Quando qualcuno esprime un concetto meglio di quanto io possa fare.

Nelle due o tre ore delle le ultime quarantott’ore che ho speso seduto di fronte al computer ho letto numerosi comunicati sugli attentati di Parigi e su ciò che vi ruota intorno. Avevo compilato una lista di comunicati e riflessioni di organizzazioni anarchiche di vari Paesi che pensavo di riproporre su questo spazio virtuale, poi mi sono imbattuto in uno (anzi due) testi pubblicati su un blog che leggo non dico spesso, ma almeno volentieri e ci ho ritrovato un pò quello che mi passa per la testa in questi giorni. Perchè ripetere allora con parole mie gli stessi concetti di fondo, quando qualcuno li ha già espressi peraltro stilisticamente meglio di quanto io possa fare? L’unica rimostranza che avrei da fare sugli articoli, chiamiamoli così, in questione, è che manca il benchè minimo ottimismo sulla capacità di reazione degli esseri umani che potrebbero, dovrebbero opporsi allo stato di cose esistente. Ma sarebbe un ottimismo motivato?

– “Non-elogio della Follia” e “Guerra santissima“, dal blog di Riccardo Venturi.

P.S: C’è un’altra cosa che continua a passarmi per la testa, non da qualche giorno ma da diversi anni, in svariate occasioni. È una citazione tragicamente attualissima attribuita a Benjamin Franklin, che paradossalmente mette in guardia anche da quelli come lui: “Chi rinuncia alla libertà per raggiungere la sicurezza, non merita né la libertá né la sicurezza”.

Contro tutti i nemici della libertà.

Una giornata di merda. Per chi rispetta la vita umana, per chi ama la libertà che da oggi sarà più limitata che mai, per chi odia i confini degli Stati che verranno chiusi impedendo l’accesso di chi fugge dallo stesso terrorismo che oggi ha colpito gli/le abitanti di Parigi. Un giorno di merda, ma non l’unico, non solo in un posto. Tutti parlano di Parigi, pochi di Beirut, troppi dimenticano i morti sotto le bombe francesi in Libia, Mali, Siria. Qualcuno dice che si tratta della strage più grave avvenuta in Francia dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, altri però ricordano quei morti del 1961, algerini che manifestavano nella capitale contro il colonialismo e che vennero massacrati dalla polizia, i cadaveri gettati nella Senna, più di 200 i morti. La chiamano democrazia, Stato di diritto, ma è retta da interessi economici di pochi, si mantiene con guerre, sfruttamento, controllo ed oppressione, si fonda sulla disuguaglianza, sulle divisioni, sul dominio. C’è chi a quest’ordine di cose vorrebbe sostituire forme ancor peggiori di dominio, oppressione, discriminazione, punizione per chi non accetta l’ordine imposto. E c’è chi si sfrega le mani e ne approfitta per attizzare l’odio razzista e xenofobo. Siamo sotto attacco, è vero: ci attaccano le guerre condotte in altri Paesi e gli attentati terroristici “a casa nostra”, gli Stati con il loro imperialismo, i loro eserciti, le loro polizie, le loro misure “low and order”, le loro frontiere, i loro interessi che non sono i nostri, ci attaccano gli oscurantisti e i fondamentalisti religiosi, i razzisti e i nemici della solidarietà umana. La nostra lotta, non da oggi, la conduciamo su diversi fronti: chiedetelo ai/lle compagne di Ankara e di Kobane, di Damasco e di Parigi e chiedetelo pure a me. Daesh colpisce, gli islamofobi ringraziano, i governi ne approfittano, mentre a pagarne le conseguenze sono coloro i/le quali cadono vittime del terrorismo, di quello che si esprime coi kalashnikov che sparano su persone a caso per le strade e nei locali di una qualisiasi cittá europea o di quello che fa strage sotto forma di interventi militari “liberatori”, in Irak come in Afghanistan, in Libia come in Siria. Chiedetevi da dove nasce il problema, chiedetevi da dove arrivano Al-Qaeda, ISIS, Al-Nusra, Boko Haram, chiedetevi da dove pescano consensi Front National, English Defence League, Pegida e Lega Nord. Riflettete con luciditá anche nei momenti nei quali la ragione viene sopraffatta dalle emozioni e agite di conseguenza, come quei/lle dimostranti che a Lille, durante una manifestazione per le vittime di Parigi, hanno avuto la lucidità e la fermezza necessarie per respingere un gruppo di razzisti che si volevano unire al corteo. Una piccola buona notizia in una giornata di merda come tante, non l’unica, non l’ultima.

Terrorismo di Stato in Turchia.

Il 10 Ottobre scorso, durante una manifestazione per la pace dai contenuti antigovernativi indetta ad Ankara, capitale turca, sono esplosi due ordigni che hanno provocato una strage. Secondo le diverse fonti i morti sarebbero tra i 95 e i 128, i feriti tra i 165 e i 500 e più, tutti/e attivisti/e di organizzazioni politiche e sindacali di sinistra e filocurde. Tra i morti ci sono almeno due anarchici. Il governo turco ha accusato immediatamente, parole di Erdogan, “chiunque voglia minare l’unità e la pace nel Paese”, mentre il primo ministro Davutoğlu includeva in una lista di possibili sospetti anche una serie di organizzazioni curde e di estrema sinistra . Come accadde a seguito dell’attentato di Suruc, che costò la vita a 33 attivisti/e di area socialista, comunista e anarchica, il governo turco del partito filoislamico e reazionario AKP incolpa i fondamentalisti islamici dell’ ISIS, ne arresta qualche decina e contemporaneamente provvede a bombardare postazioni del partito dei lavoratori curdo PKK, proprio quando quest’ultimo si era impegnato a sospendere qualsiasi ostilità nei confronti dello Stato turco, anche in vista delle elezioni indette per il prossimo 1 Novembre.

La prima domanda che vien spontaneo porsi in questi casi è: cui prodest? Secondo alcuni opinionisti è improbabile che il governo turco sia il responsabile della strage di Ankara, mentre la tesi maggiormente accreditata è che si tratti di un’attentato ad opera dell’ISIS che intende destabilizare la Turchia colpendo al tempo stesso gli acerrimi nemici curdi. Una certezza è comunque l’appoggio (“moderato”, dicono alcuni) offerto finora dal governo turco alle milizie dell’ISIS: queste ultime, sentendosi abbandonate dopo la dichiarazione di guerra contro di esse, seminerebbero ora il terrore in Turchia. Un’altro aspetto, che va sotto la categoria di responsabilità morale, è la continua persecuzione effettuata dal governo di Ankara a danno della popolazione curda e il rifiuto di trattative diplomatiche con le organizzazioni curde che vorrebbero mettere definitivamente la parola fine ad un sanguinoso capitolo di storia che dura ormai da decenni. Anche il fatto che sulla libertà di riportare notizie che riguardano le indagini sull’attentato sia caduta ancora una volta la mannaia della censura di Stato è un segnale che riconferma il modus operandi autoritario e repressivo di Erdogan e del suo governo, deciso a qualsiasi costo a riconfermarsi alle prossime elezioni senza farsi sorpassare dal partito della sinistra moderata filocurda HDP, il cui leader Selahattin Demirtaş ha esplicitamente accusato il governo di essere responsabile della strage di Ankara. Di sicuro chi s’impegna con zelo a massacrare i/le manifestanti/e antigovernativi per le strade e a torturarli nelle prigioni, a  far crepare i lavoratori in miniera, a sbattere in galera i giornalisti e a massacrare civili curdi inermi radendo al suolo i loro villaggi non ha certo tempo da perdere nel garantire la sicurezza interna del Paese prevenendo attentati terroristici.

Riflessioni a 35 anni dall’attentato all’Oktoberfest di Monaco di Baviera.

Risultati immagini per anschlag oktoberfest 1980 Il 26 settembre del 1980, durante la famosissima ed affollatissima Oktoberfest a Monaco di Baviera, venne fatta esplodere una bomba che causò la morte di 13 persone e il ferimento di altre 211, numerose delle quali rimarranno mutilate o invalide. Gundolf Köhler, un giovane neonazista appartenente all’organizzazione Wehrsportgruppe Hoffmann messa fuorilegge pochi mesi prima e morto lui stesso durante l’attentato, verrà ritenuto l’unico responsabile della strage. A trentacinque anni di distanza da quell’orrendo fatto di sangue sono ancora in molti a manifestare dubbi sulla possibilità che Köhler abbia agito da solo, come dimostra anche la recente riapertura del caso da parte della procura federale tedesca a fronte di una nuova testimonianza. Di certo vi sono una serie di responsabilità, alcune morali, altre materiali, riguardanti l’attentato che non devono essere taciute. Non è né la prima né l’ultima volta, come dimostra il più recente caso degli omicidi e attentati dell’organizzazione neonazista NSU, che in Germania come in altri Stati europei avvengono pesanti collusioni fra istituzioni ed elementi e organizzazioni di estrema destra.

