le due realtà produttive, entrambe (almeno stando alle ultime notizie che ho a disposizione) esistono e producono. Diren Kazova dispone di diversi punti vendita ad Istanbul, Özgür Kazova ha trovato una nuova locazione per la produzione e dispone di un sito internet in diverse lingue nel quale presenta i propri prodotti tessili che possono venir ordinati tramite posta elettronica.

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“Stiamo cercando di creare un precedente con i primi “maglioni senza padrone”, nati proprio da una fabbrica che vendeva un singolo maglione a 150 euro, e pagava gli operai – che ne producevano migliaia al giorno con orari massacranti – 450 euro al mese. Noi li produciamo uguali, li vendiamo a meno e dividiamo equamente i proventi”, affermava un’operaio della Özgür Kazova in un’intervista di un’anno fa, ma non è tutto: i/le protagonisti/e di questa realtà sono orgogliosi/e di aver preso in mano le redini del proprio destino. Sono riusciti/e a creare una nuova realtà in un contesto difficilissimo, in un Paese con una legislazione decisamente ostile ai sindacati, senza particolari esperienze politiche o di lotte lavorative, tra repressione e privazioni economiche, ma resistendo nonostante tutto con la loro forza di volontà e grazie ai legami di quartiere stabiliti durante e oltre le proteste popolari avvenute a Istanbul e alla solidarietà. Autogestendosi in modo orizzontale e praticando forme di solidarietà diffuse intendono svincolarsi dalle logiche capitaliste di sfruttamento, gerarchia e profitto, facendo loro sette punti fondamentali:una struttura produttiva basata sull’associazione volontaria, un modello economico fondato sulla spartizione ugualitaria, autogestione democratica fra membri, una produzione indipendente basata sull’autogestione dei lavoratori stessi, educazione permanente e condivisione delle conoscenze, cooperazione fra cooperative, solidarietà concreta con tutte le lotte sociali.Risultati immagini per Özgür kazova

Incendio in una fabbrica tessile del Bangladesh provoca più di 100 morti.

Fonte: Campagna Abiti Puliti.

Nuovo incendio in Bangladesh. Oltre 100 morti

tazreenLa Clean Clothes Campaign, insieme ai sindacati e alle organizzazioni impegnate per i diritti dei lavoratori in Bangladesh e in tutto il mondo, chiede un intervento immediato da parte dei marchi internazionali a seguito dell’incendio divampato in Dhaka – Bangladesh nei giorni scorsi, in cui hanno perso la vita più di 100 operai tessili.

I lavoratori morti e feriti stavano producendo indumenti per brand internazionali del tessile quando la loro fabbrica, la Tazreen Fashions, è andata a fuoco. Secondo il loro sito internet, la Tazreen produceva per una moltitudine di ben noti marchi, tra cui C&A, Carrefour, KIK e Walmart. La Clean Clothes Campaign è convinta che questi soggetti abbiano dimostrato negligenza per non aver preso contromisure efficaci ai problemi di sicurezza evidenziati da incendi precedenti, divenendo responsabili per l’ennesima tragica perdita di vite umane.

Molti dei lavoratori hanno trovato la morte mentre cercavano di scappare dal palazzo a sei piani; altri, non potendo scappare, sono arsi vivi. Il bilancio delle vittime continua a salire mentre i soccorritori cercano di farsi largo tra le macerie della fabbrica devastata. Un vigile del fuoco presente sulla scena ha riferito che non c’era nessuna uscita antincendio all’esterno dell’edificio. Le prime analisi suggeriscono che il fuoco sia partito da un corto circuito elettrico. La causa dell’80% di tutti gli incendi industriali in Bangladesh è dovuto a cablaggi difettosi.

“Molti brand sanno da anni che molte delle fabbriche in cui scelgono di produrre sono delle trappole mortali. Il loro fallimento nell’adottare misure adeguate è una negligenza criminosa” ha detto Ineke Zeldenrust della Clean Clothes Campaign.

Insieme ai partner bengalesi, la CCC chiede un’inchiesta indipendente e trasparente sulle cause dell’incendio, per una piena e giusta compensazione da pagare alle vittime e ai loro familiari e per individuare le azioni necessarie a prevenire simili tragedie in futuro.

“L’ennesima perdita di vite umane, sacrificate sull’altare di un modello industriale che produce profitti per i grandi gruppi internazionali a discapito dei lavoratori impiegati senza diritti nelle fabbriche per l’export, fortifica la nostra convinzione che occorrono cambiamenti strutturali, concreti e rapidi per rimuovere la cause alla base di tragedie come queste” continua Deborah Lucchetti di Abiti Puliti, la CCC italiana.

La CCC, insieme ai sindacati e alle organizzazioni per i diritti dei lavoratori, ha messo a punto un piano d’azione specifico che include un programma di ispezioni indipendenti e trasparenti, una rivalutazione obbligatoria degli edifici in cui si riforniscono i marchi internazionali, una ricognizione di tutte le leggi e le norme di sicurezza esistenti, un impegno a pagare prezzi adeguati a coprire i costi e il coinvolgimento diretto dei sindacati in corsi di formazione per i lavoratori su salute e sicurezza. La CCC invita nuovamente i marchi a sottoscrivere immediatamente questo piano d’azione.

I datori di lavoro e il governo bengalese devono assumersi la loro parte di responsabilità. Il governo deve effettuare un’indagine immediata sulle cause dell’incendio e perseguire coloro la cui negligenza ha causato la morte di queste donne e uomini. Inoltre, deve investire in un programma di ispezioni in tutto il Paese per accertare che gli edifici attualmente in uso siano adatti allo scopo cui sono destinati e rispettino gli standard di sicurezza. Tutti gli imprenditori in Bangladesh devono immediatamente rivedere le procedure di sicurezza in vigore nelle loro fabbriche, effettuare controlli alle strutture e agli impianti elettrici e, soprattutto, impegnarsi a collaborare con i sindacati per formare i loro operai sulle procedure di sicurezza e recepire le loro istanze.

La CCC continuerà a lavorare con i partner sul campo per accertare la dinamica esatta dei fatti e pretendere giustizia per le vittime di questa ennesima tragedia. Nel frattempo chiede a tutti coloro che operano nel settore dell’abbigliamento in Bangladesh di passare ai fatti attraverso un’azione significativa e concreta per evitare che un’altra terribile perdita di vite si ripeta in futuro.”

Vedi anche: “Bangladesh: Mehr als 100 Arbeiterinnen bei C&A-Zulieferfirma verbrannt” articolo in tedesco pubblicato sul sito della FAU.