Amburgo: “stato d’eccezione”. Come lo Stato gestisce i conflitti sociali.

Durante una manifestazione svoltasi il 21 Dicembre scorso ad Amburgo, in Germania, contro la minaccia di sgombero dello storico centro sociale Rote Flora occupato dal 1989, la polizia ha fatto largo uso dei metodi che è consueta adoperare quando i padroni lasciano sciolto il guinzaglio e danno l’ordine di attaccare. Come se la violenza rappresentata dalle botte e dagli arresti non bastasse, in alcuni quartieri di Amburgo è stato dichiarato lo stato d’eccezione: Ausnahmezustand. Il che significa non solo l’imposizione del coprifuoco nei quartieri colpiti dal provvedimento, ma anche blocchi stradali, agenti in tenuta antisommossa che pattugliano le strade, controlli e fermi arbitrari operati a discrezione degli agenti. Roba degna di un regime dittatoriale insomma, una situazione che mette in luce per l’ennesima volta non solo i metodi di uno Stato intrinsecamente autoritario che ama decorarsi con l’aggettivo “democratico”, ma anche e soprattutto il modo di relazionarsi che le istituzioni hanno spesso nei confronti dei conflitti sociali. Il centro sociale Rote Flora è da tempo al centro di una campagna intimidatoria orchestrata dall’amministrazione cittadina e dagli investitori che da decenni contribuiscono alla gendrificazione di Amburgo, supportati da diversi media nel costruire campagne diffamatorie a base della collaudata formula “degrado e insicurezza” contro quella che è oramai da anni una realtà sociale animata e frequentata da chi si oppone al pensiero unico dominante. La paura delle istituzioni non viene tanto da possibili reazioni allo sgombero dello storico centro sociale, quanto dall’emergere di conflitti maturati all’interno del sistema stesso che, nell’incapacità di risolverli, li gestisce in modo emergenziale, come nel caso dei rifugiati di Lampedusa. Il tutto in una cornice di finta pace sociale in una città con un’amministrazione “di sinistra”, quella stessa sinistra istituzionale sempre pronta a far da sponda al capitalismo ed al suo seguito di nefandezze usando metodi che non hanno nulla da invidiare a quelli solitamente attribuiti alla “destra”, ma che farebbe meglio a tenere presente che anche le peggiori misure autoritarie troveranno sempre l’opposizione di chi non si piega all’omologazione e alla logica dominante. Già nei giorni scorsi gruppi di centinaia di cittadini e solidali hanno sfidato i divieti di assembramento e circolazione organizzando passeggiate nei quartieri amburghesi (San Pauli, Sternschanz, Altona) sottoposti alle misure restrittive, mentre altre manifestazioni di solidarietà si sono svolte in altri centri tedeschi, ad esempio a Francoforte.

Manifesto per un Capodanno anticarcerario, ovunque!

Capodanno fuori dalle carceri! Dappertutto davanti ai centri di espulsione e agli istituti penali!

Le manifestazioni rumorose di fronte alle prigioni sono una tradizione che resiste in alcune parti del mondo, per ricordare durante il cambio d’anno coloro i/le quali sono tenuti/e prigionieri/e dallo Stato. Un modo per esprimere solidarietà alle persone detenute. Sia di fronte alle carceri che ai centri di esplusione*, dove vengono detenute persone prive di documenti o con i documenti sbagliati, vogliamo riunirci insieme per rompere l’isolamento e la solitudine. Questo sistema carcerario non è riformabile, perchè è sbagliato alla radice, qui e ovunque. Non crea persone migliori, non contribuisce a risolvere i conflitti sociali. La coesistenza dominante basata sulla concorrenza e sull’ingiustizia rinchiude le persone o le espelle, da un lato per allontanare da sè ciò che è problematico, dall’altro per spaventare e statuire esempi per chi è alla disperata ricerca di libertà. Che le persone siano rinchiuse perchè hanno rubato o danneggiato la proprietà, perchè hanno viaggiato senza biglietto**, perchè per assenza di prospettive o timore di venir perseguitate sono fuggite dalla loro terra di provenienza- tutto questo si basa su un unico fatto: l’esistenza di norme dominanti che stabiliscono ciò che è sbagliato e ciò che è giusto, ciò che va protetto e ciò che va punito. Leggi e regole stabilite da pochi, alle quali altri a loro volta devono sottomettersi. Questa logica della punizione e della conseguente carcerazione va infranta. Per noi la fine di tutte le strutture detentive è possibile solo all’interno di un processo che rovesci le condizioni attuali nella loro totalità , per rendere possibile un mondo senza sfruttamento ed oppressione. Non importa dove vi troviate, incontratevi a Capodanno di fronte alle carceri, siate rumorosi/e ed esprimete per le strade la vostra idea di un mondo senza dominio e senza coercizione. Vogliamo usare la nostra solidarietà ed il nostro aiuto reciproco per abbattere mattone per mattone tutti questi muri. Vogliamo un mondo senza muri né confini. Lotteremo insieme finchè tutti/e saranno liberi/e”.