Il governo della Repubbilca Federale Tedesca ammise nel 1990 che “la costruzione di organizzazioni Stay-behind iniziò già poco dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale”. Gli USA crearono in quasi tutta l’Europa Occidentale una serie di organizzazioni paramilitari, controllate direttamente dai servizi segreti statunitensi con la collaborazione dei servizi segreti dei diversi Stati coinvolti, che avevano il compito di intervenire come unità di guerriglieri nel caso fosse avvenuta un’invasione da parte dell’URSS, restando dietro le linee nemiche per compiere attentati e sabotaggi e raccogliere informazioni. Nonostante tale invasione non abbia mai avuto luogo, i gruppi paramilitari comprendenti principalmente elementi reazionari, legati all’estrema destra e spesso con un passato nelle file di regimi fascisti e nazisti (come il primo capo del servizio di spionaggio della Germania Ovest Bundesnachrichtendienstes, Reinhard Gehlen, già ufficiale del Terzo Reich e criminale di guerra) addestrati ed equipaggiati da unità speciali delle forze armate statunitensi e a volte anche britanniche, vennero usati per destabilizzare quello che in Occidente viene comunemente definito l’ordine democratico e costituzionale, attraverso il compimento di azioni di stampo terroristico volte ad impedire la presa del potere da parte di forze politiche parlamentari ritenute filocomuniste o anche solo troppo progressiste. Quest’operazione, nota sotto il nome di strategia della tensione, a chi conosce almeno un pò la storia contemporanea d’Italia fa subito venire in mente omicidi a sfondo politico mai del tutto chiariti, colpi di stato sfumati all’ultimo momento e stragi come quelle di Piazza Fontana a Milano, del treno Italicus, di piazza della Loggia a Brescia ed altre ancora. La strage più grave avvenuta in Italia nel secondo dopoguerra è quella della stazione di Bologna (2 Agosto 1980), nella quale un ordigno ad alto potenziale uccise 85 persone e ne ferì più di 200. Meno di due mesi dopo, la strage dell’Oktoberfest a Monaco di Baviera. Anche qui, come a Bologna, ad essere ritenuti gli autori materiali sono estremisti di destra, senza però l’individuazione di un mandante. Nel caso tedesco, gli investigatori collegarono il presunto attentatore con un’altro personaggio legato alla scena neonazista, la guardia forestale Heinz Lembke, ritenuto il responsabile di una serie di arsenali sotterranei nei quali erano custoditi tra l’altro esplosivi. Dalle indagini venne fuori che Lembke, al quale era stata attribuita tutta la responsabilità dei nascondigli di armi (cosa impossibile, data l’enorme quantità di armamenti e materiali nascosti che non sarebbero potuti sparire da depositi dell’esercito senza che nessuno se ne accorgesse), riforniva altri militanti dell’estrema destra. Gli arsenali in questione sono uguali ad altri esistiti in diversi Stati dell’Europa occidentale, spesso venuti alla luce in modo casuale o a seguito di clamorose rivelazioni da parte di persone ben informate dei fatti ed erano destinati ai gruppi di “gladiatori” dell’operazione Stay-behind. Eppure il governo cristiano-democratico di Helmuth Kohl in carica all’epoca delle rivelazioni su Stay-behind nei primi anni ’90 del secolo scorso tentò di minimizzare il ruolo, non potendo del tutto negare l’esistenza, di quello che si può ben definire un’esercito segreto e che non solo in Italia è ormai noto col nome di Gladio, mentre immediatamente dopo l’attentato di Monaco il candidato cristiano-sociale alla carica di cancelliere Franz Josef Strauß, oltre a scaricare le responsabilità morali della strage sui rivali politici,  ebbe a dire che la strage era opera materiale del gruppo armato marxista-leninista Rote Armee Fraktion. Un depistaggio, come i tanti che si susseguono durante i processi per la strage, accompagnati dalle solite “stranezze”: testimoni che muoiono durante gli interrogatori, testimonianze e indizi ignorati, prove distrutte, lo stesso Lambke che, appena decisosi a collaborare con gli inquirenti, verrà ritrovato impiccato nella cella nella quale era detenuto. Alla fine, oltre alla scia di cadaveri e di persone irreparabilmente danneggiate, rimangono la consapevolezza che non tutta la verità sia stata raccontata, la certezza che agenti di Gladio e dei servizi segreti hanno tentato di depistare le indagini e il sospetto, come afferma lo scrittore Tobias von Heymann, che l’attentato avesse lo scopo di favorire l’elezione a cancelliere del reazionario Strauß e del suo partito CSU. In questi casi la colpevolezza non va cercata solo nel/gli esecutore/i materiale/i degli atti terroristici, ma in un’intero sistema.

“Turchia: Bombe di Stato contro la ricostruzione di Kobanê”

Fonte: Umanità Nova.

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La mattina di lunedì 20 luglio a Suruç nel giardino del centro culturale Amara è esplosa una bomba durante la conferenza stampa dell’organizzazione turca Federazione delle Associazioni dei Giovani Socialisti (SGDF). Circa 30 persone sarebbero rimaste uccise nell’esplosione, oltre 100 giovani invece sarebbero feriti, di cui alcuni in gravi condizioni. Tra le vittime, oltre a numerosi giovani militanti socialisti, vi sono anche due compagni anarchici, entrambi di 19 anni. Evrim Deniz Erol e Alper Sapan, quest’ultimo faceva parte del gruppo Iniziativa Anarchica di Eskişehir ed era obiettore di coscienza al servizio militare.

Suruç è una cittadina a maggioranza curda in territororio statale turco, che si trova a ridosso del confine con la Siria ed è base per tutte le azioni di solidarietà rivolte verso Kobanê, che dista solo pochi chilometri. Per questo circa 300 membri del SGDF si trovavano presso il centro culturale per una conferenza stampa in cui stavano denunciando la repressione attuata dal governo turco allo scopo di impedire che i giovani militanti passassero il confine per lavorare a progetti di ricostruzione della città. Quasi contemporaneamente un altro attentato a Kobanê, vicino al valico di frontiera di Mürşitpınar, verso Suruç, faceva ulteriori vittime tra le forze curde di autodifesa. L’attentato al centro culturale Amara viene per ora attribuito allo Stato Islamico, in ogni caso è chiaro che l’attacco risponde agli interessi di coloro che vogliono bloccare in ogni modo qualsiasi possibilità di cambiamento sociale rivoluzionario nella regione, a partire dal governo turco e dai suoi sicari. Per comprendere il contesto in cui è avvenuto questo attacco terribile, cerchiamo di ripercorrere gli eventi degli ultimi mesi.

Dopo le note vicende dell’assedio da parte delle milizie dello Stato Islamico alla città di Kobanê nell’autunno-inverno dello scorso anno, la situazione in Rojava è andata progressivamente modificandosi a seguito della liberazione della città, avvenuta nel Gennaio del 2015 per mano delle milizie curde YPG (Unità di Protezione del Popolo) e YPJ (Unità di Protezione delle Donne, milizia femminile) e delle altre forze che combattono al loro fianco.

Il Kurdistan in zona siriana (Rojava) è diviso in tre diversi cantoni. Nella zona nord orientale della Siria si trova il cantone di Cizire, quello geograficamente più grande e popolato. A nord ovest vi è invece il cantone di Efrin. Tra i due cantoni vi è quello di Kobanê. I tre cantoni sino al Giugno del 2015 hanno avuto degli ingenti problemi di collegamento, data la presenza di truppe dello Stato Islamico e di altri gruppi che bloccavano ogni possibilità di scambio tra le regioni.

