A Erdogan non piace il diritto di satira.

Risultati immagini per böhmermann erdogan

È iniziato tutto con una satira del comico Jan Böhmermann sul premier turco Recep Tayyip Erdogan andata in onda sul canale televisivo tedesco ZDF durante il programma “Neo Magazin Royale”, che ha fatto infuriare il governo turco che ha convocato a colloquio addirittura l’ambasciatore tedesco in Turchia. Per spiegare la differenza fra satira e volgare offesa, Böhmermann ha recitato nella puntata successiva della trasmissione una poesia da lui stesso definita diffamatoria, infarcita di insulti personali rivolti direttamente al presidente turco Erdogan, che lo ha denunciato e pretende la sua condanna non solo per diffamazione, ma addirittura per il reato di lesa maestà (ancora previsto dal codice penale tedesco), in quanto offendere il rappresentante di uno Stato è più grave che offendere un comune cittadino. Ora la vicenda si è trasformata in un caso diplomatico che spacca l’opinione pubblica tedesca e crea dissapori all’interno della Grosse Koalition al governo, con la cancelliera Merkel pragmaticamente conscia dell’importanza della Turchia nell’arginare i flussi migratori verso l’Europa che accoglie la richiesta a procedere per vie legali per il capo d’imputazione più grave. Fin qui i fatti esposti stringatamente. Ora una riflessione: partendo dal presupposto che la satira deve sempre e comunque attaccare il potere facendo ridere e al tempo stesso riflettere, Böhmermann ha esagerato? E la sua volgare poesia ( qui il testo, c’è pure la traduzione in francese!) è satira o oltraggio?  Proverò a rispondere…

Böhmermann ha affermato che Erdogan si chiava le capre e opprime le minoranze mentre guarda film pedopornografici. A parte la faccenda delle minoranze, il resto sono pure illazioni. Il passaggio sulla pedopornografia è pura confusione, si riferiva forse alla puntata sul Vaticano, mentre le capre le lascerei stare, meglio non far incazzare i vegani. Ora che Erdogan attacca per l’ennesima volta e così ferocemente la libertà di stampa ha trovato nuovi amici in Europa, se oggi il suo Paese entrasse nell’EU sarebbe in buona compagnia: Salvini, Le Pen, Orbán, AfD- più punti di vista in comune che differenze. E poi in Turchia la tortura non esiste: chissà cosa direbbe Giovanardi di tutti quei drogati anoressici morti in carcere laggiù. Anche la volontà dei curdi viene rispettata: “hai un’ultimo desiderio da esprimere?”. E pensare che ieri erano tutti Charlie Hebdo, si vede che la colpa più grande di Böhmermann è quella di non essere stato ammazzato in redazione da qualche jihadista. Ora il comico tedesco se la fa sotto dalla paura per le possibili conseguenze e non parla: cambierà idea fra un paio di scosse elettriche. I suoi amici raccontano che non ha più sul volto quella sua solita espressione da ebete sorridente, ora sembra solo un ebete preoccupato, mentre il suo avvocato dice che è talmente costernato per l’accaduto da essere gà andato a comprare corda e sapone. D’altra parte Erdogan, mentre sottolinea le libertà garantite in Turchia (“Certo che esiste il diritto di riunione, li raduniamo tutti in quel campo laggiù! E il diritto di parola, naturalmente parlano tutti, basta interrogarli nel modo giusto!”),  vuole la sua testa e esercita pressioni diplomatiche non indifferenti, ha anche assunto un avvocato (Carlo Taormina era già impegnato) che in passato ha difeso un movimento islamico reazionaro, un negazionista dell’olocausto e un complottista di destra: il presidente turco non poteva mancargli alla collezione. Un’altro fatto triste è che tra chi si schiera dalla parte di Böhmermann ci sono anche gli islamofobi di PEGIDA, che evidentemente non hanno mai visto le puntate della trasmissione dedicate a quelli come loro. Beh, non ci resta che aspettare per scoprire chi avrà la meglio, se la libertà di espressione o la ripicca personale del presidente di uno Stato membro della NATO che ha dalla sua parte leggi obsolete ma tuttora valide e che tiene per le palle l’Europa sulla questione del controllo dei flussi migratori…voi che ne dite?

Ecco, forse questa è satira. Fatta da un dilettante, ma almeno non trabocca di offese a sfondo razzista e sessista, è indirizzata nei confronti del potere, fa sorridere ma anche riflettere (almeno spero). D’altra parte sono cittadino di un Paese democratico che vive in un’altro Paese democratico, pertanto, fiducioso nel rispetto dei miei diritti fondamentali tra cui quello di espressione, mi sento di poter concludere affermando che Recep Tayyp Erdogan secondo me è un

Il clima che cambia.

Sarà anche corretto e forse utile sottolineare le contraddizioni della sedicente democrazia rappresentativa/parlamentare, ma lo stupore è un altro paio di maniche: lo stato di emergenza e la conseguente limitazione delle libertà garantite dalla legge in Francia dopo gli attentati terroristici del 13 Novembre scorso non sono un caso unico né isolato, in Italia chi non ha la memoria troppo corta si ricorderà quante volte le manifestazioni, specialmente negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, siano state vietate per motivi legati alla “sicurezza”. Anche in altri Paesi europei certe misure di limitazione della “libertà” cortesemente concessa dall’alto non sono nuove, né scandalizzano più di tanto un’opinione pubblica anestetizzata e omologata. Non tutti/e però sono anestetizzati e omologati, anzi si sentono ancor più spronati da limitazioni e divieti a manifestare pubblicamente il proprio dissenso. In un momento nel quale gli eserciti degli Stati nei quali viviamo sono in guerra e ciò viene annunciato come se si trattasse della cosa più normale del mondo, mentre i leader mondiali si riuniscono a Parigi per la “nuova ultima chanche” (non sono l’unico a ricordare che si parlava di “ultima chanche” anche al vertice sul clima di Copenhagen nel 2009…) per ridurre il surriscaldamento globale del pianeta, ad alcuni/e, forse troppo pochi/e ma pur sempre presenti ed esistenti, sono chiari un paio di concetti di fondo imprescindibili: guerra e politiche securitarie e repressive sono due facce della stessa medaglia e le guerre non sono altro che uno strumento per ottenere o rafforzare il dominio su territori e popolazioni, per accaparrarsi nuove risorse, controllare nuovi mercati, incrementare gli affari e lo sviluppo-espansione del capitale che non possono fermarsi di fronte a nulla, nemmeno di fronte alla possibile distruzione del pianeta Terra. I veri accordi vengono stabiliti altrove, non durante gli spettacolini ad uso e consumo dell’opinione pubblica credulona. Nessuna conferenza sul clima è mai servita nel passato a raggiungere accordi soddisfacenti almeno per rallentare considerevolmente la catastrofe, perchè la crescita economica e il profitto vengono prima di tutto. Prima degli ecosistemi, degli esseri umani e di tutte le creature viventi, prima dei diritti revocabili stabiliti sulla carta, della pace e, non te ne meravigliare, della sicurezza di ciascuno/a di noi.

