Immigrati, le vittime nascoste dell’austerità in Grecia.

“Into the Fire” è un documentario indipendente sulla situazione degli immigrati in Grecia, vittime di umiliazioni, soprusi e violenze da parte degli apparati dello Stato e dei neonazisti di Alba Dorata. Diffuso sul web lo scorso 21 Aprile, il documentario è stato finanziato tramite il metodo del crowd funding e tradotto in diverse lingue (per selezionare i sottotitoli cliccare sul simbolo corrispondente in basso a destra).

Iniziativa sul caso di Giuseppe Uva al Kinesis di Tradate (Varese).

Fonte: Kinesis Tradate.

neisecoli_locandina

” VENERDÌ 18 GENNAIO 2013 ore 20.30
al KINESIS via carducci 3 TRADATE
proiezione gratuita del documentario
NEI SECOLI FEDELE. Il caso di Giuseppe Uva
dopo la proiezione interverrà Lucia Uva, sorella di Giuseppe

La notte del 14 giugno 2008 Giuseppe Uva viene fermato dai carabinieri Dal Bosco e Righetto di Varese e portato nella caserma di Via Saffi, insieme al suo amico Alberto (sono presenti anche degli agenti di polizia). Ed è proprio Alberto a richiedere i primi soccorsi al 118, quando sente il suo amico gridare «Ahi! Ahi! Basta!», ma l’operatore all’altro capo del telefono, dopo averlo rassicurato «Va bene, adesso mando l’ambulanza», chiama in caserma e si accorda coi carabinieri per non inviare alcun aiuto «Sono due ubriachi, ora gli togliamo il cellulare». Saranno poi gli stessi carabinieri, poche ore dopo, a chiamare una guardia medica, che richiederà all’Ospedale di Circolo di Varese di effettuare un T.S.O. (Trattamento Sanitario Obbligatorio). Il corpo di Giuseppe è pieno di lividi, il suo naso è rotto, i suoi testicoli sono blu, la sua pelle è segnata da alcune bruciature di sigaretta, dal suo ano esce del sangue che forma una grossa macchia sui pantaloni, ma non viene curato per le lesioni e niente di tutto ciò viene trascritto sui documenti del ricovero. Gli vengono però somministrati dei tranquillanti. Egli inoltre racconta alla psichiatra di essere stato brutalmente pestato in caserma: ma da parte dell’Ospedale non parte nessuna denuncia. La stessa psichiatra aspetterà ben tre anni e mezzo per raccontare queste tragiche parole di Giuseppe, probabilmente le sue ultime. Tutti fingono di non vedere, di non sapere. Tutti fingono che tutto ciò sia normale. Anche quando Beppe, dopo poche ore, muore. E infatti, nonostante il suo corpo presenti evidenti segni di violenza la magistratura sceglie di indagare solo un paio di medici, attribuendo la morte di Uva ad una errata somministrazione di farmaci, e non a quanto avvenuto in precedenza in caserma. Ma le perizie smentiscono questa ipotesi: Giuseppe non è morto a causa dei farmaci, che in nessun caso potevano ucciderlo; le cause della sua morte sono invece da ricercarsi in un mix di fattori, fra cui le misure di contenzione ed i traumi da corpi contundenti che ha subito. Nonostante questo, ad oggi nessun carabiniere o poliziotto è indagato per quanto accaduto e l’unico testimone presente quella notte non è mai stato sentito dal giudice. La verità su quanto accaduto, è ormai sotto gli occhi di tutti. Carabinieri, Polizia di Stato, Magistratura, 118, Pronto Soccorso, Reparto di Psichiatria: la sintonia con cui hanno agito o lasciato agire è il risultato di comportamenti ed abitudini a lungo tramandate. Le responsabilità per la morte di Giuseppe non possono essere ricondotte al singolo gesto, al singolo uomo, al singolo momento. Esse piuttosto perdurano nel riprodursi continuo di gesti di dominio e sottomissione. La violenza, di tutti gli sbirri di tutto il mondo, è resa possibile solo dal collaborazionismo, dall’indifferenza, e dal silenzio di tutti quegli altri che nella loro complicità si fanno un po’ sbirri anch’essi. Ma aldilà di ogni democratico tribunale (o divino, o politico) cui non chiediamo giustizia, crediamo che l’assassinio di Giuseppe ci riguardi tutti. Così come la storia antica e comune della violenza di coloro che si sono resi forti grazie alla collaborazione di alcuni fra i presunti deboli. Così come la comune necessità di riscossa contro gli oppressori e i loro sgherri. Adesso.