I combattimenti nelle zone intermedie tra i tre diversi cantoni si sono difatti susseguiti ininterrottamente dal 2013 sino a oggi. Oltre ciò, non minore importanza ha avuto la chiusura ufficiale, predisposta dalla Turchia, di svariati valichi di confine con i territori controllati dalle forze curde. Azione che ha isolato ulteriormente le zone sotto il controllo dei curdi e che ha impedito ed impedisce anche oggi l’arrivo di qualsiasi assistenza ai territori martoriati dai continui attacchi dello Stato Islamico, bloccando a tempo indeterminato anche il flusso regolare di profughi in fuga. Va ricordato che nel periodo in cui le forze curde ancora non controllavano completamente alcune delle zone settentrionali della Siria, che allora erano nella maggior parte dei casi in mano a forze legate a gruppi islamisti che si sarebbero uniti successivamente allo Stato Islamico, lo stato turco tenne alcuni valichi di frontiera aperti a “tempi alterni”. Tale azione venne giustificata dall’esigenza di mantenere una continuità commerciale con il territorio siriano, aprendo e chiudendo, svariate volte e con violenza, l’accesso in Turchia ai profughi in fuga dagli scontri violentissimi tra varie fazioni. Attraverso questi valichi di frontiera sono transitati nel tempo rifornimenti per Al-Nusra e lo Stato Islamico. Non si è certo trattato di semplice negligenza nei controlli di frontiera da parte della Turchia, dal momento che il governo turco ha in numerose occasioni dimostrato il proprio sostegno a forze controrivoluzionarie come lo Stato Islamico sia in Siria sia all’interno del territorio turco, utilizzando formazioni paramilitari fasciste e religiose nella repressione dei rivoluzionari e dei militanti curdi.

L’atteggiamento del governo turco è sempre stato chiaro. Il confine sotto il controllo turco tra il paese anatolico e la Siria apre e chiude le sue porte in base all’utilità politica della situazione interna alla Turchia ed a quella del nord della Siria. Da un lato l’apertura e l’accoglienza apparente verso i profughi in determinati periodi dell’anno, dall’altra il blocco e la repressione violenta con la volontà d’interrompere ogni collegamento tra le due sponde quando la situazione politica nei due territori minaccia la stabilità politica del territorio turco. Al contempo i combattenti dello Stato Islamico attraversano tranquillamente il confine sotto gli occhi dei militari turchi. Un esempio lampante di tali politiche lo si è avuto con la repressione violenta esercitata dall’esercito turco e la Jandarma (polizia militare turca) durante l’assedio da parte dello Stato Islamico a Kobanê del 2014. Allora migliaia di persone in fuga dalla città, soprattutto curde, vennero duramente attaccate dalle autorità turche che ne stavano impedendo il passaggio. Fu di molti feriti e qualche morto il bilancio di quelle settimane.

Nel Giugno di questo anno, le YPG e le YPJ, hanno condotto un’operazione per tentare di riunificare il cantone di Kobane a quello di Cizire, cercando di liberare dallo Stato Islamico una delle città più importanti della zona settentrionale della Siria, Tall Abyad e la zona circostante.

La città di Tall Abyad, dopo la riconquista da parte delle YPG/YPJ della città di Kobanê, ha assunto per lo Stato Islamico un ruolo strategico e politico centrale. Tall Abyad difatti, conquistata dallo Stato Islamico nel Giugno del 2014, è rimasta sino a qualche mese fa, l’unico valico di frontiera nel nord est della Siria sotto il controllo dello Stato Islamico, permettendo ad esse di ricevere un regolare flusso di aiuti e combattenti provenienti dal territorio turco; il tutto come sempre sotto l’occhio accondiscendente dello stato turco.

Durante tutto l’arco del 2014, le milizie dello Stato Islamico hanno condotto nella zona un’ingente operazione di riassestamento demografico, minacciando di morte i curdi dell’area mediante un’operazione di allontanamento forzato dall’area. Durante l’estate del 2014 sono state molte le famiglie curde, turcomanne ed anche arabe che hanno abbandonato la zona per paura di ripercussioni.

Nel giugno scorso le operazioni delle YPG e delle YPJ hanno portato nel giro di qualche giorno alla liberazione della città di Tall Abyad. Durante lo stesso mese, in Turchia, si sono tenute le elezioni per rinnovare il parlamento ed eleggere il primo ministro della Repubblica, in un contesto politico nel paese fortemente conflittuale. Il partito di Erdoğan non è riuscito ad ottenere la maggioranza, mentre il partito a base curda HDP (Partito Democratico dei Popoli) ha conseguito più del 13% dei voti, entrando di diritto nel parlamento della Repubblica Turca. Questo è avvenuto nonostante il blocco di potere al governo, guidato dal partito conservatore-religioso AKP (Partito della Giustizia e dello Sviluppo), abbia tentato con ogni mezzo di ostacolare l’opposizione. Le elezioni infatti furono insanguinate da aggressioni contro attivisti curdi e dei partiti di sinistra, attacchi che culminarono con le bombe di stato ad Amed (Diyarbakir) il 5 giugno che provocarono 4 morti durante un comizio dell’HDP. L’esito delle elezioni, accompagnato dalle continue vittorie sul campo delle forze curde in territorio siriano e da un progressivo radicamento delle forze della sinistra rivoluzionaria in tutto il paese anatolico, hanno condotto il governo di Ankara ad aumentare la violenza della repressione interna.

Ankara non ha digerito la doppia sconfitta ed ha dichiarato, durante un incontro del Consiglio Nazionale di Sicurezza Turco (MGK), la decisione di implementare la sua presenza lungo il confine turco-siriano, in particolar modo in quei territori confinanti con le zone gestite dalle forze curde. Le dichiarazioni del MGK, presieduto dal Presidente della Repubblica Turca Erdoğan, si sono fatte molto dure, arrivando ad affermare che la Turchia “non permetterebbe mai la formazione di uno stato curdo lungo i propri confini meridionali”, ipotizzando la concretezza di un’invasione impellente da parte della Turchia in Siria. Tali affermazioni arrivano anche a margine delle accuse dello stesso Presidente Erdoğan nei confronti delle forze curde di aver perpetrato azioni di pulizia etnica nei confronti della popolazione araba e turcomanna di Tall Abyad. La stessa popolazione al quale lo stesso Erdoğan, tramite i fucili delle proprie truppe ed i gas delle proprie guardie, non aveva permesso l’attraversamento del confine durante gli scontri tra YPG/YPJ e Stato Islamico nei dintorni della città. Tale atto riprende il medesimo atteggiamento repressivo avuto nei confronti dei curdi di Kobanê nell’Ottobre dell’anno precedente, lasciando intendere una continuità d’intenti negli ultimi mesi.

Le dichiarazioni dell’MGK e la decisione di governo turco di prepararsi ad un’invasione della Siria, schierando un maggior numero di mezzi e truppe lungo il confine, sono arrivate lo stesso giorno in cui si è concluso l’attacco sferrato dallo Stato Islamico il 25 giugno a Kobanê .

Il 25 giugno, dopo l’esplosione di tre autobomba lungo il confine con la Turchia a Kobanê, circa un centinaio di combattenti appartenenti alle forze dello Stato Islamico, entrati in città prima che facesse giorno indossando divise delle YPG e dell’FSA, sferrano un feroce attacco rivolto soprattutto contro la popolazione civile. Dopo quattro giorni di battaglia, il 29 giugno finiscono i combattimenti nelle strade, ma appare subito chiaro, come afferma anche un portavoce delle YPG, che l’attacco dello Stato Islamico non aveva certo lo scopo di occupare e controllare la città di Kobanê o anche solo alcune zone di essa. Si trattava invece un attacco suicida collettivo con lo scopo di uccidere il maggior numero di civili. Infatti alla fine dell’attacco si contano 223 morti e 300 feriti tra i civili, uno dei più gravi massacri compiuti dallo Stato Islamico in Siria.

Sia le forze curde di Kobanê sia il governo siriano hanno affermato che le autobomba venivano dal territorio turco e che avevano quindi attraversato i valichi di frontiera controllati dallo stato turco. Inoltre Figen Yüksekdağ, cosegretaria dell’HDP, ha dichiarato che il governo turco ha supportato per anni lo Stato Islamico e il massacro è parte di questa politica di supporto.

Probabilmente il governo turco voleva che l’attacco a Kobanê servisse a dimostrare che le forze riunite attorno alle YPG/YPJ non erano capaci di controllare la città e soprattutto di proteggere i civili, e che potesse quindi rafforzare la presa di posizione dell’MGK riguardo alla “pulizia etnica” antiaraba a Tall Abyad contribuendo così a giustificare un eventuale intervento di terra in Siria o comunque l’invio di ulteriori truppe lungo il confine.

