Solidarietà con i compagni del ZACF!

Fonte: Anarkismo.

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” Quale libertà per tutti?

Militanti dello Zabalaza Anarchist Communist Front minacciati, attività interrotte, costretti a nascondersi

Condannare la violenza politica ed il terrore


Sud Africa, 16 Ottobre 2015: la sera del 9 ottobre un militante dello Zabalaza Anarchist Communist Front nel quartiere proletario nero di Khutsong (Johannesburg ovest), è stato minacciato violentemente da parte di un gruppo di giovani per il suo lavoro politico. La mattina dopo, una scuola politica gestita da lui e da un altro militante del quartiere è stata interrotta con la forza.

Nella notte del venerdì 6 ottobre, “Tebogo” (pseudonimo per ragioni di sicurezza) è stato fermato da 8 uomini. Gli hanno intimato di “non promuovere più le idee anarchiche” e di non fare più resistenza al governo perchè “l’African National Congress [ANC] deve governare i quartieri” altrimenti ci sarebbero state per lui gravi conseguenze. La mattina del sabato 10 ottobre, i compagni “Tebogo” e “Boitumelo” (*pseudonimo) sono stati fermati da circa 15 teppisti mentre stavano preparandosi ad ospitare la sessione mensile della scuola di formazione dello ZACF / Zabalaza in un locale del posto. Sono riusciti ad impedire che i teppisti entrassero, ma l’evento era ormai interrotto. Ci sono stati lanci di pietre e di minacce.

I due compagni dello Zabalaza sono fortunatamente riusciti a scappare, ma hanno dovuto rifugiarsi in un quartiere vicino. Nel frattempo, i teppisti hanno cercato “Tebogo” a casa sua. Abbiamo fatto tutto il possibile per aiutare i nostri compagni in questi tempi difficili.

Facciamo appello a tutte le strutture progressiste di unirsi a noi nell’opposizione e nella condanna di questi clamorosi atti di intimidazione e di terrore nei confronti della classe lavoratrice nera. I fatti di Khutsong purtroppo non sono incidenti isolati. Come tali, dovrebbero essere visti con estrema gravità, anche per possibili letali conseguenze.

E’ normale per i dirigenti dei partiti politici radicati nei quartieri assumere teppisti per fare il lavoro sporco di intimdazione e di aggressione verso gli attivisti. Agli inizi del 2015, ad esempio, una riunione di quartiere organizata da attivisti di base di Abahlali Freedom Park, a Johannesburg sud, era stata attaccata da teppisti assoldati chiaramente da un consigliere locale dell’ANC e dai suoi sodali. Parecchi militanti della comunità sono finiti in ospedale, di cui uno in unità intensiva. Gli attacchi ai diritti umani fondamentali ed alla libertà sono ormai fatti di ogni giorno.

Siamo sollevati dal fatto che i nostri compagni di Khutsong non hanno subito la stessa sorte e che i compagni con cui lavorano a Freedom Park continuino a lottare.

Ma noi siamo anche consapevoli che non c’è scampo per nessuno, che una sorte simile può colpire attivisti che osano tenere comizi ed ergersi contro lo sfruttamento, gli abusi, la corruzione, le disciminazioni che opprimono la classe lavoratrice nera e ci cui beneficia la classe dirigente.

Chiediamo agli attivisti di lottare per un Sud Africa migliore, per un mondo migliore, per un futuro più luminoso,per essere fermi e rifiutarci di essere imtimiditi e piegati all’inazione dai sicari del partito al governo. Poichè ci aspettiamo solo che il terrore aumenti, occorre che la lotta di classe continui a progredire.

Chiediamo dunque alle organizzazioni ed alle individualità di:

  1. sottoscrivere questo documento inviando una email a acf[at]riseup.net o usando la funzione commenti sotto
  2. far circolare queste notizie ovunque
  3. denunciare pubblicamente tutti i casi di terrore politico

Basta con le intimidazioni politiche contro gli attivisti neri quartieri!

Difendere il diritto alla libertà di espressione ed alla libertà di associazione!

Nessuno è libero finchè non sono liberi tutti!

https://www.facebook.com/zabalazanews
Zabalaza.net

Traduzione a cura di Alternativa Libertaria/FdCA – Ufficio Relazioni Internazionali ”

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Ciò che è giusto e ciò che è legale.

Risultati immagini per erri de lucaIl prossimo 19 Ottobre si terrà il processo che vede imputato lo scrittore Erri De Luca, accusato di aver sostenuto la legittimità del sabotaggio come mezzo di lotta contro il progetto dei treni ad alta velocità. I pm che imbastiscono l’accusa, i ben noti Rinaudo e Padalino, come sempre dediti all’attacco del movimento NO-TAV, chiedono per De Luca una condanna a 8 mesi di carcere.

Il 15 Agosto, nella zona della Renania, in Germania, un migliaio di manifestanti del coordinamento Ende Gelände hanno bloccato i lavori nella miniera di carbone a cielo aperto del colosso energetico RWE, per protestare col metodo dell’azione diretta e della disobbedienza civile contro la devastazione ambientale e l’inquinamento. Sono piovute, oltre che manganellate e spray urticante, anche 800 denunce, che hanno colpito non solo gli/le attivisti/e ma anche alcuni/e giornalisti/e presenti sulla scena. La RWE ha gentilmente messo a disposizione della polizia, oltre che il personale della sicurezza privata, i propri mezzi per poter provvisoriamente fermare e identificare gli/le attivisti. O meglio, lo Stato ha come sempre messo a disposizione le proprie forze repressive per difendere gli interessi della grande proprietà privata.1 La collusione tra apparati repressivi statali e interessi capitalisti è ovvia: difesa del capitale e degli interessi economici über alles und überall. Ma disobbedire ad una legge di uno Stato, creata oggi e revocabile domani dai pochi che detengono il potere, non è la stessa cosa che disobbedire ad una legge fondamentale della natura (e della logica, direi!) che impone che il pianeta nel quale tutti/e noi viviamo vada salvaguardato per noi e per le future generazioni piuttosto che depredato e devastato. Nel primo caso si rischiano gogne mediatiche, processi, multe,  mesi o anni di carcere o comunque provvedimenti restrittivi della libertà personale, nel secondo caso si rischia la catastrofe, l’annichilimento del genere umano e delle altre specie viventi che popolano la Terra. Mettere im pratica azioni che contrastino con la logica del profitto ai danni della vita, della salute, del benessere collettivo o anche solo giustificare tali azioni verbalmente può anche essere un reato per uno Stato, per un sistema giudiziario, ma è senza ombra di dubbio un fatto non solo legittimo, ma necessario da un punto di vista etico, se l’etica è degna di questo nome. Dov’è la violenza? Nel danneggiamento di un macchinario usato per portare a termine un’opera nefasta, nel bloccare un’attivitá nociva, o nell’opera nefasta e nell’attività nociva? E cosa istiga alla resistenza attiva contro un’ingiustizia, un sopruso, un male arrecato a noi e alla terra sulla quale viviamo: le parole di una qualsiasi persona, più o meno nota che sia, che parla con coscienza e senza timore, o forse il sopruso, l’ingiustizia, il male di per sé? Chi lotta contro la devastazione ed il saccheggio delle risorse comuni deve sempre porsi problemi di ordine morale, mentre i nostri nemici si pongono quelli di ordine legale, perchè le leggi -almeno quelle artificiali, create da chi serve il sistema dominante- sono dalla loro parte. Dalla nostra parte c’è il coraggio di dire ciò che si pensa e di agire in prima persona senza scioccamente affidarsi alle false soluzioni e alle parole vuote di chi il problema lo ha creato, c’è la costanza e l’affetto nel tendere la mano a chi lotta con noi e si trova in difficoltà. Rispetto e solidarietà per Erri De Luca e per chiunque diventi un granello di sabbia nell’ingranaggio dell’ingiustizia che il sistema chiama giustizia.

