Carta.

Il 4 Novembre scorso il sindaco di Messina, tale Riccardo Accorinti, ha esposto durante la festa delle forze armate una bandiera della pace che, come si vede nell’ormai nota foto sopra, recava la scritta “l’Italia ripudia la guerra”. Diverse persone hanno applaudito di fronte a questo gesto e, devo ammetterlo, anche a me è venuta istintivamente voglia di farlo, senonchè mi si sono incrociate le mani. “L’Italia ripudia la guerra come mezzo di offesa alla libertà di altri popoli e come strumento per la risoluzione di controversie internazionali”, cito a memoria, è l’articolo numero undici di quella carta costituzionale che ancora qualche mese fa un guitto di corte definiva, di fronte ad un nutrito pubblico di lobotomizzati telespettatori, “la più bella del mondo”. Non mi sorprende che la legge di tutte le leggi sia ancora citata ad ogni spron battuto da tante persone ingenue o illuse, in fondo ci sono scritte su tante cose carine: la repubblica a sovranità popolare fondata sul lavoro che rimuove gli ostacoli che limitino libertà e uguaglianza dei cittadini dotati di pari diritti senza discriminazioni razziste e sessiste, che ripudia la guerra, che stabilisce che il lavoro debba essere adeguatamente remunerato, che s’impegna nella difesa dei beni pubblici, che proibisce la ricostituzione del disciolto partito fascista eccetera eccetera. Cito ancora a memoria, perchè l’ultima volta che ho avuto in mano una copia della Costituzione Italiana è stato nei tardi anni ’90, ricordo ancora che quella copia (datata 1994, se non ricordo male) ci venne data a scuola e conteneva un discorsetto introduttivo dell’allora presidente della camera dei deputati Irene Pivetti, eletta tra le file della Lega Nord. Sì, quel partito che voleva la secessione della fantomatica Padania dal resto d’Italia. Molto costituzionale! Da allora non ho più avuto bisogno di aprire quel libricino per rileggerne gli articoli, chè ad ogni assemblea o manifestazione alla quale io abbia partecipato in quegli anni qualcuno (compreso me) declamava o sbandierava o inalberava o indossava sotto forma di t-shirt qualche articolo della sacra charta magna suppostamente nata dai valori della resistenza. Lo ammetto, anche io sono stato ingenuo, ma crescendo si matura e si prende maggiormente coscienza della realtá che ci circonda, rendendosi anche conto che a declamare gli articoli della Costituzione non sono solo gli illusi o gli ingenui dei quali ho scritto sopra, ma anche e soprattutto le persone in malafede. Nemmeno oggi ho bisogno di riprendere in mano il testo della Costituzione Italiana per ricordare cosa reciti e non ho bisogno di fare molti sforzi per rammentare a me stesso e agli altri quante volte i suoi articoli siano stati calpestati senza il benchè minimo pudore da chi dovrebbe esserne il garante, da quegli stessi personaggi che quando gli fa comodo (fin troppo spesso) li declamano per tenere a bada il popolo illuso, salvo poi, tornando all’articolo undici, mandare contingenti militari in Afghanistan, tanto per dire, allo scopo di offendere la libertà di un altro popolo (e di cancellare dalla faccia della terra diversi suoi membri, soprattutto quelli che non indossano una divisa né portano armi e vengono convenzionalmente definiti col nome di “civili”) creando e non risolvendo controversie al solo scopo di garantire interessi economici e strategici a vantaggio proprio e dei propri alleati militari. Oggi io non mi appello più alle leggi di uno Stato, nello Stato non ci credo proprio e per questo molti mi definiscono come un sognatore che vive di utopie. Sono gli stessi che continuano a citare gli articoli costituzionali chiedendo a chi per primo da sempre li calpesta che questi vengano rispettati. Chi è il sognatore?

“Lampedusa in Hamburg”, una lotta per la sopravvivenza.