È ancora troppo presto forse per parlare di un cambio di strategia della Repubblica Turca nel conflitto, anche perché il fatto che dalle elezioni di inizio giugno ancora non sia stato insediato un nuovo governo e tuttora siano in atto le consultazioni per trovare una maggioranza, rende incerta la situazione politica interna alla Turchia. Sembra ad ogni modo che dopo la liberazione di Tall Abyad abbiano iniziato ad assumere un peso maggiore quegli elementi ai vertici dell’establishment turco che vogliono un intervento militare diretto in Siria contro la popolazione curda e le forme di organizzazione sociale che si sta dando in Rojava.

Le accuse rivolte dall’MGK e dallo stesso Presidente della Repubblica Erdoğan alle forze curde sono quindi da interpretarsi fondamentalmente come propaganda a sostegno della linea politica e militare che il governo turco conduce nel conflitto.

Tuttavia la giusta opera di demistificazione e la lotta contro la propaganda del governo turco non deve portarci ad ignorare o rifiutare la realtà della guerra. In questo conflitto, l’intervento diretto e indiretto delle principali potenze mondiali e regionali, che inviano armi e combattenti, bombardano e cercano di spartirsi il territorio e le sue risorse, porta ad una recrudescenza della violenza tipica della guerra imperialista. In questo contesto, anche per chi combatte per difendere una prospettiva alternativa al dominio imperialista e capitalista può essere facile cadere nella trappola della guerra, commettendo eccessi o comunque perdendo di vista il fine per il quale si lotta.

Ignorare i rischi che si presentano in una situazione di guerra come questa può portare ad una sconfitta non solo militare, ma anche e soprattutto politica. Una sconfitta politica può assumere anche la tragica forma dell’abbandono della prospettiva rivoluzionaria per ottenere una vittoria militare grazie al sostegno di quelle potenze interessate all’instaurazione di una forma di governo disponibile a non mettere in discussione gli interessi degli stati e del capitalismo globale nella regione. Questo, ancor più di una disfatta militare, costituirebbe una tragedia per la popolazione che nella Rojava sta cercando di darsi gli strumenti per un cambiamento sociale in senso rivoluzionario, perché bloccherebbe adesso e per gli anni a venire ogni prospettiva di reale liberazione sociale, ripristinando le vecchie condizioni di sfruttamento ed oppressione e creandone di nuove.

Per ora il protagonismo della popolazione nella sua pluralità, la presenza radicata di gruppi rivoluzionari, l’autodifesa popolare e la mancanza di un governo dotato di apparati repressivi hanno reso possibile l’inizio di un processo rivoluzionario.

Solo facendo leva su questi punti di forza è possibile vincere questa lotta sul piano politico, senza cedere ai ricatti delle potenze e senza cadere nelle trappole della guerra.

In questa prospettiva è fondamentale la questione della ricostruzione di Kobanê e della Rojava. Perché oltre al bisogno di aiuti immediati, di ricostruire infrastrutture, case ed ospedali, c’è anche bisogno di discutere di come dovrà essere la città, di come ricostruire la società, su quali basi. Ci sono chiaramente diverse posizioni e differenti progetti, da una parte ci sono speculatori che aspettano di fare l’affare del secolo, mentre dall’altra ci sono rivoluzionari che vogliono far sorgere dalle macerie una società libera dalla proprietà privata.

In questi mesi si sta avviando un’ampia campagna per la ricostruzione di Kobanê. Oltre all’appello internazionale lanciato dal KRB, il tavolo per la ricostruzione della città, vi sono campagne e progetti specifici portati avanti dalle forze politiche che hanno sostenuto fino ad oggi la resistenza.

Queste iniziative sono tutte orientate a dare alla ricostruzione un forte senso politico; i lavori infatti non saranno affidati alle multinazionali o ai grandi speculatori, ma sarà organizzata e gestita attraverso la partecipazione dei diretti interessati.

In questo contesto anche il movimento anarchico, in particolare il gruppo DAF (Azione Anarchica Rivoluzionaria) di Istanbul, radicato anche in Kurdistan, dà il proprio contributo specifico alla ricostruzione, nel senso della ricostruzione della vita, di una società nuova, libera, senza stati né classi.

Quanto sia importante la ricostruzione ed in particolare l’intervento dei gruppi rivoluzionari per sostenere il processo di trasformazione sociale in atto, è reso ancora più chiaro dalla ferocia con cui i militanti che si occupano dei progetti di ricostruzione vengono attaccati dal governo turco, dai suoi alleati e dai suoi sicari.

L’attentato esplosivo che ha ucciso i giovani militanti della SGDF a Suruç la mattina di lunedì 20 luglio è un colpo diretto ai gruppi rivoluzionari che sostengono la Rojava. Non è terrorismo indiscriminato ma un massacro mirato di militanti, che ha come scopo l’eliminazione fisica di giovani rivoluzionari e l’intimidazione nei confronti di tutte le altre forze che sostengono i progetti di ricostruzione. Le dichiarazioni di Erdoğan dopo l’attacco sono di fatto un’ulteriore minaccia di invasione della Rojava. Il Presidente della Repubblica Turca ha infatti affermato che l’attentato sarebbe la risposta alle recenti disposizioni di rafforzamento del controllo militare lungo il confine da parte dell’esercito turco.

La sera stessa della strage in molte città della Turchia si sono tenute manifestazioni, nella maggior parte dei casi la polizia ha attaccato i dimostranti e gli scontri si sono protratti nella notte.

Ad Istanbul migliaia di persone hanno marciato verso Taksim fino a quando la polizia non ha attaccato il corteo con lacrimogeni e proiettili di gomma. Ad Amed e Yüksekova ci sono stati durissimi scontri. A Suruç, dove la polizia era già intervenuta con i blindati subito dopo la strage, l’intervento repressivo contro i manifestanti nel tardo pomeriggio ha provocato numerosi feriti.

Dopo questi fatti è ancora più importante appoggiare la ricostruzione della città di Kobanê, sostenendo gli anarchici del DAF e tutte quelle forze che contribuiscono ad uno sviluppo del processo che in quella regione sta aprendo la strada alla rivoluzione sociale.

Giacomo Sini

Dario Antonelli “

Sembra passato un giorno dal 1915…

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La foto qui sopra, diffusa nelle ore scorse sui cosiddetti social networks e in seguito ripresa dai massmedia, mostra uno dei due appartenenti all’organizzazione marxista-leninista turca DHKP-C che tiene in ostaggio, puntandogli una pistola alla tempia, il procuratore Mehmet Selim Kiraz nel suo ufficio all’interno del palazzo di giustizia ad Istanbul, dove i due giovani armati hanno fatto stamane irruzione. Kiraz era l’incaricato che indaga sull’uccisione da parte della polizia del 14enne Berik Elvan, colpito nel Giugno 2013 da un candelotto lacrimogeno durante le proteste di Gezi Park. Berik non era coinvolto nelle proteste, a quanto sembra stava andando a comprare il pane e si era trovato per caso nel mezzo degli scontri; entrato in coma, il ragazzo morì dopo oltre nove mesi e il suo omicidio rimane tuttora impunito visto che la “giustizia” non è riuscita ad appurare l’identità del poliziotto che lo ha ucciso. Quello che però la “giustizia”, il governo di Erdogan e la polizia sono riusciti a fare è stato reprimere duramente le proteste popolari scoppiate a seguito della morte di Berik, che si sono riaccese nuovamente l’11 Marzo di quest’anno in diverse città turche (Ankara, Istanbul, Eskişehir, İzmir, Tekirdağ…), durante le quali un’altra giovanissima ragazza è rimasta gravemente ferita da un candelotto lacrimogeno e giace anche lei in coma.