Risultati immagini per system change not climate change

Solidarietà con i compagni del ZACF!

Fonte: Anarkismo.

pic.png

” Quale libertà per tutti?

Militanti dello Zabalaza Anarchist Communist Front minacciati, attività interrotte, costretti a nascondersi

Condannare la violenza politica ed il terrore


Sud Africa, 16 Ottobre 2015: la sera del 9 ottobre un militante dello Zabalaza Anarchist Communist Front nel quartiere proletario nero di Khutsong (Johannesburg ovest), è stato minacciato violentemente da parte di un gruppo di giovani per il suo lavoro politico. La mattina dopo, una scuola politica gestita da lui e da un altro militante del quartiere è stata interrotta con la forza.

Nella notte del venerdì 6 ottobre, “Tebogo” (pseudonimo per ragioni di sicurezza) è stato fermato da 8 uomini. Gli hanno intimato di “non promuovere più le idee anarchiche” e di non fare più resistenza al governo perchè “l’African National Congress [ANC] deve governare i quartieri” altrimenti ci sarebbero state per lui gravi conseguenze. La mattina del sabato 10 ottobre, i compagni “Tebogo” e “Boitumelo” (*pseudonimo) sono stati fermati da circa 15 teppisti mentre stavano preparandosi ad ospitare la sessione mensile della scuola di formazione dello ZACF / Zabalaza in un locale del posto. Sono riusciti ad impedire che i teppisti entrassero, ma l’evento era ormai interrotto. Ci sono stati lanci di pietre e di minacce.

I due compagni dello Zabalaza sono fortunatamente riusciti a scappare, ma hanno dovuto rifugiarsi in un quartiere vicino. Nel frattempo, i teppisti hanno cercato “Tebogo” a casa sua. Abbiamo fatto tutto il possibile per aiutare i nostri compagni in questi tempi difficili.

Facciamo appello a tutte le strutture progressiste di unirsi a noi nell’opposizione e nella condanna di questi clamorosi atti di intimidazione e di terrore nei confronti della classe lavoratrice nera. I fatti di Khutsong purtroppo non sono incidenti isolati. Come tali, dovrebbero essere visti con estrema gravità, anche per possibili letali conseguenze.

E’ normale per i dirigenti dei partiti politici radicati nei quartieri assumere teppisti per fare il lavoro sporco di intimdazione e di aggressione verso gli attivisti. Agli inizi del 2015, ad esempio, una riunione di quartiere organizata da attivisti di base di Abahlali Freedom Park, a Johannesburg sud, era stata attaccata da teppisti assoldati chiaramente da un consigliere locale dell’ANC e dai suoi sodali. Parecchi militanti della comunità sono finiti in ospedale, di cui uno in unità intensiva. Gli attacchi ai diritti umani fondamentali ed alla libertà sono ormai fatti di ogni giorno.

Siamo sollevati dal fatto che i nostri compagni di Khutsong non hanno subito la stessa sorte e che i compagni con cui lavorano a Freedom Park continuino a lottare.

Ma noi siamo anche consapevoli che non c’è scampo per nessuno, che una sorte simile può colpire attivisti che osano tenere comizi ed ergersi contro lo sfruttamento, gli abusi, la corruzione, le disciminazioni che opprimono la classe lavoratrice nera e ci cui beneficia la classe dirigente.

Chiediamo agli attivisti di lottare per un Sud Africa migliore, per un mondo migliore, per un futuro più luminoso,per essere fermi e rifiutarci di essere imtimiditi e piegati all’inazione dai sicari del partito al governo. Poichè ci aspettiamo solo che il terrore aumenti, occorre che la lotta di classe continui a progredire.

Chiediamo dunque alle organizzazioni ed alle individualità di:

  1. sottoscrivere questo documento inviando una email a acf[at]riseup.net o usando la funzione commenti sotto
  2. far circolare queste notizie ovunque
  3. denunciare pubblicamente tutti i casi di terrore politico

Basta con le intimidazioni politiche contro gli attivisti neri quartieri!

Difendere il diritto alla libertà di espressione ed alla libertà di associazione!

Nessuno è libero finchè non sono liberi tutti!

https://www.facebook.com/zabalazanews
Zabalaza.net

Traduzione a cura di Alternativa Libertaria/FdCA – Ufficio Relazioni Internazionali ”

10155823_1443278275916870_2511806153471081113_n.jpg

 

Terrorismo di Stato in Turchia.

Il 10 Ottobre scorso, durante una manifestazione per la pace dai contenuti antigovernativi indetta ad Ankara, capitale turca, sono esplosi due ordigni che hanno provocato una strage. Secondo le diverse fonti i morti sarebbero tra i 95 e i 128, i feriti tra i 165 e i 500 e più, tutti/e attivisti/e di organizzazioni politiche e sindacali di sinistra e filocurde. Tra i morti ci sono almeno due anarchici. Il governo turco ha accusato immediatamente, parole di Erdogan, “chiunque voglia minare l’unità e la pace nel Paese”, mentre il primo ministro Davutoğlu includeva in una lista di possibili sospetti anche una serie di organizzazioni curde e di estrema sinistra . Come accadde a seguito dell’attentato di Suruc, che costò la vita a 33 attivisti/e di area socialista, comunista e anarchica, il governo turco del partito filoislamico e reazionario AKP incolpa i fondamentalisti islamici dell’ ISIS, ne arresta qualche decina e contemporaneamente provvede a bombardare postazioni del partito dei lavoratori curdo PKK, proprio quando quest’ultimo si era impegnato a sospendere qualsiasi ostilità nei confronti dello Stato turco, anche in vista delle elezioni indette per il prossimo 1 Novembre.