Il Kurdistan chiama: rispondiamo!

Le terre comprese tra Iran, Irak, Siria e Turchia abitate prevalentemente dalla popolazione curda sono da decenni sotto il fuoco incrociato della repressione dei diversi Stati ai quali ufficialmente appartengono le rispettive porzioni di territorio. La Turchia in particolare ha un conto in sospeso con i curdi: dopo aver tentato di assimilarli senza successo, facendo largo uso della più brutale violenza nei casi di reticenza o resistenza da parte della popolazione civile, avendo ancor meno successo nella lotta contro la guerriglia creatasi come conseguenza al totale rifiuto di soluzioni diplomatiche e pacifiche da parte del potere dello Stato turco, dopo aver giocato la carta dell’appoggio nemmeno troppo velato ai fondamentalisti islamici dell’ISIS ( o, per chiamarli con il termine dispregiativo più appropriato, Daesh), oggi finge di entrare in guerra contro i combattenti del califfato mentre in realtà bombarda le postazioni dei/lle resistenti curdi/e, che dal canto loro avevano di recente cessato qualsiasi ostilità nei confronti delle autorità turche. Allo Stato turco, fortemente centralista e apertamente autoritario, non va giù che in Kurdistan sia ormai in atto, da almeno un decennio a questa parte, un processo di autogestione comunale profondamente democratico, che coinvolge organizzazioni di base composte dagli/e abitanti di villaggi e quartieri delle città. L’obiettivo di questo processo non è quello di creare uno Stato curdo indipendente, bensì quello di autogestire le risorse comuni in modo orizzontale, secondo il principio della democrazia di base, per far fronte alle esigenze della popolazione di un’area geografica particolarmente povera e oppressa. Anche l’abbandono da parte del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) dell’ideologia marxista-leninista a favore di una concezione tendenzialmente socialista libertaria, simile a quella espressa nelle opere dell’anarchico statunitense Murray Bookcin, “padre” di concetti quali ecologia sociale e municipalismo libertario, ha avuto un ruolo importante nell’influenzare le prospettive di cambiamento sociale, economico e politico. Col passare del tempo sono stati creati nel Kurdistan “turco” collettivi e cooperative nel settore agricolo, edilizio, scolastico, sanitario, culturale ed artigianale, organizzazioni di base giovanili e femminili, realtà che si coordinano tra loro e che collaborano con le amministrazioni comunali “amiche” e disposte a sostenere lo sviluppo dell’autogestione, secondo la logica -sempre citando Bookchin- del conflitto Comune-Stato; si tenta un’approccio produttivo che esuli dalla logica capitalista, ancora relativamente poco sviluppata in quelle terre; si fa ricorso a comitati di mediazione e pacificazione per risolvere diatribe e far fronte al crimine, alle violenze private ed alle faide familiari; si creano regole proprie, comunemente decise, per aggirare quelle eteronome dello Stato centrale;  le donne si integrano, non senza dover superare grossi ostacoli ma in ogni caso con enorme successo, nei processi decisionali, si rendono economicamente indipendenti, imparano a difendersi dalle violenze e ad acquisire autostima e consapevolezza scardinando i residui della vecchia società patriarcale, divenendo il motore della rivoluzione sociale in corso- il tutto con un’approccio ecologista.  Di per sé è straordinario che questo processo di cambiamento, lento ma inesorabile, sia andato avanti fino allo scoppio del conflitto in Siria e all’aggressione terroristica di Daesh, ma è ancor più straordinario che tutto ciò vada avanti nonostante la guerra oggi in atto. Un processo simile coinvolge i cantoni autonomi curdi ufficialmente appartenenti allo Stato siriano, che implementano il confederalismo democratico in una situazione a dir poco proibitiva. I curdi e chi lotta al loro fianco al di lá di divisioni etniche o religiose, armeni, yazidi, assiri, aramei, arabi, turchi e turcomanni, cristiani o musulmani, aleviti o zoroastriani o atei che siano, necessitano di tutto il sostegno possibile nella loro lotta contro l’aggressione dei fondamentalisti islamici di Daesh e dei governi degli Stati che tentano di impedire la loro emancipazione. Ci sono momenti nei quali i dibattiti su aspetti teorici di un processo di cambiamento sono indispensabili e si può tranquillamente discutere sulla differenza fra “lotta di classe” e “lotta popolare”, fra abolizione della proprietà privata e uso comune di tale proprietà, fra abolizione dello Stato e appoggio alle istituzioni locali in chiave decentralista; ci sono invece momenti nei quali la  domanda che ciascuno/a di noi dovrebbe porsi urgentemente è: come possiamo appoggiare il cambiamento in corso, come possiamo sostenere la lotta dei curdi e delle popolazioni minacciate dai fondamentalisti islamici e dalla violenza militare dello Stato turco, come dare una mano a profughi e sfollati? Io avrei un paio di modesti suggerimenti, basati sulla mia esperienza personale di attivismo politico e su azioni tuttora in corso o svoltesi nei mesi passati in diverse parti del mondo. Suggerimenti forse vaghi, generici, alcuni più efficaci di altri, chissà, ma restare fermi a guardare non è un’opzione accettabile non dico per un anarchico/a, ma per chiunque conservi ancora un briciolo di umanità, di solidarietà, di sincero amore per la libertà. Inoltre penso che più si rafforza la solidarietà internazionale di chi ha a cuore la rivoluzione sociale libertaria e meno peseranno alla fine del conflitto gli aiuti “sbagliati” (per quanto sembrino ora decisivi almeno su un piano militare), quelli dei Paesi Occidentali sempre interessati al proprio tornaconto nazionale ed al controllo politico ed economico di intere aree geografiche a prescindere dalla volontà delle popolazioni che le abitano…. Pertanto: Che fare?

