Manifesto per un Capodanno anticarcerario, ovunque!

Capodanno fuori dalle carceri! Dappertutto davanti ai centri di espulsione e agli istituti penali!

Le manifestazioni rumorose di fronte alle prigioni sono una tradizione che resiste in alcune parti del mondo, per ricordare durante il cambio d’anno coloro i/le quali sono tenuti/e prigionieri/e dallo Stato. Un modo per esprimere solidarietà alle persone detenute. Sia di fronte alle carceri che ai centri di esplusione*, dove vengono detenute persone prive di documenti o con i documenti sbagliati, vogliamo riunirci insieme per rompere l’isolamento e la solitudine. Questo sistema carcerario non è riformabile, perchè è sbagliato alla radice, qui e ovunque. Non crea persone migliori, non contribuisce a risolvere i conflitti sociali. La coesistenza dominante basata sulla concorrenza e sull’ingiustizia rinchiude le persone o le espelle, da un lato per allontanare da sè ciò che è problematico, dall’altro per spaventare e statuire esempi per chi è alla disperata ricerca di libertà. Che le persone siano rinchiuse perchè hanno rubato o danneggiato la proprietà, perchè hanno viaggiato senza biglietto**, perchè per assenza di prospettive o timore di venir perseguitate sono fuggite dalla loro terra di provenienza- tutto questo si basa su un unico fatto: l’esistenza di norme dominanti che stabiliscono ciò che è sbagliato e ciò che è giusto, ciò che va protetto e ciò che va punito. Leggi e regole stabilite da pochi, alle quali altri a loro volta devono sottomettersi. Questa logica della punizione e della conseguente carcerazione va infranta. Per noi la fine di tutte le strutture detentive è possibile solo all’interno di un processo che rovesci le condizioni attuali nella loro totalità , per rendere possibile un mondo senza sfruttamento ed oppressione. Non importa dove vi troviate, incontratevi a Capodanno di fronte alle carceri, siate rumorosi/e ed esprimete per le strade la vostra idea di un mondo senza dominio e senza coercizione. Vogliamo usare la nostra solidarietà ed il nostro aiuto reciproco per abbattere mattone per mattone tutti questi muri. Vogliamo un mondo senza muri né confini. Lotteremo insieme finchè tutti/e saranno liberi/e”.

Il manifesto, affisso di recente in diverse cittá tedesche, è preso da Contra-Info, la traduzione in italiano è mia. A “lavoro” quasi finito ho scoperto che era già stato tradotto su almeno un altro sito, ma la mia versione, a mio modesto parere, é più corretta e scorrevole e comunque m’é costata una decina di minuti, ‘sticazzi, quindi eccola qui!

*Anche in Germania esistono strutture di detenzione, identificazione ed espulsione riservate a chi non ha la cittadinanza tedesca e si sia macchiato di reati o semplicemente non abbia i documenti in regola per restare nel Paese secondo quanto stabilito dalla legge.

**No, non è un errore di traduzione:in Germania, chi per un motivo o per l’altro viaggia sui mezzi di trasporto pubblici senza biglietto, è recidivo e non può pagare le multe, si vede costretto in molti casi a scontare un periodo di detenzione!

La vita, non la morte.

Non ho pensato molto alla morte di Nelson Mandela, lo ammetto. Più che altro mi è capitato non di rado, in diverse occasioni, di pensare alla sua vita. Mi è capitato soprattutto da alcuni anni a questa parte di riassumere il mio giudizio su di lui con la banale formula del “non mi piace”, come se si trattasse di una pietanza che non mangio volentieri. In realtá ciò che di Mandela non mi è mai piaciuto è il fatto che sia salito al potere, per così dire: più che salire è sceso, a compromessi, molto in basso, abdicando a quella battaglia per il cambiamento e l’uguaglianza nel suo Paese che tanti sacrifici gli era costata. Eppure la sua lotta è stata indubbiamente legittima e il fatto che abbia trascorso quasi trent’anni in galera non è cosa da poco. Sarei io in grado di sopportare trent’anni di galera per aver lottato per le mie idee? Posso criticare sbrigativamente e con sufficienza  chi ci è riuscito? Il punto è che la vita di una persona a volte è troppo complessa e ricca di sfumature per poter essere giudicata con sentenze lapidarie, senza tenere conto di ogni suo singolo aspetto. Qualcuno ha messo insieme un paio di riflessioni che mi sento di condividere, parola per parola (sottolineo in particolare la parte riguardante il paragone con Gandhi) , appunto alcuni aspetti della vita di una persona con tutte le sue contraddizioni, i suoi sforzi e dilemmi, i suoi gesti ammirevoli o meno che siano, di fronte ai quali si dovrebbe riflettere prima di appiccicare etichette o unirsi ai calcolatissimi cordogli ipocriti di chi come al solito usa le persone da vive ma ancor più da morte infilandole addosso abiti che in vita loro non hanno mai indossato:

“Due o tre cose su Mandela”, dal blog  Ἐκβλόγγηθι Σεαυτόν Asocial Network di Riccardo Venturi.