NEI SECOLI FEDELE. Il caso di Giuseppe Uva è un documentario ideato da Adriano Chiarelli (già autore del libro Malapolizia) per la regia di Francesco Menghini. Ricostruisce le ultime ore di vita di Giuseppe Uva, la battaglia per la verità portata avanti dalla sorella Lucia e la conseguente vicenda giudiziaria. Inoltre, attraverso le voci dei suoi amici e parenti, restituisce la figura di Beppe al suo ambiente, ai suoi luoghi, alle sue abitudini, alla sua dignità continuamente negata dalle istituzioni dopo la sua morte. ”

“Remember, remember, the days of December…”

Nel ricordare la morte del giovanissimo Alexis Grigoropoulos, ammazzato a sangue freddo quattro anni fa da due sbirri nel quartiere ateniese di Exarchia, e gli eventi che ne conseguirono, un’insurrezione popolare che durò fino alla vigilia di Natale del 2008, avrei voluto scrivere qualcosa di mio pugno. Mi sarebbe piacuito parlare di un libro, “We are an image from the future”, che raccoglie comunicati, analisi, testimonianze degli eventi successivi alla morte di Alexis. Avrei magari ricordato per l’ennesima volta, visto che il calendario è beffardo e la Storia è costellata di episodi in qualche modo simili, che lo Stato uccide, in qualsiasi luogo e tempo, spesso con motivi e scopi ben precisi, a volte solo perchè ciò è il risultato del monopolio della violenza giustificato dalla presunta incapacitá dell’essere umano di autogestire liberamente i rapporti sociali ed economici secondo il libero accordo tra individui, senza coercizione. Avrei detto tutto ciò in modo più esteso di quanto non abbia fatto ora, ma in fondo a che serve quando la realtá dei fatti è di fronte agli occhi di tutti noi e richiede solo uno sforzo collettivo per essere capita? La gente ha semplicemente paura di riconoscerlo, riconoscere che siamo stati ammaestrati, divisi  in categorie fittizie ed aizzati l’uno contro l’altro, controllati e ingabbiati secolo dopo secolo ed ora abbiamo paura di perdere le nostre certezze, le nostre abitudini, la nostra sicurezza, la prevedibilitá di eventi basati su dinamiche decise da altri, abbiamo paura di saltare nel vuoto creando un mondo diverso da quello nel quale viviamo, senza affidarci a leaders o messia che promettono falsi cambiamenti solo per lasciar tutto come sempre, in un circolo vizioso che non è altro che l’adeguamento dello sfruttamento e dell’oppressione secondo le necessitá del momento. Finchè continueremo ad avere paura di cambiare realmente e radicalmente le cose il futuro sarà sempre e solo una proiezione sbiadita di ciò che potrebbe essere stato se… e non il prodotto delle nostre azioni consapevoli.

Ancora qualcosa a riguardo:

“Siamo Un’Immagine Dal Futuro”.

Speriamo che oltre alla vergogna perdano pure qualcos’altro…

Articolo tratto da Umanità Nova (online) dell’ 8 Luglio 2012, n.24 anno 92.