Informare ed informarsi:Risultati immagini per solidarity kurdistan donations

i massmedia mainstream riportano solitamente notizie e dichiarazioni  di fonte turca. Diamo voce a chi appoggia la resistenza curda, diffondiamo interviste, comunicati, video, aggiornamenti. Usiamo tutti i mezzi a nostra disposizione, soprattutto internet, ma non dimentichiamo la comunicazione diretta con le persone “in carne e ossa”. Spieghiamo ad esempio non solo quanto sia importante la lotta contro Daesh, ma anche e soprattutto chi sta lottando VERAMENTE contro i fondamentalisti islamici e che tipo di cambiamento è in corso nella società curda. Se possibile andrebbero organizzate conferenze e dibattiti pubblici con persone che hanno una conoscenza il più possibile approfondita della questione curda;

– Protestare e fare pressione:

Risultati immagini per we stand in solidarity with freedom fighters of Rojavain numerose città sono state organizzate proteste sotto le ambasciate e i consolati turchi, contro le politiche assassine del partito AKP di Erdogan, in solidarietà ai/lle combattenti curdi, contro il fondamentalismo islamico. E-Mail e lettere di protesta di massa indirizzate alle rappresentanze istituzionali turche, boicottaggi ben organizzati e ampiamente pubblicizzati, manifestazioni e presidi possono essere metodi di pressione efficaci e danno la possibilitá di portere all’attenzione pubblica questioni altrimenti rimosse o manipolate dai massmedia:

-Raccogliere fondi:

da diversi mesi a questa parte sono state messe in campo svariate iniziative atte a raccogliere denaro necessario per la ricostruzione delle infrastrutture, per procurare beni di prima necessità agli/lle sfollati, per la sanità, per sostenere progetti e associazioni locali esistenti anche da prima dello scoppio guerra, ma anche per acquistare armi necessarie all’autodifesa della popolazione. Sono stati organizzati concerti, cene benefit, tombole, mercatini, collette, sono state prodotte e vendute magliette che oltretutto servono anche a comunicare un messaggio chiaro e a stimolare la curiositá e un possibile dialogo con le persone che incontriamo quotidianamente. A volte basta davvero poco, anche solo un barattolo con su scritto “offerte per i/le combattenti curdi in Rojava” durante una festa. I fondi possono essere destinati a una o più organizzazioni che operano sul posto e usati per diversi scopi, nel dubbio contattare gruppi organizzati di persone che si recano in Kurdistan o che hanno contatti diretti con le persone del posto. Per chi avesse bisogno di qualche esempio dalla Germania può cliccare qui.

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“Turchia: Bombe di Stato contro la ricostruzione di Kobanê”

Fonte: Umanità Nova.

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La mattina di lunedì 20 luglio a Suruç nel giardino del centro culturale Amara è esplosa una bomba durante la conferenza stampa dell’organizzazione turca Federazione delle Associazioni dei Giovani Socialisti (SGDF). Circa 30 persone sarebbero rimaste uccise nell’esplosione, oltre 100 giovani invece sarebbero feriti, di cui alcuni in gravi condizioni. Tra le vittime, oltre a numerosi giovani militanti socialisti, vi sono anche due compagni anarchici, entrambi di 19 anni. Evrim Deniz Erol e Alper Sapan, quest’ultimo faceva parte del gruppo Iniziativa Anarchica di Eskişehir ed era obiettore di coscienza al servizio militare.

Suruç è una cittadina a maggioranza curda in territororio statale turco, che si trova a ridosso del confine con la Siria ed è base per tutte le azioni di solidarietà rivolte verso Kobanê, che dista solo pochi chilometri. Per questo circa 300 membri del SGDF si trovavano presso il centro culturale per una conferenza stampa in cui stavano denunciando la repressione attuata dal governo turco allo scopo di impedire che i giovani militanti passassero il confine per lavorare a progetti di ricostruzione della città. Quasi contemporaneamente un altro attentato a Kobanê, vicino al valico di frontiera di Mürşitpınar, verso Suruç, faceva ulteriori vittime tra le forze curde di autodifesa. L’attentato al centro culturale Amara viene per ora attribuito allo Stato Islamico, in ogni caso è chiaro che l’attacco risponde agli interessi di coloro che vogliono bloccare in ogni modo qualsiasi possibilità di cambiamento sociale rivoluzionario nella regione, a partire dal governo turco e dai suoi sicari. Per comprendere il contesto in cui è avvenuto questo attacco terribile, cerchiamo di ripercorrere gli eventi degli ultimi mesi.

Dopo le note vicende dell’assedio da parte delle milizie dello Stato Islamico alla città di Kobanê nell’autunno-inverno dello scorso anno, la situazione in Rojava è andata progressivamente modificandosi a seguito della liberazione della città, avvenuta nel Gennaio del 2015 per mano delle milizie curde YPG (Unità di Protezione del Popolo) e YPJ (Unità di Protezione delle Donne, milizia femminile) e delle altre forze che combattono al loro fianco.

Il Kurdistan in zona siriana (Rojava) è diviso in tre diversi cantoni. Nella zona nord orientale della Siria si trova il cantone di Cizire, quello geograficamente più grande e popolato. A nord ovest vi è invece il cantone di Efrin. Tra i due cantoni vi è quello di Kobanê. I tre cantoni sino al Giugno del 2015 hanno avuto degli ingenti problemi di collegamento, data la presenza di truppe dello Stato Islamico e di altri gruppi che bloccavano ogni possibilità di scambio tra le regioni.

I combattimenti nelle zone intermedie tra i tre diversi cantoni si sono difatti susseguiti ininterrottamente dal 2013 sino a oggi. Oltre ciò, non minore importanza ha avuto la chiusura ufficiale, predisposta dalla Turchia, di svariati valichi di confine con i territori controllati dalle forze curde. Azione che ha isolato ulteriormente le zone sotto il controllo dei curdi e che ha impedito ed impedisce anche oggi l’arrivo di qualsiasi assistenza ai territori martoriati dai continui attacchi dello Stato Islamico, bloccando a tempo indeterminato anche il flusso regolare di profughi in fuga. Va ricordato che nel periodo in cui le forze curde ancora non controllavano completamente alcune delle zone settentrionali della Siria, che allora erano nella maggior parte dei casi in mano a forze legate a gruppi islamisti che si sarebbero uniti successivamente allo Stato Islamico, lo stato turco tenne alcuni valichi di frontiera aperti a “tempi alterni”. Tale azione venne giustificata dall’esigenza di mantenere una continuità commerciale con il territorio siriano, aprendo e chiudendo, svariate volte e con violenza, l’accesso in Turchia ai profughi in fuga dagli scontri violentissimi tra varie fazioni. Attraverso questi valichi di frontiera sono transitati nel tempo rifornimenti per Al-Nusra e lo Stato Islamico. Non si è certo trattato di semplice negligenza nei controlli di frontiera da parte della Turchia, dal momento che il governo turco ha in numerose occasioni dimostrato il proprio sostegno a forze controrivoluzionarie come lo Stato Islamico sia in Siria sia all’interno del territorio turco, utilizzando formazioni paramilitari fasciste e religiose nella repressione dei rivoluzionari e dei militanti curdi.