Dopo il vertice dei 28 capi di Stato europei all’indomani dalla strage di migranti nelle acque di Lampedusa, nulla è cambiato nelle politiche sull’immigrazione della Fortezza Europa. Eppure l’emergenza rimane: dico emergenza, ma non mi riferisco a quella sbandierata dai massmedia integrati nella società dello spettacolo, che citano cifre allarmistiche e casi simbolici  per spaventare l’opinione pubblica con lo spauracchio dell’invasione di migranti da oltremare, ma intendo quella che devono quotidianamente affrontare quelle persone che, una volta sopravvissute a guerre, dittature, carestie ed al viaggio fino alla porte d’Europa, si trovano lasciate a se stesse, impossibilitate ad avere un tetto sulla testa, un lavoro, assistenza sanitaria, garanzie di qualsiasi tipo se non quella di venir costantemente minacciati di rimpatrio. È questa la quotidianità di un gruppo di 300 immigrati africani che oggi si trovano ad Amburgo, fuggiti dalla Libia durante la guerra civile ed i bombardamenti della NATO, approdati a Lampedusa e, una volta finita ufficialmente l’emergenza all’inizio del 2013, spediti con documenti provvisori e 500 Euro in tasca verso un futuro incerto. Approdati ad Amburgo, i trecento scoprono di non avere nessun diritto, nessuna garanzia, nessuna prospettiva. Le istituzioni tedesche vorrebbero identificarli, ma loro si rifiutano, temendo di poter essere rispediti in Italia, palleggiati tra uno Stato e l’altro. D’altra parte questo è quel che prevede il Regolamento Dublino II, i rifugiati possono chiedere asilo solo nel primo Paese europeo sul quale abbiano messo piede al loro arrivo. L’Italia, in questo caso, che si è sbarazzata di loro appena possibile. I 300 rifugiati, costretti inizialmente a vivere per strada e sottoposti a stretta sorveglianza da parte della polizia, hanno però avuto la determinazione di organizzarsi in un gruppo compatto, un’associazione ribattezzata “Lampedusa in Hamburg” , ricevendo l’aiuto da parte della locale chiesa evangelica luterana di St.Pauli, di organizzazioni antirazziste e di altri/e cittadini/e di Amburgo. Una serie di iniziative di solidarietà concreta e di proteste a sostegno dei rifugiati ha avuto e sta avendo luogo ad Amburgo: un’ottantina di membri di “Lampedusa in Hamburg” ha trovato accoglienza e rifugio nella chiesa di St.Pauli, numerose sono state le donazioni di abbigliamento, calzature e generi di prima necessità da parte di privati cittadini, mentre diverse iniziative di lotta si sono svolte nella città portuale. Dopo la prima azione di protesta avvenuta nel municipio di Amburgo a fine Maggio a seguito dello sgombero di una tendopoli situata nei pressi della stazione centrale, alla quale parteciparono circa 60 persone che dispiegarono lo striscione “Non siamo sopravvissuti alla guerra della NATO in Libia per morire nelle strade di Amburgo”, ci sono state altre due consistenti manifestazioni a Giugno ed Agosto, con la partecipazione rispettivamente di 1500 e 2500 persone.

Non sono mancate le intimidazioni poliziesche, le identificazioni di manifestanti ed alcuni arresti, mentre l’amministrazione cittadina ha proibito alla chiesa di St.Pauli di offrire ulteriore accoglienza ai rifugiati, ai quali ha precluso anche l’alloggio in dormitori adibiti al pernottamento dei senzatetto. La stessa settimana in cui centinaia di migranti morivano nel tentativo di raggiungere Lampedusa, la polizia lanciava l'”Operazione Lampedusa”, durante la quale venivano identificati ed arrestati una dozzina di membri di “Lampedusa in Hamburg”. A seguito di questi ed altri arresti operati nei giorni successivi si sono svolte diverse manifestazioni, spesso non autorizzate ma molto partecipate (dalle 800 alle 2000 persone) per denunciare la violenza poliziesca ed il trattamento razzista riservato ai richiedenti asilo. Anche lo storico centro sociale amburghese Rote Flora ha preso posizione a fronte dei controlli arbitrari su base razzista, degli arresti e della politica di terra bruciata operati dalle istituzioni nei confronti dei richiedenti asilo, lanciando un ultimatum all’amministrazione cittadina (“interrompete i controlli razzisti nei confronti dei membri di Lampedusa-in-Hamburg o aspettatevi ripercussioni”) e prendendo parte ad una manifestazione di 2000 persone che ha visto compiere azioni dirette nel quartiere di Sternschanze. Dal momento in cui le istituzioni hanno deciso di perseverare ne loro atteggiamento razzista e repressivo, sono proseguite le iniziative politiche in sostegno dei rifugiati, con cortei, blocchi stradali, biciclettate in stile “Critical Mass”, azioni informative e tentativi di impedire i controlli razzisti. Anche a Rostock si è svolta una manifestazione di solidarietà sotto lo slogan “Refugees Welcome!”, alla quale hanno preso parte 1500 persone. Le iniziative di lotta e sostegno al gruppo Lampedusa-in-Hamburg continuano ancora in questi giorni, finchè ai rifugiati non verrà garantito il diritto a rimanere nella cittá di Amburgo.

