Sulla protesta del “movimento dei forconi”.

Solo in questi ultimissimi giorni ho avuto tempo di leggere notizie e analisi sulle proteste messe in atto di recente un pò in tutta Italia dal cosiddetto movimento dei forconi. Il loro programma, o meglio quello che si legge sul sito del “movimento del popolo de i forconi“, è in sostanza una lista di riforme che hanno un senso solo se si riconosce come legittima e auspicabile l’esistenza del sistema capitalista con tutte le sue conseguenze (ad esempio la divisione in classi sociali), che si indirizzano contro quelle che vengono ritenute le “storture” di tale sistema (neoliberismo, delocalizzazioni, corruzione, clientelismo, scarsa mobilità sociale, eccessiva pressione fiscale …) e che risultano palesemente fallaci perchè mancano di risonoscere questi aspetti come intrinsechi al sistema capitalista stesso. A scendere in piazza nelle scorse settimane sono stati principalmente lavoratori autonomi e piccoli imprenditori impoveriti dalla crisi, spesso trascinandosi dietro la loro mentalità piccoloborghese col relativo strascico di razzismo, classismo, qualunquismo e patriottismo. Eppure, pur scegliendo i loro obiettivi in modo magari discutibile (perchè bloccare nel traffico i mezzi di trasporto di chi torna dal lavoro e non indire direttamente un bel blocco delle attività produttive?), pur avendo tra le loro fila elementi di destra o addirittura dichiaratamente neofascisti, pur cercando percorsi legalitari e appoggio da parte delle forze dell’ordine, i forconi non possono essere ignorati, né etichettati sbrigativamente come fascisti tout court. Chi accusa i piccoli imprenditori di aver evaso da sempre le tasse e di lamentarsi ora per l’eccessiva pressione fiscale dovrebbe interrogarsi, anarchici/che in primis, sulla legittimità stessa del concetto di tasse come imposizione di un contributo da parte dello Stato (vogliamo forse rileggere cosa dicevano sull’argomento i vari Proudhon, Warren o Tucker?), ma anche ricordare che al di là delle generalizzazioni è vero che le condizioni di vita di tanti esponenti della cosiddetta piccola borghesia spesso non si allontanano molto da quelle dei lavoratori dipendenti, né che quel tipo di mentalità reazionaria e per me ripugnante della quale parlavo poco sopra è tristemente diffusa anche tra tanti elementi di quelle classi sociali definite storicamente come proletariato e sottoproletariato. Sono tanti gli aspetti che accomunano queste classi sociali, non ultimo il fatto che le critiche al sistema, indirizzate solo ad alcuni dei suoi aspetti, siano mosse da chi non vuole abbattere tale sistema perchè ritenuto ingiusto, ma da persone che vengono escluse dal fittizio benessere da esso prodotto, quelli del “vorrei ma non posso”, che non detestano tanto i “padroni” quanto il fatto di non essere al loro posto: una conseguenza della mancanza di coscienza di classe, anche frutto dell’opera di molti di quelli che  lo scorso 9 Dicembre si sono ritrovati a protestare in piazza solo perchè scivolati più in basso nella scala sociale. Eppure, come tutti i movimenti di protesta, quello dei forconi non dovrebbe venir liquidato sbrigativamente, magari usando schemi e strumenti di analisi ormai superati, bensì seguito con attenzione. Finite le manifestazioni e i blocchi stradali il problema è ancora lì e con la rabbia di chi è sceso in piazza e continuerà a scendervi, anche se spesso con parole d’ordine molto diverse dalle nostre, bisogna fare i conti. Qual’è dunque il posto degli/lle anarchici/che in questo tipo di lotta, o meglio come rapportarsi nei confronti del malessere delle classi medie con l’acqua ormai alla gola, “proletarizzate”? In quanto persona “esterna” alle proteste, vivendo a troppi chilometri di distanza dai luoghi nelle quale esse si sono svolte e (probabilmente) continueranno a svolgersi, in questo frangente posso solo leggere ciò che avviene e farmi un’opinione, non certo dare consigli, piuttosto porre interrogativi. Di sicuro qui non sono tanto i metodi a dover essere radicalizzati, quanto i contenuti, il che è la cosa più lunga e difficile. Cercare altri luoghi e spazi di conflitto, altri soggetti partecipi? Ciò non esclude il fatto di doversi confrontare prima o poi, volenti o nolenti, con nuove componenti del disagio ormai diffuso ed esacerbato dalla crisi economica e con i loro discorsi. Confrontare e, chissà, magari anche scontrare: lo stringersi intorno all’appartenenza alla Nazione contro il potere delle banche e delle regie oscure aspirando ad una guida del Paese che sia trasparente ed incorruttibile non è solo ingenuo, ma anche pericoloso, vi ricorda qualcosa? In mezzo all’inconsapevolezza ed alla mancanza di chiarezza si può provare a inserire contenuti di critica radicale al sistema e costruire un percorso comune di lotta, pur rischiando di partire mezzi sconfitti vista la difficoltà dell’impresa, oppure lasciare tutto in mano a chi nella confusione ideologica ci sguazza?