L’atteggiamento del governo turco è sempre stato chiaro. Il confine sotto il controllo turco tra il paese anatolico e la Siria apre e chiude le sue porte in base all’utilità politica della situazione interna alla Turchia ed a quella del nord della Siria. Da un lato l’apertura e l’accoglienza apparente verso i profughi in determinati periodi dell’anno, dall’altra il blocco e la repressione violenta con la volontà d’interrompere ogni collegamento tra le due sponde quando la situazione politica nei due territori minaccia la stabilità politica del territorio turco. Al contempo i combattenti dello Stato Islamico attraversano tranquillamente il confine sotto gli occhi dei militari turchi. Un esempio lampante di tali politiche lo si è avuto con la repressione violenta esercitata dall’esercito turco e la Jandarma (polizia militare turca) durante l’assedio da parte dello Stato Islamico a Kobanê del 2014. Allora migliaia di persone in fuga dalla città, soprattutto curde, vennero duramente attaccate dalle autorità turche che ne stavano impedendo il passaggio. Fu di molti feriti e qualche morto il bilancio di quelle settimane.

Nel Giugno di questo anno, le YPG e le YPJ, hanno condotto un’operazione per tentare di riunificare il cantone di Kobane a quello di Cizire, cercando di liberare dallo Stato Islamico una delle città più importanti della zona settentrionale della Siria, Tall Abyad e la zona circostante.

La città di Tall Abyad, dopo la riconquista da parte delle YPG/YPJ della città di Kobanê, ha assunto per lo Stato Islamico un ruolo strategico e politico centrale. Tall Abyad difatti, conquistata dallo Stato Islamico nel Giugno del 2014, è rimasta sino a qualche mese fa, l’unico valico di frontiera nel nord est della Siria sotto il controllo dello Stato Islamico, permettendo ad esse di ricevere un regolare flusso di aiuti e combattenti provenienti dal territorio turco; il tutto come sempre sotto l’occhio accondiscendente dello stato turco.

Durante tutto l’arco del 2014, le milizie dello Stato Islamico hanno condotto nella zona un’ingente operazione di riassestamento demografico, minacciando di morte i curdi dell’area mediante un’operazione di allontanamento forzato dall’area. Durante l’estate del 2014 sono state molte le famiglie curde, turcomanne ed anche arabe che hanno abbandonato la zona per paura di ripercussioni.

Nel giugno scorso le operazioni delle YPG e delle YPJ hanno portato nel giro di qualche giorno alla liberazione della città di Tall Abyad. Durante lo stesso mese, in Turchia, si sono tenute le elezioni per rinnovare il parlamento ed eleggere il primo ministro della Repubblica, in un contesto politico nel paese fortemente conflittuale. Il partito di Erdoğan non è riuscito ad ottenere la maggioranza, mentre il partito a base curda HDP (Partito Democratico dei Popoli) ha conseguito più del 13% dei voti, entrando di diritto nel parlamento della Repubblica Turca. Questo è avvenuto nonostante il blocco di potere al governo, guidato dal partito conservatore-religioso AKP (Partito della Giustizia e dello Sviluppo), abbia tentato con ogni mezzo di ostacolare l’opposizione. Le elezioni infatti furono insanguinate da aggressioni contro attivisti curdi e dei partiti di sinistra, attacchi che culminarono con le bombe di stato ad Amed (Diyarbakir) il 5 giugno che provocarono 4 morti durante un comizio dell’HDP. L’esito delle elezioni, accompagnato dalle continue vittorie sul campo delle forze curde in territorio siriano e da un progressivo radicamento delle forze della sinistra rivoluzionaria in tutto il paese anatolico, hanno condotto il governo di Ankara ad aumentare la violenza della repressione interna.

Ankara non ha digerito la doppia sconfitta ed ha dichiarato, durante un incontro del Consiglio Nazionale di Sicurezza Turco (MGK), la decisione di implementare la sua presenza lungo il confine turco-siriano, in particolar modo in quei territori confinanti con le zone gestite dalle forze curde. Le dichiarazioni del MGK, presieduto dal Presidente della Repubblica Turca Erdoğan, si sono fatte molto dure, arrivando ad affermare che la Turchia “non permetterebbe mai la formazione di uno stato curdo lungo i propri confini meridionali”, ipotizzando la concretezza di un’invasione impellente da parte della Turchia in Siria. Tali affermazioni arrivano anche a margine delle accuse dello stesso Presidente Erdoğan nei confronti delle forze curde di aver perpetrato azioni di pulizia etnica nei confronti della popolazione araba e turcomanna di Tall Abyad. La stessa popolazione al quale lo stesso Erdoğan, tramite i fucili delle proprie truppe ed i gas delle proprie guardie, non aveva permesso l’attraversamento del confine durante gli scontri tra YPG/YPJ e Stato Islamico nei dintorni della città. Tale atto riprende il medesimo atteggiamento repressivo avuto nei confronti dei curdi di Kobanê nell’Ottobre dell’anno precedente, lasciando intendere una continuità d’intenti negli ultimi mesi.

Le dichiarazioni dell’MGK e la decisione di governo turco di prepararsi ad un’invasione della Siria, schierando un maggior numero di mezzi e truppe lungo il confine, sono arrivate lo stesso giorno in cui si è concluso l’attacco sferrato dallo Stato Islamico il 25 giugno a Kobanê .

Il 25 giugno, dopo l’esplosione di tre autobomba lungo il confine con la Turchia a Kobanê, circa un centinaio di combattenti appartenenti alle forze dello Stato Islamico, entrati in città prima che facesse giorno indossando divise delle YPG e dell’FSA, sferrano un feroce attacco rivolto soprattutto contro la popolazione civile. Dopo quattro giorni di battaglia, il 29 giugno finiscono i combattimenti nelle strade, ma appare subito chiaro, come afferma anche un portavoce delle YPG, che l’attacco dello Stato Islamico non aveva certo lo scopo di occupare e controllare la città di Kobanê o anche solo alcune zone di essa. Si trattava invece un attacco suicida collettivo con lo scopo di uccidere il maggior numero di civili. Infatti alla fine dell’attacco si contano 223 morti e 300 feriti tra i civili, uno dei più gravi massacri compiuti dallo Stato Islamico in Siria.

Sia le forze curde di Kobanê sia il governo siriano hanno affermato che le autobomba venivano dal territorio turco e che avevano quindi attraversato i valichi di frontiera controllati dallo stato turco. Inoltre Figen Yüksekdağ, cosegretaria dell’HDP, ha dichiarato che il governo turco ha supportato per anni lo Stato Islamico e il massacro è parte di questa politica di supporto.

Probabilmente il governo turco voleva che l’attacco a Kobanê servisse a dimostrare che le forze riunite attorno alle YPG/YPJ non erano capaci di controllare la città e soprattutto di proteggere i civili, e che potesse quindi rafforzare la presa di posizione dell’MGK riguardo alla “pulizia etnica” antiaraba a Tall Abyad contribuendo così a giustificare un eventuale intervento di terra in Siria o comunque l’invio di ulteriori truppe lungo il confine.