“Chiedono chi stia dando ordini alla polizia. Li ho dati io stesso”, disse Erdogan, all’epoca primo ministro (oggi presidente) turco, riferendosi alla morte di Berkin Elvan, da lui definito in seguito un “terrorista”. Una frase che mi riporta alla mente, per immediata associazione di idee, le parole del famigerato discorso pronunciato da Benito Mussolini dopo l’omicidio di Giacomo Matteotti. Responsabilità morale. Come quella di Erdogan, dei suoi scagnozzi e dei suoi sostenitori, non solo di fronte alla morte di Berik Ervan e al ferimento di un’altra ragazzina che forse mai si risveglierà dal coma e alle decine di recenti arresti durante le proteste, ma anche di fronte alla morte di quasi 300 minatori nel Maggio 2014 e alla repressione della rabbia di chi scese per strada chiedendo le dimissioni del governo. Solo pochi giorni fa è stata approvata in Turchia una legge che prevede che la polizia possa sparare addosso ai manifestanti irrequieti, mentre la legge sulla censura dei massmedia per motivi di sicurezza nazionale è stata applicata, secondo il quotidiano turco Hurryet, 150 volte negli ultimi 4 anni, inoltre gli scioperi vengono sospesi o proibiti facendo ricorso a strumenti nati durante la dittatura militare, com’è accaduto con lo sciopero dei metalmeccanici proclamato lo scorso fine Gennaio dal sindacato di ispirazione socialdemocratica BMI. Se a tutto ciò si aggiungono le politiche razziste e di pulizia etnica perpetrate da decenni nei confronti dei curdi, la chiusura delle frontiere per i rifugiati e perseguitati dall’ISIS e l’appoggio solo in parte velato fornito a tale organizzazione, non sembrano passati esattamente 100 anni da quando la Turchia iniziò lo sterminio degli armeni, un genocidio conclusosi con almeno 1 milione di morti. Cambiano gli attori sul palcoscenico, le circostanze storiche, ma oggi come allora siamo di fronte alla barbarie. E di fronte all’evidenza dei fatti ci si può solo chiedere ancora una volta chi siano i veri terroristi: i due ragazzi morti poche ore fa dopo un bliz delle forze speciali nel palazzo di “giustizia” di Istanbul assieme al giudice da loro tenuto in ostaggio, o quelli che sono disposti ad affastellare cadaveri su cadaveri e produrre miseria, violenza e abruttimento pur di mantenere il potere e portare avanti i loro allucinanti progetti nazionalisti ed autoritari? Qual’è il vero terrorismo, un gesto disperato compiuto nel tentativo di ottenere “giustizia” o le cause di tale gesto e di tutta la rabbia che è finora scoppiata e ancora scoppierà in Turchia?

Se loro sono Charlie, io sono Cheeta.

Il seguente articolo è tratto dal sito Insorgenze:

“Non sono tutti Charlie, in scena a Parigi la grande sfilata dell’ipocrisia

Non sono tutti Charlie quelli che sono scesi sulle strade di Parigi per sfilare contro il massacro compiuto nella redazione del giornale satirico francese e la successiva scia di sangue che ne è seguita. Non lo sono soprattutto quelli che hanno preso la testa del corteo, una cinquantina di capi di Stato provenienti da mezzo mondo accompagnati dall’intero establishement francese. Tra loro c’è gente che a casa propria mal tollera la satira o ne fa strame, come quel tal Benyamin Nétanyahou  o Avigdor Lieberman, rispettivamente premier e ministro degli esteri di un Israele che ha sempre eliminato fisicamente vignettisti e poeti palestinesi, timorosa delle loro matite e dei loro versi considerati armi da guerra.
Non è Charlie nemmeno il ministro dell’economia israeliano, quel Naftali Bennett, capo del partito della destra religiosa, Foyer juif, che nel 2013 non ha avuto problemi nel dichiarare: «ho ucciso molti arabi nella mia vita. E tutto ciò non mi crea alcun problema».
Non sono Charlie il re di Jordanie Abdallah II, il capo della diplomazia russa Sergueï Lavrov, il primo ministro turco Ahmet Davutoglu, il ministro degli esteri degli Emirati arabi uniti, cheikh Abdallah ben Zayed Al-Nahyane, il capo del governo ungherese, Viktor Orban, il presidente della repubblica gabonese Alì Bongo, che Reporters sans frontières colloca nella sua classifica sulla libertà di stampa mondiale rispettivamente: la Turchia al 154° posto, la Russia al 148°, la Giordania al 141°, il Gabon al 98°, Israele al 96° e l’Ungheria al 64°.
In Giordania vengono arrestati giornalisti e chiusi canali televisivi, come recentemente è accaduto per una emittente della opposizione irachena. In Russia basta ricordare la sorte della Politkovskaja oppure il processo e la condanna delle Pussy riot. In Ungheria il governo in mano alla destra populista ha fatto votare una legge bavaglio contro la stampa. In Turchia sono all’ordine del giorno arresti di massa contro i media d’opposizione, per non parlare del sostegno militare e logistico fornito alle forze islamiste che combattono in Siria. Non sono Charlie il presidente ucraino Petro Porochenko e il rappresentante della diplomazia egiziana Sameh Choukryou, paesi dove la libertà di stampa ha vita difficile. Non lo è nemmeno lo spagnolo Mariano Rajoy che non ha problemi a colpire avvocati e stampa basca indipendentista.
Forse dopo il gran defilé che ha benedetto l’union sacrée mondiale per la difesa della libertà di stampa, il miglior regalo che si poteva inviare ai predicatori dell’odio religioso e ai loro dirimpettai fanatici dello scontro delle civiltà, non è più Charlie nemmeno Charlie Hebdo.
La satira è irriverenza assoluta contro il potere e i potenti, altrimenti è solo insulto e ghigno contro i deboli. L’endorsement delle cancellerie mondiali è un abbraccio mortale per un settimanale satirico che così rischia di divenire solo una delle tante gazzette delle grandi potenze. Charlie hebdo non è morto sotto i colpi dei fratelli Chauki ma calpestato dai passi delle cancellerie mondiali.”

Libertà di satira (c’è poco da ridere).

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La vignetta che vedete qui sopra venne pubblicata nel Luglio del 2013 sull’ormai famosa (prima di due giorni fa molti di voi non l’avevano mai sentita nominare, ammettetelo) rivista satirica francese Charlie Hebdo. Il testo recita pressapoco “Massacro in Egitto. Il Corano è una merda: non ferma le pallottole”. Sarebbe un bell’omaggio alla libertà di satira se qualcuno ora titolasse “Massacro a Parigi. Charles Hebdo è una merda: non ferma le pallottole” con una caricatura di uno dei giornalisti morti crivellati di pallottole che tiene in mano una copia della rivista.*

Cattiveria? Ma la satira È cattiva. E deve invitare a riflettere, sempre. Non ci sono santi, profeti o divinità che meritino di essere risparmiati, né presidenti o ministri o personaggi pubblici o stati o sentimenti condivisi. Non vale se prima si tappa la bocca alla satira dei Guzzanti o di Luttazzi (sui quali posso avere parecchie riserve in quanto a opinioni personali e messaggi politici riportati nei loro spettacoli) e poi si solidarizza coi morti parigini. Non vale se ci si offende se qualcuno ironizza sulla sua sacra patria o religione cristiana o su altre futilità e poi ci si lancia in tirate da ubriachi al bar dello sport su quanto sia brutta e cattiva la cultura dalla quale proviene un fenomeno come quello del fondamentalismo islamico. Non vale se prima si censura e si querela e poi si piange come coccodrilli. E non vale nemmeno se ci si ricorda della libertà di espressione solo quando ad essere ammazzati sono giornalisti occidentali che scrivono su un giornale occidentale che sostiene in sostanza posizioni occidentali. Ma tutto questo avviene puntualmente e non ci vuole molto per immaginare cosa ancora avverrà: i soliti utili idioti dediti alla causa del fondamentalismo religioso stavolta hanno fatto un bel regalo al Front National e ai suoi omologhi un pò ovunque, mentre hanno condannato i musulmani di Francia e d’Europa a doversi confrontare con una nuova prevedibile ondata di ostilità e generalizzazione di stampo razzista che magari stavolta troverà nuovi adepti anche a “sinistra”, nel nome di libertà di espressione e laicità. Bel paradosso, c’è poco da ridere.

*Non è un’idea mia: ho ripreso una considerazione fatta da José Antonio Gutiérrez in un articolo pubblicato in lingua spagnola su Anarkismo, estrapolata però dal contesto originale.

Curdi vs. Stato Islamico: un pò di chiarezza.