Il manifesto, affisso di recente in diverse cittá tedesche, è preso da Contra-Info, la traduzione in italiano è mia. A “lavoro” quasi finito ho scoperto che era già stato tradotto su almeno un altro sito, ma la mia versione, a mio modesto parere, é più corretta e scorrevole e comunque m’é costata una decina di minuti, ‘sticazzi, quindi eccola qui!

*Anche in Germania esistono strutture di detenzione, identificazione ed espulsione riservate a chi non ha la cittadinanza tedesca e si sia macchiato di reati o semplicemente non abbia i documenti in regola per restare nel Paese secondo quanto stabilito dalla legge.

**No, non è un errore di traduzione:in Germania, chi per un motivo o per l’altro viaggia sui mezzi di trasporto pubblici senza biglietto, è recidivo e non può pagare le multe, si vede costretto in molti casi a scontare un periodo di detenzione!

“Lampedusa in Hamburg”, una lotta per la sopravvivenza.

Dopo il vertice dei 28 capi di Stato europei all’indomani dalla strage di migranti nelle acque di Lampedusa, nulla è cambiato nelle politiche sull’immigrazione della Fortezza Europa. Eppure l’emergenza rimane: dico emergenza, ma non mi riferisco a quella sbandierata dai massmedia integrati nella società dello spettacolo, che citano cifre allarmistiche e casi simbolici  per spaventare l’opinione pubblica con lo spauracchio dell’invasione di migranti da oltremare, ma intendo quella che devono quotidianamente affrontare quelle persone che, una volta sopravvissute a guerre, dittature, carestie ed al viaggio fino alla porte d’Europa, si trovano lasciate a se stesse, impossibilitate ad avere un tetto sulla testa, un lavoro, assistenza sanitaria, garanzie di qualsiasi tipo se non quella di venir costantemente minacciati di rimpatrio. È questa la quotidianità di un gruppo di 300 immigrati africani che oggi si trovano ad Amburgo, fuggiti dalla Libia durante la guerra civile ed i bombardamenti della NATO, approdati a Lampedusa e, una volta finita ufficialmente l’emergenza all’inizio del 2013, spediti con documenti provvisori e 500 Euro in tasca verso un futuro incerto. Approdati ad Amburgo, i trecento scoprono di non avere nessun diritto, nessuna garanzia, nessuna prospettiva. Le istituzioni tedesche vorrebbero identificarli, ma loro si rifiutano, temendo di poter essere rispediti in Italia, palleggiati tra uno Stato e l’altro. D’altra parte questo è quel che prevede il Regolamento Dublino II, i rifugiati possono chiedere asilo solo nel primo Paese europeo sul quale abbiano messo piede al loro arrivo. L’Italia, in questo caso, che si è sbarazzata di loro appena possibile. I 300 rifugiati, costretti inizialmente a vivere per strada e sottoposti a stretta sorveglianza da parte della polizia, hanno però avuto la determinazione di organizzarsi in un gruppo compatto, un’associazione ribattezzata “Lampedusa in Hamburg” , ricevendo l’aiuto da parte della locale chiesa evangelica luterana di St.Pauli, di organizzazioni antirazziste e di altri/e cittadini/e di Amburgo. Una serie di iniziative di solidarietà concreta e di proteste a sostegno dei rifugiati ha avuto e sta avendo luogo ad Amburgo: un’ottantina di membri di “Lampedusa in Hamburg” ha trovato accoglienza e rifugio nella chiesa di St.Pauli, numerose sono state le donazioni di abbigliamento, calzature e generi di prima necessità da parte di privati cittadini, mentre diverse iniziative di lotta si sono svolte nella città portuale. Dopo la prima azione di protesta avvenuta nel municipio di Amburgo a fine Maggio a seguito dello sgombero di una tendopoli situata nei pressi della stazione centrale, alla quale parteciparono circa 60 persone che dispiegarono lo striscione “Non siamo sopravvissuti alla guerra della NATO in Libia per morire nelle strade di Amburgo”, ci sono state altre due consistenti manifestazioni a Giugno ed Agosto, con la partecipazione rispettivamente di 1500 e 2500 persone.