Dove va l’Egitto?

La cacciata, poche ore fa, del presidente egiziano Mohammed Morsi, leader del partito dei Fratelli Musulmani eletto un anno fa, è la notizia del momento. Di notizie dettagliate e analisi riguardanti questo evento se ne possono trovare sul web fino alla nausea, ma in concreto nessuno sa cosa avverrà ora. O per meglio dire, molti hanno una loro teoria e propongono analisi sugli eventi iniziati due anni fa che hanno visto milioni di persone invadere le strade di gran parte delle cittá egiziane per chiedere prima le dimissioni del vecchio dittatore Hosni Mubarak ed ora quelle del nuovo presidente democraticamente eletto Morsi. Personalmente, lontano tanto dai facili entusiasmi quanto dalle teorie azzardate, posso fare nel mio piccolo un paio di riflessioni, seppur confuse. Innanzitutto credo che in Egitto sia potenzialmente in atto un grande cambiamento, spinto da masse di milioni di persone che nella maggior parte dei casi hanno “poco” da perdere (se non la propria vita, vista la durezza degli scontri scoppiati due anni fa così come oggi e nel tempo intercorso), un cambiamento che per certi versi mi verrebbe di chiamare rivoluzione. Il fatto è che sono restio ad usare questo termine, perchè di rivoluzioni più nominali che effettive nella Storia ne abbiamo avute fin troppe, sedicenti rivoluzioni che cambiano un giogo con un altro, che lasciano inalterati i rapporti sociali e di produzione, che spargono sangue più di quanto sia strettamente necessario per poi deludere le migliori aspettative emancipatorie in nome di “interessi superiori”, la solita formula per fottere gli sfruttati e gli oppressi. È inevitabile però sperare che le cose possano veramente prendere una piega positiva per le classi sociali subalterne in Egitto, che sono state il motore delle rivolte di piazza e potranno continuare ad esserlo anche in futuro. Un dittatore è stato mandato via, ci sono stati momenti importanti fatti di lotta, autogestione, riorganizzazione, partecipazione decisionale, rivendicazioni, poi le elezioni ed il governo fallimentare dei Fratelli Musulmani ed ora una nuova ondata di proteste che porta alla destituzione di un presidente con numeri nelle piazze decisamente maggiori di quelli che lo avevano portato al potere alle urne. Eppure rimane l’ombra dei militari e degli interessi che si celano dietro essi. L’ultimatum imposto dal popolo egiziano a Morsi non è quello imposto dai militari, che hanno effettuato un vero e proprio colpo di Stato, anche se atipico  visto l’appoggio delle piazze. La repressione sistematica attuata in queste ore dai militari nei confronti del partito dei Fratelli Musulmani va al di là di uno sfogo di rabbia popolare. Ho letto nei giorni scorsi parecchi articoli di “esperti” e opinionisti vari, dei quali posso anche non fidarmi del tutto, ma che lasciano intendere in modo pressochè unanime, al netto di sfumatore d’opinione e considerazioni a margine, che il governo degli Stati Uniti stia muovendo le fila dell’esercito egiziano, indirizzandone a suo piacimento le azioni e le decisioni: un fatto che non può essere ignorato e che risulta essere pericoloso, anche a fronte della conclamata simpatia di vasti strati della popolazione nei confronti delle forze armate (simpatia che la polizia, vista con diffidenza e disprezzo come organo di difesa della passata dittatura, non ha mai riscosso). A prescindere da ciò, pur ammettendo che una “rivoluzione” spesso non segua un percorso lineare, si ha la netta impressione che ora tutto ricominci da metà percorso, come dal momento della cacciata di Mubarak: si tornerà a nuove elezioni, ne  frattempo c’é il governo di transizione di Adly Mansour all’ombra dell’esercito. Nei momenti di euforia è facile dimenticare cosa significò il periodo di transizione trascorso dalla caduta di Mubarak alle elezioni e guidato dalle forze armate, facile dimenticare le decine di morti per mano militare, mano che si trasforma all’occorenza in pugno di ferro, piaccia o meno alle masse. Nell’eterogeneità di movimenti, opinioni e prese di posizione si mescolano le istanze religiose e quelle laiche, l’avanzamento di rivendicazioni sociali e la conservazione/restaurazione dell’ordine vigente e dei privilegi delle classi agiate, i pro e contro Mubarak come i pro e contro l’esercito come i pro e contro Morsi, domani magari ci troveremo di fronte ad altre sfilate di milioni di persone divise tra pro e contro Mansour e poi tra pro e contro nuovo presidente “democraticamente” eletto. Sempre che non si scivoli prima nella guerra civile, come temono alcuni. O nell’apatia, nel disgusto senza sbocchi propositivi e infine nell’indifferenza, il che mi azzardo a dire sarebbe addirittura peggio: uno scacco matto a quella che, nonostante tutto, vorremmo poter chiamare rivoluzione.