Già da diverse settimane avrei voluto buttar giù alcune riflessioni sugli avvenimenti in corso tra il nord dell’Iraq e la Siria, dove imperversa attualmente una guerra tra le popolazioni curde e i fondamentalisti islamici dell’ISIS (Stato Islamico in Siria e Iraq) o IS che dir si voglia. Al centro di tali riflessioni ci sarebbero state, come spesso accade quando scrivo su questo blog, più domande che risposte: da dove viene l’ISIS e da chi è stato appoggiato e aiutato a crescere militarmente questo schieramento? Qual’è il ruolo delle potenze occidentali (USA in primis) e degli altri Paesi dell’area mediorientale nell’attuale conflitto? Perchè le simpatie e l’appoggio da parte degli/lle anarchici/che dovrebbe andare ai curdi, oltre che per il fatto che essi lottano per la propria sopravvivenza minacciata da gente che porta avanti idee a progetti per noi a dir poco ripugnanti? E il PKK, non si trattava di un’organizzazione di stampo stalinista, lontana anni luce da concezioni e progettualità libertarie? A dare le risposte a queste ed altre domande ci pensa un articolo tra i migliori che io abbia letto di recente, conciso (sì, è ben difficile esaurire un argomento del genere in uno spazio più breve!) ma al tempo stesso abbastanza completo, che riporto di seguito, tratto dal sito Anarkismo:

“Tra le macerie dell’imperialismo USA:

Il PKK, le YPG e lo Stato Islamico


Le notizie che vanno per la maggiore raccontano le storie degli orrori commessi dallo Stato Islamico (IS) in Siria ed in Iraq ma anche di come gli Stati Uniti vogliano apparentemente mettere fine a questi orrori per ragioni umanitarie. Quello che non viene mai detto dai media privati e di Stato è da dove viene l’IS, quali sono le vere ragioni di questo nuovo intervento degli USA in Medio Oriente, della volontà degli USA di isolare e distruggere le uniche due forze che stanno realmente combattendo contro l’IS: il PKK e le YPG.

Come è nato lo Stato Islamico

L’evoluzione dell’IS da oscuro gruppo a forza di rilievo in Medio Oriente risale all’invasione ed occupazione statunitense dell’Iraq nel 2003, che portò alla morte di 1 milione e 400mila persone e ad atti di brutalità nei confronti della popolazione. Cosa che naturalmente ha alimentato sentimenti anti-USA in tutto il paese.

L’occupazione statunitense dell’Iraq si basava sulla tattica del divide et impera. Allo scopo di indebolire le possibilità di una resistenza unitaria all’occupazione, gli USA hanno appoggiato l’autonomia di parti del popolo curdo nell’Iraq settentrionale sotto il governo del Governo Regionale Curdo (KRG), guidato da un corrotta classe dominante filo-USA. Gli Stati Uniti hanno anche favorito la violenza settaria in Iraq, sempre per rendere difficile ogni unità popolare contro l’occupazione. In questo quadro rientra l’appoggio ad un governo fantoccio – nonostante fosse guidato dalla linea dura dei politici sciiti più vicini al regime iraniano – che ha represso ampi settori della popolazione sunnita.

E’ in questo contesto che l’IS si è sviluppato come forza sotto la guida di Abu Bakr al-Baghdadi. Molte persone, in particolare sunniti, si sono unite all’IS perché lo vedono come l’unica organizzazione capace di difendere la popolazione sunnita e di resistere tanto all’occupazione USA quanto al governo fantoccio di Baghdad. Ecco perché l’IS ha guadagnato un sostegno di base nonostante sia un’organizzazione brutale ed autoritaria.

Benché l’IS sia un’organizzazione anti-imperialista ed anti-USA, lo è da una posizione reazionaria e di estrema destra. Da tempo persegue lo scopo di instaurare uno stato totalitario sotto la sua dittatura che incorpori ampie porzioni del Medio Oriente. Nel perseguimento di questi suoi ambiziosi scopi politici l’IS si è fatto una storia di atrocità ed omicidi di massa commessi contro i suoi oppositori, siano essi musulmani o membri di rivali gruppi jihadisti. Tutti quelli ritenuti come loro oppositori sono stati trattati con estrema violenza, specialmente coloro dimostratisi riluttanti o non disposti ad abbracciare la loro ideologia estremista. Nella loro politica è centrale la sistematica oppressione delle donne. Tale visione misogina si è tradotta nella riduzione in schiave sessuali delle donne catturate.

Inizialmente, quando l’IS iniziava ad essere una forza in Iraq, gli USA chiusero deliberatamente un occhio, anche se c’erano le prime atrocità, perché gli Stati Uniti volevano che l’Iraq restasse diviso. Quando gli USA se ne sono andati dall’Iraq nel 2011, l’IS controllava già parti del paese.

L’intervento in Siria getta benzina sul fuoco

Non contenti di aver destabilizzato l’Iraq, nel 2011 gli USA iniziarono ad usare le proteste di massa e la guerra civile che ne è seguita in Siria per destabilizzare ed indebolire il regime di Assad. Non si trattava ovviamente di un loro appoggio alle proteste ed alle frazioni in lotta contro il regime di Assad nella guerra civile, perché non era loro interesse sostenere la domanda di democrazia in Siria, quanto piuttosto per gli USA di difendere i propri interessi imperialisti. Era evidente che per gli USA il regime di Assad era troppo vicino alla Russia ed all’Iran. Infatti, gli USA non volevano destabilizzare il regime siriano per la sua brutalità – di ieri e di oggi – quanto perché il governo siriano non era del tutto in linea (per sue proprie ragioni) con i programmi dell’imperialismo USA nella regione.

Quando nel 2011 in Siria scoppiarono le proteste popolari contro il regime, nel contesto della Primavera Araba e sulla base di un reale desiderio di mettere fine alla dittatura di Assad per creare una società migliore nel paese, gli Stati Uniti si attivarono per trarre vantaggi dalla nuova situazione. Benché le proteste di massa in Siria non fossero alimentate dagli USA, questi le hanno usate e retoricamente sostenute per cercare di far progredire i loro piani.

Alla brutale repressione delle proteste da parte del regime di Assad è seguita la guerra civile, in cui sono emersi vari gruppi armati. Alcuni erano jihadisti, altri più laici. Alcune frazioni dell’esercito al comando di generali corrotti hanno abbandonato il regime agli inizi della guerra civile costituendosi in Esercito Siriano Libero (FSA), subito rifornito di armi dagli USA.

Ma, nonostante le posizioni anti-USA, gli Stati Uniti hanno armato anche vari gruppi estremisti islamici e jihadisti che erano entrati in guerra contro il regime siriano. Ben presto molti miliziani di questi gruppi estremisti sono entrati nell’IS (che agli inizi era vagamente legato ad al-Qaeda, per poi distaccarsene per differenze politiche e tattiche). Alcune delle più importanti forze combattenti che sono entrate nell’IS erano milizie con esperienze di combattimento in Cecenia, a cui gli USA hanno fornito armamenti appena si sono unite alla guerra in Siria. Come risultante di questo processo in Siria, l’IS è diventato una della più potenzi forze militari – essendosi dotato di armamenti tra cui i carri armati T-55 e T-72 ed i missili SCUD presi dalle altre forze e di equipaggiamento di origine USA portato dalle altre forze jihadiste – e dal 2013 è padrone di parti della Siria, in particolare della città di al-Raqqa.

Nelle città siriane sotto il suo controllo, come al-Raqqa, l’IS ha instaurato una dura dittatura. Chiunque viene visto come un oppositore viene eliminato, anche tramite esecuzioni di massa. Il controllo dell’IS non viene esercitato solo sulla base della paura, ma anche sull’erogazione di welfare. L’IS ha effettivamente nazionalizzato alcune industrie, il settore bancario, lasciando anche che alcune industrie rimanessero alla proprietà privata. Ha anche imposto tasse più alte per i ricchi, sviluppando con tali proventi maggiori servizi sociali. Nonostante, dunque, sia una forza di estrema destra, l’IS si è guadagnato con tali misure il sostegno delle popolazioni delle aree siriane sotto il suo controllo.

Nel 2014, l’IS ha usato le sue basi in Siria per lanciare nuove operazioni militari in Iraq. Nel corso di questa nuova fase della sua campagna militare in Iraq ha sconfitto l’esercito iracheno in diverse parti del paese, appropriandosi di grandi quantità di moderni armamenti USA che erano stati forniti all’esercito iracheno. Quando l’IS ha assediato pozzi di gas e di petrolio iracheni di importanza per gli USA ed è divenuto una minaccia militare per il governo iracheno e per il KRG alleati degli ISA, allora l’IS è diventato un problema per gli Stati Uniti.