È ancora troppo presto forse per parlare di un cambio di strategia della Repubblica Turca nel conflitto, anche perché il fatto che dalle elezioni di inizio giugno ancora non sia stato insediato un nuovo governo e tuttora siano in atto le consultazioni per trovare una maggioranza, rende incerta la situazione politica interna alla Turchia. Sembra ad ogni modo che dopo la liberazione di Tall Abyad abbiano iniziato ad assumere un peso maggiore quegli elementi ai vertici dell’establishment turco che vogliono un intervento militare diretto in Siria contro la popolazione curda e le forme di organizzazione sociale che si sta dando in Rojava.

Le accuse rivolte dall’MGK e dallo stesso Presidente della Repubblica Erdoğan alle forze curde sono quindi da interpretarsi fondamentalmente come propaganda a sostegno della linea politica e militare che il governo turco conduce nel conflitto.

Tuttavia la giusta opera di demistificazione e la lotta contro la propaganda del governo turco non deve portarci ad ignorare o rifiutare la realtà della guerra. In questo conflitto, l’intervento diretto e indiretto delle principali potenze mondiali e regionali, che inviano armi e combattenti, bombardano e cercano di spartirsi il territorio e le sue risorse, porta ad una recrudescenza della violenza tipica della guerra imperialista. In questo contesto, anche per chi combatte per difendere una prospettiva alternativa al dominio imperialista e capitalista può essere facile cadere nella trappola della guerra, commettendo eccessi o comunque perdendo di vista il fine per il quale si lotta.

Ignorare i rischi che si presentano in una situazione di guerra come questa può portare ad una sconfitta non solo militare, ma anche e soprattutto politica. Una sconfitta politica può assumere anche la tragica forma dell’abbandono della prospettiva rivoluzionaria per ottenere una vittoria militare grazie al sostegno di quelle potenze interessate all’instaurazione di una forma di governo disponibile a non mettere in discussione gli interessi degli stati e del capitalismo globale nella regione. Questo, ancor più di una disfatta militare, costituirebbe una tragedia per la popolazione che nella Rojava sta cercando di darsi gli strumenti per un cambiamento sociale in senso rivoluzionario, perché bloccherebbe adesso e per gli anni a venire ogni prospettiva di reale liberazione sociale, ripristinando le vecchie condizioni di sfruttamento ed oppressione e creandone di nuove.

Per ora il protagonismo della popolazione nella sua pluralità, la presenza radicata di gruppi rivoluzionari, l’autodifesa popolare e la mancanza di un governo dotato di apparati repressivi hanno reso possibile l’inizio di un processo rivoluzionario.

Solo facendo leva su questi punti di forza è possibile vincere questa lotta sul piano politico, senza cedere ai ricatti delle potenze e senza cadere nelle trappole della guerra.

In questa prospettiva è fondamentale la questione della ricostruzione di Kobanê e della Rojava. Perché oltre al bisogno di aiuti immediati, di ricostruire infrastrutture, case ed ospedali, c’è anche bisogno di discutere di come dovrà essere la città, di come ricostruire la società, su quali basi. Ci sono chiaramente diverse posizioni e differenti progetti, da una parte ci sono speculatori che aspettano di fare l’affare del secolo, mentre dall’altra ci sono rivoluzionari che vogliono far sorgere dalle macerie una società libera dalla proprietà privata.

In questi mesi si sta avviando un’ampia campagna per la ricostruzione di Kobanê. Oltre all’appello internazionale lanciato dal KRB, il tavolo per la ricostruzione della città, vi sono campagne e progetti specifici portati avanti dalle forze politiche che hanno sostenuto fino ad oggi la resistenza.

Queste iniziative sono tutte orientate a dare alla ricostruzione un forte senso politico; i lavori infatti non saranno affidati alle multinazionali o ai grandi speculatori, ma sarà organizzata e gestita attraverso la partecipazione dei diretti interessati.

In questo contesto anche il movimento anarchico, in particolare il gruppo DAF (Azione Anarchica Rivoluzionaria) di Istanbul, radicato anche in Kurdistan, dà il proprio contributo specifico alla ricostruzione, nel senso della ricostruzione della vita, di una società nuova, libera, senza stati né classi.

Quanto sia importante la ricostruzione ed in particolare l’intervento dei gruppi rivoluzionari per sostenere il processo di trasformazione sociale in atto, è reso ancora più chiaro dalla ferocia con cui i militanti che si occupano dei progetti di ricostruzione vengono attaccati dal governo turco, dai suoi alleati e dai suoi sicari.

L’attentato esplosivo che ha ucciso i giovani militanti della SGDF a Suruç la mattina di lunedì 20 luglio è un colpo diretto ai gruppi rivoluzionari che sostengono la Rojava. Non è terrorismo indiscriminato ma un massacro mirato di militanti, che ha come scopo l’eliminazione fisica di giovani rivoluzionari e l’intimidazione nei confronti di tutte le altre forze che sostengono i progetti di ricostruzione. Le dichiarazioni di Erdoğan dopo l’attacco sono di fatto un’ulteriore minaccia di invasione della Rojava. Il Presidente della Repubblica Turca ha infatti affermato che l’attentato sarebbe la risposta alle recenti disposizioni di rafforzamento del controllo militare lungo il confine da parte dell’esercito turco.

La sera stessa della strage in molte città della Turchia si sono tenute manifestazioni, nella maggior parte dei casi la polizia ha attaccato i dimostranti e gli scontri si sono protratti nella notte.

Ad Istanbul migliaia di persone hanno marciato verso Taksim fino a quando la polizia non ha attaccato il corteo con lacrimogeni e proiettili di gomma. Ad Amed e Yüksekova ci sono stati durissimi scontri. A Suruç, dove la polizia era già intervenuta con i blindati subito dopo la strage, l’intervento repressivo contro i manifestanti nel tardo pomeriggio ha provocato numerosi feriti.

Dopo questi fatti è ancora più importante appoggiare la ricostruzione della città di Kobanê, sostenendo gli anarchici del DAF e tutte quelle forze che contribuiscono ad uno sviluppo del processo che in quella regione sta aprendo la strada alla rivoluzione sociale.

Giacomo Sini

Dario Antonelli “

Repressione in Spagna: dopo Pandora, ecco la Pignatta.

Il seguente articolo è tratto dal sito Informa-Azione:

“Spagna | Repressione – Operación Piñata: 13 arresti per “terrorismo anarchico”

Alle 6.30 della mattina del 30 marzo 2015 ha preso corpo una nuova operazione contro le realtà anarchiche in Spagna.
Le forze repressive hanno fatto irruzione in diverse occupazioni (tra cui le case “Quimera” e “13-14” a Madrid; “la Redonda” a Granada) e abitazioni di compagn* a Madrid, Palencia, Granada e Barcellona.