“Lampedusa in Hamburg”, una lotta per la sopravvivenza.

Dopo il vertice dei 28 capi di Stato europei all’indomani dalla strage di migranti nelle acque di Lampedusa, nulla è cambiato nelle politiche sull’immigrazione della Fortezza Europa. Eppure l’emergenza rimane: dico emergenza, ma non mi riferisco a quella sbandierata dai massmedia integrati nella società dello spettacolo, che citano cifre allarmistiche e casi simbolici  per spaventare l’opinione pubblica con lo spauracchio dell’invasione di migranti da oltremare, ma intendo quella che devono quotidianamente affrontare quelle persone che, una volta sopravvissute a guerre, dittature, carestie ed al viaggio fino alla porte d’Europa, si trovano lasciate a se stesse, impossibilitate ad avere un tetto sulla testa, un lavoro, assistenza sanitaria, garanzie di qualsiasi tipo se non quella di venir costantemente minacciati di rimpatrio. È questa la quotidianità di un gruppo di 300 immigrati africani che oggi si trovano ad Amburgo, fuggiti dalla Libia durante la guerra civile ed i bombardamenti della NATO, approdati a Lampedusa e, una volta finita ufficialmente l’emergenza all’inizio del 2013, spediti con documenti provvisori e 500 Euro in tasca verso un futuro incerto. Approdati ad Amburgo, i trecento scoprono di non avere nessun diritto, nessuna garanzia, nessuna prospettiva. Le istituzioni tedesche vorrebbero identificarli, ma loro si rifiutano, temendo di poter essere rispediti in Italia, palleggiati tra uno Stato e l’altro. D’altra parte questo è quel che prevede il Regolamento Dublino II, i rifugiati possono chiedere asilo solo nel primo Paese europeo sul quale abbiano messo piede al loro arrivo. L’Italia, in questo caso, che si è sbarazzata di loro appena possibile. I 300 rifugiati, costretti inizialmente a vivere per strada e sottoposti a stretta sorveglianza da parte della polizia, hanno però avuto la determinazione di organizzarsi in un gruppo compatto, un’associazione ribattezzata “Lampedusa in Hamburg” , ricevendo l’aiuto da parte della locale chiesa evangelica luterana di St.Pauli, di organizzazioni antirazziste e di altri/e cittadini/e di Amburgo. Una serie di iniziative di solidarietà concreta e di proteste a sostegno dei rifugiati ha avuto e sta avendo luogo ad Amburgo: un’ottantina di membri di “Lampedusa in Hamburg” ha trovato accoglienza e rifugio nella chiesa di St.Pauli, numerose sono state le donazioni di abbigliamento, calzature e generi di prima necessità da parte di privati cittadini, mentre diverse iniziative di lotta si sono svolte nella città portuale. Dopo la prima azione di protesta avvenuta nel municipio di Amburgo a fine Maggio a seguito dello sgombero di una tendopoli situata nei pressi della stazione centrale, alla quale parteciparono circa 60 persone che dispiegarono lo striscione “Non siamo sopravvissuti alla guerra della NATO in Libia per morire nelle strade di Amburgo”, ci sono state altre due consistenti manifestazioni a Giugno ed Agosto, con la partecipazione rispettivamente di 1500 e 2500 persone.

Non sono mancate le intimidazioni poliziesche, le identificazioni di manifestanti ed alcuni arresti, mentre l’amministrazione cittadina ha proibito alla chiesa di St.Pauli di offrire ulteriore accoglienza ai rifugiati, ai quali ha precluso anche l’alloggio in dormitori adibiti al pernottamento dei senzatetto. La stessa settimana in cui centinaia di migranti morivano nel tentativo di raggiungere Lampedusa, la polizia lanciava l'”Operazione Lampedusa”, durante la quale venivano identificati ed arrestati una dozzina di membri di “Lampedusa in Hamburg”. A seguito di questi ed altri arresti operati nei giorni successivi si sono svolte diverse manifestazioni, spesso non autorizzate ma molto partecipate (dalle 800 alle 2000 persone) per denunciare la violenza poliziesca ed il trattamento razzista riservato ai richiedenti asilo. Anche lo storico centro sociale amburghese Rote Flora ha preso posizione a fronte dei controlli arbitrari su base razzista, degli arresti e della politica di terra bruciata operati dalle istituzioni nei confronti dei richiedenti asilo, lanciando un ultimatum all’amministrazione cittadina (“interrompete i controlli razzisti nei confronti dei membri di Lampedusa-in-Hamburg o aspettatevi ripercussioni”) e prendendo parte ad una manifestazione di 2000 persone che ha visto compiere azioni dirette nel quartiere di Sternschanze. Dal momento in cui le istituzioni hanno deciso di perseverare ne loro atteggiamento razzista e repressivo, sono proseguite le iniziative politiche in sostegno dei rifugiati, con cortei, blocchi stradali, biciclettate in stile “Critical Mass”, azioni informative e tentativi di impedire i controlli razzisti. Anche a Rostock si è svolta una manifestazione di solidarietà sotto lo slogan “Refugees Welcome!”, alla quale hanno preso parte 1500 persone. Le iniziative di lotta e sostegno al gruppo Lampedusa-in-Hamburg continuano ancora in questi giorni, finchè ai rifugiati non verrà garantito il diritto a rimanere nella cittá di Amburgo.