La prima domanda che vien spontaneo porsi in questi casi è: cui prodest? Secondo alcuni opinionisti è improbabile che il governo turco sia il responsabile della strage di Ankara, mentre la tesi maggiormente accreditata è che si tratti di un’attentato ad opera dell’ISIS che intende destabilizare la Turchia colpendo al tempo stesso gli acerrimi nemici curdi. Una certezza è comunque l’appoggio (“moderato”, dicono alcuni) offerto finora dal governo turco alle milizie dell’ISIS: queste ultime, sentendosi abbandonate dopo la dichiarazione di guerra contro di esse, seminerebbero ora il terrore in Turchia. Un’altro aspetto, che va sotto la categoria di responsabilità morale, è la continua persecuzione effettuata dal governo di Ankara a danno della popolazione curda e il rifiuto di trattative diplomatiche con le organizzazioni curde che vorrebbero mettere definitivamente la parola fine ad un sanguinoso capitolo di storia che dura ormai da decenni. Anche il fatto che sulla libertà di riportare notizie che riguardano le indagini sull’attentato sia caduta ancora una volta la mannaia della censura di Stato è un segnale che riconferma il modus operandi autoritario e repressivo di Erdogan e del suo governo, deciso a qualsiasi costo a riconfermarsi alle prossime elezioni senza farsi sorpassare dal partito della sinistra moderata filocurda HDP, il cui leader Selahattin Demirtaş ha esplicitamente accusato il governo di essere responsabile della strage di Ankara. Di sicuro chi s’impegna con zelo a massacrare i/le manifestanti/e antigovernativi per le strade e a torturarli nelle prigioni, a  far crepare i lavoratori in miniera, a sbattere in galera i giornalisti e a massacrare civili curdi inermi radendo al suolo i loro villaggi non ha certo tempo da perdere nel garantire la sicurezza interna del Paese prevenendo attentati terroristici.

Ciò che è giusto e ciò che è legale.

Risultati immagini per erri de lucaIl prossimo 19 Ottobre si terrà il processo che vede imputato lo scrittore Erri De Luca, accusato di aver sostenuto la legittimità del sabotaggio come mezzo di lotta contro il progetto dei treni ad alta velocità. I pm che imbastiscono l’accusa, i ben noti Rinaudo e Padalino, come sempre dediti all’attacco del movimento NO-TAV, chiedono per De Luca una condanna a 8 mesi di carcere.

Il 15 Agosto, nella zona della Renania, in Germania, un migliaio di manifestanti del coordinamento Ende Gelände hanno bloccato i lavori nella miniera di carbone a cielo aperto del colosso energetico RWE, per protestare col metodo dell’azione diretta e della disobbedienza civile contro la devastazione ambientale e l’inquinamento. Sono piovute, oltre che manganellate e spray urticante, anche 800 denunce, che hanno colpito non solo gli/le attivisti/e ma anche alcuni/e giornalisti/e presenti sulla scena. La RWE ha gentilmente messo a disposizione della polizia, oltre che il personale della sicurezza privata, i propri mezzi per poter provvisoriamente fermare e identificare gli/le attivisti. O meglio, lo Stato ha come sempre messo a disposizione le proprie forze repressive per difendere gli interessi della grande proprietà privata.1 La collusione tra apparati repressivi statali e interessi capitalisti è ovvia: difesa del capitale e degli interessi economici über alles und überall. Ma disobbedire ad una legge di uno Stato, creata oggi e revocabile domani dai pochi che detengono il potere, non è la stessa cosa che disobbedire ad una legge fondamentale della natura (e della logica, direi!) che impone che il pianeta nel quale tutti/e noi viviamo vada salvaguardato per noi e per le future generazioni piuttosto che depredato e devastato. Nel primo caso si rischiano gogne mediatiche, processi, multe,  mesi o anni di carcere o comunque provvedimenti restrittivi della libertà personale, nel secondo caso si rischia la catastrofe, l’annichilimento del genere umano e delle altre specie viventi che popolano la Terra. Mettere im pratica azioni che contrastino con la logica del profitto ai danni della vita, della salute, del benessere collettivo o anche solo giustificare tali azioni verbalmente può anche essere un reato per uno Stato, per un sistema giudiziario, ma è senza ombra di dubbio un fatto non solo legittimo, ma necessario da un punto di vista etico, se l’etica è degna di questo nome. Dov’è la violenza? Nel danneggiamento di un macchinario usato per portare a termine un’opera nefasta, nel bloccare un’attivitá nociva, o nell’opera nefasta e nell’attività nociva? E cosa istiga alla resistenza attiva contro un’ingiustizia, un sopruso, un male arrecato a noi e alla terra sulla quale viviamo: le parole di una qualsiasi persona, più o meno nota che sia, che parla con coscienza e senza timore, o forse il sopruso, l’ingiustizia, il male di per sé? Chi lotta contro la devastazione ed il saccheggio delle risorse comuni deve sempre porsi problemi di ordine morale, mentre i nostri nemici si pongono quelli di ordine legale, perchè le leggi -almeno quelle artificiali, create da chi serve il sistema dominante- sono dalla loro parte. Dalla nostra parte c’è il coraggio di dire ciò che si pensa e di agire in prima persona senza scioccamente affidarsi alle false soluzioni e alle parole vuote di chi il problema lo ha creato, c’è la costanza e l’affetto nel tendere la mano a chi lotta con noi e si trova in difficoltà. Rispetto e solidarietà per Erri De Luca e per chiunque diventi un granello di sabbia nell’ingranaggio dell’ingiustizia che il sistema chiama giustizia.

“Turchia: Bombe di Stato contro la ricostruzione di Kobanê”

Fonte: Umanità Nova.

kurdish-women-fighters-4

 

 

 

La mattina di lunedì 20 luglio a Suruç nel giardino del centro culturale Amara è esplosa una bomba durante la conferenza stampa dell’organizzazione turca Federazione delle Associazioni dei Giovani Socialisti (SGDF). Circa 30 persone sarebbero rimaste uccise nell’esplosione, oltre 100 giovani invece sarebbero feriti, di cui alcuni in gravi condizioni. Tra le vittime, oltre a numerosi giovani militanti socialisti, vi sono anche due compagni anarchici, entrambi di 19 anni. Evrim Deniz Erol e Alper Sapan, quest’ultimo faceva parte del gruppo Iniziativa Anarchica di Eskişehir ed era obiettore di coscienza al servizio militare.