Il sostegno al KRG ed al governo iracheno

Per assicurarsi la riconquista dei pozzi di gas e di petrolio occupati dall’IS e per fermarne l’avanzata in Iraq, gli Stati Uniti stanno fornendo servizi di intelligence ed armi al KRG ed al governo iracheno. Gli USA hanno anche condotto attacchi aerei contro l’IS in Iraq e di recente in Siria su aree come al-Raqqa. La realtà però è che l’esercito iracheno ed il KRG sono stati inefficaci contro l’IS. Il che ha portato gli USA a dispiegare delle forze speciali in Iraq, apparentemente a supporto dell’esercito iracheno e dei curdi del KRG, ma in realtà per affrontare direttamente l’IS. Certo è che se il governo iracheno ed il KRG continuano a dimostrarsi inefficienti contro l’avanzata dell’IS, gli USA potrebbero essere costretti ad impiegare altre truppe per cercare di fermare l’IS.

Le forze progressiste

Ci sono, comunque, forze progressiste – il PKK e le YPG – in Iraq ed in Siria che si sono dimostrate efficaci, ancorché male armate, nel contrastare l’IS. Ma gli USA si rifiutano di appoggiare il PKK e le YPG contro l’IS, a causa della politica progressista di questi due gruppi.

Il PKK ha una lunga storia di lotta di liberazione nazionale contro la Turchia, alleato degli USA, ed è considerato da questi un’organizzazione terroristica. Nel corso di questa guerra, i quadri del PKK hanno acquisito una vitale esperienza militare.

Recentemente, il PKK ha combattuto l’IS per fermarne l’espansione nel nord dell’Iraq dove si stava rendendo responsabile di atrocità contro le popolazioni residenti. Lo scorso agosto il PKK si è mobilitato dalla Turchia in Iraq per fermare il massacro dei rifugiati curdi da parte dell’IS. E continuano a mantenere posizioni chiave nell’Iraq settentrionale.

Nonostante l’iniziale influenza maoista, il PKK e soprattutto il suo fondatore Abdullah Öcalan sono stati fortemente influenzati da alcune idee – sebbene non tutte – del socialista libertario Murray Bookchin. Lo stesso Bookchin che agli inizi della sua vita politica era uno stalinista, si è poi spostato su posizioni anarchiche adottando una forma di socialismo libertario fondato sul comunalismo e sul municipalismo libertario. Per cui, anche se il PKK nasce come gruppo di guerriglia marxista-leninista, a partire dai primi anni 2000, è andato adottando le idee di sinistra libertaria, cuore degli scritti di Bookchin.

Avendo parte di esso fatto dei passi verso una forma di libertarianismo di sinistra, il PKK ha assunto posizioni critiche sullo Stato come struttura, ora visto come oppressivo, gerarchico ed in ultima analisi difensore di una minoranza dominante e del capitalismo. Lo scopo del PKK ed il fine delle sue lotte è una rivoluzione nel Medio Oriente, cosa che induce gli USA a diffidare. All’interno di questa rivoluzione ed in linea con il suo orientamento da sinistra libertaria, il PKK ha esplicitamente stabilito che non è suo scopo creare uno stato, bensì un sistema di democrazia diretta che verrebbe istituito da assemblee popolari, consigli e comuni confederati tra loro. Questo sistema è stato chiamato “confederalismo democratico”. Sebbene questo sistema sia anti-statalista, reputi lo Stato quale ostacolo decisivo alla libertà ed all’uguaglianza e fornisca una visione dell’auto-governo basato sulla democrazia diretta, permangono degli elementi di ambiguità tattica sul fatto se lo Stato debba essere esplicitamente liquidato nel processo rivoluzionario (come sostengono gli anarchici) o se lo Stato possa semplicemente ritirarsi all’interno di un espandersi della democrazia diretta, senza necessariamente essere liquidato.

Oltre ad essere per una forma di auto-governo libertario, il PKK è anticapitalista e punta a cercare di costruire un’economia che sia gestita per soddisfare i bisogni del popolo. Per cui si punta a creare un’economia più ugualitaria, ma non è stato stabilito se tale economia sarebbe basata sull’autogestione dei lavoratori e sulla socializzazione dei mezzi di produzione e della ricchezza. Perciò, sebbene sia stato fortemente influenzato da idee di sinistra libertaria e benché si tratti di un movimento progressista (anche alla luce della forte presenza femminista), il PKK non può essere considerato come del tutto anarchico.

Gli USA, ovviamente, non prendono bene la politica progressista del PKK dal momento che se una rivoluzione basata sulle idee del PKK dovesse prendere piede in Medio Oriente, gli interessi imperialisti statunitensi nella regione verrebbero completamente compromessi.

Influenzati da alcune di queste idee del PKK, ma apparentemente non da tutte, i Curdi nella Siria settentrionale – un’area nota come Rojava – hanno iniziato dal 2011, all’indomani della rivolta contro il regime siriano, a istituire consigli ed assemblee. Questi organismi – a volte definiti col termine di comuni – sono confederati insieme nel Comitato Supremo Curdo che funziona come organismo di coordinamento. Sebbene si tratti di strutture basate sulla democrazia diretta, non è chiaro se anche l’economia sta subendo trasformazioni in una direzione più ugualitaria. Cioè non è chiaro se la democrazia diretta nella sfera politica sia stata estesa anche alla sfera economica. Inoltre, non è chiaro – e non è menzionato nei vari report – se nella Rojava ci siano stati dei passi verso la socializzazione o la collettivizzazione dei mezzi di produzione e della ricchezza, anche se si sa di redistribuzione delle terre. Nonostante ciò, la sperimentazione di consigli e di assemblee nella Rojava va avanti (pur in presenza di minacce interne da parte di partiti che vorrebbero istituire una struttura statalista). Ciò che anche è progressista e che va avanti è la liberazione delle donne, che è uno dei fronti avanzati delle iniziative nella Rojava.

Per difendere il territorio della Rojava sono state istituite nel 2011 le YPG, una struttura militare a milizie. All’interno di esse le donne svolgono un ruolo dirigente. Sono state le YPG le forze più efficienti nei combattimenti contro l’IS in Siria. Certo è che la milizie YPG hanno acquisito esperienza come combattenti in un breve lasso di tempo, dal momento che prima di essere impegnate nella difesa del territorio contro l’IS, le YPG hanno dovuto difendersi da elementi del FSA (con cui però sono ora alleate in chiave anti-IS), o da altri gruppi jihadisti e dall’esercito siriano.

Per tutto il 2013 ed agli inizi del 2014, le YPG hanno fatto arretrare l’IS allargando i confini della Rojava. Alla fine del settembre 2014, però, l’IS ha lanciato un’altra grande offensiva contro la Rojava, utilizzando non meno di 40 carri armati contro le YPG che invece non dispongono di sufficienti armi pesanti. Attualmente, le YPG stanno combattendo una grande battaglia contro l’IS per il controllo della strategica città di Kobani, dentro il territorio della Rojava. Con i recenti bombardamenti degli USA contro l’IS nella Rojava, l’IS ha spostato ancora altre forze sul fronte di Kobani.

Tuttavia, per gli USA, le YPG ed il PKK restano minacce al pari dell’IS. La ragione sta nel fatto che nonostante certi limiti, queste forze stanno dimostrando che la società può essere gestita dal popolo in un modo più democratico e potrebbe essere possibile mettere fine al capitalismo, allo Stato, al patriarcato ed al dominio di classe grazie alle lotte ed ai movimenti di massa. Ecco perché gli USA si rifiutano di fornire assistenza alle YPG ed al PKK. A riprova di ciò, gli USA e la Turchia hanno concesso ai combattenti dell’IS di attraversare liberamente il confine turco per attaccare il PKK e le YPG. Inoltre, la Turchia ha bloccato con la forza al confine tutti coloro, soprattutto Curdi, che volevano entrare per unirsi alla lotta contro l’IS, specialmente ora che Kobani è sotto minaccia. Aggiungiamo che ora gli USA sembrano intenzionati a spingere il KRG a lanciare un attacco contro il PKK e possibilmente contro le YPG, nonostante l’incombenza della minaccia dell’IS.

Conclusioni

E’ evidente che l’IS è una forza reazionaria che non offre nessuna speranza per un futuro migliore per il Medio Oriente. L’IS vuole instaurare una dittatura e si mostra del tutto intollerante verso chiunque dissenta dalla sua politica. Dalle scelte degli USA, si coglie altrettanto chiaramente che non gli importa granché della democrazia o delle atrocità commesse dall’IS. Gli USA non sono interessati a che ci sia un Medio Oriente pacificato, libero ed uguale, dal momento che la sola cosa che sanno offrire è ancora più miseria per la classe lavoratrice della regione. Per la classe lavoratrice del Medio Oriente, solo le politiche e le iniziative messe in atto dal PKK e dalle YPG offrono – al momento – qualche prospettiva di un futuro migliore. Ecco perché, perversamente, gli USA vogliono distruggerle.

