Padre Pio Superstar!

Tra santi, beati, prelati e altre figure della chiesa cattolica romana, uno dei miei preferiti è e rimarrà sempre Padre Pio…pardon, San Pio! Senza dubbio la sua storia merita di venir conosciuta e approfondita visti i risvolti allucinanti e altamente comici legati al suo culto ed alla sua beatificazione e, successivamente, santificazione. Nonostante gli sforzi da me costantemente compiuti nel tentare di non considerare automaticamente gli aderenti ad una qualsiasi religione come persone da compatire, devo confessare che chiunque si riveli a me come ammiratore, estimatore, seguace et similia del frate di Pietralcina perde ai miei occhi gran parte della propria credibilità e affidabilità più rapidamente di quanto non avvenga con altri “credenti”, perchè se c’è un personaggio rappresentativo più di altri della cialtroneria delle religioni organizzate e della loro grossolana strategia di marketing a uso e consumo di masse esagitate (e direi fulminate, se non fosse che per essere fulminato uno dovrebbe essere stato prima illuminato), quello è proprio San Pio. Fatte le mie brevi considerazioni, in questo spirito (santo, naturalmente) segnalo un articolo sulla visita di Pio (no, non il pulcino!) a Roma/Città del Vaticano, durante l’attuale Giubileo. Magari non firmerà autografi, ma un selfie non ve lo negherà di certo!

Acido fenico, santità e silicone. È arrivato Padre Pio!

Riflessioni a 35 anni dall’attentato all’Oktoberfest di Monaco di Baviera.

Risultati immagini per anschlag oktoberfest 1980 Il 26 settembre del 1980, durante la famosissima ed affollatissima Oktoberfest a Monaco di Baviera, venne fatta esplodere una bomba che causò la morte di 13 persone e il ferimento di altre 211, numerose delle quali rimarranno mutilate o invalide. Gundolf Köhler, un giovane neonazista appartenente all’organizzazione Wehrsportgruppe Hoffmann messa fuorilegge pochi mesi prima e morto lui stesso durante l’attentato, verrà ritenuto l’unico responsabile della strage. A trentacinque anni di distanza da quell’orrendo fatto di sangue sono ancora in molti a manifestare dubbi sulla possibilità che Köhler abbia agito da solo, come dimostra anche la recente riapertura del caso da parte della procura federale tedesca a fronte di una nuova testimonianza. Di certo vi sono una serie di responsabilità, alcune morali, altre materiali, riguardanti l’attentato che non devono essere taciute. Non è né la prima né l’ultima volta, come dimostra il più recente caso degli omicidi e attentati dell’organizzazione neonazista NSU, che in Germania come in altri Stati europei avvengono pesanti collusioni fra istituzioni ed elementi e organizzazioni di estrema destra.

Il governo della Repubbilca Federale Tedesca ammise nel 1990 che “la costruzione di organizzazioni Stay-behind iniziò già poco dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale”. Gli USA crearono in quasi tutta l’Europa Occidentale una serie di organizzazioni paramilitari, controllate direttamente dai servizi segreti statunitensi con la collaborazione dei servizi segreti dei diversi Stati coinvolti, che avevano il compito di intervenire come unità di guerriglieri nel caso fosse avvenuta un’invasione da parte dell’URSS, restando dietro le linee nemiche per compiere attentati e sabotaggi e raccogliere informazioni. Nonostante tale invasione non abbia mai avuto luogo, i gruppi paramilitari comprendenti principalmente elementi reazionari, legati all’estrema destra e spesso con un passato nelle file di regimi fascisti e nazisti (come il primo capo del servizio di spionaggio della Germania Ovest Bundesnachrichtendienstes, Reinhard Gehlen, già ufficiale del Terzo Reich e criminale di guerra) addestrati ed equipaggiati da unità speciali delle forze armate statunitensi e a volte anche britanniche, vennero usati per destabilizzare quello che in Occidente viene comunemente definito l’ordine democratico e costituzionale, attraverso il compimento di azioni di stampo terroristico volte ad impedire la presa del potere da parte di forze politiche parlamentari ritenute filocomuniste o anche solo troppo progressiste. Quest’operazione, nota sotto il nome di strategia della tensione, a chi conosce almeno un pò la storia contemporanea d’Italia fa subito venire in mente omicidi a sfondo politico mai del tutto chiariti, colpi di stato sfumati all’ultimo momento e stragi come quelle di Piazza Fontana a Milano, del treno Italicus, di piazza della Loggia a Brescia ed altre ancora. La strage più grave avvenuta in Italia nel secondo dopoguerra è quella della stazione di Bologna (2 Agosto 1980), nella quale un ordigno ad alto potenziale uccise 85 persone e ne ferì più di 200. Meno di due mesi dopo, la strage dell’Oktoberfest a Monaco di Baviera. Anche qui, come a Bologna, ad essere ritenuti gli autori materiali sono estremisti di destra, senza però l’individuazione di un mandante. Nel caso tedesco, gli investigatori collegarono il presunto attentatore con un’altro personaggio legato alla scena neonazista, la guardia forestale Heinz Lembke, ritenuto il responsabile di una serie di arsenali sotterranei nei quali erano custoditi tra l’altro esplosivi. Dalle indagini venne fuori che Lembke, al quale era stata attribuita tutta la responsabilità dei nascondigli di armi (cosa impossibile, data l’enorme quantità di armamenti e materiali nascosti che non sarebbero potuti sparire da depositi dell’esercito senza che nessuno se ne accorgesse), riforniva altri militanti dell’estrema destra. Gli arsenali in questione sono uguali ad altri esistiti in diversi Stati dell’Europa occidentale, spesso venuti alla luce in modo casuale o a seguito di clamorose rivelazioni da parte di persone ben informate dei fatti ed erano destinati ai gruppi di “gladiatori” dell’operazione Stay-behind. Eppure il governo cristiano-democratico di Helmuth Kohl in carica all’epoca delle rivelazioni su Stay-behind nei primi anni ’90 del secolo scorso tentò di minimizzare il ruolo, non potendo del tutto negare l’esistenza, di quello che si può ben definire un’esercito segreto e che non solo in Italia è ormai noto col nome di Gladio, mentre immediatamente dopo l’attentato di Monaco il candidato cristiano-sociale alla carica di cancelliere Franz Josef Strauß, oltre a scaricare le responsabilità morali della strage sui rivali politici,  ebbe a dire che la strage era opera materiale del gruppo armato marxista-leninista Rote Armee Fraktion. Un depistaggio, come i tanti che si susseguono durante i processi per la strage, accompagnati dalle solite “stranezze”: testimoni che muoiono durante gli interrogatori, testimonianze e indizi ignorati, prove distrutte, lo stesso Lambke che, appena decisosi a collaborare con gli inquirenti, verrà ritrovato impiccato nella cella nella quale era detenuto. Alla fine, oltre alla scia di cadaveri e di persone irreparabilmente danneggiate, rimangono la consapevolezza che non tutta la verità sia stata raccontata, la certezza che agenti di Gladio e dei servizi segreti hanno tentato di depistare le indagini e il sospetto, come afferma lo scrittore Tobias von Heymann, che l’attentato avesse lo scopo di favorire l’elezione a cancelliere del reazionario Strauß e del suo partito CSU. In questi casi la colpevolezza non va cercata solo nel/gli esecutore/i materiale/i degli atti terroristici, ma in un’intero sistema.