Non sono mancate le intimidazioni poliziesche, le identificazioni di manifestanti ed alcuni arresti, mentre l’amministrazione cittadina ha proibito alla chiesa di St.Pauli di offrire ulteriore accoglienza ai rifugiati, ai quali ha precluso anche l’alloggio in dormitori adibiti al pernottamento dei senzatetto. La stessa settimana in cui centinaia di migranti morivano nel tentativo di raggiungere Lampedusa, la polizia lanciava l'”Operazione Lampedusa”, durante la quale venivano identificati ed arrestati una dozzina di membri di “Lampedusa in Hamburg”. A seguito di questi ed altri arresti operati nei giorni successivi si sono svolte diverse manifestazioni, spesso non autorizzate ma molto partecipate (dalle 800 alle 2000 persone) per denunciare la violenza poliziesca ed il trattamento razzista riservato ai richiedenti asilo. Anche lo storico centro sociale amburghese Rote Flora ha preso posizione a fronte dei controlli arbitrari su base razzista, degli arresti e della politica di terra bruciata operati dalle istituzioni nei confronti dei richiedenti asilo, lanciando un ultimatum all’amministrazione cittadina (“interrompete i controlli razzisti nei confronti dei membri di Lampedusa-in-Hamburg o aspettatevi ripercussioni”) e prendendo parte ad una manifestazione di 2000 persone che ha visto compiere azioni dirette nel quartiere di Sternschanze. Dal momento in cui le istituzioni hanno deciso di perseverare ne loro atteggiamento razzista e repressivo, sono proseguite le iniziative politiche in sostegno dei rifugiati, con cortei, blocchi stradali, biciclettate in stile “Critical Mass”, azioni informative e tentativi di impedire i controlli razzisti. Anche a Rostock si è svolta una manifestazione di solidarietà sotto lo slogan “Refugees Welcome!”, alla quale hanno preso parte 1500 persone. Le iniziative di lotta e sostegno al gruppo Lampedusa-in-Hamburg continuano ancora in questi giorni, finchè ai rifugiati non verrà garantito il diritto a rimanere nella cittá di Amburgo.

(Per altre informazioni e notizie attuali sul caso dei 300 richiedenti asilo del gruppo “Lampedusa in Hamburg” consiglio di visitare il sito http://lampedusa-in-hamburg.tk/)

Una mia considerazione a margine della vicenda: quella del gruppo “Lampedusa in Hamburg” e dei suoi solidali sostenitori è una lotta per la legalizzazione ed il riconoscimento dei diritti di un gruppo specifico. Ciò non significa che si tratti necessariamente di una lotta riformista e di ciò sono consapevoli molti/e dei/lle quali sono parte di questa battaglia. Il loro obiettivo va oltre la volontà di un mero riconoscimento istituzionale dei richiedenti asilo, l’obiettivo finale è quello di un mondo senza Stati né frontiere, nel quale le persone siano libere di spostarsi senza controlli e vessazioni di tipo burocratico e poliziesco. Un mondo nel quale però nessuno/a sia costretto a fuggire dalla terra nella quale è nato/a a causa di condizioni di vita inaccettabili, ma nel quale gli spostamenti nascano da una decisione priva di forzature di sorta. La costruzione di un mondo diverso da quello nel quale viviamo ora inizia anche dal sostegno diretto e immediato alle lotte di chi avanza rivendicazioni tutto sommato minime, cresce spingendo sulle contraddizioni più evidenti del sistema e creando nuova coscienza, fino alla messa in discussione totale del vigente ordine economico, sociale e politico ed alla realizzazione pratica di alternative concrete in chiave libertaria e antiautoritaria.