Suruç è una cittadina a maggioranza curda in territororio statale turco, che si trova a ridosso del confine con la Siria ed è base per tutte le azioni di solidarietà rivolte verso Kobanê, che dista solo pochi chilometri. Per questo circa 300 membri del SGDF si trovavano presso il centro culturale per una conferenza stampa in cui stavano denunciando la repressione attuata dal governo turco allo scopo di impedire che i giovani militanti passassero il confine per lavorare a progetti di ricostruzione della città. Quasi contemporaneamente un altro attentato a Kobanê, vicino al valico di frontiera di Mürşitpınar, verso Suruç, faceva ulteriori vittime tra le forze curde di autodifesa. L’attentato al centro culturale Amara viene per ora attribuito allo Stato Islamico, in ogni caso è chiaro che l’attacco risponde agli interessi di coloro che vogliono bloccare in ogni modo qualsiasi possibilità di cambiamento sociale rivoluzionario nella regione, a partire dal governo turco e dai suoi sicari. Per comprendere il contesto in cui è avvenuto questo attacco terribile, cerchiamo di ripercorrere gli eventi degli ultimi mesi.

Dopo le note vicende dell’assedio da parte delle milizie dello Stato Islamico alla città di Kobanê nell’autunno-inverno dello scorso anno, la situazione in Rojava è andata progressivamente modificandosi a seguito della liberazione della città, avvenuta nel Gennaio del 2015 per mano delle milizie curde YPG (Unità di Protezione del Popolo) e YPJ (Unità di Protezione delle Donne, milizia femminile) e delle altre forze che combattono al loro fianco.

Il Kurdistan in zona siriana (Rojava) è diviso in tre diversi cantoni. Nella zona nord orientale della Siria si trova il cantone di Cizire, quello geograficamente più grande e popolato. A nord ovest vi è invece il cantone di Efrin. Tra i due cantoni vi è quello di Kobanê. I tre cantoni sino al Giugno del 2015 hanno avuto degli ingenti problemi di collegamento, data la presenza di truppe dello Stato Islamico e di altri gruppi che bloccavano ogni possibilità di scambio tra le regioni.

I combattimenti nelle zone intermedie tra i tre diversi cantoni si sono difatti susseguiti ininterrottamente dal 2013 sino a oggi. Oltre ciò, non minore importanza ha avuto la chiusura ufficiale, predisposta dalla Turchia, di svariati valichi di confine con i territori controllati dalle forze curde. Azione che ha isolato ulteriormente le zone sotto il controllo dei curdi e che ha impedito ed impedisce anche oggi l’arrivo di qualsiasi assistenza ai territori martoriati dai continui attacchi dello Stato Islamico, bloccando a tempo indeterminato anche il flusso regolare di profughi in fuga. Va ricordato che nel periodo in cui le forze curde ancora non controllavano completamente alcune delle zone settentrionali della Siria, che allora erano nella maggior parte dei casi in mano a forze legate a gruppi islamisti che si sarebbero uniti successivamente allo Stato Islamico, lo stato turco tenne alcuni valichi di frontiera aperti a “tempi alterni”. Tale azione venne giustificata dall’esigenza di mantenere una continuità commerciale con il territorio siriano, aprendo e chiudendo, svariate volte e con violenza, l’accesso in Turchia ai profughi in fuga dagli scontri violentissimi tra varie fazioni. Attraverso questi valichi di frontiera sono transitati nel tempo rifornimenti per Al-Nusra e lo Stato Islamico. Non si è certo trattato di semplice negligenza nei controlli di frontiera da parte della Turchia, dal momento che il governo turco ha in numerose occasioni dimostrato il proprio sostegno a forze controrivoluzionarie come lo Stato Islamico sia in Siria sia all’interno del territorio turco, utilizzando formazioni paramilitari fasciste e religiose nella repressione dei rivoluzionari e dei militanti curdi.

L’atteggiamento del governo turco è sempre stato chiaro. Il confine sotto il controllo turco tra il paese anatolico e la Siria apre e chiude le sue porte in base all’utilità politica della situazione interna alla Turchia ed a quella del nord della Siria. Da un lato l’apertura e l’accoglienza apparente verso i profughi in determinati periodi dell’anno, dall’altra il blocco e la repressione violenta con la volontà d’interrompere ogni collegamento tra le due sponde quando la situazione politica nei due territori minaccia la stabilità politica del territorio turco. Al contempo i combattenti dello Stato Islamico attraversano tranquillamente il confine sotto gli occhi dei militari turchi. Un esempio lampante di tali politiche lo si è avuto con la repressione violenta esercitata dall’esercito turco e la Jandarma (polizia militare turca) durante l’assedio da parte dello Stato Islamico a Kobanê del 2014. Allora migliaia di persone in fuga dalla città, soprattutto curde, vennero duramente attaccate dalle autorità turche che ne stavano impedendo il passaggio. Fu di molti feriti e qualche morto il bilancio di quelle settimane.

Nel Giugno di questo anno, le YPG e le YPJ, hanno condotto un’operazione per tentare di riunificare il cantone di Kobane a quello di Cizire, cercando di liberare dallo Stato Islamico una delle città più importanti della zona settentrionale della Siria, Tall Abyad e la zona circostante.

La città di Tall Abyad, dopo la riconquista da parte delle YPG/YPJ della città di Kobanê, ha assunto per lo Stato Islamico un ruolo strategico e politico centrale. Tall Abyad difatti, conquistata dallo Stato Islamico nel Giugno del 2014, è rimasta sino a qualche mese fa, l’unico valico di frontiera nel nord est della Siria sotto il controllo dello Stato Islamico, permettendo ad esse di ricevere un regolare flusso di aiuti e combattenti provenienti dal territorio turco; il tutto come sempre sotto l’occhio accondiscendente dello stato turco.

Durante tutto l’arco del 2014, le milizie dello Stato Islamico hanno condotto nella zona un’ingente operazione di riassestamento demografico, minacciando di morte i curdi dell’area mediante un’operazione di allontanamento forzato dall’area. Durante l’estate del 2014 sono state molte le famiglie curde, turcomanne ed anche arabe che hanno abbandonato la zona per paura di ripercussioni.