” Sbirri senza vergogna

Federico Aldrovandi
Sbirri senza vergogna

«Che faccia da culo che aveva sul tg…una falsa e ipocrita…spero che i soldi che ha avuto ingiustamente possa non goderseli come vorrebbe…adesso non sto più zitto dico quello che penso e scarico la rabbia di sette anni di ingiustizie» e ancora «Infatti è successo un fatto analogo a Trieste dopo il nostro, con delle responsabilità reali da parte dei colleghi e nessuno ne ha saputo nulla, io mi vergognerei di usare la politica e la mediaticità per far valere una falsa giustizia…VEGOGNATEVI TUTTI COMUNISTI DI MERDA…». Questo è quanto ha scritto su un social network il poliziotto Paolo Forlani, un assassino, che ha ucciso nel settembre 2005 a Ferrara, insieme ad altri tre agenti, un ragazzo di 18 anni, Federico Aldrovandi. Le parole erano dirette alla signora Patrizia Moretti, la madre del ragazzo assassinato. La Cassazione, il 21 giugno 2012, aveva reso definitiva la condanna a 3 anni e 6 mesi di reclusione per omicidio colposo ai 4 poliziotti Paolo Forlani, Monica Segatto, Enzo Pontani e Luca Pollastri. In particolare la quarta sezione penale aveva respinto il ricorso presentato dalla difesa dei 4 agenti contro la condanna che era già stata emessa dalla Corte d’Appello di Bologna il 10 giugno del 2011. Secondo la sentenza l’agire dei poliziotti ha trasceso i limiti consentiti: Federico è deceduto, dunque, per un arresto cardiaco a seguito del pestaggio da parte dei poliziotti, e non riferibile, in alcun modo, all’abuso di stupefacenti. Inoltre c’è stata senz’altro cooperazione colposa nella condotta degli agenti, per via della comune scelta di azione, della consapevolezza di agire insieme, fattore che gli imponeva di controllare anche l’azione dei colleghi e nel caso di regolarla. Ma nessuno dei poliziotti è andato in carcere, visto che 3 anni sono coperti dall’indulto…e neanche hanno rischiato il posto di lavoro, infatti sono ancora tutti in servizio ma trasferiti in un’altra città. Le dichiarazioni dell’agente erano state postate sulla bacheca interattiva del gruppo «Prima Difesa», amministrato da Simona Cenni, neofascista (ex-coordinatrice regionale di Azione Sociale-Marche) che «tutela gratuitamente per cause di servizio tutti gli appartenenti alle Forze dell’Ordine e Forze Armate». Tra i commenti, oltre a quello del poliziotto condannato, c’è qualcuno che paragona Federico a un «cucciolo di maiale» e la signora Moretti, madre di Federico, ha ritenuto opportuno presentare ai carabinieri di Ferrara una denuncia-querela per diffamazione contro il gruppo-associazione «Prima Difesa». Saputo della querela, Forlani tentò di correre ai ripari chiedendo pubblicamente scusa tramite l’Ansa: “Voglio chiedere perdono per quel mio contegno estemporaneo ed assurdo”, rispedite prontamente al mittente da tutta la famiglia Aldrovandi. “E’ meglio che lasci perdere! Le sue scuse? La coscienza doveva parlargli 7 anni fa all’alba di quella mattina. Non ci può esser assoluzione per ciò che ha detto” ha dichiarato Patrizia Moretti, mentre Lino Aldrovandi, padre di Federico, aggiunge: “… non mi interessa davvero quello che dice, e in merito a Ferrara e ai comunisti di merda, io non sono comunista ma se queste persone hanno collaborato a far emergere la verità, ben vengano, io non ho mai chiuso le porte a nessuno”. Rimane il riferimento di Trieste, che forse alludeva al Commissariato di Villa Opicina, dove ci fu il sequestro di una ragazza ucraina di 32 anni, Alina Bonar Diachuk. In particolare il dirigente dell’Ufficio immigrazione della questura di Trieste, Carlo Baffi, è indagato per omicidio colposo e sequestro di persona in relazione al “suicidio” della ragazza: la giovane è morta il 16 aprile scorso in una cella della questura, dove era stata rinchiusa illegalmente in attesa dell’espulsione. Un suicidio che era apparso da subito poco credibile, e che aveva fatto scattare una indagine che ha portato all’incriminazione di Baffi per sequestro di persona e omicidio colposo. Durante la perquisizione nell’abitazione dell’agente e nel suo ufficio, all’interno della Questura del capoluogo friulano, i finanzieri e i poliziotti trovarono busti, foto e poster di Mussolini, i libri “Mein Kampf” di Adolf Hitler, la “Difesa della razza” di Julius Evola, “La