Nel corso della mattinata sono state arrestate 37 persone:

13 compagn* sono detenuti con l’accusa di “organizzazione criminale con finalità di terrorismo”; si hanno ancora poche informazioni in merito a reati specifici ed elementi probatori contestati nei loro confronti. Le dichiarazioni dei registi di questa operazione, riportate dai media di regime iberici, riferiscono di aver dato un duro colpo all’organizzazione denominata GAC (Gruppi Anarchici Coordinati), che vi sarebbero ipotesi di collegamento con alcuni attacchi a strutture ecclesiastiche e filiali bancarie (motivazioni già utilizzate nell’Op. Pandora), fino a sostenere genericamente che le persone coivolte “intendevano seminare il terrore nella popolazione per imporre le proprie idee”: pratiche che il governo spagnolo e il suo braccio armato conoscono molto bene e praticano con assiduità.

Altre 24 persone sono state fermate e detenute come conseguenza delle 17 irruzioni e perquisizioni effettuate, di cui 6 in spazi o abitazioni occupate; di queste, 13 sono accusate di resistenza e disobbedienza, mentre 11 di occupazione.
Un aggiornamento del 31 marzo conferma l’avvenuta liberazione delle prime 13 e i presupposti per quella dei restanti.

Restano quindi in carcere 13 compagni e compagne con l’accusa di terrorismo.

Il nome dato a questa manovra repressiva è “Operación Piñata” (Operazione Pignatta, come l’involucro da prendere a bastonate per farvi uscire i dolciumi). Dopo il fallimento della precedente Operazione Pandora, il cui nome suggeriva lo scoperchiamento e il disvelamento dei minacciosi segreti della conflittualità anarchica, risolvendosi in 7 compagne e compagni tratti in arresto e rilasciati con restrizioni dopo un paio di mesi a causa dell’inconsistenza del piano accusatorio, è il turno della Pignatta.
Hanno mostrato i muscoli e invaso abitazioni e occupazioni, portandosi via 37 persone e trattenendone 13 con l’accusa di terrorismo.

Quanto è osservabile, è la volontà dello Stato Spagnolo di sperimentare sul campo gli strumenti di cui si è dotata la sua componente repressiva: leggi antiterrorismo e Ley Mordaza (“legge bavaglio” che estende in modo arbitrario il potere di fermo delle forze dell’ordine e infligge pesanti sanzioni pecuniare per le manifestazioni non-autorizzate). L’altra faccia delle riforme economiche dettate della Troika è la strutturazione di una repressione muscolare in grado di terrorizzare e contenere i conflitti innescati dalla macelleria sociale; gli anarchici sono un buon bacino su cui testare queste nuove armi. Un bacino pericoloso, anche perché refrattario alla delega democratica e alla sottrazione di conflittualità attiva, incarnate invece dal movimento Podemos.

Due operazioni repressive su grande scala in meno di quattro mesi rappresentano un evidente tentativo di fiaccare la rabbia e la determinazione delle compagne e dei compagni anarchici nella penisola iberica; il contesto spagnolo di per sé, come ogni società attraversata da cruente rimodulazioni sul piano economico e repressivo, è un esperimento ai cui risultati potranno attingere gli oppressori in altre nazioni, cercando di replicarli. La solidarietà è uno degli strumenti nella cassetta degli attrezzi per sabotare i piani di questi pezzi di merda.

Seguiranno aggiornamenti e comunicati”

L’interruzione della normalità.

Francoforte, 18 Marzo 2015: le vetrine delle banche infrante, le barricate e le auto della polizia in fiamme, i blocchi stradali, le diverse azioni di protesta pacifiche o meno e il corteo pomeridiano di Blockupy (25mila partecipanti) hanno interrotto per un giorno il businnes as usual al quale gran parte di noi sono più o meno abituati/e ed assuefatti, con grande disappunto di Schäuble, Draghi e compagnia danzante. Ma non è il loro disappunto che dovrebbe stupire e preoccupare- semmai di ciò si può solo gioire-, quanto quello dei/lle tanti/e cittadini/e comuni che magari hanno a parole poca simpatia per banche e sistema finanziario, ma che ritengono che le proteste, se hanno luogo, si debbano sempre e comunque svolgere entro i margini della legalità o perlomeno della nonviolenza. Costoro, oltre ad esprimere quasi sempre una critica ridotta e parziale del sistema capitalista di stampo riformista (se e quando esprimono qualcosa), vorrebbero che si attirasse l’attenzione dei potenti per chiedergli di agire diversamente, vorrebbero che si giocasse secondo le regole stabilite da chi per ora con quelle regole ha sempre vinto, sono pronti a indignarsi per una vetrina rotta o per una pietra lanciata contro un agente in tenuta antisommossa. A parte l’illusione a dir poco patetica di queste persone sulla possibilità di far leva sui sentimenti umani dei potenti e dei loro servi ai piani più alti chiedendo contentini e aggiustamenti di rotta, mi chiedo- limitandomi ad osservare la situazione della Grecia piegata da debito e politiche di austerity- dove sia la loro indignazione di fronte al fatto che la mortalità infantile in Grecia è aumentata del 40% negli ultimi tempi, che i malati di cancro ricevono medicinali gratuiti solo in fase terminale, che sempre più persone si suicidano dopo aver perso qualsiasi prospettiva ma anche e soprattutto la propria dignità, mentre altri finiscono a vivere per strada oltretutto minacciati dalle bande neonaziste di Alba Dorata e dalla polizia, che chi ha lavorato tutta la vita si trova ora ad avere nulla, a dover elemosinare un tozzo di pane secco mentre i più abbienti, i grossi capitalisti, gli investitori hanno fatto sparire dal Paese le loro ricchezze lasciando nella merda quelli che sfruttavano fino al giorno prima mentre tra un meeting e un’inaugurazione di edifici dai costi stratosferici i vari Juncker, Barroso e Draghi bevono champagne in onore di un sistema economico immondo e disumano. Ancora una volta, questi/e cittadini/e perbene indignati e scandalizzati per due vetri rotti nella loro città della Borsa e degli affari dovrebbero pensare, pensare, pensare e svegliarsi e mostrare una vera coscienza. Oppure tacere, almeno per un minimo di giustizia nei confronti del senso del pudore. Una banca sfasciata non è la rivoluzione, né il gong che ne segna l’inizio, non cambierà il mondo, ma è un segno tangibile della rabbia legittima di chi è oppresso e solidarizza con altri/e oppressi/e.

Spagna: informazioni sull’operazione repressiva Pandora.