Nel giugno scorso le operazioni delle YPG e delle YPJ hanno portato nel giro di qualche giorno alla liberazione della città di Tall Abyad. Durante lo stesso mese, in Turchia, si sono tenute le elezioni per rinnovare il parlamento ed eleggere il primo ministro della Repubblica, in un contesto politico nel paese fortemente conflittuale. Il partito di Erdoğan non è riuscito ad ottenere la maggioranza, mentre il partito a base curda HDP (Partito Democratico dei Popoli) ha conseguito più del 13% dei voti, entrando di diritto nel parlamento della Repubblica Turca. Questo è avvenuto nonostante il blocco di potere al governo, guidato dal partito conservatore-religioso AKP (Partito della Giustizia e dello Sviluppo), abbia tentato con ogni mezzo di ostacolare l’opposizione. Le elezioni infatti furono insanguinate da aggressioni contro attivisti curdi e dei partiti di sinistra, attacchi che culminarono con le bombe di stato ad Amed (Diyarbakir) il 5 giugno che provocarono 4 morti durante un comizio dell’HDP. L’esito delle elezioni, accompagnato dalle continue vittorie sul campo delle forze curde in territorio siriano e da un progressivo radicamento delle forze della sinistra rivoluzionaria in tutto il paese anatolico, hanno condotto il governo di Ankara ad aumentare la violenza della repressione interna.

Ankara non ha digerito la doppia sconfitta ed ha dichiarato, durante un incontro del Consiglio Nazionale di Sicurezza Turco (MGK), la decisione di implementare la sua presenza lungo il confine turco-siriano, in particolar modo in quei territori confinanti con le zone gestite dalle forze curde. Le dichiarazioni del MGK, presieduto dal Presidente della Repubblica Turca Erdoğan, si sono fatte molto dure, arrivando ad affermare che la Turchia “non permetterebbe mai la formazione di uno stato curdo lungo i propri confini meridionali”, ipotizzando la concretezza di un’invasione impellente da parte della Turchia in Siria. Tali affermazioni arrivano anche a margine delle accuse dello stesso Presidente Erdoğan nei confronti delle forze curde di aver perpetrato azioni di pulizia etnica nei confronti della popolazione araba e turcomanna di Tall Abyad. La stessa popolazione al quale lo stesso Erdoğan, tramite i fucili delle proprie truppe ed i gas delle proprie guardie, non aveva permesso l’attraversamento del confine durante gli scontri tra YPG/YPJ e Stato Islamico nei dintorni della città. Tale atto riprende il medesimo atteggiamento repressivo avuto nei confronti dei curdi di Kobanê nell’Ottobre dell’anno precedente, lasciando intendere una continuità d’intenti negli ultimi mesi.

Le dichiarazioni dell’MGK e la decisione di governo turco di prepararsi ad un’invasione della Siria, schierando un maggior numero di mezzi e truppe lungo il confine, sono arrivate lo stesso giorno in cui si è concluso l’attacco sferrato dallo Stato Islamico il 25 giugno a Kobanê .

Il 25 giugno, dopo l’esplosione di tre autobomba lungo il confine con la Turchia a Kobanê, circa un centinaio di combattenti appartenenti alle forze dello Stato Islamico, entrati in città prima che facesse giorno indossando divise delle YPG e dell’FSA, sferrano un feroce attacco rivolto soprattutto contro la popolazione civile. Dopo quattro giorni di battaglia, il 29 giugno finiscono i combattimenti nelle strade, ma appare subito chiaro, come afferma anche un portavoce delle YPG, che l’attacco dello Stato Islamico non aveva certo lo scopo di occupare e controllare la città di Kobanê o anche solo alcune zone di essa. Si trattava invece un attacco suicida collettivo con lo scopo di uccidere il maggior numero di civili. Infatti alla fine dell’attacco si contano 223 morti e 300 feriti tra i civili, uno dei più gravi massacri compiuti dallo Stato Islamico in Siria.

Sia le forze curde di Kobanê sia il governo siriano hanno affermato che le autobomba venivano dal territorio turco e che avevano quindi attraversato i valichi di frontiera controllati dallo stato turco. Inoltre Figen Yüksekdağ, cosegretaria dell’HDP, ha dichiarato che il governo turco ha supportato per anni lo Stato Islamico e il massacro è parte di questa politica di supporto.

Probabilmente il governo turco voleva che l’attacco a Kobanê servisse a dimostrare che le forze riunite attorno alle YPG/YPJ non erano capaci di controllare la città e soprattutto di proteggere i civili, e che potesse quindi rafforzare la presa di posizione dell’MGK riguardo alla “pulizia etnica” antiaraba a Tall Abyad contribuendo così a giustificare un eventuale intervento di terra in Siria o comunque l’invio di ulteriori truppe lungo il confine.

È ancora troppo presto forse per parlare di un cambio di strategia della Repubblica Turca nel conflitto, anche perché il fatto che dalle elezioni di inizio giugno ancora non sia stato insediato un nuovo governo e tuttora siano in atto le consultazioni per trovare una maggioranza, rende incerta la situazione politica interna alla Turchia. Sembra ad ogni modo che dopo la liberazione di Tall Abyad abbiano iniziato ad assumere un peso maggiore quegli elementi ai vertici dell’establishment turco che vogliono un intervento militare diretto in Siria contro la popolazione curda e le forme di organizzazione sociale che si sta dando in Rojava.

Le accuse rivolte dall’MGK e dallo stesso Presidente della Repubblica Erdoğan alle forze curde sono quindi da interpretarsi fondamentalmente come propaganda a sostegno della linea politica e militare che il governo turco conduce nel conflitto.

Tuttavia la giusta opera di demistificazione e la lotta contro la propaganda del governo turco non deve portarci ad ignorare o rifiutare la realtà della guerra. In questo conflitto, l’intervento diretto e indiretto delle principali potenze mondiali e regionali, che inviano armi e combattenti, bombardano e cercano di spartirsi il territorio e le sue risorse, porta ad una recrudescenza della violenza tipica della guerra imperialista. In questo contesto, anche per chi combatte per difendere una prospettiva alternativa al dominio imperialista e capitalista può essere facile cadere nella trappola della guerra, commettendo eccessi o comunque perdendo di vista il fine per il quale si lotta.