Movimento anarchico e rivolta sociale in Egitto.

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Non sono spuntati dal nulla i giovani col volto coperto e vestiti di nero che hanno fronteggiato le forze di sicurezza e attaccato i simboli del potere in Egitto durante il secondo anniversario della cosiddetta rivoluzione che riuscì a rovesciare il dittatore Hosni Mubarak. Già durante le lotte di due anni fa gli anarchici, pur rappresentando solo una piccola parte degli oppositori al regime, erano in prima linea negli scontri contro polizia, servizi segreti e picchiatori prezzolati dal governo, usando la tecnica di azione diretta tipica del black bloc. Al contrario di quanto pensano i male informati, il black bloc non è un’organizzazione politica, ma piuttosto una strategia di azione diretta. Ispirandosi agli autonomi italiani e tedeschi degli anni ’70 e ’80 del secolo scorso, gruppi di manifestanti vestiti di nero e col volto coperto (per dare l’impressione di un gruppo compatto e per sfuggire all’identificazione da parte delle forze repressive dello Stato) si organizzano in piccoli gruppi solitamente con l’obiettivo di compiere azioni dirette contro obiettivi simbolici che rappresentano l’oppressione e lo sfruttamento del capitale e dello Stato. La violenza (se di violenza si può parlare) viene indirizzata contro la proprietà, contro oggetti, raramente contro le persone – a volte vi sono scontri con le forze dell’ordine o con estremisti di destra. Salita alla ribalta della cronaca durante le proteste di Seattle contro il vertice del WTO nel 1999 e fortemente influenzata da princìpi anarchici (ma al tempo stesso non condivisa né praticata da tutti/e gli/le anarchici/che), la strategia del black bloc si è diffusa rapidamente in molti Paesi. Anche in Egitto.

È inevitabile che, di fronte all’estrema violenza della repressione governativa esercitata già ai tempi di Mubarak contro qualsiasi forma di opposizione o lotta sociale anche solo pacifica e/o riformista, prima o poi i più audaci e determinati oppositori a qualsiasi forma di oppressione e sfruttamento avrebbero adottato strategie di lotta adatte alle circostanze. Gli anarchici lottarono al fianco dei lavoratori del settore tessile in sciopero a El-Mahalla El-Kubra già nel 2008, poi durante la successiva rivolta del 2011 contro Mubarak. Oggi, di fronte ad un governo che ricorda quello da poco rovesciato a furor di popolo, incapace di risolvere le contraddizioni ed i problemi sociali del Paese, forte di una costituzione approvata con pochi voti e tesa a rafforzare il potere presidenziale, i giovani senza prospettive lavorative, gli ultras delle tifoserie calcistiche già abituati a scontrarsi con le forze di sicurezza, gli sfiduciati e i delusi da qualsiasi governante che vivono sulla propria pelle una situazione intollerabile hanno scelto lo scontro diretto con gli oppressori.

A seguito delle manifestazioni avvenute tra il 20 e il 28 Gennaio in ricordo della rivoluzione iniziata due anni prima e che hanno assunto carattere antigovernativo e in parte confrontativo con le forze repressive, con cortei molto partecipati nelle principali città egiziane,  il governo dei Fratelli Musulmani presieduto da Mohammed Morsi ha dichiarato il giorno 28 lo stato di emergenza in tre città (Port Said, Ismailía e Suez) ed ha promesso di schiacciare con la forza qualsiasi forma di opposizione radicale al suo governo, in particolare chi si organizza nel black bloc. Dal canto loro alcuni rivoluzionari organizzati nel black bloc hanno attaccato e danneggiato sedi del partito di governo nella capitale. Ma non è tanto la forma della protesta quanto le idee di chi protesta ad essere il problema per il potere costituito, come dimostra il recente arresto ad Alessandria di 31 persone (tra cui 5 anarchici del Movimento Socialista Libertario) che presidiavano pacificamente il tribunale durante l’udienza di un processo a carico di agenti di polizia accusati di aver ucciso dei manifestanti durante le rivolte del Gennaio 2011.

Egipto Anarquistas

( Nelle foto: 1-manifestanti organizzati nel black bloc durante le proteste per il secondo anniversario della rivoluzione egiziana; 2- una bandiera anarchica sventola all’interno di una sede del partito Fratelli Musulmani assaltata dai manifestanti).

Per approfondire:

“Repression und Todesdrohungen gegen black bloc- Mursi kürzt Europareise Programm”, pubblicato su Anarchistischer Funke (in tedesco);

“Egipto, un pueblo sediento de libertad. Declarado Estado de Emergencia”, pubblicato su A Las Barricadas (in castigliano);

“Sui rinvii a giudizio di Alessandria”, pubblicato su Anarkismo (in italiano e in altre lingue);

Revolution Black Bloc (pagina facebook del black bloc di Il Cairo);

– Black Blocairo (nuova pagina del Black BloCairo);

– Black Bloc Egypt.