La mattina del 16 Dicembre 2014, in Spagna, scattava un’operazione repressiva antianarchica denominata Pandora. Da quel giorno diversi articoli e comunicati sono stati postati su siti informativi anarchici. Quello che segue è un breve comunicato sugli avvenimenti occorsi, scritto il giorno stesso nel quale é scattata l’operazione repressiva, pubblicato sul sito A Las Barricadas e riproposto, tradotto, sul sito Informa-Azione:

” Spagna | Repressione – Operazione contro il “terrorismo anarchico”: decine di arresti e perquisizioni

Segue traduzione da alasbarricadas:

La Legge Mordaza (norma approvata da pochi giorni che incrementa in modo arbitrario i poteri giudiziari delle forze repressive – ndt) comincia a manifestarsi nella vita politica del paese. Dalle 5 della mattina del 16 dicembre, cominciava l’operazione repressiva denominata Pandora, contro il “terrorismo anarchico”.
Le accuse della Audiencia Nacional riguardano diversi attentati contro filiali bancarie, tuttavia il comunicato della polizia non ha fornito maggiori dettagli su quali attentati e di che forma di terrorismo si stia parlando, riferendosi genericamente a un diffuso “terrorismo anarchico”.

A quell’ora, i mossos d’esquadra hanno fatto irruzione nella Kasa de la Muntanya, dispiegando un ingente dispositivo, circa 300 poliziotti e un elicottero per visionare e illuminare dall’alto le operazioni. I mossos hanno proceduto alla chiusura delle strade adiacenti, effettuando arresti in questa zona di Barcellona. Da quel momento sono partite altre operazioni nell’Ateneo Libertario di Sant Andreu e in quello di Poble Sec, entrambi a Barcellona; contemporaneamente, in altre dieci località catalane venivano invasi appartamenti e spazi abitativi.
Per ora si ha notizia di 15 arresti (anche se la cifra cambia in base alla fonte), la maggior parte a Barcellona, oltre ad un arresto domiciliare a Madrid (alcune fonti parlano di un pompiere – ndt). Gli arresti sono stati effettuati principalmente nel corso dei raid nelle abitazioni. La polizia ha sequestrato telefonini, computer e materiale cartaceo, inclusi alcuni libri presenti negli atenei libertari. Nella Kasa de la Muntanya, gli/le occupanti sono stati bloccati nella palestra della struttura mentre venivano perquisite le abitazioni dello spazio.

Diverse iniziative sono state indette in Catalunya e in altre parti del paese in solidarietà con gli arrestati.

Seguiranno aggiornamenti e comunicati ”

Altre informazioni aggiornate possono essere reperite sempre su Informa-Azione, al seguente link trovate altri Articoli in lingua italiana sul sito Contra Info sullo stesso argomento. Qui trovate gli indirizzi dei/lle compagni/e arrestati/e, qui invece i dati della cassa di solidarietà creata per sostenere gli/le arrestati/e.

Manifesto per un Capodanno anticarcerario, ovunque!

Capodanno fuori dalle carceri! Dappertutto davanti ai centri di espulsione e agli istituti penali!

Le manifestazioni rumorose di fronte alle prigioni sono una tradizione che resiste in alcune parti del mondo, per ricordare durante il cambio d’anno coloro i/le quali sono tenuti/e prigionieri/e dallo Stato. Un modo per esprimere solidarietà alle persone detenute. Sia di fronte alle carceri che ai centri di esplusione*, dove vengono detenute persone prive di documenti o con i documenti sbagliati, vogliamo riunirci insieme per rompere l’isolamento e la solitudine. Questo sistema carcerario non è riformabile, perchè è sbagliato alla radice, qui e ovunque. Non crea persone migliori, non contribuisce a risolvere i conflitti sociali. La coesistenza dominante basata sulla concorrenza e sull’ingiustizia rinchiude le persone o le espelle, da un lato per allontanare da sè ciò che è problematico, dall’altro per spaventare e statuire esempi per chi è alla disperata ricerca di libertà. Che le persone siano rinchiuse perchè hanno rubato o danneggiato la proprietà, perchè hanno viaggiato senza biglietto**, perchè per assenza di prospettive o timore di venir perseguitate sono fuggite dalla loro terra di provenienza- tutto questo si basa su un unico fatto: l’esistenza di norme dominanti che stabiliscono ciò che è sbagliato e ciò che è giusto, ciò che va protetto e ciò che va punito. Leggi e regole stabilite da pochi, alle quali altri a loro volta devono sottomettersi. Questa logica della punizione e della conseguente carcerazione va infranta. Per noi la fine di tutte le strutture detentive è possibile solo all’interno di un processo che rovesci le condizioni attuali nella loro totalità , per rendere possibile un mondo senza sfruttamento ed oppressione. Non importa dove vi troviate, incontratevi a Capodanno di fronte alle carceri, siate rumorosi/e ed esprimete per le strade la vostra idea di un mondo senza dominio e senza coercizione. Vogliamo usare la nostra solidarietà ed il nostro aiuto reciproco per abbattere mattone per mattone tutti questi muri. Vogliamo un mondo senza muri né confini. Lotteremo insieme finchè tutti/e saranno liberi/e”.

Il manifesto, affisso di recente in diverse cittá tedesche, è preso da Contra-Info, la traduzione in italiano è mia. A “lavoro” quasi finito ho scoperto che era già stato tradotto su almeno un altro sito, ma la mia versione, a mio modesto parere, é più corretta e scorrevole e comunque m’é costata una decina di minuti, ‘sticazzi, quindi eccola qui!

*Anche in Germania esistono strutture di detenzione, identificazione ed espulsione riservate a chi non ha la cittadinanza tedesca e si sia macchiato di reati o semplicemente non abbia i documenti in regola per restare nel Paese secondo quanto stabilito dalla legge.

**No, non è un errore di traduzione:in Germania, chi per un motivo o per l’altro viaggia sui mezzi di trasporto pubblici senza biglietto, è recidivo e non può pagare le multe, si vede costretto in molti casi a scontare un periodo di detenzione!

Carcere – Polo detentivo sardo, lotte dei prigionieri e solidarietà.

Fonte: Informa-Azione.

Riceviamo e diffondiamo:

Prigioni sarde, lotte, solidarietà e aggiornamenti.
Fine primavera – inizio estate 2013.