Ciò che è giusto e ciò che è legale.

Risultati immagini per erri de lucaIl prossimo 19 Ottobre si terrà il processo che vede imputato lo scrittore Erri De Luca, accusato di aver sostenuto la legittimità del sabotaggio come mezzo di lotta contro il progetto dei treni ad alta velocità. I pm che imbastiscono l’accusa, i ben noti Rinaudo e Padalino, come sempre dediti all’attacco del movimento NO-TAV, chiedono per De Luca una condanna a 8 mesi di carcere.

Il 15 Agosto, nella zona della Renania, in Germania, un migliaio di manifestanti del coordinamento Ende Gelände hanno bloccato i lavori nella miniera di carbone a cielo aperto del colosso energetico RWE, per protestare col metodo dell’azione diretta e della disobbedienza civile contro la devastazione ambientale e l’inquinamento. Sono piovute, oltre che manganellate e spray urticante, anche 800 denunce, che hanno colpito non solo gli/le attivisti/e ma anche alcuni/e giornalisti/e presenti sulla scena. La RWE ha gentilmente messo a disposizione della polizia, oltre che il personale della sicurezza privata, i propri mezzi per poter provvisoriamente fermare e identificare gli/le attivisti. O meglio, lo Stato ha come sempre messo a disposizione le proprie forze repressive per difendere gli interessi della grande proprietà privata.1 La collusione tra apparati repressivi statali e interessi capitalisti è ovvia: difesa del capitale e degli interessi economici über alles und überall. Ma disobbedire ad una legge di uno Stato, creata oggi e revocabile domani dai pochi che detengono il potere, non è la stessa cosa che disobbedire ad una legge fondamentale della natura (e della logica, direi!) che impone che il pianeta nel quale tutti/e noi viviamo vada salvaguardato per noi e per le future generazioni piuttosto che depredato e devastato. Nel primo caso si rischiano gogne mediatiche, processi, multe,  mesi o anni di carcere o comunque provvedimenti restrittivi della libertà personale, nel secondo caso si rischia la catastrofe, l’annichilimento del genere umano e delle altre specie viventi che popolano la Terra. Mettere im pratica azioni che contrastino con la logica del profitto ai danni della vita, della salute, del benessere collettivo o anche solo giustificare tali azioni verbalmente può anche essere un reato per uno Stato, per un sistema giudiziario, ma è senza ombra di dubbio un fatto non solo legittimo, ma necessario da un punto di vista etico, se l’etica è degna di questo nome. Dov’è la violenza? Nel danneggiamento di un macchinario usato per portare a termine un’opera nefasta, nel bloccare un’attivitá nociva, o nell’opera nefasta e nell’attività nociva? E cosa istiga alla resistenza attiva contro un’ingiustizia, un sopruso, un male arrecato a noi e alla terra sulla quale viviamo: le parole di una qualsiasi persona, più o meno nota che sia, che parla con coscienza e senza timore, o forse il sopruso, l’ingiustizia, il male di per sé? Chi lotta contro la devastazione ed il saccheggio delle risorse comuni deve sempre porsi problemi di ordine morale, mentre i nostri nemici si pongono quelli di ordine legale, perchè le leggi -almeno quelle artificiali, create da chi serve il sistema dominante- sono dalla loro parte. Dalla nostra parte c’è il coraggio di dire ciò che si pensa e di agire in prima persona senza scioccamente affidarsi alle false soluzioni e alle parole vuote di chi il problema lo ha creato, c’è la costanza e l’affetto nel tendere la mano a chi lotta con noi e si trova in difficoltà. Rispetto e solidarietà per Erri De Luca e per chiunque diventi un granello di sabbia nell’ingranaggio dell’ingiustizia che il sistema chiama giustizia.