questione ebraica” di Julius Streicker e altro materiale antisemita. Il suo avvocato, Paolo Pacileo, ha presentato subito un’istanza al Tribunale del Riesame per l’annullamento del verbale di sequestro dei libri e dell’altro materiale, tra cui sei proiettili di pistola non denunciati e una copia della targhetta dell’Ufficio immigrazione delle dimensioni di un foglio protocollo, sulla quale era inserita a destra una foto di Mussolini e a sinistra la scritta “il dirigente dell’ufficio epurazione” in caratteri romani simili a quelli usati nel Ventennio. Proprio il ritrovamento di questa targa innescò la perquisizione della casa di Carlo Baffi. Durante le indagini gli inquirenti hanno sequestrato 49 fascicoli in originale relativi ad altrettanti cittadini extracomunitari anch’essi, in attesa dell’espulsione, detenuti illegalmente al commissariato di Opicina. Una pratica consolidata, un vero e proprio sistema che è assai improbabile che abbia avuto per protagonista il solo Baffi, che però per ora rimane l’unico indagato: le vittime del poliziotto sono, per quello che finora è dato sapere, tutti cittadini stranieri. Pronta la presa di posizione dell’ANFP (Associazione Nazionale Funzionari di Polizia) in sostegno del dirigente dell’Ufficio Immigrazione, che fa polemica politica con la magistratura definendosi fortemente perplessa sul sequestro di oggetti personali e di libri operato presso l’ufficio ed il domicilio del funzionario e lamentandosi dell’acquisizione dei soli testi che costituiscono espressione del pensiero di estrema destra, mentre si sarebbe ritenuto di tralasciare quelli che si riferiscono, per contro, all’ideologia di estrema sinistra. Il sodalizio sindacale poliziesco polemizza insinuando: “se il sequestro effettuato mira all’individuazione di elementi utili ai fini delle indagini, appare evidente come la doverosa documentazione del contestuale possesso di testi di entrambe le nature – peraltro assolutamente fisiologico per un funzionario che, come il collega BAFFI, ha prestato servizio presso una Digos – rischi di essere irrimediabilmente compromessa dalla incomprensibile “obliterazione” di elementi di significato opposto rispetto a quelli di pretesa rilevanza.” L’associazione, quindi, cerca di giustificare Baffi buttandola sul suo lavoro presso la Digos. Ora, d’accordo che un “poliziotto che sa fare il suo mestiere” deve essere informato sulle varie ideologie, però forse non è richiesto ad un funzionario di polizia di possedere nel proprio ufficio e nella propria abitazione busti, foto e poster del duce stile altarini e soprattutto una scritta che paragona il suo incarico con l’ufficio epurazione del regime. Visto che il 70% dei funzionari della Polizia di Stato sindacalizzati si riconosce nell’ANFP, quindi nel comunicato sovracitato, pare evidente che il legame tra neofascismo e Polizia di Stato sia molto stretto, o quantomeno lo è nella cultura, al di la della propaganda ingannevole antistatalista e antipoliziesca di alcuni gruppi o partiti fascisti. Che la polizia italiana fosse fascista lo aveva già dichiarato pubblicamente il quotidiano britannico «Guardian» nel luglio del 2008 in un articolo in cui si occupò dei fatti di Genova. Il giornale londinese spiegava alcune pratiche usate sui civili, picchiati senza pietà, in modo sistematico, non per ottenere una confessione ma semplicemente per il gusto sadico di infliggere un dolore. In un’inchiesta di sette pagine intitolata «La sanguinosa battaglia di Genova», il Guardian denunciò: «Questo non è il comportamento di un gruppo di esaltati. Questo è fascismo». Durante i pestaggi alla scuola Diaz e le torture nel carcere di Bolzaneto, racconta il quotidiano britannico, i poliziotti parlavano in modo entusiastico di Mussolini e Pinochet. I loro cellulari avevano suonerie con le tradizionali canzoni del ventennio. E i prigionieri furono costretti a dire più volte «Viva il Duce» o «Un, due, tre, viva Pinochet». Non stiamo parlando di un fascismo messo in atto da dittatori «con gli stivali neri e la bava alla bocca» ma del pragmatismo di politici dalla faccia pulita. «Il risultato però – dice il Guardian – è molto simile. Genova ci insegna che quando lo Stato si sente minacciato, la legge può essere sospesa. Ovunque».
’Gnazio “