Shawn Hattingh

Traduzione a cura di FdCA-Ufficio Relazioni Internazionali.”

Mi ripropongo, tempo permettendo, di pubblicare prossimamente altro materiale informativo che aiuti ad approfondire ulteriormente la questione.

“Faranno un deserto e lo chiameranno pace”- oppure l’utopia.

Le prime immagini che ricordo di aver visto in vita mia su uno schermo televisivo sono quelle della prima intifada in Palestina: bambini e adolescenti che lanciano pietre contro carri armati israeliani. Se oggi accendessi la tv e mi sintonizzassi su un canale che trasmette un qualsiasi tg vedrei ancora immagini relative allo stesso conflitto: lo Stato d’Israele si difende, stavolta dagli attacchi dei fondamentalisti islamici di Hamas, Israele cerca vendetta contro gli assassini di tre suoi giovanissimi cittadini e la esegue con le proporzioni che da sempre le competono. Israele si difende dal 1948, anzi da prima ancora che venisse formalmente creato, da un popolo che non ha mai rappresentato una minaccia nei suoi confronti. Si difende come già negli anni ’30 del secolo scorso, quando i sionisti capeggiati da David Ben Gurion programmarono e in seguito misero in atto un piano di pulizia etnica nei territori che sarebbero poi entrati a far parte dello Stato di Israele, il che portò tra le altre cose alla cacciata e all’esilio -la naqba-, eseguita con metodi terroristici anche da gruppi quali Haganah, Irgun e Stern, di 250 000 palestinesi. Si difende dalla verità storica, ridisegnando confini a proprio piacimento, insegnando menzogne ai bambini nelle sue scuole, educandoli all’odio nei confronti degli arabi, impedendogli di aprire gli occhi di fronte alla realtà dei fatti, indottrinandoli a venerare l’esercito e preparandoli a farne parte. Si difende dai nemici interni, dai traditori, da quelli che raccontano segreti scomodi come lo scenziato Mordechai Vanunu così come da chi si rifiuta di servire lo Stato indossando la divisa e imbracciando un fucile. Si difende dalle critiche a livello internazionale, dalle manifestazioni di protesta, dagli appelli al boicottaggio e alle sanzioni: l’etichetta di antisemita viene distribuita con generosità a chiunque non taccia di fronte ai crimini commessi dai sionisti nei confronti della popolazione palestinese. Si difende contro quei terroristi dei palestinesi asserragliati nella striscia di Gaza.

Gaza è uno dei territori più densamente popolati al mondo. Non ha aereoporti, porti, stazioni ferroviarie: per sfuggire ai bombardamenti, beffardamente annunciati durante quest’ultima operazione di “autodifesa” da parte dell’esercito israeliano tramite telefonate o sms ai civili palestinesi (guai ad avere il cellulare scarico!), si calcola che questi ultimi abbiano circa 15 secondi di tempo. È ben difficile muoversi liberamente, nella striscia di Gaza, che anche al suo interno vede la presenza di check point dell’ esercito israeliano: star lontani da presunti obiettivi militari non serve, dato che l’Israeli Defence Force ha bombardato finora, nel corso dell’operazione militare in corso (per non parlare nel corso di quelle precedenti) abitazioni, scuole, asili, orfanotrofi, moschee, ospedali, ambulanze, autoveicoli privati, parchi giochi -e chi ci si trovava dentro o nei pressi . Alcuni dei possibili rifugi dalle bombe sarebbero i tunnel che attraversano Gaza, quegli stessi tunnel che l’offensiva di terra dell’esercito israeliano dice di voler distruggere e attraverso i quali verrebbero trasportate le armi destinate ad Hamas. Peccato che attraverso quei cunicoli sotterranei passino anche beni di prima necessità che scarseggiano tra la popolazione palestinese, inclusi materiali da costruzione: i palestinesi non possono edificare a Gaza, mentre possono svegliarsi una mattina e scoprire che la loro casa o il loro uliveto sono stati rasi al suolo per far posto ad un nuovo insediamento di coloni israeliani, che con le inutili risoluzioni dell’ONU ci si puliscono il deretano. L’economia di Gaza dipende interamente da Israele e dai suoi capricci, cosicchè l’85% circa della popolazione che vi risiede vive -o per meglio dire sopravvive, fino alla prossima operazione di “autodifesa israeliana”- sotto il tasso di povertà.

La situazione a Gaza, realisticamente parlando, non è destinata a migliorare, basti guardare come siano peggiorate le cose per la popolazione palestinese che vi risiede a partire dall’operazione Piombo Fuso lanciata da Israele alla fine del 2008. Probabilmente solo quando l’intera popolazione palestinese di Gaza (e possibilmente di tutti i territori facenti parte del fantomatico Stato Palestinese) sarà morta e/o emigrata e/o inglobata come cittadinanza di serie b nello Stato d’Israele, allora non ci saranno più aggressioni militari o conflitti di sorta, sempre che Israele non si senta minacciato da qualcun’altro e non ritenga necessarie nuove contromisure in nome della propria sicurezza a danno di altre popolazioni di altri territori in Medio Oriente. Da una prospettiva meramente utopica si potrebbe invece sognare qualcosa di diverso: un territorio senza Stati né governi centrali, dal quale vengano mandati in esilio solo i fondamentalisti d’ogni sorta e gli inguaribili nazionalisti, razzisti e guerrafondai, una terra nella quale i suoi abitanti possano insieme ed egualmente decidere, vivere, produrre, consumare, crescere, imparare, amare e un giorno morire possibilmente di morte naturale. Per arrivare ad un’utopia del genere, e badate che sto parlando di qualcosa di impossibile, i giovani e giovanissimi israeliani, ragazzi e ragazze non ancora maggiorenni, dovrebbero venire a sapere come siano andate le cose nelle terre da loro abitate ed in quelle limitrofi fin dagli inizi del secolo scorso; dovrebbero liberarsi dall’educazione che gli è stata imposta, dai dettami nazionalisti, militaristi, religiosi; dovrebbero rifiutarsi di prestare servizio militare nell’Israeli Defence Force, farsi magari sbattere in galera finchè non ci saranno più abbastanza galere, dopodiché i loro padri e le loro madri dovrebbero fare la stessa cosa, rendersi conto dei propri errori, della loro sudditanza, di come la vera e unica autodifesa nei confronti delle loro vite e di quelle dei loro cari sia smettere di credere alle menzogne del governo, smettere di seminare terrore, smettere di nutrire l’odio nei cuori di chi viene oppresso fabbricando sempre nuove generazioni di nemici. Quando in Israele si spegneranno le televisioni e si lasceranno a marcire nelle edicole i giornali della propaganda sionista, quando si sciopererà contro l’ennesima operazione militare nella Striscia di Gaza, quando ci si rifiuterà di applicare le leggi razziste promulgate dal knesset, quando le strade si riempiranno non di gente che sventola bandiere nazionali esultando ad ogni morto palestinese, ma di persone che si rifiutano di gettare bombe, innalzare muri o lavorare al servizio dell’ oppressione quotidiana o dell’ennesimo massacro, allora toccherà ai palestinesi fare la loro parte. Nessun inutile razzo, nessun kamikaze senza più nemmeno rispetto per la propria miserabile vita senza prospettive. I palestinesi dovranno prendere atto del cambiamento in corso nella società israeliana e fare il passo più difficile: perdonare. Senza volontà di vendetta, voltare pagina e ricominciare da capo insieme ai loro nuovi fratelli e sorelle. E, ovviamente, levarsi dai piedi gli irriducibili reazionari che ancora fossero rimasti tra le proprie file. Solo a questo punto si potrebbe realizzare la pace, una pace che non sia un deserto ma un presente degno di essere vissuto ed un futuro da costruire insieme.

Cercando l’impossibile, l’uomo ha sempre realizzato e conosciuto il possibile, e coloro che si sono saggiamente limitati a ciò che sembrava possibile non sono mai avanzati di un sol passo”. Michail Bakunin.
 
(Nelle foto sopra, alcune persone che hanno compiuto un passo in avanti: l’obiettore di coscienza israeliano Nathan Blanc e manifestanti israeliani che protestano contro l’ennesima aggressione militare del “loro” Stato nei confronti dei palestinesi di Gaza.)