Due parole su famiglia e matrimoni gay.

Risultati immagini per matrimoni gay usa satira La famiglia è il primo nucleo sociale con il quale un individuo viene a contatto. L’individuo in questione viene “educato” solitamente secondo i valori dei componenti adulti di questo nucleo, che a loro volta hanno normalmente introiettato le norme ed i principi della più ampia società e cultura nelle quali essi vivono. La famiglia è solitamente una struttura gerarchica e quindi un nucleo nel quale si riproducono le dinamiche di repressione, condizionamento e sfruttamento in atto in tutta la società, nella quale i membri adulti riversano le proprie ansie, frustrazioni, aspettative e nevrosi su quelli più piccoli, deboli, malleabili, incapaci di difendersi. La formula che potrebbe adattarsi meglio a descrivere la famiglia patriarcale/tradizionale è quella del “nach oben bücken, nach unten treten”, ovvero sottomettersi coi superiori e sfogarsi coi sottoposti. È la regola che vige sempre in una società gerarchica fondata sul dominio e sullo sfruttamento, grande o piccola che sia. Un tipo di famiglia diversa da quella tradizionale farebbe eccezione? Sto pensando al fatto che nei giorni scorsi i matrimoni gay sono stati legalizzati in Irlanda e negli Stati Uniti d’America, due Paesi ritenuti comunemente molto tradizionalisti, dove la religione cristiana svolge un ruolo ancora determinante a livello sociale. Un tipo di nucleo familiare più aperto porta con sé valori emancipatori o tende comunque a riprodurre le funeste dinamiche sopra citate? Basta che a sposarsi siano due uomini o due donne invece che un uomo e una donna per far sì che si goda maggiore libertà e parità di diritti all’interno di questa unione? E ancora, non sarebbe meglio abolire direttamente l’istituzione del matrimonio, o perlomeno rinunciarvi fintanto che questa esiste? Partiamo dall’aspetto pratico della faccenda: le legislazioni di diversi Stati, per quanto io ne sappia, prevedono che le coppie sposate godano di maggiori diritti rispetto quelle non sposate, ragion per cui si potrebbe ricorrere al matrimonio per mero opportunismo. Tra i diritti in questione vi è anche quello di poter adottare dei bambini e sinceramente mi è impossibile rimanere indifferente di fronte al fatto che con le adozioni si possono sottrarre dei minori ad un destino fatto di violenza, abbandono e miseria -sempre che questi elementi non vengano riprodotti anche nel nucleo familiare che adotta!-, impossiblie anche negare il fatto che l’esclusione arbitraria dal godimento di un diritto andrebbe percepita spontaneamente come ingiustizia. D’altra parte non va dimenticato che l’istituzionalizzazione di un diritto ne annulla la carica potenzialmente sovversiva nei confronti dell’ordine di cose esistente…sempre che il diritto al matrimonio possieda una qualche potenzialità sovversiva! Semmai le forme di famiglia, etero o gay, allargate o meno, costruite sulla base di rapporti realmente paritari, di affetto e rispetto reciproco, il più possibile liberate da forzature, menzogne, violenza e tirrannie varie, nelle quali un individuo può formarsi e svilupparsi nel modo più libero possibile ricevendo gli strumenti per poter affrontare in modo consapevole ed autonomo la vita, possono rappresentare un punto di partenza per scardinare pian piano i valori tradizionali, reazionari ed autoritari, fondati sul dominio, sulla diseguaglianza e sulla sopraffazione. Partendo dalla famiglia e dalle famiglie, ripensandone il concetto di fondo e gli obiettivi, le forme e la struttura, si può cambiare molto, dall’interno innanzitutto. Per il momento, senza facili entusiasmi, rimane la soddisfazione di aver almeno dato una pedata ai soliti reazionari difensori della famiglia “tradizionale”…

Risultati immagini per matrimoni gay usa satira…come queste Fratelle d’Itaglia capitanate dalla Meloni che, secondo tradizione, dovrebbe star a casa a sfornar figli e infornar torte di mele. Nel ricordare a costoro che di mamma non ce n’è una sola (ché la mia non è la loro, meno male!) e che quella dei cretini è sempre incinta e lorsignori/e ne sono la prova vivente (o morente, ci si augura), resto fiducioso del fatto che presto i vari residuati fascisti tricolorati e i fondamentalisti religiosi tutti dovranno ingoiare un’altro boccone amaro anche nel “loro” Paese.

“Gli stalker della Libia”.

Fonte: Umanità Nova.

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“Gli stalker della Libia

Da quasi un anno si parla di un nuovo intervento militare in . Periodicamente la questione viene portata alla ribalta dai media ufficiali, occupando il dibattito pubblico per periodi più o meno lunghi. Non più di un mese fa, nel maggio scorso, si è tornati a parlarne, questa volta l’intervento consisterebbe in una missione dell’Unione Europea “per combattere il traffico di esseri umani”. Documenti riservati del Gruppo Politico-Militare e del Consiglio Militare dell’Unione Europea pubblicati da WikiLeaks lo scorso 25 maggio indicavano come possibile inizio delle operazioni militari la fine del mese di giugno. Sullo scorso numero di Umanità Nova è stata analizzata la possibilità di questo tipo di intervento armato1, cerchiamo adesso di inquadrare la questione in un contesto più generale.