Lo Stato uccide. Per cause naturali.

L’11 Luglio del 2003 muore nel carcere di Livorno Marcello Lonzi, condannato alla detenzione per tentato furto. La versione ufficiale dei fatti attribuisce la causa della morte ad un infarto, ma la madre non ci crede: non può crederci nessuno dopo aver visto le foto del corpo di Marcello, nessuno può credere che una persona con otto costole rotte, due buchi in testa, un polso fratturato e altri evidenti segni di pestaggio sia morta per “cause naturali”. La madre di Marcello Lonzi, Maria Ciuffi, non ha mai smesso di lottare perchè si stabilisse la verità sulla sorte toccata a suo figlio, ma purtroppo non si può pretendere che lo Stato processi se stesso e così il caso é prima stato archiviato e poi, a fine Maggio, anche la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha respinto il suo ricorso contro la giustizia italiana. Ora alla signora Ciuffi rimane solo la beffa di dover pagare migliaia di euro di spese processuali…

“Questa è la storia di un uomo che cade da un palazzo di 50 piani…”

L’Odio (La Haine) è un film francese del 1995 scritto, sceneggiato e diretto da Mathieu Kassovitz. Ambientato sullo sfondo degli scontri avvenuti nelle banlieue di Parigi a seguito del ferimento di un ragazzo fermato dalla polizia (un fatto realmente avvenuto), “L’Odio” racconta una giornata tipo di tre amici alle prese con la precaria vita nel ghetto parigino, una giornata però diversa dalle altre dal momento in cui il loro amico ferito dalla polizia lotta tra la vita e la morte in ospedale e uno di loro, trovata la pistola persa da un agente la notte prima durante gli scontri, giura vendetta nel caso in cui il ragazzo ferito dovesse morire…

I punti forti del film, pensavo mentre lo guardavo, sono sicuramente la caratterizzazione dei personaggi, il realismo abbastanza riuscito della vita quotidiana nel contesto sociale di un quartiere-ghetto e l’ironia che traspare da alcuni dialoghi e scene a volte grottesche nonostante l’atmosfera diciamo pesante della storia di per sè, profondamente drammatica. Non capivo però come molti potessero definire “L’Odio” un capolavoro, almeno finchè non ho visto gli ultimi 10 minuti circa del film: é la caduta, quella della quale si accennava fin dall’inizio, quella che per alcuni é giá avvenuta e che aspetta altri dietro l’angolo, quella che aspetta la nostra società malata che crea situazioni esplosive e poi non é in grado di dare altre risposte se non quelle che possono solo peggiorare la situazione, in un crescendo di problemi evitabili ma non evitati e risolvibili ma mai risolti, semmai acuiti. Sì, un capolavoro, questo film, la nitida foto di una catastrofe reale.

http://www.youtube.com/watch?v=vA5JyLHM6iI

 

Manifestazione nazionale a Pisa in ricordo di Franco Serantini.

A quarant’anni dalla morte dell’anarchico Franco Serantini, ucciso a Pisa dalla violenza di Stato mentre si opponeva ad un comizio fascista, l’assemblea degli anarchici toscani organizza per il 12 Maggio prossimo una manifestazione nazionale per ricordare il compagno ucciso e per rilanciare le lotte ed i valori nelle quali anche Franco credeva. Gli anarchici toscani che organizzano l’iniziativa scrivono tra l’altro nel loro comunicato-appello:

“Franco Serantini faceva parte del gruppo anarchico Pinelli di Pisa, che aveva sede in via San Martino. La volontà di lottare per una società di liberi e di eguali lo univa ai compagni ed a tanti altri giovani proletari, in una fase di grande fermento sociale; era sicuramente una pagina nuova della sua giovane e difficilissima vita, che aveva conosciuto l’abbandono, l’orfanotrofio e la durezza delle istituzioni.

L’impegno di Franco si dispiegava nelle iniziative sociali di quegli anni, come l’esperienza del “mercato rosso” nel quartiere popolare del CEP, ma anche, in senso specificamente politico, nella campagna contro la strage di Stato, per la difesa della memoria di Pinelli, per la scarcerazione di Valpreda e di altri compagni. Dopo le grandi lotte del ’68 e del ’69, padroni e fascisti cercavano di rialzare la testa rispondendo con la strategia della tensione e sferrando una feroce campagna antianarchica.