Hambacher Forst: resistenza contro la centrale elettrica a carbone.

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Hambacher Forst è un’antichissima foresta (12mila anni!) che originariamente comprendeva 5500 ettari di terreno (oggi ne restano solo 1100), situata nella regione tedesca della Renania Settentrionale-Westfalia. Già dal XVI Secolo esisteva una rigida regolamentazione a salvaguardia della foresta, ma nell’epoca contemporanea, specialmente dal 1978 in poi, l’industria mineraria del carbone ha portato alla parziale distruzione dell’aera boschiva. Quel che rimane di Hambacher Forst, con i suoi alberi secolari ed alcune specie animali e vegetali in pericolo d’estinzione, è oggi minacciato dal progetto di costruzione di una centrale elettrica a carbone ad opera dell’azienda RWE, il più grosso produttore di CO2 su scala europea. Mentre in Germania si parla tanto di svolta a favore di energie “pulite” e rinnovabili prevedendo l’addio definitivo, almeno teoricamente, a fonti di energia inquinanti e pericolose, esistono ancora colossi del settore energetico che mettono in pericolo l’ambiente e la salute umana in nome del profitto. La distruzione della foresta per far posto ad una centrale elettrica a carbone è legale: le leggi tedesche dicono che si può fare, in barba alle specie animali e vegetali che popolano Hambacher Forst, alla faccia della salute degli/lle abitanti delle città che sorgono in prossimità della futura miniera, nonostante anche i costi economici dell’inquinamento non ricadano su chi lo produce. È illegale invece resistere contro un simile progetto, chi lo fa rischia di scontrarsi con la violenza della polizia e di beccarsi denunce, processi, sanzioni economiche e carcere. La differenza tra ciò che è legale e ciò che è giusto è sotto gli occhi di tutti, chi decide di opporsi a simili progetti di devastazione ambientale compie una scelta in base alla propria coscienza, a ciò che ritiene legittimo e necessario- anche per il bene della comunità e dell’ambiente.

È per questo che la resistenza alla distruzione di Hambacher Forst non manca, nonostante chi la porta avanti sappia quali siano i rischi ai quali va incontro. Ispirati da movimenti contro la distruzione di foreste e contro la produzione di energia carbonifera, diverse persone hanno dato vita ad una serie di azioni e progetti per salvare l’area boschiva, prima fra tutte la sua occupazione nell’Aprile 2012 e, dopo il violento sgombero da parte della polizia nel Novembre successivo (durante il quale un singolo attivista riuscì a tenere in scacco per quattro giorni le forze dell’ordine rintanandosi in un cunicolo sotterraneo appositamente scavato prima di essere tirato fuori), la rioccupazione di alcuni prati ai margini della foresta. Tra le altre azioni messe in campo dagli/lle attivisti vi sono l’adozione di alberi dell’ Hambacher Forst, la partecipazione a camping ecologisti, l’organizzazione di tour in bicicletta, manifestazioni e presidi informativi in diverse città tedesche. Le attività intraprese per salvare quella che ormai può essere definita l’ultima foresta millenaria d’Europa continuano, per evitare l’ennesimo scempio ambientale i cui costi in materia di inquinamento, danni alla salute e impoverimento della biodiversità ricadranno inevitabilmente su tutti, soprattutto sulle future generazioni.

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Per altre informazioni (in tedesco e inglese) su Hambacher Forst e sulle lotte passate, presenti e future di chi la difende: http://hambacherforst.blogsport.de/

Per sostenere gli/le attivisti/e con offerte (in denaro e non):http://hambacherforst.blogsport.de/kontakt/was-wird-benoetigt/

Un parco, sfumature e prospettive.