Solo negli ultimi mesi si è parlato varie volte di una nuova guerra in Libia.

Ad agosto 2014 mentre le immagini dello Stato Islamico in Iraq saturavano i mezzi di informazione, i giornali in Italia annunciavano un imminente intervento militare in Libia per proteggere i cristiani e per evitare “una deriva somala sull’altra sponda del Mediterraneo”. Intanto si iniziavano a rimpatriare gli italiani dal paese.

A Novembre 2014 il Ministro degli Esteri Gentiloni dichiarava che l’Italia era “pronta ad impegnarsi in prima fila” per inviare truppe in Libia con il mandato dell’ONU perché il paese rappresenta “un interesse vitale per la sua vicinanza, il dramma dei profughi, il rifornimento energetico”2. Nella stessa dichiarazione Gentiloni affermava che l’Italia non si sarebbe rassegnata alla “dissoluzione della Libia”, sottolineando come grazie ai proventi di gas e petrolio – pagati anche da ENI – la banca centrale libica stesse continuando a pagare gli stipendi ai dipendenti pubblici nonostante la grave situazione del paese. Per questo affermava allora il ministro “Saremo parte attiva nell’individuare una transizione politica unitaria cui subordiniamo l’eventualità di una presenza militare di peacekeeping”.

A metà febbraio 2015 i mezzi d’informazione ufficiali italiani danno grande spazio ad un video dello Stato Islamico in cui vengono decapitati 21 egiziani copti e in cui compare la minaccia “Siamo a sud di Roma”, frase ripresa dai titoli dei giornali. Nel giro di pochissimi giorni la situazione sembra precipitare. L’Italia chiude la propria ambasciata a Tripoli, rimpatria il personale diplomatico e i pochi cittadini italiani ancora presenti in Libia. Il governo di Tobruk, “riconosciuto dalla comunità internazionale”, chiede il supporto militare delle potenze mondiali, “altrimenti l’ISIS arriverà in Italia”. Il Ministro della Difesa Roberta Pinotti dichiara che l’italia è pronta a guidare un intervento ONU in Libia mettendo a disposizione forze di terra3. Il governo fa marcia indietro nei giorni immediatamente successivi.

A metà marzo 2015 si torna di nuovo a parlare di intervento in Libia e il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito Danilo Errico dichiara che “l’esercito è pronto per la Libia se Renzi dà il via all’intervento”4.

La notte del 18 aprile 2015 si verifica l’ennesima strage nel Canale di Sicilia, oltre 900 persone risultano morte o disperse nel naufragio dell’imbarcazione con la quale cercavano di raggiungere le coste italiane. Questa strage, causata innanzitutto dalle politiche migratorie dell’UE, è stata utilizzata come pretesto per ritornare a parlare di un intervento militare in Libia. Inizialmente è tornata alla ribalta di un’ipotesi già ventilata nei mesi precedenti, il blocco navale delle acque libiche. L’ipotesi è stata scartata perché un blocco navale costituisce di fatto un atto di guerra, tuttavia la scelta intrapresa dall’UE all’indomani della strage va anch’essa nella direzione della guerra. Infatti al termine del Consiglio Europeo del 23 aprile è stata approvata una dichiarazione in cui si afferma l’impegno a:

– rafforzare la presenza nel Mediterraneo, quindi aumentare le risorse per le operazioni Triton e Poseidon;

– prevenire i flussi illegali, il che significa aumentare il sostegno a quei paesi come Tunisia, Egitto, Sudan, Mali, Niger, a cui di fatto l’UE “appalta” una parte del complesso sistema di controllo delle proprie frontiere. Si parla anche di sviluppare una collaborazione con la Turchia per il controllo dei profughi da Siria e Iraq. È chiaro che queste politiche non fanno che peggiorare le condizioni delle persone che cercano di arrivare in Europa;

– lottare contro i trafficanti, ossia fermare e distruggere le imbarcazioni prima che possano essere utilizzate per le traversate, ma soprattutto iniziare i preparativi per una possibile operazione PSDC (Politica di Sicurezza e Difesa Comune), ossia un’operazione militare UE.

I documenti pubblicati da WikiLeaks sarebbero quindi lo sviluppo di quanto deciso in aprile dal Consiglio Europeo.

Nel maggio 2015 l’intervento militare europeo in Libia per controllare l’immigrazione è entrato nel dibattito pubblico in gran parte dei paesi europei; in partciolare in Italia, dove entra nel vivo proprio in quel periodo la campagna elettorale per le regionali. Il governo italiano però a metà maggio ha smentito ancora una volta la possibilità di un intervento armato in Libia.

Questo inquadramento non è altro che una semplice cronologia, una rassegna stampa incompleta sulle dichiarazioni ufficiali degli ultimi mesi riguardo ad un intervento militare in Libia da parte dell’Italia. Non vuole essere un’analisi politica ma un tentativo di ricostruire brevemente i passaggi degli ultimi mesi per poter avere uno sguardo d’insieme sulla situazione.

È importante capire infatti che la politica portata avanti dal governo italiano in questo contesto non nasce dalla “lotta al traffico di esseri umani”, ma dal tentativo di assicurare gli interessi nazionali in Libia. Gentiloni nel novembre 2014 ha spiegato bene quali fossero questi interessi: il rifornimento energetico e il controllo dell’immigrazione verso l’Italia. Gli interessi che il governo italiano vuole difendere in Libia sono quelli dell’ENI, sono quelli dell’esercito e dell’industria bellica, che da un nuovo intervento militare trarrebbero profitti e garanzie sulla conservazione dei propri privilegi.