Ignorare i rischi che si presentano in una situazione di guerra come questa può portare ad una sconfitta non solo militare, ma anche e soprattutto politica. Una sconfitta politica può assumere anche la tragica forma dell’abbandono della prospettiva rivoluzionaria per ottenere una vittoria militare grazie al sostegno di quelle potenze interessate all’instaurazione di una forma di governo disponibile a non mettere in discussione gli interessi degli stati e del capitalismo globale nella regione. Questo, ancor più di una disfatta militare, costituirebbe una tragedia per la popolazione che nella Rojava sta cercando di darsi gli strumenti per un cambiamento sociale in senso rivoluzionario, perché bloccherebbe adesso e per gli anni a venire ogni prospettiva di reale liberazione sociale, ripristinando le vecchie condizioni di sfruttamento ed oppressione e creandone di nuove.

Per ora il protagonismo della popolazione nella sua pluralità, la presenza radicata di gruppi rivoluzionari, l’autodifesa popolare e la mancanza di un governo dotato di apparati repressivi hanno reso possibile l’inizio di un processo rivoluzionario.

Solo facendo leva su questi punti di forza è possibile vincere questa lotta sul piano politico, senza cedere ai ricatti delle potenze e senza cadere nelle trappole della guerra.

In questa prospettiva è fondamentale la questione della ricostruzione di Kobanê e della Rojava. Perché oltre al bisogno di aiuti immediati, di ricostruire infrastrutture, case ed ospedali, c’è anche bisogno di discutere di come dovrà essere la città, di come ricostruire la società, su quali basi. Ci sono chiaramente diverse posizioni e differenti progetti, da una parte ci sono speculatori che aspettano di fare l’affare del secolo, mentre dall’altra ci sono rivoluzionari che vogliono far sorgere dalle macerie una società libera dalla proprietà privata.

In questi mesi si sta avviando un’ampia campagna per la ricostruzione di Kobanê. Oltre all’appello internazionale lanciato dal KRB, il tavolo per la ricostruzione della città, vi sono campagne e progetti specifici portati avanti dalle forze politiche che hanno sostenuto fino ad oggi la resistenza.

Queste iniziative sono tutte orientate a dare alla ricostruzione un forte senso politico; i lavori infatti non saranno affidati alle multinazionali o ai grandi speculatori, ma sarà organizzata e gestita attraverso la partecipazione dei diretti interessati.

In questo contesto anche il movimento anarchico, in particolare il gruppo DAF (Azione Anarchica Rivoluzionaria) di Istanbul, radicato anche in Kurdistan, dà il proprio contributo specifico alla ricostruzione, nel senso della ricostruzione della vita, di una società nuova, libera, senza stati né classi.

Quanto sia importante la ricostruzione ed in particolare l’intervento dei gruppi rivoluzionari per sostenere il processo di trasformazione sociale in atto, è reso ancora più chiaro dalla ferocia con cui i militanti che si occupano dei progetti di ricostruzione vengono attaccati dal governo turco, dai suoi alleati e dai suoi sicari.

L’attentato esplosivo che ha ucciso i giovani militanti della SGDF a Suruç la mattina di lunedì 20 luglio è un colpo diretto ai gruppi rivoluzionari che sostengono la Rojava. Non è terrorismo indiscriminato ma un massacro mirato di militanti, che ha come scopo l’eliminazione fisica di giovani rivoluzionari e l’intimidazione nei confronti di tutte le altre forze che sostengono i progetti di ricostruzione. Le dichiarazioni di Erdoğan dopo l’attacco sono di fatto un’ulteriore minaccia di invasione della Rojava. Il Presidente della Repubblica Turca ha infatti affermato che l’attentato sarebbe la risposta alle recenti disposizioni di rafforzamento del controllo militare lungo il confine da parte dell’esercito turco.

La sera stessa della strage in molte città della Turchia si sono tenute manifestazioni, nella maggior parte dei casi la polizia ha attaccato i dimostranti e gli scontri si sono protratti nella notte.

Ad Istanbul migliaia di persone hanno marciato verso Taksim fino a quando la polizia non ha attaccato il corteo con lacrimogeni e proiettili di gomma. Ad Amed e Yüksekova ci sono stati durissimi scontri. A Suruç, dove la polizia era già intervenuta con i blindati subito dopo la strage, l’intervento repressivo contro i manifestanti nel tardo pomeriggio ha provocato numerosi feriti.

Dopo questi fatti è ancora più importante appoggiare la ricostruzione della città di Kobanê, sostenendo gli anarchici del DAF e tutte quelle forze che contribuiscono ad uno sviluppo del processo che in quella regione sta aprendo la strada alla rivoluzione sociale.

Giacomo Sini

Dario Antonelli “

Repressione in Spagna: dopo Pandora, ecco la Pignatta.

Il seguente articolo è tratto dal sito Informa-Azione:

“Spagna | Repressione – Operación Piñata: 13 arresti per “terrorismo anarchico”

Alle 6.30 della mattina del 30 marzo 2015 ha preso corpo una nuova operazione contro le realtà anarchiche in Spagna.
Le forze repressive hanno fatto irruzione in diverse occupazioni (tra cui le case “Quimera” e “13-14” a Madrid; “la Redonda” a Granada) e abitazioni di compagn* a Madrid, Palencia, Granada e Barcellona.

Nel corso della mattinata sono state arrestate 37 persone:

13 compagn* sono detenuti con l’accusa di “organizzazione criminale con finalità di terrorismo”; si hanno ancora poche informazioni in merito a reati specifici ed elementi probatori contestati nei loro confronti. Le dichiarazioni dei registi di questa operazione, riportate dai media di regime iberici, riferiscono di aver dato un duro colpo all’organizzazione denominata GAC (Gruppi Anarchici Coordinati), che vi sarebbero ipotesi di collegamento con alcuni attacchi a strutture ecclesiastiche e filiali bancarie (motivazioni già utilizzate nell’Op. Pandora), fino a sostenere genericamente che le persone coivolte “intendevano seminare il terrore nella popolazione per imporre le proprie idee”: pratiche che il governo spagnolo e il suo braccio armato conoscono molto bene e praticano con assiduità.

Altre 24 persone sono state fermate e detenute come conseguenza delle 17 irruzioni e perquisizioni effettuate, di cui 6 in spazi o abitazioni occupate; di queste, 13 sono accusate di resistenza e disobbedienza, mentre 11 di occupazione.
Un aggiornamento del 31 marzo conferma l’avvenuta liberazione delle prime 13 e i presupposti per quella dei restanti.

Restano quindi in carcere 13 compagni e compagne con l’accusa di terrorismo.