(Per altre informazioni e notizie attuali sul caso dei 300 richiedenti asilo del gruppo “Lampedusa in Hamburg” consiglio di visitare il sito http://lampedusa-in-hamburg.tk/)

Una mia considerazione a margine della vicenda: quella del gruppo “Lampedusa in Hamburg” e dei suoi solidali sostenitori è una lotta per la legalizzazione ed il riconoscimento dei diritti di un gruppo specifico. Ciò non significa che si tratti necessariamente di una lotta riformista e di ciò sono consapevoli molti/e dei/lle quali sono parte di questa battaglia. Il loro obiettivo va oltre la volontà di un mero riconoscimento istituzionale dei richiedenti asilo, l’obiettivo finale è quello di un mondo senza Stati né frontiere, nel quale le persone siano libere di spostarsi senza controlli e vessazioni di tipo burocratico e poliziesco. Un mondo nel quale però nessuno/a sia costretto a fuggire dalla terra nella quale è nato/a a causa di condizioni di vita inaccettabili, ma nel quale gli spostamenti nascano da una decisione priva di forzature di sorta. La costruzione di un mondo diverso da quello nel quale viviamo ora inizia anche dal sostegno diretto e immediato alle lotte di chi avanza rivendicazioni tutto sommato minime, cresce spingendo sulle contraddizioni più evidenti del sistema e creando nuova coscienza, fino alla messa in discussione totale del vigente ordine economico, sociale e politico ed alla realizzazione pratica di alternative concrete in chiave libertaria e antiautoritaria.

Vite precarie.

Rosetta, il film del 1999 diretto dai fratelli belgi Jean-Pierre e Luc Dardenne, in molti se lo saranno già dimenticato o non l’avranno affatto visto. Peccato, perchè si tratta di un capolavoro, che parla di una situazione tipo non troppo diversa da quella vissuta da molte persone ancora oggi in Europa e non solo. Durante le manifestazioni sindacali in Belgio, successivamente all’uscita del film, veniva scandito lo slogan “Siamo tutti Rosetta”. In quanti/e lo sono ancora? Per quanti/e la prospettiva di una vita “normale” è ancora un miraggio, e per quanti una vita “normale” è sinonimo di un lavoro stabile, una casa, una famiglia senza problemi? Quando l’essenziale sembra irraggiungibile non si può aspirare a qualcosa che vada oltre, che ci liberi definitivamente dalla spirale di sfruttamento e precarietà delle nostre esistenze in balìa di meccanismi che ci stritolano giorno dopo giorno?

“Lampedusa, strage di Stato”.

Fonte: Umanità Nova.

” Lampedusa, strage di Stato

 

L’eccidio dei migranti

 