Le basi di questa politica sono state gettate nell’ottobre 2013 dall’Operazione Mare Nostrum, con cui l’Italia ha iniziato ad affrontare sul piano del controllo militare la gestione dei movimenti di profughi e migranti.

Il ripetersi nel corso dell’ultimo anno di annunci guerrafondai – seguiti da rapidi passi indietro – da parte del governo italiano non deve farci pensare che il governo non voglia intervenire sul piano militare. È la mancanza di un accordo con le altre potenze in gioco, senza il quale sarebbe impossibile ogni intervento armato italiano, che convince il governo a rinunciare temporaneamente all’intevento militare. Questo perché come si è visto già nel 2011, con la confusione e i contrasti interni alla coalizione che attaccò la Libia, gli interessi spesso contrapposti delle potenze rendono complesso il raggiungimento di un accordo.

La realtà è che in Libia la guerra non è praticamente mai finita dal 2011. La guerra civile in corso vede confrontarsi tre schieramenti, le forze del governo di Tobruk, quelle del governo di Tripoli e quelle sello Stato Islamico. Ma in questi anni le potenze mondiali e regionali sono sempre state presenti, sostenendo in modo più o meno diretto una le fazioni, difendendo i propri interessi economici e mantenendo i propri impianti industriali sul territorio, ma anche intervenendo con raid aerei e blitz di forze speciali, come ad esempio hanno fatto gli USA e l’Egitto.

Le stesse operazioni Mare Nostrum prima e Triton e Poseidon dopo sono già di fatto interventi militari in una guerra in atto.

È chiaro quindi che le storie sul milione di profughi pronto a salpare per l’Italia da un giorno all’altro o sui jihadisti infiltrati sulle imbarcazioni cariche di persone che attraversano il Canale di Sicilia sono solo parte della propaganda che prova a giustificare la guerra.

Nelle ultime settimane è particolarmente evidente l’uso che viene fatto a fini propagandistici dell’immigrazione: dopo una campagna elettorale dai toni violentemente razzisti, nella quale quasi tutti i partiti hanno attaccato la popolazione immigrata, ora il registro è almeno appartentemente cambiato. Il governo critica la mancanza di solidarietà degli altri paesi dell’UE nell’accoglienza dei profughi, mentre i media ufficiali ci mostrano le migliaia di profughi che, tentando di raggiungere altri paesi europei attraverso l’Italia, vengono respinti alle frontiere di Francia, Svizzera e Austria, e costretti a vivere in condizioni tragiche. Ma è il governo stesso ad aver creato ed esasperato questa situazione, per forzare i rapporti con l’Unione Europea e per creare maggiore consenso attorno al governo, creare l’aspettativa di una scelta politica forte e risolutiva, magari appunto una guerra, o forse solo qualche militare in più nelle strade, o magari qualche nuovo lager, pardon “centro di accoglienza”.

La menzogna è sempre alla base della propaganda di guerra, l’esempio più vicino ci viene proprio dall’attacco alla Libia del 2011. Nel 2012, ad un anno dall’attacco, il generale Giuseppe Bernardis, Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica Militare, rivelò che il governo Berlusconi aveva tenuto nascosta la diretta partecipazione dell’aeronautica italiana ai bombardamenti. Infatti mentre Berlusconi dichiarava “non bombarderemo mai la Libia” gli aerei italiani avrebbero effettuato 456 missioni di bombardamento approvate dal Governo. Nel 2011 l’esecutivo avrebbe tenuto nascosto il reale impegno dell’aeronautica italiana per “la situazione critica di politica interna”, ovvero per il timore di perdere consensi, di dover fronteggiare ulteriori contestazioni1.

In questa situazione è importante come anarchici riaffermare l’impegno antimilitrista, senza aspettare che si concretizzi l’intervento militare, anche perché in Libia la guerra non è mai finita.

Così come non è mai finita la guerra nei paesi in cui le truppe d’occupazione italiane sono ancora presenti Così come non è mai finita la guerra interna del governo che con i controlli dei militari nelle strade, con i manganelli della polizia e con le condanne della magistratura impone condizioni di vita e di lavoro sempre peggiori e cerca di intimidire coloro che si ostinano a non chinare la testa e continuano a lottare.

1 vedi “Venti di guerra sulla Libia?”, Umanità Nova n.21 del 14 giugno 2015 – http://www.umanitanova.org/2015/06/10/venti-di-guerra-sulla-libia/

2 http://www.huffingtonpost.it/2014/11/26/libia-gentiloni-italia-prima-fila_n_6224370.html

3 http://www.ilmessaggero.it/PRIMOPIANO/ESTERI/pinotti_missione_onu_libano_italia/notizie/1182496.shtml

4 http://www.corriere.it/esteri/15_marzo_16/esercito-pronto-la-libia-se-renzi-da-via-all-intervento-b6f47546-cc1d-11e4-990c-2fbc94e76fc2.shtml

5 http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-11-29/generale-bernardis-notizie-raid-111455.shtml ”

Dopo il Venticinque Aprile.