Il 5 maggio del 1972 Franco partecipa ad una presidio contro il comizio del fascista Niccolai. Il presidio viene duramente attaccato dalla polizia. Franco viene circondato sul Lungarno Gambacorti da un gruppo di poliziotti del I Raggruppamento celere di Roma, e pestato a sangue. Portato nel carcere Don Bosco, Franco sta male, ma le sue condizioni vengono ignorate, nonostante si aggravino rapidamente. Dopo due giorni di agonia e coma, Franco muore. E’ il 7 maggio 1972. I suoi funerali vedono una grande partecipazione popolare.

Anno dopo anno, si susseguono le manifestazioni di piazza in sua memoria. Inoltre, a Torino gli viene dedicata una scuola, a Pisa una lapide viene collocata all’ingresso di palazzo Thouar, dove Franco visse nell’ultimo periodo della sua vita. Negli anni nascerà in città la biblioteca a lui intitolata, e nella piazza S. Silvestro, nota a tutti come piazza Serantini, verrà posto un monumento dedicato a Franco, dono dei cavatori di Carrara.

In una situazione sociale e politica come quella che stiamo attraversando, in cui aumenta la stretta della repressione, in cui si giunge persino a parlare di leggi speciali contro gli anarchici, sentiamo la necessità di unirci in un momento di lotta comune. Per questo gli Anarchici Toscani invitano tutti i compagni a partecipare a livello nazionale alla manifestazione del 12 maggio. Una manifestazione che porterà in piazza non solo una parte della storia del Movimento Anarchico, ma anche un aspetto importante della memoria della città di Pisa.

A 40 anni di distanza da quei fatti siamo nuovamente di fronte ad un attacco feroce da parte dello Stato e dei suoi apparati repressivi contro ogni manifestazione di dissenso. Dai recenti arresti ai danni dei compagni e delle compagne del movimento NO TAV che da venti anni si oppone alla costruzione dell’alta velocità in val di Susa, passando per gli innumerevoli episodi di repressione e costante minaccia che gli apparati repressivi operano, ormai quotidianamente, nei diversi contesti di lotta. E accanto alla repressione attuata con manganelli e lacrimogeni, quella pervasiva e diffusa del controllo sociale contro tutti coloro che muovono una critica radicale al paradigma dominante e desiderano sperimentare la praticabilità di un metodo e di un agire basati sulla libertà, sulla giustizia sociale, sull’eguaglianza reale e soprattutto sulla solidarietà. Perché tutto questo è pratica rivoluzionaria.

La repressione ed il controllo sociale si realizzano massimamente nelle istituzioni totali e nelle strutture detentive. Ecco dunque le politiche razziste e la reclusione e deportazione dei migranti in istituzioni repressive come i CIE; ecco la recrudescenza neofascista, alimentata dalle istituzioni, dalla chiesa, dai padroni. Una violenza che si scatena, come nei casi di Torino e di Firenze, ora contro i rom, ora contro lavoratori senegalesi, ora contro qualsiasi settore sociale marginale.

Si cerca di dividere il fronte degli sfruttati, sempre più esteso a causa degli attacchi alle generali condizioni di vita, alimentando l’odio dello straniero e la rottura di meccanismi di solidarietà. In questo contesto, per i governi risulta fondamentale rafforzare il razzismo e il fascismo. Si rende quindi necessario oggi come 40 anni fa combattere con la solidarietà ogni forma di fascismo, razzismo ed esclusione. Per una società che spezzi le catene dei confini fisici e mentali che attualmente ci vengono imposti ed entro i quali ci vogliono costringere.

Facciamo appello a tutti coloro che vorranno scendere in piazza per ricordare Franco Serantini, anarchico, rivoluzionario.

Facciamo appello a tutti coloro che vorranno scendere in piazza contro la repressione, contro il razzismo, contro ogni fascismo.

Per una società di liberi e di eguali.”

L’appuntamento per la manifestazione è il 12 Maggio 2012 alle ore 15:00 in Piazza Sant’Antonio a Pisa.