Lampedusa, strage di Stato

Quando i lettori di Umanità Nova leggeranno questo articolo, si sarà già detto e scritto molto sulla strage di immigrati di Lampedusa. Nel momento in cui scriviamo, i corpi recuperati sono 195. Nel ventre del motopeschereccio affondato davanti all’isola dei Conigli, poco più di uno scoglio accanto a Lampedusa, ci sono ancora decine di altri cadaveri.
Per chi si occupa di immigrazione, i fatti di Lampedusa non costituiscono una novità. Da quando, nella concezione di chi ci governa, i flussi migratori sono diventati una questione di ordine pubblico, le tragedie del mare scandiscono una “normalità” alla quale molti si erano praticamente assuefatti. Chi lotta per un miglioramento delle normative vigenti o per una loro radicale revisione, ha sempre posto una questione dirimente: se non fosse così difficile entrare legalmente in Italia (e in Europa), verrebbero meno le condizioni che stanno alla base di questi eventi luttuosi.
La logica proibizionista, d’altra parte, funziona così: un divieto assoluto alimenta la clandestinità e la speculazione affaristica. Basti pensare al proibizionismo degli alcolici negli Stati uniti nel secolo scorso, che fece le immense fortune di mafiosi e gangster; o all’attuale proibizionismo in fatto di consumo di droghe, che consente alla mafia e agli spacciatori di ingrassarsi, alle carceri di riempirsi all’inverosimile, e allo stato di esercitare una sua presunta superiorità morale.
Nel caso dell’immigrazione, ancora più brutalmente, la “merce” proibita sono gli esseri umani. Il proibizionismo imposto alla libera circolazione delle persone serve al capitalismo per garantirsi un serbatoio di manodopera ricattabile e a basso costo; serve agli stati per dare in pasto all’opinione pubblica l’idea che non siamo tutti uguali e che gli stranieri sono potenzialmente pericolosi; serve alle mafie per fare lucrosi affari sui traffici di esseri umani che si affidano ai viaggi della speranza.
La notte tra il 2 e il 3 ottobre scorsi, è successo quello che è successo tante altre volte, al largo di Lampedusa, o di Malta, o a pochi metri dalla battigia di una qualunque spiaggia siciliana. In questo caso, le proporzioni del disastro sono state talmente grandi da suscitare un disagio che, in questi tempi di bulimia informativa ed emotiva, sembrava non esistesse quasi più. Le immagini delle bare allineate, tantissime, tutte uguali, in un hangar dell’aeroporto di Lampedusa, si commentano da sole, e non c’è alcun bisogno di fare retorica, almeno non su queste pagine.
Vale la pena riferire qualcosa a proposito dei soccorsi, all’alba del 3 ottobre, a largo di Lampedusa. Fonti più che attendibili (l’associazione agrigentina Borderline Sicilia) rivela che quando sono arrivati sul posto i mezzi della Guardia costiera, i diportisti che avevano chiamato i soccorsi avevano già salvato 47 persone, tutte vive. Drammatiche le fasi del salvataggio: gli immigrati erano tutti intrisi di gasolio, scivolavano dalle mani dei loro soccorritori, erano sfiniti. Eppure, dall’s.o.s. all’arrivo delle autorità, sono passati almeno tre quarti d’ora. Davvero troppo per un’isola ipermonitorata da chi di dovere, e che si circumnaviga nel giro di un quarto d’ora. Durante le concitate fasi del salvataggio, uno dei diportisti ha chiesto ai militari il trasbordo veloce dalla sua barca al gommone della Guardia costiera fatto apposta per questo tipo di operazioni, ma gli è stato detto di no: «Dobbiamo rispettare i protocolli» ha chiarito – imperturbabile – un uomo in divisa.
Questa risposta, fredda e disumana, riassume perfettamente il senso delle cose. Di fronte a un’umanità in fuga da guerre e miseria, di fronte al bisogno umano di spostarsi e di vivere, si erge una burocrazia insensibile ed estranea. È questa burocrazia che uccide gli immigrati, ancor prima degli episodi singoli che provocano materialmente le tragedie.
Basti pensare che i superstiti del naufragio, appena qualche giorno dopo dal disastro, sono stati inscritti nel registro degli indagati per il reato di immigrazione clandestina. Un atto dovuto, hanno spiegato alla Procura di Agrigento, in virtù della legge Bossi-Fini. Ecco come funziona lo stato, ecco come funzionano le sue leggi. Quelle stesse leggi che innescano paure e ritrosie anche nei lavoratori del mare, i pescatori che, tante volte, incrociando nelle loro rotte le carrette cariche di immigrati, preferiscono lanciare l’allarme guardandosi bene dal prestare alcun tipo di soccorso per non incorrere nell’odiosa accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e nel conseguente sequestro del peschereccio, unico e insostituibile strumento di lavoro. 
Non si vuole, qui, né generalizzare né puntare il dito. In moltissime occasioni, infatti, pescatori e diportisti siciliani hanno salvato vite umane senza derogare all’universale e atavica legge del mare che impone il mutuo soccorso al di là di ogni confine. Quello che si sottolinea, in questa sede, è la funzione terroristica delle attuali norme sull’immigrazione e, soprattutto, la maniera terroristica con la quale esse vengono applicate. Persino i trattati internazionali obbligano il salvataggio in mare, e il reato di favoreggiamento è comunque subordinato soltanto a determinate fattispecie, e dovrebbe essere segnalato nel corso degli appositi pattugliamenti predisposti dalle autorità competenti. Invece, questa minaccia viene fatta incombere sulle persone indiscriminatamente, a prescindere dai contesti concreti.
Non sappiamo nemmeno se sia il caso di riferire sulle dichiarazioni degli esponenti politici di tutti gli schieramenti all’indomani della tragedia. Grande dolore, grande commozione, grande indignazione, da destra a sinistra. Perfino il capo dello stato ha suggerito, bontà sua, la necessità di rivedere le norme sull’immigrazione in Italia. Peccato però che si tratti dello stesso Giorgio Napolitano che firmò nel 1998 – insieme a Livia Turco – la prima famigerata legge che istituì i centri di detenzione per immigrati e sulla quale fu impostato l’impianto normativo della Bossi-Fini, che tutti – oggi – criticano da sinistra. Dall’altra parte, gli esponenti di quel che resta del Popolo della Libertà cadono letteralmente dalle nuvole, difendono la Bossi-Fini, e scaricano ogni responsabilità sull’Unione europea che «dovrebbe fare di più, e non dovrebbe lasciarci soli». Quello che non si dice è che la Bossi-Fini risponde a un’esigenza che discende direttamente dalla concezione politica ed economica dei confini che delimitano la “fortezza Europa” di cui tante volte abbiamo parlato. In Italia, queste esigenze di dominio sono state declinate tecnicamente, e cavalcate politicamente, da personaggi dell’ultradestra razzista e fascista, con il contorno di un pressapochismo tutto italiano che rende le cose ancora più intollerabili: nessuna idea di accoglienza, gestione perennemente emergenziale dei fenomeni sociali, miopia politica ai limiti del dilettantismo.
Dopo la strage di Lampedusa è il momento del dolore, senza dubbio. Ma il nostro dolore esiste da moltissimi anni, ed è lo stesso, insopportabile dolore che proviamo tutte le volte che sappiamo di una morte, di una mutilazione, di uno stupro, di una violenza che si producono nel contesto della repressione sugli immigrati.
L’unica certezza, che può alleviare il profondo malessere che ci opprime il cuore, sta nella consapevolezza che questa situazione non può durare all’infinito. Le leggi sull’immigrazione sono così antistoriche e disfunzionali, di fronte agli eventi planetari del tempo in cui viviamo, che – prima o poi – dovranno essere profondamente modificate, se non spazzate via. Noi europei siamo senz’altro più fortunati degli “altri”, ma sono moltissimi i segnali che ci fanno capire quanto poco sia destinata a durare questa nostra “fortuna”. La miseria e l’oppressione che oggi bussano alle nostre porte sotto le spoglie di immigrati e profughi sono, per molti versi, delle lugubri presenze che condizionano già adesso le nostre vite di precari, di sfruttati, di senza futuro.
Ci sono due modi per affrontare la questione. Uno è quello irrazionale, egoistico, razzista: gli “altri” non sono come me, che stiano al loro posto, che muoiano. L’altro è quello razionale, squisitamente umano, antirazzista: gli “altri” sono come me, e sono vittime – come me – di quelli che rendono possibile questo scempio attraverso la politica e l’economia.