Il nome dato a questa manovra repressiva è “Operación Piñata” (Operazione Pignatta, come l’involucro da prendere a bastonate per farvi uscire i dolciumi). Dopo il fallimento della precedente Operazione Pandora, il cui nome suggeriva lo scoperchiamento e il disvelamento dei minacciosi segreti della conflittualità anarchica, risolvendosi in 7 compagne e compagni tratti in arresto e rilasciati con restrizioni dopo un paio di mesi a causa dell’inconsistenza del piano accusatorio, è il turno della Pignatta.
Hanno mostrato i muscoli e invaso abitazioni e occupazioni, portandosi via 37 persone e trattenendone 13 con l’accusa di terrorismo.

Quanto è osservabile, è la volontà dello Stato Spagnolo di sperimentare sul campo gli strumenti di cui si è dotata la sua componente repressiva: leggi antiterrorismo e Ley Mordaza (“legge bavaglio” che estende in modo arbitrario il potere di fermo delle forze dell’ordine e infligge pesanti sanzioni pecuniare per le manifestazioni non-autorizzate). L’altra faccia delle riforme economiche dettate della Troika è la strutturazione di una repressione muscolare in grado di terrorizzare e contenere i conflitti innescati dalla macelleria sociale; gli anarchici sono un buon bacino su cui testare queste nuove armi. Un bacino pericoloso, anche perché refrattario alla delega democratica e alla sottrazione di conflittualità attiva, incarnate invece dal movimento Podemos.

Due operazioni repressive su grande scala in meno di quattro mesi rappresentano un evidente tentativo di fiaccare la rabbia e la determinazione delle compagne e dei compagni anarchici nella penisola iberica; il contesto spagnolo di per sé, come ogni società attraversata da cruente rimodulazioni sul piano economico e repressivo, è un esperimento ai cui risultati potranno attingere gli oppressori in altre nazioni, cercando di replicarli. La solidarietà è uno degli strumenti nella cassetta degli attrezzi per sabotare i piani di questi pezzi di merda.

Seguiranno aggiornamenti e comunicati”

Sembra passato un giorno dal 1915…

Risultati immagini per notizie turchia

La foto qui sopra, diffusa nelle ore scorse sui cosiddetti social networks e in seguito ripresa dai massmedia, mostra uno dei due appartenenti all’organizzazione marxista-leninista turca DHKP-C che tiene in ostaggio, puntandogli una pistola alla tempia, il procuratore Mehmet Selim Kiraz nel suo ufficio all’interno del palazzo di giustizia ad Istanbul, dove i due giovani armati hanno fatto stamane irruzione. Kiraz era l’incaricato che indaga sull’uccisione da parte della polizia del 14enne Berik Elvan, colpito nel Giugno 2013 da un candelotto lacrimogeno durante le proteste di Gezi Park. Berik non era coinvolto nelle proteste, a quanto sembra stava andando a comprare il pane e si era trovato per caso nel mezzo degli scontri; entrato in coma, il ragazzo morì dopo oltre nove mesi e il suo omicidio rimane tuttora impunito visto che la “giustizia” non è riuscita ad appurare l’identità del poliziotto che lo ha ucciso. Quello che però la “giustizia”, il governo di Erdogan e la polizia sono riusciti a fare è stato reprimere duramente le proteste popolari scoppiate a seguito della morte di Berik, che si sono riaccese nuovamente l’11 Marzo di quest’anno in diverse città turche (Ankara, Istanbul, Eskişehir, İzmir, Tekirdağ…), durante le quali un’altra giovanissima ragazza è rimasta gravemente ferita da un candelotto lacrimogeno e giace anche lei in coma.

“Chiedono chi stia dando ordini alla polizia. Li ho dati io stesso”, disse Erdogan, all’epoca primo ministro (oggi presidente) turco, riferendosi alla morte di Berkin Elvan, da lui definito in seguito un “terrorista”. Una frase che mi riporta alla mente, per immediata associazione di idee, le parole del famigerato discorso pronunciato da Benito Mussolini dopo l’omicidio di Giacomo Matteotti. Responsabilità morale. Come quella di Erdogan, dei suoi scagnozzi e dei suoi sostenitori, non solo di fronte alla morte di Berik Ervan e al ferimento di un’altra ragazzina che forse mai si risveglierà dal coma e alle decine di recenti arresti durante le proteste, ma anche di fronte alla morte di quasi 300 minatori nel Maggio 2014 e alla repressione della rabbia di chi scese per strada chiedendo le dimissioni del governo. Solo pochi giorni fa è stata approvata in Turchia una legge che prevede che la polizia possa sparare addosso ai manifestanti irrequieti, mentre la legge sulla censura dei massmedia per motivi di sicurezza nazionale è stata applicata, secondo il quotidiano turco Hurryet, 150 volte negli ultimi 4 anni, inoltre gli scioperi vengono sospesi o proibiti facendo ricorso a strumenti nati durante la dittatura militare, com’è accaduto con lo sciopero dei metalmeccanici proclamato lo scorso fine Gennaio dal sindacato di ispirazione socialdemocratica BMI. Se a tutto ciò si aggiungono le politiche razziste e di pulizia etnica perpetrate da decenni nei confronti dei curdi, la chiusura delle frontiere per i rifugiati e perseguitati dall’ISIS e l’appoggio solo in parte velato fornito a tale organizzazione, non sembrano passati esattamente 100 anni da quando la Turchia iniziò lo sterminio degli armeni, un genocidio conclusosi con almeno 1 milione di morti. Cambiano gli attori sul palcoscenico, le circostanze storiche, ma oggi come allora siamo di fronte alla barbarie. E di fronte all’evidenza dei fatti ci si può solo chiedere ancora una volta chi siano i veri terroristi: i due ragazzi morti poche ore fa dopo un bliz delle forze speciali nel palazzo di “giustizia” di Istanbul assieme al giudice da loro tenuto in ostaggio, o quelli che sono disposti ad affastellare cadaveri su cadaveri e produrre miseria, violenza e abruttimento pur di mantenere il potere e portare avanti i loro allucinanti progetti nazionalisti ed autoritari? Qual’è il vero terrorismo, un gesto disperato compiuto nel tentativo di ottenere “giustizia” o le cause di tale gesto e di tutta la rabbia che è finora scoppiata e ancora scoppierà in Turchia?

Spagna: informazioni sull’operazione repressiva Pandora.