Il 25 Aprile del 1945 è la data ufficiale della liberazione d’Italia dal nazifascismo. In realtà, dopo l’insurrezione e la liberazione di città chiave del Nord Italia quali Milano e Torino, dovranno esserci ancora scontri e morti prima di arrivare alla cessazione delle ostilità tra forze di occupazione e antifascisti/e. A guerra ufficialmente conclusa, poi, c’è chi tra i/le partigiani/e si rifiuta di deporre le armi, in alcuni casi nella speranza di creare nella penisola italica una repubblica di stampo sovietico, in altri semplicemente proseguendo coerentemente la battaglia contro tutti gli occupanti, i governi, le autorità. Ma anche quelli/e, la maggioranza, che cercano di tornare alla normalità, dovranno constatare che la nuova Repubblica Italiana non mantiene le promesse di riequilibrio delle ingiustizie e disuguaglianze sociali, né si libera dall’eredità del fascismo: moltissimi fascisti verranno amnistiati (grazie anche alla volontà della dirigenza del Partito Comunista Italiano) e torneranno a ricoprire cariche amministrative di rilievo, i nuovi occupanti statunitensi determineranno il corso della politica e dell’economia italiane nei decenni a venire e le istituzioni repressive colpiranno duramente le diverse forme di lotta che verranno messe in atto dalla classe lavoratrice. La strage di Portella della Ginestra avvenuta il 1 Maggio del 1947 è solo uno degli episodi tra i più noti e i più gravi che testimoniano come la “repubblica democratica fondata sul lavoro” sia solo uno slogan vuoto di significato reale, un fatto reiterato dagli eventi occorsi a Reggio Emilia il 7 Luglio del 1960, dove persero la vita cinque operai per mano delle forze dell’ordine.

La canzone composta lo stesso anno dal cantautore Fausto Amodei ricorda i morti di Reggio Emilia e li ricollega idealmente ai morti della resistenza antifascita, Lauro Farioli come Duccio Galimberti, il sangue versato a Reggio Emilia come quello versato dai sette fratelli Cervi, la citazione di uno dei canti partigiani più noti (“fischia il vento”), i nemici sempre gli stessi, lo stesso il messaggio, perchè finchè non ci sarà giustizia, finchè non ci sarà liberazione non ci sarà pace. Amodei invita i morti emiliani a risorgere e a cantare l’inno comunista Bandiera Rossa, pur non essendo mai stato lui un militante del PCI, come invece lo erano Serri, Franchi, Tondelli, Reverberi e Farioli, cinque dei tanti morti in tempo di pace e democrazia, cinque nomi che mai dovremmo dimenticare, così come non dovremmo dimenticare che, anche oggi, il nemico è sempre lo stesso.

A me piace ricordarlo così.

Ieri Giorgio Napolitano si è dimesso dalla carica di Presidente della Repubblica. A me, personalmente, rimarranno impressi quelli che ritengo i connotati salienti del personaggio in questione: il trasformismo, legato alla necessità di difendere e rappresentare il potere in qualsiasi forma esso si presenti, a seconda delle opportunità; la retorica, più vuota che mai, tipica dei suoi discorsi di sempre; la rappresentazione del vecchio che avanza- e quel che avanza lo si può metter da parte e servire riscaldato alla prossima occasione… Napolitano è stato fascista quando conveniva esserlo, comunista quando il  PCI era la seconda forza politica del Paese, filoamericano ed europeista, ma comunque nel rispetto del potere che ha sempre servito e che gli ha consentito l’accesso a innumerevoli privilegi. Un ottimo esempio per gli opportunisti di tutti i tempi: sempre meglio che continuare a fare l’operaio, no?

Ipse dixit:

-«L’Operazione Barbarossa civilizza i popoli slavi: dato che il nostro sicuro Alleato [è] lanciato alla conquista della Russia vi è la necessità assoluta di un corpo di spedizione italiano per affiancare il titanico sforzo bellico tedesco, allo scopo di far prevalere i valori della Civiltà e dei popoli d’Occidente sulla barbarie dei territori orientali.» (GIORGIO NAPOLITANO, in “BÒ”, giornale universitario del GUF di Padova, Luglio 1941).

-« L’intervento sovietico ha non solo contribuito a impedire che l’Ungheria cadesse nel caos e nella controrivoluzione ma alla pace nel mondo.»(GIORGIO NAPOLITANO,1956: citato in Gian Antonio Stella, «Principe rosso», violò il tabù del Viminale, Corriere della sera, 8 maggio 2006).

Gabbie.