No, non ho deciso di scrivere un pezzo sulla pittura impressionista, come si potrebbe pensare leggendo il titolo qui sopra. Sto pensando a ciò che accade in Turchia da cinque giorni a questa parte: è scoppiata una rivolta estesa e pertecipata nata dall’esigenza di difendere il parco di Gezi a Istanbul, minacciato di distruzione per far posto ad un centro commerciale e ad una moschea. La polizia è “diventata” violenta e i manifestanti non sono rimasti a guardare, cosicchè al quinto giorno di proteste si contano tre morti e 2500 feriti (dato fornito dall’associazione dei medici turchi) tra i manifestanti, mentre il governo, per bocca del vicepresidente Bulent Arinc, lamenta il ferimento di 244 poliziotti a fronte di “soli” 64 manifestanti feriti. Potrebbe stupire il fatto che decine di migliaia di persone siano scese in piazza pronte a tutto per difendere un parco, ma ho come la netta impressione, leggendo alcuni approfondimenti sulla vicenda, che il tentativo di imporre  questa ennesima decisione contro l’interesse di gran parte della popolazione abbia rappresentato la classica goccia che fa traboccare il vaso: la speculazione edilizia, la marginalità, la precarietà, lo sfruttamento e la risposta violenta delle autoritá per nulla inclini al dialogo sono gli elementi principali che hanno creato l’esplosione alla quale ora assistiamo. Il fatto che il governo turco continui a minimizzare la violenza delle forze dell’ordine tentando allo stesso tempo di dividere i manifestanti in moderati ambientalisti ed estremisti violenti e destabilizzatori ( da rintracciare soprattutto, sempre a detta del vicepremier, nei partiti d’opposizione) non è nulla di nuovo. A me fa ridere (amaramente) il fatto che i telegiornali tedeschi parlino di abusi di polizia e sostengano che i manifestanti siano dalla parte della democrazia, quando ch vive in Germania dovrebbe sapere benissimo che le forze dell’ordine il 30 Settembre 2010 a Stoccarda, per sgomberare un parco difeso pacificamente anche da studenti minorenni e pensionati ha fatto ricorso a manganellate, spray al pepe ed idranti (questi ultimi anche contro persone arrampicate a diversi metri d’altezza sugli alberi, il che significa potenzialmente un tentato omicidio) provocando più di trecento feriti, uno dei quali ha perso la vista. Chi difendeva quel parco a Stoccarda lo faceva contro il progetto ferroviario “Stuttgart 21”, messo fortemente in discussione da numerosi cittadini per motivi ambientali, paesaggistici ed economici, ma anche perchè si trattava di un progetto deciso dall’alto a vantaggio degli interessi economici di alcune grosse imprese ed istituzioni senza consultare la cittadinanza. Da che parte stava in quel caso la democrazia? Non erano evidenti gli abusi di potere (che, non mi stancherò mai di ripeterlo, è già di per sè un abuso) e l’uso indiscriminato della violenza da parte degli apparati statali? I bei discorsi valgono solo se certi episodi accadono lontani da casa nostra e i “cattivi” sono i governi degli “altri”? Allo stesso modo mi chiedo cosa ne pensi il ministro degli Affari Esteri Emma Bonino, che giudica eccessiva l’azione delle forze dell’ordine in Turchia, della strategia usata dalle forze dell’ordine in Italia contro gli/le attivisti/e che da anni lottano per difendere le loro terra dal mostruoso progetto del TAV. Magari sarebbe opportuno rinfrescare la memoria a ministri e giornalisti, in Italia, Germania e ovunque, su cosa sia la violenza di Stato a prescindere dal Paese nel quale viene esercitata e su come la risposta popolare possa essere tenace e, perchè no, vittoriosa.

Riaperto il processo per i risarcimenti ai familiari delle vittime del massacro di Kunduz.

