TTIP e CETA, il neoliberismo che avanza.

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Attualmente UE e USA stranno mettendo a punto un contratto commerciale e sugli investimenti chiamato TTIP (“Transatlantic Trade and Investiment Partnership”, ovvero “partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti”), mentre un simile accordo tra Canada e Unione Europea, chiamato CETA, sta per essere ratificato. Il TTIP, discusso e steso a porte chiuse da un’apposita commissione europea, verrà infine sottoposto all’approvazione del parlamento europeo che non potrà modificarlo, ma solo approvarlo o respingerlo così com’è, il che vale anche per i parlamenti nazionali che dovranno a loro volta deciderne l’approvazione o meno.  Ma di cosa si tratta realmente, cosa stabilisce questo accordo, chi ne giova e quali sono le ricadute sul piano economico, sociale, ambientale, umano? Innanzitutto va detto che l’obiettivo principale del TTIP, del quale solo alcuni dettagli dell’accordo steso in segreto sono finora trapelati, è quello di limitare ulteriormente l’influenza degli Stati nell’economia capitalista, facilitare gli scambi e aumentare il volume degli investimenti a livello internazionale creando la più grande area mondiale di libero scambio, accrescere il potere delle grandi imprese, creare o espandere il mercato a settori non ancora (o limitatamente) da esso coinvolti. Il trattato permette alle imprese private di citare in giudizio gli Stati, portandoli di fronte a un tribunale privato, al fine di impedire che un qualche governo possa interferire con gli interessi dell’impresa stessa e con la sua accumulazione di profitto, costringendo lo Stato (o per meglio dire i contribuenti di tale Stato) a pagare somme esorbitanti in caso di sconfitta, il che fungerebbe anche come deterrente nel caso un governo dovesse avere la malaugurata idea di contrastare i piani di una qualche multinazionale. Accordi commerciali di questo tipo hanno solitamente durata ventennale, il che renderebbe inutile qualsiasi legislazione promulgata in tale arco di tempo tesa ad ostacolarli o “ammorbidirli”. Un altro aspetto previsto dagli accordi è l’ulteriore liberalizzazione di settori pubblici quali trasporti, smaltimento rifiuti, servizio idrico e postale, sanità, beni culturali, che una volta privatizzati difficilmente (nel migliore dei casi!) potrebbero tornare in mani pubbliche. Anche le norme legislative in materia di tutela ambientale, difesa dei/lle consumatori/trici, trattamento dei dati personali, diritti dei/lle lavoratori/trici verrebbero messe in discussione qualora dovessero interferire con la libertà delle imprese. Le conseguenze sono facili da dedurre: riduzione degli standard sociali, sfruttamento ambientale ed umano sempre più sconsiderato, aumento del divario tra ricchi e poveri, difficoltà di accesso per le fasce sociali più svantaggiate a servizi di fondamentale importanza, riduzione della trasparenza. Per il grosso capitale ed i suoi vassalli si tratta di un’occasione da non perdere e per convincerci ci prospettano con l’introduzione di TTIP e CETA un aumento del PIL dei Paesi firmatari dei trattati, aumento dei posti di lavoro e vivacizzazione dei mercati con conseguente miglioramento del tenore di vita per tutti… Ma sí, siate euforici, potrete esportare più facilmente prodotti italiani negli USA e importare dagli USA mais transgenico, simpatiche attività quali il fracking saranno all’ordine del giorno, dovrete avere l’assicurazione sanitaria privata, ma magari con un pò di fortuna vi verrà permesso di vendere un organo vostro o di un vostro familiare per pagarvi le spese, nel caso non siate prima tentati di investire i soldi ricavati in qualche prodotto finanziario garantito da sorridenti banksters e dalla loro parola di boyscout. Non vorrete mica rifiutare il progresso e la modernità, se perdete l’occasione sarete tagliati fuori dalla più grande area di libero mercato svincolato da tutti i vincoli del mondo e il vostro Paese farà la fine dell’Italia (ah, ma il vostro Paese È l’italia…vabbé, ‘sticazzi, volevo dire della Grecia!). Viva la libertà -di essere ancor più schiavi!

Tutto ciò sembra terribile, vero? Eppure non si tratta di una qualche mostruosità uscita dalle menti malate di pochi avidi ricconi da far rientrare nei ranghi del buonsenso grazie a leggi e parlamenti, ma solo della naturale evoluzione della struttura economica capitalista. Gli Stati hanno da sempre offerto al capitalismo l’appoggio e la protezione necessari per andare avanti anche nei momenti di crisi e ora, nonostante qualche prevedibile ma suppongo isolata reticenza, sapranno farsi da parte -senza pertanto sparire- per garantire maggior libertà di movimento ai capitali sul mercato. Chi oggi pensa di trovarsi di fronte a un incubo ha dormito troppo a lungo, perchè l’incubo esiste da parecchio ed ha solo cambiato forma adattandosi ai tempi e alle necessità storiche, ha già da tempo invaso gli aspetti più intimi delle nostre vite e della nostra psiche, influenza i nostri comportamenti, i nostri stili di vita, i nostri modelli di riferimento, desideri, ambizioni, progetti per il futuro e si riproduce anche grazie a noi, alla nostra collaborazione più o meno volontaria e più o meno consapevole, alla nostra passività, alla nostra incapacità di immaginare (figuriamoci costruire!) una realtá diversa sottraendoci a scelte obbligate e mettendo in discussione presunte certezze che ci tengono ancorati alle nostre forme di sudditanza. Non ci si deve quindi stupire se siamo arrivati fino ad una evoluzione come quella prospettata da accordi quali TTIP e CETA, preceduta da altri accordi e associazioni come NAFTA ed EFTA, a loro volta frutto di scelte e circostanze ancor più vecchie, ma non si dovrebbe nemmeno pensare che invertire la tendenza sia impossibile. Bloccare questi nuovi accordi commerciali, che evidenziano per l’ennesima volta l’incompatibilità tra i più basilari interessi reali dell’umanità e gli interessi del sistema economico capitalista, significherebbe recuperare punti su quel terreno di lotta che non può prescindere dalla partecipazione degli oppressi e degli sfruttati di tutto il mondo. Non si tratterebbe di una vittoria sulla quale adagiarsi, ma del recupero di una posizione importante dalla quale ripartire per mettere in discussione e contrastare in maniera profonda qualsiasi forma di capitalismo, sia essa la variante socialdemocratica o quella neoliberista, e, più in generale, qualsiasi forma di dominio.