Alberto La Via “

“Francia- I Rom, capri espiatori ad uso dei politici”.

Fonte: Anarkismo.

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” I Rom, capri espiatori ad uso dei politici


La campagna per le elezioni amministrative è iniziata ed i politici fanno a gara a fare leva sul razzismo.

Per due ragioni: la prima è che secondo loro è ciò che l’elettorato vuole sentirsi dire, e la seconda è che mentre i media non fanno che parlare di questo, la gente non bada alla disoccupazione, alla povertà ed alla distribuzione della ricchezza.

Una settimana la campagna razzista colpisce i musulmani e quella dopo tocca ai Rom.

In Francia ci sono circa 20.000 Rom provenienti dall’Europa dell’Est. L’Unione Europea ha creato un regolamento speciale per i Rom: hanno il diritto di stare ma non quello di lavorare. Niente reddito, niente casa, migrazioni di gruppo… ed ecco disposte le condizioni per la creazione delle baraccopoli di cui i politici ed i media parlano così tanto.

Nel frattempo, crescono le menzogne. L’estrema destra, per bocca del suo portavoce Manuel Valls, dice che i Rom sono destinati a far ritorno nel loro paese di origine oppure che non si vogliono integrare, fatto salvo per pochissime famiglie.

Logicamente, dato che Valls suona la musica che piace al governo su questi temi, sono aumentati gli sgomberi massicci dai campi e dalle baraccopoli: nel 2012, sono state sgomberate più di 11.000 persone da luogo in cui vivevano; nei primi sei mesi del 2013, la cifra è superiore a 10mila. E durante l’estate altre 3.700 persone hanno perso le loro case, che sebbene precarie sono pur esistenti.

Non facciamoci prendere in giro e non facciamoci distrarre. I nemici sono sempre le banche, i capitalisti ed i governi e non i poveri di ogni dove!

Alternative Libertaire

26 Settembre 2013 Traduzione a cura di FdCA – Ufficio Relazioni Internazionali. “

Ci sono molti modi di uccidere una persona…

“Ci sono molti modi di uccidere una persona: si può infilare a qualcuno un coltello nel ventre, toglierli il pane, non guarirlo da una malattia, ficcarlo in una casa inabitabile, massacrarlo di lavoro, spingerlo al suicidio, farlo andare in guerra. Solo pochi di questi modi sono proibiti nel nostro Stato.”