Il 4 Settembre del 2009 a Kunduz, Afghanistan, due aerei militari statunitensi bombardavano due camion cisterna di carburante (destinati a rifornire strutture delgli eserciti di occupazione) precedentemente sequestrati da guerriglieri afghani, nelle immediate vicinanze dei quali si trovavano numerosi civili intenti a prelevare benzina. Il bilancio del bombardamento, secondo fonti NATO, è stato di 142 tra morti e feriti, tra i quali numerosi bambini. L’ “uomo” che diede l’ordine di bombardare, mentendo in parte ai piloti stessi che compirono l’azione, era un ufficiale tedesco, Georg Klein.
Klein non solo non è stato mai condannato per il massacro (al contrario dei due piloti che ricevettero in seguito al bombardamento da loro compiuto sanzioni disciplinari, nonostante avessero ripetutamente messo in discussione l’ordine ricevuto prima di eseguirlo), ma è stato addirittura promosso generale. La Germania ha offerto ai familiari delle vittime del massacro 5000 Dollari ciascuna; lo stipendio di un generale di brigata dell’esercito federale tedesco è di 11000 Euro mensili. Ora, dopo che diverse indagini a suo carico sono state sospese, Klein si trova di nuovo a dover fare i conti con un processo. Alcuni familiari delle vittime del massacro di Kunduz chiedono risarcimenti più alti e sono riusciti, anche grazie al reperimento di nuove prove, ad ottenere un nuovo processo, iniziato ieri 17 Aprile presso il tribunale superiore (Oberste Landgericht) di Bonn. Di fronte al tribunale, ridecorato per l’occasione da ignoti, hanno protestato 30/40 antimilitaristi/e, per ricordare che quanto avvenuto a Kunduz il 4 Settembre del 2009 è stato un massacro a danno di civili e che dagli eserciti non ci si può aspettare nulla di diverso.
(Sui muri del tribunale imbrattati con vernice rossa si possono leggere le scritte “COLONNELLO KLEIN=ASSASSINO” e “KUNDUZ=MASSACRO [ad opera]DELL’ESERCITO TEDESCO”).

Catastroika.

“Catastroika- Privatisation Goes Public” è un documentario greco del 2012, realizzato da Aris Chatzistefanou e Katerina Kitidi, che tratta il tema delle privatizzazioni di servizi pubblici. Prodotto con un budget limitato, ha raggiunto milioni di persone grazie anche alla sua distribuzione su internet attraverso canali gratuiti. L’analisi del documentario mette in relazione crisi economica, ideologia neoliberista, autoritarismo e privatizzazioni, spiegando dinamiche e conseguenze di un processo tutt’ora in corso non solo in Grecia. Quella che potrebbe sembrare a prima vista una presa di posizione in favore del monopolio statale su determinati settori dell’economia si rivela essere (specialmente nella parte finale dell’opera) un’invito ad una maggiore democratizzazione dell’economia in chiave partecipatoria, concetto a mio parere valido e interessante, ma poco sviluppato in questa occasione dagli/lle autori/trici del documentario.  Nella versione che ho deciso di pubblicare qui, è possibile attivare i sottotitoli in diverse lingue selezionando quella preferita cliccando sulla prima icona che si trova in basso a destra nella schermata del video. Buona visione e, come sempre, se vi piace diffondete!

“Febbraio nero”: azioni dal mondo.

L’appello per una campagna di solidarietà con gli spazi occupati e i/le compagni/e anarchici/che nel mondo ha ricevuto risposta a livello internazionale sotto forma di azioni dirette di diverso tipo. Dalla Germania al Cile, dalla Spagna alla Grecia, dall’Argentina all’Australia, dal Portogallo all’Austria, sarebbe difficile elencare tutte le azioni che, con tempi e in modi diversi, sono state messe in campo da individualità e gruppi che non lasciano che la parola “solidarietà” rimanga un semplice concetto teorico, ma si impegnano per tradurla quotidianamente in pratica concreta. Uno sguardo d’insieme sulle azioni per il “Febbraio Nero” lo si può avere consultando il sito “Fight Now”, le foto postate di seguito sono solo un piccolo esempio:

MESSICO:

critical-mass-tlanepantla

GERMANIA:

solidemo1

78257

CILE:

DSC01436

Febrero negro

EQUADOR:

ACTIVIDAD 15 FEBRERO

AUSTRIA:

demo_in_a_side_street

SPAGNA:

lumaca

PERÚ:

lima

AUSTRALIA:

ARGENTINA:

buenos aires febrero negro

PORTOGALLO:

Capodanno contro il carcere, non solo in Italia.

Anche per questo fine anno sono stati organizzati in diverse parti d’Italia presidi e manifestazioni di solidarietà nei pressi di strutture detentive. Alcuni degli appuntamenti avranno luogo a Bergamo, Cosenza, Como, Tolmezzo (Udine), tutti il 31 Dicembre 2012. L’intento non è solo quello di dimostrare la propria solidarietà e vicinanza alle persone detenute denunciando allo stesso tempo le condizioni attuali delle carceri in Italia, ma anche e sopratutto quello di criticare l’esistenza stessa di ogni galera e della logica che le produce. Anche in altri Paesi, ad esempio in Germania, sono previste manifestazioni anticarcerarie per lo stesso giorno in diverse città.