Apprezzo il tentativo di Balasso di far riflettere con parole immediate e argomenti razionali sul tema del razzismo e dell’immigrazione, dal momento in cui il disprezzo nei confronti degli “stranieri”, lungi dall’essere un problema nuovo o passeggero, raggiunge in situazioni di crisi economica i suoi punti più alti- o forse sarebbe meglio dire più bassi, se si parla di bassezza dell’essere umano. Le guerre tra poveri, innescate a seguito degli effetti di un sistema economico e sociale che promuove disuguaglianza economica, sfruttamento, esclusione e marginalizzazione, servono proprio a chi questo sistema economico e queste strutture sociali le difende e le vuol perpetuare inalterate nella sostanza. Risposte semplici e irrazionali, che non prevedono approfondimento e analisi di problemi complessi, atte ad alimentare il conflitto tra individui ingabbiati in categorie spesso artefatte, impegnati a scannarsi tra loro senza rendersi conto delle origini del loro reale disagio: la metafora dei topi chiusi in gabbia non poteva essere più azzeccata. Eppure, proprio per evitare un’eccessiva semplificazione e per avvicinarsi alla radice dei problemi, anche il concetto di legalità e delinquenza sul quale in parte fa leva il discorso di Balasso andrebbe messo in discussione. Non importa ciò che è legale, le leggi possono cambiare, sono create non solo in base a fittizi valori condivisi all’interno di una società, ma soprattutto in base agli interessi di chi domina. Oggi in Italia ad esempio esiste il reato di clandestinità, ma non è reato sfruttare o gettare nella miseria un/a lavoratore/trice licenziandolo/a solo perchè le leggi non scritte del capitalismo lo richiedono, non è reato sfrattare chi non ha i mezzi per pagarsi un alloggio, non è reato reprimere con la violenza chi si trova forzato/a da circostanze avverse a violare le leggi sulla difesa del patrimonio e della proprietà privata, leggi fatte per tutelare chi più ha e deruba i più. Non è nemmeno reato colpire qualunque forma di dissenso e opposizione concreta al sistema dominante quando questa fuoriesce dai binari della legalità, una legalità tanto univoca quanto ingiusta e ipocrita, invocata da personaggi che spesso e volentieri nemmeno la rispettano. E così chi conduce campagne repressive a suo dire contro “insicurezza e degrado” e aizza i poveri del posto contro altri poveri venuti “da fuori” etichettando qualsiasi critica come “buonista”, è il primo a promuovere il vero degrado e ad assicurare solo il proprio benessere e quello degli appartenenti alla propria classe sociale, con o senza l’aiuto della legge, all’interno o al di fuori di essa, alla faccia di chi abbocca e vota e difende le sbarre della propria gabbia: il recente scandalo annunciato sulla corruzione e il malaffare a Roma ne è solo l’enesimo esempio. Tanto, finchè le galere e i centri d’accoglienza ed espulsione saranno pieni, finchè i quartieri popolari saranno disagiati ed esisteranno persone senza un tetto sulla testa, finchè i disoccupati saranno pronti ad accettare qualsiasi lavoro in cambio di due soldi bucati, finchè la gente invocherà la stessa polizia dalla quale nemmeno loro dovrebbero sentirsi al riparo, finchè insomma ci sarà carburante per la macchina del dominio e dello sfruttamento, chi ha stabilito le regole del gioco continuerà a vincere, mentre i topi litigano in gabbia.

Sulla protesta del “movimento dei forconi”.

Solo in questi ultimissimi giorni ho avuto tempo di leggere notizie e analisi sulle proteste messe in atto di recente un pò in tutta Italia dal cosiddetto movimento dei forconi. Il loro programma, o meglio quello che si legge sul sito del “movimento del popolo de i forconi“, è in sostanza una lista di riforme che hanno un senso solo se si riconosce come legittima e auspicabile l’esistenza del sistema capitalista con tutte le sue conseguenze (ad esempio la divisione in classi sociali), che si indirizzano contro quelle che vengono ritenute le “storture” di tale sistema (neoliberismo, delocalizzazioni, corruzione, clientelismo, scarsa mobilità sociale, eccessiva pressione fiscale …) e che risultano palesemente fallaci perchè mancano di risonoscere questi aspetti come intrinsechi al sistema capitalista stesso. A scendere in piazza nelle scorse settimane sono stati principalmente lavoratori autonomi e piccoli imprenditori impoveriti dalla crisi, spesso trascinandosi dietro la loro mentalità piccoloborghese col relativo strascico di razzismo, classismo, qualunquismo e patriottismo. Eppure, pur scegliendo i loro obiettivi in modo magari discutibile (perchè bloccare nel traffico i mezzi di trasporto di chi torna dal lavoro e non indire direttamente un bel blocco delle attività produttive?), pur avendo tra le loro fila elementi di destra o addirittura dichiaratamente neofascisti, pur cercando percorsi legalitari e appoggio da parte delle forze dell’ordine, i forconi non possono essere ignorati, né etichettati sbrigativamente come fascisti tout court. Chi accusa i piccoli imprenditori di aver evaso da sempre le tasse e di lamentarsi ora per l’eccessiva pressione fiscale dovrebbe interrogarsi, anarchici/che in primis, sulla legittimità stessa del concetto di tasse come imposizione di un contributo da parte dello Stato (vogliamo forse rileggere cosa dicevano sull’argomento i vari Proudhon, Warren o Tucker?), ma anche ricordare che al di là delle generalizzazioni è vero che le condizioni di vita di tanti esponenti della cosiddetta piccola borghesia spesso non si allontanano molto da quelle dei lavoratori dipendenti, né che quel tipo di mentalità reazionaria e per me ripugnante della quale parlavo poco sopra è tristemente diffusa anche tra tanti elementi di quelle classi sociali definite storicamente come proletariato e sottoproletariato. Sono tanti gli aspetti che accomunano queste classi sociali, non ultimo il fatto che le critiche al sistema, indirizzate solo ad alcuni dei suoi aspetti, siano mosse da chi non vuole abbattere tale sistema perchè ritenuto ingiusto, ma da persone che vengono escluse dal fittizio benessere da esso prodotto, quelli del “vorrei ma non posso”, che non detestano tanto i “padroni” quanto il fatto di non essere al loro posto: una conseguenza della mancanza di coscienza di classe, anche frutto dell’opera di molti di quelli che  lo scorso 9 Dicembre si sono ritrovati a protestare in piazza solo perchè scivolati più in basso nella scala sociale. Eppure, come tutti i movimenti di protesta, quello dei forconi non dovrebbe venir liquidato sbrigativamente, magari usando schemi e strumenti di analisi ormai superati, bensì seguito con attenzione. Finite le manifestazioni e i blocchi stradali il problema è ancora lì e con la rabbia di chi è sceso in piazza e continuerà a scendervi, anche se spesso con parole d’ordine molto diverse dalle nostre, bisogna fare i conti. Qual’è dunque il posto degli/lle anarchici/che in questo tipo di lotta, o meglio come rapportarsi nei confronti del malessere delle classi medie con l’acqua ormai alla gola, “proletarizzate”? In quanto persona “esterna” alle proteste, vivendo a troppi chilometri di distanza dai luoghi nelle quale esse si sono svolte e (probabilmente) continueranno a svolgersi, in questo frangente posso solo leggere ciò che avviene e farmi un’opinione, non certo dare consigli, piuttosto porre interrogativi. Di sicuro qui non sono tanto i metodi a dover essere radicalizzati, quanto i contenuti, il che è la cosa più lunga e difficile. Cercare altri luoghi e spazi di conflitto, altri soggetti partecipi? Ciò non esclude il fatto di doversi confrontare prima o poi, volenti o nolenti, con nuove componenti del disagio ormai diffuso ed esacerbato dalla crisi economica e con i loro discorsi. Confrontare e, chissà, magari anche scontrare: lo stringersi intorno all’appartenenza alla Nazione contro il potere delle banche e delle regie oscure aspirando ad una guida del Paese che sia trasparente ed incorruttibile non è solo ingenuo, ma anche pericoloso, vi ricorda qualcosa? In mezzo all’inconsapevolezza ed alla mancanza di chiarezza si può provare a inserire contenuti di critica radicale al sistema e costruire un percorso comune di lotta, pur rischiando di partire mezzi sconfitti vista la difficoltà dell’impresa, oppure lasciare tutto in mano a chi nella confusione ideologica ci sguazza?