L’aforisma di Bertolt Brecht qui sopra mi torna in mente troppo spesso, ogni volta in cui sento parlare di morti sul lavoro, ossimoriche “missioni di pace” o “interventi umanitari”, privatizzazione della sanità, emarginazione, catastrofi evitabili ma non evitate, sfruttamento, alienazione, respingimenti in mare di migranti, repressione poliziesca ed altro ancora. È anche il primo pensiero che m’è venuto in mente leggendo le motivazioni della sentenza del processo per la morte di Stefano Cucchi: non che mi aspettassi una spiegazione sincera, motivata e priva di palesi contaddizioni per quella che è stata una sentenza che conferma quanto diceva Brecht anni orsono, solo che la certezza, confermata ripetutamente nel tempo, che la giustizia non passa per i tribunali e che pertanto abbiamo ben ragione noi anarchici/che a non credere a quel tipo di “giustizia”, non è di conforto. Il proibizionismo in tema di droghe, l’emarginazione, il pregiudizio, la mala informazione, il sistema di sorveglianza-controllo-punizione e gli attori che fanno in modo che questo sistema continui ad assolvere la funzione di tritacarne per il quale è stato concepito non solo non sono proibiti nel “nostro” Stato, ma ne sono parte integrante. Non è la morte che uccide, essa è solo la conseguenza di una serie di azioni atte a provocarla.

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Per chi volesse farsi un’idea di come si sia svolta la vicenda di Stefano Cucchi consiglio la lettura di un libro doloroso ma necessario, che potere trovare anche qui: http://www.globalproject.info/it/produzioni/non-mi-uccise-la-morte-download-gratuito/5378

Campagna internazionale contro i campi di concentramento per immigrati in Russia.

Nella Federazione Russa vivono circa 11 milioni di immigrati, perlopiù provenienti da Stati dell’Asia centrale in precedenza appartenenti all’URSS, 3 milioni dei quali sono illegali secondo la legge. Questi immigrati, in particolar modo quelli “illegali”, vivono spesso in condizioni precarie o addirittura disperate, se lavorano vengono impiegati in nero senza alcuna garanzia in cambio di salari bassissimi per svolgere mansioni faticose, pericolose ed in genere non qualificate. Perseguitati dalla legge e spesso guardati con diffidenza e disprezzo dalla popolazione locale, spesso vittime di brutali aggressioni a sfondo xenofobo, oggi devono fare i conti con l’ennesimo provvedimento repressivo messo in atto dall’autoritarismo del governo russo. Il governo ha infatti previsto la costruzione di 83 strutture detentive per immigrati illegali in tutta la Federazione. Nei fatti si tratta attualmente di tendopoli spesso prive di corrente elettrica e con servizi igenici scarsi o assenti, nei quali gli immigrati irregolari vengono portati con la forza e guardati a vista da militari armati, senza poter avere contatti con parenti o amici. Esponenti di organizzazioni per i diritti umani e di partiti d’opposizione al governo parlano di violazioni di diritti umani in campi paragonabili ai vecchi gulag di sovietica memoria. Lo scrittore ed attivista per i diritti umani Oleg Kozyrevha ha recentemente scritto che “Il paradosso di un campo di concentramento per illegali è che lo stesso campo è illegale”. Attalmente, dei 600 immigrati inizialmente detenuti in tendopoli sottoposte a sorveglianza armata alla periferia di Mosca, 200 sarebbero stati trasferiti in altre strutture, mentre una trentina di irregolari uzbeki nei giorni scorsi sono stati rastrellati, picchiati ed infine stipati provvisoriamente in un garage moscovita dalla polizia russa. In ogni caso è probabile che i campi che si stanno costruendo in tutte le 81 regioni della Federazione Russa si riempiano velocemente, riservando alle persone detenute un trattamento disumano come quello dei casi citati sopra.

I/le militanti dell’organizzazione anarchica russa Avtonom lanciano un’appello per una mobilitazione internazionale per il periodo dal 29 Agosto al 3 Settembre contro questi campi di concentramento per immigrati, appellandosi alla solidarietà ed al senso di umanità di chiunque, per chiedere la fine delle politiche razziste del governo russo, la chiusura dei campi di concentramento per immigrati e l’abolizione delle barriere legali per l’impiego di lavoratori in Russia.

Carcere – Polo detentivo sardo, lotte dei prigionieri e solidarietà.

Fonte: Informa-Azione.

Riceviamo e diffondiamo:

Prigioni sarde, lotte, solidarietà e aggiornamenti.
Fine primavera – inizio estate 2013.