In Sardegna sono presenti ben 12 prigioni dislocate in tutta l’isola, per un totale di 2097 prigionieri, a queste se ne aggiungeranno presto altre quattro. Pare che almeno due sostituiranno le strutture storiche di Cagliari e Sassari.
La Sardegna ha una triste tradizione di isola galera, sia intesa come galere vere e proprie sia come allontanamento punitivo, isolamento appunto.
I militari più testardi venivano mandati in punizione nei poligoni e nelle caserme sarde, i fascisti mandavano gli oppositori del regime al confino nei paesini dell’entroterra sardo, i romani mandavano i Patrizi scomodi alla repubblica e poi all’impero a gestire il granaio di Roma, ovvero la Sardegna.
Probabilmente il fatto di essere l’unica vera isola (non me ne vogliano i siciliani, ma per vera isola intendo la vera difficoltà nei collegamenti con la penisola) dello stato italiano, di essere storicamente spopolata e di aver avuto spesso dei caratteri resistenti e ostili a invasori e cambiamenti imposti, ha fatto si che venisse individuata come territorio ideale per alcune attività, tra queste le prigioni.
Nel 2013 siamo ancora perfettamente in linea con i ragionamenti che i romani facevano circa 2000 anni fa. Lo stato Italiano ha infatti deciso, come già detto, di costruire quattro nuove mega carceri, di alta sorveglianza e in due casi anche con i reparti di 41 bis, cioè il carcere duro, l’isolamento. Il motivo di questo investimento secondo le dichiarazioni governative è quello di migliorare le condizioni dei prigionieri, dandogli delle celle più grandi, più luminose, meno umide, queste cose per quanto riguarda le carceri sarde sono un obiettivo abbastanza facile da raggiungere in quanto gli stabili attuali versano in condizioni veramente pessime, sovraffollamento esagerato oltre ogni limite di tollerabilità, impianti idrici e elettrici antiquati, celle malsane, assenza di spazi comuni. Nel carcere di Cagliari, le celle di isolamento sono state riadattate a celle comuni per fronteggiare il problema del sovraffollamento.
Parlando delle nuove costruzioni si nota che hanno tutte almeno uno stesso aspetto, sono fuori dai centri abitati, alcune sostituiranno carceri attualmente nel centro delle città. Non si tratta certo di una scelta casuale, è stato fatto per creare dalla prigione un ulteriore avamposto del controllo dello stato sui territori, per evitare i contatti tra il mondo esterno e il mondo interno e per evitare che delle future ondate di lotte e proteste possano coinvolgere un elemento complesso come quello delle prigioni.

Le inaugurazioni delle nuove carceri dovevano avvenire mesi fa; ritardi nei lavori, problemi e mancati pagamenti hanno rallentato i lavori e continuano a spostarne la data di apertura.
Solo il carcere di Bancali (SS) ha aperto i battenti, proprio pochi giorni fa, la ministra Cancellieri è stata ben lieta di tagliare il nastro e dare il benvenuto ad alcuni prigionieri trasferiti dal carcere di San Sebastiano. In realtà a Bancali da un mesetto c’erano già una trentina di prigionieri di mafia.
Per quanto riguarda Uta invece, i circa 600 posti dovrebbero ospitare prigionieri provenienti da tutta l’Italia, per questo da un pò di tempo si vocifera che la chiusura di Buoncammino verrà perlomeno rimandata, in quanto come già detto la struttra è in sovraffollamento e di certo non sono in diminuzione i reati e conseguentemente i nuovi condannati. E’ notizia freschissima che il nuovo mega carcere non aprirà prima del 2014 per ulteriori ritardi e problemi nei lavori.

E fuori?
Da quando sono stati aperti i cantieri delle nuove carceri non c’è stata nessun tipo o quasi di opposizione al progetto, i numerosi posti di lavoro di mano d’opera locale hanno stroncato sul nascere qualunque tentativo di opposizione, in più la perifericità dei siti non ha di certo favorito chi volesse provare a dire qualcosa, oltre l’informazione non si è mai andati. Gli unici ad aver fatto una protesta sono stati gli operai del cantiere di Uta quando quest’inverno hanno smesso di ricevere lo stipendio, per qualche tempo hanno bloccato i lavori, poi lentamente la situazione è rientrata, ma i lavori continuano ad andare a rilento e l’apertura, come già detto, ad essere posticipata. C’è stata anche un’ondata di “indignazione” capeggiata da politici in cerca di riciclo che criticava l’esagerato numero di carceri in Sardegna, che denunciava il rischio di contagio mafioso in caso di trasferimento di capi cosca e reclamava tutti i posti di lavoro per i sardi, non vale la pena dire altro.

Altro…
Negli ultimi mesi qualcosa ha iniziato a muoversi intorno al carcere di Buoncammino, i parenti stimolati dai volantinaggi e dalle chiacchiere con alcuni compagni e compagne hanno iniziato a capire cosa vorrà dire il trasferimento dei loro cari a Uta, il nuovo carcere dista 25 km da Cagliari, in una zona industriale, puzzolente e non collegata con mezzi pubblici, inoltre a Cagliari è abitudine andare appena al di fuori delle mura e chiacchierare con i prigionieri quando si vuole e per quanto si vuole, quest’ultima cosa in particolare sarà assolutamente impossibile, in quanto il nuovo carcere è stato costruito secondo i paramentri di alta sicurezza, cioè con recinzioni lontane dalle mura, mura così alte che a stento si vedono le celle.
Inoltre i prigionieri nell’ultimo mese si sono mobilitati non poco, la prima protesta è scattata il 28 Maggio giorno del corteo a Parma contro il 41 bis,  i prigionieri hanno iniziato lo sciopero del carrello contro le condizioni disumane e contro il 41 bis, il tutto spiegato e rivendicato in una lettera firmata da decine e decine di carcerati, l’assemblea contro il carcere e la Cassa Antirepressione Sarda hanno organizzato due giorni dopo l’inizio dello sciopero un saluto fuori, c’è stata una buona partecipazione e una buona risposta da dentro.
Nelle settimane successive sono stati fatti dei volantinaggi negli orari di visita dei parenti e il 15 Giugno è stato fatto un secondo saluto, con un pò di musica e microfono aperto, i secondini viste le interazioni della volta precedente hanno ammutolito i prigionieri del lato destro che non hanno così potuto partecipare ai cori e alle chiacchiere per il timore di ritorsioni, allo stesso modo è andata dal lato sinistro anche se qua la maggiore vicinanza ha permesso un minimo di dialogo.
Pochi giorni fa, per la precisione il 9 Luglio sera è iniziata una nuova battitura sul lato destro, i prigionieri dell’ultimo piano si sono barricati nelle celle e hanno dato fuoco a suppellettili vari, il resto del braccio li supportava con la battitura, hanno esposto degli striscioni dalle celle contro le condizioni del carcere e contro l’isolamento, la direzione del carcere ha pensato di staccargli acqua e corrente, dichiarando poi che si è trattato di un blackout.
La risposta della repressione non si è però fatta attendere: tre prigionieri sono stati trasferiti a Lanusei allontanandoli dai loro cari e cercando di isolarli per far si che la protesta venisse soffocata. Un nutrito gruppo di solidali tra compagne e compagni parenti ed amici ha organizzato un presidio di solidarietà il 10 luglio, il giorno successivo, che ha cercato di portare appoggio ad una lotta che non potrà risolversi con i decantati trasferimenti nel maxi carcere di Uta ma che troverà soluzione solo nell’abbattimento della struttura carceraria.

La situazione è in divenire, in quest’ultimo mese e mezzo i prigionieri hanno dimostrato di voler lottare per cambiare qualcosa e di non aver paura delle minacce dei secondini e della direzione, non sappiamo se l’inasprirsi delle ritorsioni (i traferimenti) fermerà la lotta, di sicuro noi cercheremo di star vicino e dar manforte con idee, mezzi e determinazione.

Cassa antirepressione sarda ”