Carta.

Il 4 Novembre scorso il sindaco di Messina, tale Riccardo Accorinti, ha esposto durante la festa delle forze armate una bandiera della pace che, come si vede nell’ormai nota foto sopra, recava la scritta “l’Italia ripudia la guerra”. Diverse persone hanno applaudito di fronte a questo gesto e, devo ammetterlo, anche a me è venuta istintivamente voglia di farlo, senonchè mi si sono incrociate le mani. “L’Italia ripudia la guerra come mezzo di offesa alla libertà di altri popoli e come strumento per la risoluzione di controversie internazionali”, cito a memoria, è l’articolo numero undici di quella carta costituzionale che ancora qualche mese fa un guitto di corte definiva, di fronte ad un nutrito pubblico di lobotomizzati telespettatori, “la più bella del mondo”. Non mi sorprende che la legge di tutte le leggi sia ancora citata ad ogni spron battuto da tante persone ingenue o illuse, in fondo ci sono scritte su tante cose carine: la repubblica a sovranità popolare fondata sul lavoro che rimuove gli ostacoli che limitino libertà e uguaglianza dei cittadini dotati di pari diritti senza discriminazioni razziste e sessiste, che ripudia la guerra, che stabilisce che il lavoro debba essere adeguatamente remunerato, che s’impegna nella difesa dei beni pubblici, che proibisce la ricostituzione del disciolto partito fascista eccetera eccetera. Cito ancora a memoria, perchè l’ultima volta che ho avuto in mano una copia della Costituzione Italiana è stato nei tardi anni ’90, ricordo ancora che quella copia (datata 1994, se non ricordo male) ci venne data a scuola e conteneva un discorsetto introduttivo dell’allora presidente della camera dei deputati Irene Pivetti, eletta tra le file della Lega Nord. Sì, quel partito che voleva la secessione della fantomatica Padania dal resto d’Italia. Molto costituzionale! Da allora non ho più avuto bisogno di aprire quel libricino per rileggerne gli articoli, chè ad ogni assemblea o manifestazione alla quale io abbia partecipato in quegli anni qualcuno (compreso me) declamava o sbandierava o inalberava o indossava sotto forma di t-shirt qualche articolo della sacra charta magna suppostamente nata dai valori della resistenza. Lo ammetto, anche io sono stato ingenuo, ma crescendo si matura e si prende maggiormente coscienza della realtá che ci circonda, rendendosi anche conto che a declamare gli articoli della Costituzione non sono solo gli illusi o gli ingenui dei quali ho scritto sopra, ma anche e soprattutto le persone in malafede. Nemmeno oggi ho bisogno di riprendere in mano il testo della Costituzione Italiana per ricordare cosa reciti e non ho bisogno di fare molti sforzi per rammentare a me stesso e agli altri quante volte i suoi articoli siano stati calpestati senza il benchè minimo pudore da chi dovrebbe esserne il garante, da quegli stessi personaggi che quando gli fa comodo (fin troppo spesso) li declamano per tenere a bada il popolo illuso, salvo poi, tornando all’articolo undici, mandare contingenti militari in Afghanistan, tanto per dire, allo scopo di offendere la libertà di un altro popolo (e di cancellare dalla faccia della terra diversi suoi membri, soprattutto quelli che non indossano una divisa né portano armi e vengono convenzionalmente definiti col nome di “civili”) creando e non risolvendo controversie al solo scopo di garantire interessi economici e strategici a vantaggio proprio e dei propri alleati militari. Oggi io non mi appello più alle leggi di uno Stato, nello Stato non ci credo proprio e per questo molti mi definiscono come un sognatore che vive di utopie. Sono gli stessi che continuano a citare gli articoli costituzionali chiedendo a chi per primo da sempre li calpesta che questi vengano rispettati. Chi è il sognatore?