In Sardegna sono presenti ben 12 prigioni dislocate in tutta l’isola, per un totale di 2097 prigionieri, a queste se ne aggiungeranno presto altre quattro. Pare che almeno due sostituiranno le strutture storiche di Cagliari e Sassari.
La Sardegna ha una triste tradizione di isola galera, sia intesa come galere vere e proprie sia come allontanamento punitivo, isolamento appunto.
I militari più testardi venivano mandati in punizione nei poligoni e nelle caserme sarde, i fascisti mandavano gli oppositori del regime al confino nei paesini dell’entroterra sardo, i romani mandavano i Patrizi scomodi alla repubblica e poi all’impero a gestire il granaio di Roma, ovvero la Sardegna.
Probabilmente il fatto di essere l’unica vera isola (non me ne vogliano i siciliani, ma per vera isola intendo la vera difficoltà nei collegamenti con la penisola) dello stato italiano, di essere storicamente spopolata e di aver avuto spesso dei caratteri resistenti e ostili a invasori e cambiamenti imposti, ha fatto si che venisse individuata come territorio ideale per alcune attività, tra queste le prigioni.
Nel 2013 siamo ancora perfettamente in linea con i ragionamenti che i romani facevano circa 2000 anni fa. Lo stato Italiano ha infatti deciso, come già detto, di costruire quattro nuove mega carceri, di alta sorveglianza e in due casi anche con i reparti di 41 bis, cioè il carcere duro, l’isolamento. Il motivo di questo investimento secondo le dichiarazioni governative è quello di migliorare le condizioni dei prigionieri, dandogli delle celle più grandi, più luminose, meno umide, queste cose per quanto riguarda le carceri sarde sono un obiettivo abbastanza facile da raggiungere in quanto gli stabili attuali versano in condizioni veramente pessime, sovraffollamento esagerato oltre ogni limite di tollerabilità, impianti idrici e elettrici antiquati, celle malsane, assenza di spazi comuni. Nel carcere di Cagliari, le celle di isolamento sono state riadattate a celle comuni per fronteggiare il problema del sovraffollamento.
Parlando delle nuove costruzioni si nota che hanno tutte almeno uno stesso aspetto, sono fuori dai centri abitati, alcune sostituiranno carceri attualmente nel centro delle città. Non si tratta certo di una scelta casuale, è stato fatto per creare dalla prigione un ulteriore avamposto del controllo dello stato sui territori, per evitare i contatti tra il mondo esterno e il mondo interno e per evitare che delle future ondate di lotte e proteste possano coinvolgere un elemento complesso come quello delle prigioni.

Le inaugurazioni delle nuove carceri dovevano avvenire mesi fa; ritardi nei lavori, problemi e mancati pagamenti hanno rallentato i lavori e continuano a spostarne la data di apertura.
Solo il carcere di Bancali (SS) ha aperto i battenti, proprio pochi giorni fa, la ministra Cancellieri è stata ben lieta di tagliare il nastro e dare il benvenuto ad alcuni prigionieri trasferiti dal carcere di San Sebastiano. In realtà a Bancali da un mesetto c’erano già una trentina di prigionieri di mafia.
Per quanto riguarda Uta invece, i circa 600 posti dovrebbero ospitare prigionieri provenienti da tutta l’Italia, per questo da un pò di tempo si vocifera che la chiusura di Buoncammino verrà perlomeno rimandata, in quanto come già detto la struttra è in sovraffollamento e di certo non sono in diminuzione i reati e conseguentemente i nuovi condannati. E’ notizia freschissima che il nuovo mega carcere non aprirà prima del 2014 per ulteriori ritardi e problemi nei lavori.

E fuori?
Da quando sono stati aperti i cantieri delle nuove carceri non c’è stata nessun tipo o quasi di opposizione al progetto, i numerosi posti di lavoro di mano d’opera locale hanno stroncato sul nascere qualunque tentativo di opposizione, in più la perifericità dei siti non ha di certo favorito chi volesse provare a dire qualcosa, oltre l’informazione non si è mai andati. Gli unici ad aver fatto una protesta sono stati gli operai del cantiere di Uta quando quest’inverno hanno smesso di ricevere lo stipendio, per qualche tempo hanno bloccato i lavori, poi lentamente la situazione è rientrata, ma i lavori continuano ad andare a rilento e l’apertura, come già detto, ad essere posticipata. C’è stata anche un’ondata di “indignazione” capeggiata da politici in cerca di riciclo che criticava l’esagerato numero di carceri in Sardegna, che denunciava il rischio di contagio mafioso in caso di trasferimento di capi cosca e reclamava tutti i posti di lavoro per i sardi, non vale la pena dire altro.