La mattina del 16 Dicembre 2014, in Spagna, scattava un’operazione repressiva antianarchica denominata Pandora. Da quel giorno diversi articoli e comunicati sono stati postati su siti informativi anarchici. Quello che segue è un breve comunicato sugli avvenimenti occorsi, scritto il giorno stesso nel quale é scattata l’operazione repressiva, pubblicato sul sito A Las Barricadas e riproposto, tradotto, sul sito Informa-Azione:

” Spagna | Repressione – Operazione contro il “terrorismo anarchico”: decine di arresti e perquisizioni

Segue traduzione da alasbarricadas:

La Legge Mordaza (norma approvata da pochi giorni che incrementa in modo arbitrario i poteri giudiziari delle forze repressive – ndt) comincia a manifestarsi nella vita politica del paese. Dalle 5 della mattina del 16 dicembre, cominciava l’operazione repressiva denominata Pandora, contro il “terrorismo anarchico”.
Le accuse della Audiencia Nacional riguardano diversi attentati contro filiali bancarie, tuttavia il comunicato della polizia non ha fornito maggiori dettagli su quali attentati e di che forma di terrorismo si stia parlando, riferendosi genericamente a un diffuso “terrorismo anarchico”.

A quell’ora, i mossos d’esquadra hanno fatto irruzione nella Kasa de la Muntanya, dispiegando un ingente dispositivo, circa 300 poliziotti e un elicottero per visionare e illuminare dall’alto le operazioni. I mossos hanno proceduto alla chiusura delle strade adiacenti, effettuando arresti in questa zona di Barcellona. Da quel momento sono partite altre operazioni nell’Ateneo Libertario di Sant Andreu e in quello di Poble Sec, entrambi a Barcellona; contemporaneamente, in altre dieci località catalane venivano invasi appartamenti e spazi abitativi.
Per ora si ha notizia di 15 arresti (anche se la cifra cambia in base alla fonte), la maggior parte a Barcellona, oltre ad un arresto domiciliare a Madrid (alcune fonti parlano di un pompiere – ndt). Gli arresti sono stati effettuati principalmente nel corso dei raid nelle abitazioni. La polizia ha sequestrato telefonini, computer e materiale cartaceo, inclusi alcuni libri presenti negli atenei libertari. Nella Kasa de la Muntanya, gli/le occupanti sono stati bloccati nella palestra della struttura mentre venivano perquisite le abitazioni dello spazio.

Diverse iniziative sono state indette in Catalunya e in altre parti del paese in solidarietà con gli arrestati.

Seguiranno aggiornamenti e comunicati ”

Altre informazioni aggiornate possono essere reperite sempre su Informa-Azione, al seguente link trovate altri Articoli in lingua italiana sul sito Contra Info sullo stesso argomento. Qui trovate gli indirizzi dei/lle compagni/e arrestati/e, qui invece i dati della cassa di solidarietà creata per sostenere gli/le arrestati/e.

Dieci anni fa: Oury Jalloh, morto nelle mani dello Stato.

https://linksunten.indymedia.org/image/73876.jpg

Un uomo è rinchiuso in una cella di sicurezza di un commissariato di polizia a Dessau, Germania, legato ad un materasso ignifugo dopo essere stato perquisito, sorvegliato da un sistema di controllo audio e da un agente che passa ogni mezz’ora a verificare le condizioni del detenuto. Quest’uomo si chiama Oury Jalloh, 36 anni, richiedente asilo immigrato dalla Sierra Leone, un uomo spinto ai margini della società che vive spacciando droga. Fermato dalla polizia per ubriachezza molesta, viene rinchiuso nella cella dell’edificio in Wolfgangstraße 25, Dessau, da dove non uscirà vivo. Oury Jalloh muore bruciato, carbonizzato. Durante i processi che si svolgeranno negli anni successivi, la ricostruzione dei fatti fornita dagli agenti parlerà di un detenuto che, nonostante sia legato, riesce a tirar fuori un accendino stranamente sfuggito alla perquisizione, a danneggiare il materasso ignifugo al quale è strettamente fissato con delle cinghie e a incendiarne l’imbottitura, mentre nessuno degli agenti incaricati della sua custodia si accorge di nulla: il volume dell’altoparlante è stato abbassato da un poliziotto che doveva telefonare, il sistema antiincendio sarebbe stato difettoso. Una serie di sfortunate coincidenze insomma, almeno secondo la versione degli agenti, ma messa in discussione e in più punti smentita durante le diverse udienze del processo. Ad aggiungere una nota inquietante alla morte di Jalloh e alle menzogne ad essa seguite c’è anche il caso di un’altra morte, quella di un senzatetto avvenuta nell’Ottobre del 2002 nello stesso luogo, durante il servizio dello stesso agente direttore di servizio. Al termine del processo per la morte di Jalloh la sentenza confermerà la tesi più improbabile (il detenuto si è dato fuoco da solo) e condannerà al pagamento di una multa ed alla sospensione dal servizio l’agente che avrebbe spento l’allarme antincendio evitando perciò di soccorrere l’uomo che bruciava. Da diverse perizie esterne è emerso invece che la vittima, che presentava fratture al naso e lesioni del timpano, non avrebbe potuto suicidarsi in quel modo, inoltre ad accelerare l’effetto devastante dell’incendio sarebbe stato un qualche combustibile, forse benzina. Quel che rimane, oltre alla conferma del fatto che lo Stato protegge i suoi servi a meno che non sia più proficuo sacrificarli per pure ragioni di calcolo, è la volontà da parte di chi si impegna sul fronte antirazzista e antirepressivo di non far dimenticare l’ennesimo morto nelle mani della polizia. Pertanto il 7 Gennaio di ogni anno, in diverse città tedesche, vengono organizzate iniziative in memoria di Jalloh, per gridare ancora una volta che “è stato un omicidio!”.

C’è da aggiungere, come ultima nota dolente, che Jalloh non fu l’unica persona a morire in Germania nelle mani della polizia quel 7 Gennaio del 2005. A Brema, Laye Alama Condé, anch’egli della Sierra Leone, entrato in coma e mai più risvegliatosi dopo esser rimasto soffocato perchè costretto ad ingerire quantità eccessive di un medicinale emetico, si aggiunge alle tante vittime della violenza di Stato in quello che da molti viene ritenuto un “Paese civile”, additato spesso come esempio positivo. La verità è che lo Stato uccide ovunque, in un modo o nell’altro, e come se non bastasse si fa pure beffa delle vittime.