Tobia Imperato, “Le scarpe dei suicidi”.

Ieri, 28 Marzo, ricorreva l’anniversario della morte di Edoardo “Baleno” Massari, sequestrato dallo Stato con l’accusa di attentati contro il progetto dell’alta velocità in Val Susa, accusa dalla quale verrà prosciolto solo quattro anni dopo essersi suicidato in carcere. Lo Stato ed il capitalismo uccidono in tanti modi: privano le persone dei mezzi di sostentamento, emarginano e costringono a violare le leggi stabilite dai vertici delle gerarchia sistemica,ingabbiano, fanno guerre, negano diritti e colpiscono chi li reclama. Ciò avviene tutti i giorni e continuerà ad avvenire finchè persisterà lo stato di cose attuale, finchè continueranno ad esistere gli Stati ed il capitalismo. Ricordare la vicenda di Baleno, Sole e Silvano è più importante che mai, non solo quando ricorre un tragico anniversario, ma perchè l’autore del libro che racconta la loro storia è lui stesso inquisito dallo Stato, privato della propria libertà; perchè il progetto del TAV incontra ancora un’accanita resistenza popolare che le autorità tentano di spezzare in tutti i modi, con la calunnia e con le menzogne tanto quanto con la violenza poliziesca, con i processi e le condanne; perchè la memoria vive nelle lotte quotidiane del presente e del futuro, che sono l’omaggio più concreto a chi ha pagato con la libertà e con la vita la propria scelta di opposizione all’orrore imposto dal sistema di dominio e sfruttamento.

 “A nosotros nos quieren muertos porque somos sus enemigos y no le servimos para nada porque no somos sus esclavos. (Ci vogliono morti perché siamo i loro nemici e non sanno che farsene di noi perché non siamo i loro schiavi)”. MARIA SOLEDAD ROSAS.

“Il 5 Marzo 1998 a Torino sono stati arrestati tre anarchici che abitavano la Casa di Collegno. Lo squat viene chiuso dalle autoritá. Contemporaneamente vengono attaccate altre due case occupate: l’Asilo é sgomberato mentre all’Alcova l’operazione non riesce. Edoardo Massari (Baleno), Maria Soledad Rosas (Sole) e Silvano Pellissero sono accusati dal PM Maurizio Laudi di essere gli autori di alcuni attentati, avvenuti in Val Susa, contro i primi cantieri del Treno ad Alta Velocitá. I tre arrestati si dichiarano estranei alle accuse avanzate nei loro confronti. Immediatamente nasce un vasto movimento di protesta contro la montatura di giudici, ROS e Digos, che si estende anche in altre cittá. Decine e decine di persone vengono intimidite, pestate, inquisite, denunciate, processate e condannate. Televisioni e giornali, di destra e di sinistra,- in servile ossequio al potere- scatenano una canea mediatica volta alla criminalizzazione dei posti occupati torinesi e degli occupanti. Gli squatter diventano il nuovo mostro da debellare.
Il 28 dello stesso mese Edoardo Massari muore impiccato nel carcere delle Vallette. l’11 Luglio successivo muore nell’identico modo anche Soledad Rosas, lei pure in stato di detenzione. Nel Gennaio 1999 Silvano, unico sopravvissuto all’inchiesta di Laudi, é condannato a 6 anni e 10 mesi dal giudice Franco Giordana. Verrá liberato solo nel Marzo 2002 dopo quattro anni di detenzione, in seguito alla sentenza della corte di cassazione che riconoscerá l’inconsistenza delle prove relative all’associazione eversiva (art. 270 bis). Ora che gli abitanti della Val Susa sono avvisati, decolla il progetto del treno veloce. A contrastare i programmi miliardari e altamente nocivi del potere, sono solo i pazzi ed i sovversivi. E finiscono male.
Seppelliti i morti, gli Assassini- premiati dallo Stato- vorrebbero dimenticare…”
(Dalla quarta di copertina della seconda edizione del libro).
Il libro di Imperato é edito dalle Autoproduzioni Fenix e non é soggetto a copy-right. Per scaricarlo gratuitamente o per acquistarlo clicca qui sopra.