Altro…
Negli ultimi mesi qualcosa ha iniziato a muoversi intorno al carcere di Buoncammino, i parenti stimolati dai volantinaggi e dalle chiacchiere con alcuni compagni e compagne hanno iniziato a capire cosa vorrà dire il trasferimento dei loro cari a Uta, il nuovo carcere dista 25 km da Cagliari, in una zona industriale, puzzolente e non collegata con mezzi pubblici, inoltre a Cagliari è abitudine andare appena al di fuori delle mura e chiacchierare con i prigionieri quando si vuole e per quanto si vuole, quest’ultima cosa in particolare sarà assolutamente impossibile, in quanto il nuovo carcere è stato costruito secondo i paramentri di alta sicurezza, cioè con recinzioni lontane dalle mura, mura così alte che a stento si vedono le celle.
Inoltre i prigionieri nell’ultimo mese si sono mobilitati non poco, la prima protesta è scattata il 28 Maggio giorno del corteo a Parma contro il 41 bis,  i prigionieri hanno iniziato lo sciopero del carrello contro le condizioni disumane e contro il 41 bis, il tutto spiegato e rivendicato in una lettera firmata da decine e decine di carcerati, l’assemblea contro il carcere e la Cassa Antirepressione Sarda hanno organizzato due giorni dopo l’inizio dello sciopero un saluto fuori, c’è stata una buona partecipazione e una buona risposta da dentro.
Nelle settimane successive sono stati fatti dei volantinaggi negli orari di visita dei parenti e il 15 Giugno è stato fatto un secondo saluto, con un pò di musica e microfono aperto, i secondini viste le interazioni della volta precedente hanno ammutolito i prigionieri del lato destro che non hanno così potuto partecipare ai cori e alle chiacchiere per il timore di ritorsioni, allo stesso modo è andata dal lato sinistro anche se qua la maggiore vicinanza ha permesso un minimo di dialogo.
Pochi giorni fa, per la precisione il 9 Luglio sera è iniziata una nuova battitura sul lato destro, i prigionieri dell’ultimo piano si sono barricati nelle celle e hanno dato fuoco a suppellettili vari, il resto del braccio li supportava con la battitura, hanno esposto degli striscioni dalle celle contro le condizioni del carcere e contro l’isolamento, la direzione del carcere ha pensato di staccargli acqua e corrente, dichiarando poi che si è trattato di un blackout.
La risposta della repressione non si è però fatta attendere: tre prigionieri sono stati trasferiti a Lanusei allontanandoli dai loro cari e cercando di isolarli per far si che la protesta venisse soffocata. Un nutrito gruppo di solidali tra compagne e compagni parenti ed amici ha organizzato un presidio di solidarietà il 10 luglio, il giorno successivo, che ha cercato di portare appoggio ad una lotta che non potrà risolversi con i decantati trasferimenti nel maxi carcere di Uta ma che troverà soluzione solo nell’abbattimento della struttura carceraria.

La situazione è in divenire, in quest’ultimo mese e mezzo i prigionieri hanno dimostrato di voler lottare per cambiare qualcosa e di non aver paura delle minacce dei secondini e della direzione, non sappiamo se l’inasprirsi delle ritorsioni (i traferimenti) fermerà la lotta, di sicuro noi cercheremo di star vicino e dar manforte con idee, mezzi e determinazione.

Cassa antirepressione sarda ”

Rivolte in Brasile: ancora qualche articolo di controinformazione ed approfondimento.

Giusto ieri, durante l’intervallo della finale di calcio della Confederation Cup trasmessa in Germania dalla rete ZDF, un giornalista in diretta dalle vicinanze dello stadio riportava la notizia di una manifestazione, inizialmente pacifica, dalla quale sarebbe partita un’aggressione da parte di una decina di facinorosi ai danni della polizia, che avrebbe reagito con decisione disperdendo tutti i manifestanti. Il copione “maggioranza di manifestanti pacifici che per colpa di pochi violenti scatenano la repressione delle forze dell’ordine che fanno solo il loro lavoro per l’interesse della comunità” ci viene proposto dai massmedia in Italia ed altrove ad ogni occasione, salvo situazioni di comodo comunque raccontate in modo menzognero (vedi la rivolta turca di Gezi Park e Piazza Taksim), come dimostra quanto ho osservato su un canale “a caso” della tv tedesca, ma la realtà è diversa. Sul sito Contra-Info ho appena trovato un ottimo report (in inglese) sulla rivolta brasiliana, contenente osservazioni interessanti e numerosi video che parlano da se, smentendo le sciocchezze della propaganda massmediatica dalla quale siamo quotidianamente bombardati. Un’analisi efficace, pubblicata anche in italiano su Anarkismo, illustra cause ed obiettivi della rivolta, le conquiste seppur parziali finora ottenute, la strumentalizzazione delle destre, l’incapacità delle organizzazioni di sinistra e la prospettiva della lotta da un punto di vista anarchico: quello che le televisioni non mostrano o mostrano in modo distorto.