(Per altre informazioni e notizie attuali sul caso dei 300 richiedenti asilo del gruppo “Lampedusa in Hamburg” consiglio di visitare il sito http://lampedusa-in-hamburg.tk/)

Una mia considerazione a margine della vicenda: quella del gruppo “Lampedusa in Hamburg” e dei suoi solidali sostenitori è una lotta per la legalizzazione ed il riconoscimento dei diritti di un gruppo specifico. Ciò non significa che si tratti necessariamente di una lotta riformista e di ciò sono consapevoli molti/e dei/lle quali sono parte di questa battaglia. Il loro obiettivo va oltre la volontà di un mero riconoscimento istituzionale dei richiedenti asilo, l’obiettivo finale è quello di un mondo senza Stati né frontiere, nel quale le persone siano libere di spostarsi senza controlli e vessazioni di tipo burocratico e poliziesco. Un mondo nel quale però nessuno/a sia costretto a fuggire dalla terra nella quale è nato/a a causa di condizioni di vita inaccettabili, ma nel quale gli spostamenti nascano da una decisione priva di forzature di sorta. La costruzione di un mondo diverso da quello nel quale viviamo ora inizia anche dal sostegno diretto e immediato alle lotte di chi avanza rivendicazioni tutto sommato minime, cresce spingendo sulle contraddizioni più evidenti del sistema e creando nuova coscienza, fino alla messa in discussione totale del vigente ordine economico, sociale e politico ed alla realizzazione pratica di alternative concrete in chiave libertaria e antiautoritaria.

La Siria, i “buoni” e i “cattivi”.

Finora ho evitato di trattare su questo blog l’argomento del conflitto in corso in Siria. Ho infatti cercato col trascorrere de tempo di farmi un’idea precisa di ciò che stava accadendo in quel Paese, confrontando la mole di informazioni che ci vengono riversate addosso quotidianamente dai massmedia e sul web, anche da fonti di cosiddetta controinformazione, prima di esprimere un qualsivoglia giudizio. Ora che si parla apertamente di intervento militare da parte degli USA e dei suoi alleati mi sento di esporre brevemente le conclusioni alle quali sono giunto finora.

Nel Dicembre del 2012 ho ricevuto per posta un opuscolo informativo dell’associazione “Adopt a Revolution”, che mi invitava a sostenere economicamente i comitati rivoluzionari siriani. Tali comitati sono nati dal movimento di protesta contro l’attuale governo di Bashar al-Assad, con l’intento di rovesciarlo in modo nonviolento per favorire una rivoluzione democratica -questo il sunto delle informazioni contenute nell’opuscolo, nel quale si parla anche di repressione nei confronti degli/lle attivisti, di escalazione del conflitto e dell’impossibilità di proseguire le lotte antigovernative a viso aperto e senza l’uso delle armi. Si parla anche di un codice di comportamento per il “libero esercito siriano” (nel volantino, in tedesco, “Freie Syrischen Armee”), che numerosi gruppi dell’esercito ribelle si sono impegnati a rispettare per evitare saccheggi ed esecuzioni sommarie, escludendo dal discorso i gruppi combattenti formati da fondamentalisti islamici: nelle intenzioni, questo codice di comportamento servirebbe anche a porre le forze combattenti che lo sottoscrivono sotto controllo civile. A queste informazioni si aggiungono quelle delle quali ero venuto a conoscenza mesi prima, tra cui un comunicato unitario di anarchici russi e siriani  ed un’altro comunicato di un anarchico siriano, entrambi schierati nettamente dalla parte delle forze antigovernative. Ora, il fatto che esistano ribellioni in atto contro un qualsiasi governo (a mio parere meno spazi di libertà e dialogo lascia un governo, più la ribellione è urgente), spinte dalla genuina volontà della popolazione nel voler porre fine a forme di autoritarismo ed oppressione politica e sociale può solo incontrare la mia simpatia ed approvazione. Il problema è che nel caso della Siria la situazione è molto più complessa di quanto si possa pensare.

Innanzitutto la posizione geografica del Paese è fondamentale sullo scacchiere internazionale per gli equilibri del Medio Oriente- e non solo. Conseguenza di ciò, come faceva notare il docente universitario Massimo Ragnedda in un suo vecchio articolo online, è anche una vera e propria guerra psicologica di (dis)informazione: gli Stati che vedrebbero di buon occhio la rimozione dell’attuale governo siriano (USA, Unione Europea, Israele, Turchia, Arabia Saudita) non hanno fatto altro che diffondere informazioni manipolate e di parte sul conflitto in corso, attribuendo i peggiori crimini alle forze governative, presentando i guerriglieri come martiri democratici e la popolazione civile vittima di terrorismo da parte delle forze armate di Assad, raccontandoci di attacchi chimici contro civili, città distrutte e rifugiati. Guarda caso, anche la carta della paura nei confronti di nuove ondate migratorie alle porte della fortezza Europa nel bacino del Mediterraneo è stata giocata senza scrupoli di sorta dai massmedia “occidentali”. D’altro canto, dagli Stati in buoni rapporti con Assad (Russia, Cina, Iran) provengono notizie ben diverse sul conflitto in corso, che mettono ad esempio in dubbio l’uso di armi chimiche da parte delle forze armate governative, attribuendolo piuttosto alle forze ribelli indicate come un coacervo di Alquaedisti che, per destabilizzare la regione e spodestare il governo laico e moderato di Assad, commettono ogni sorta di nefandezza anche contro i civili che non sostengono la loro lotta. Quel che è certo è che l’attuale regime siriano, il cui partito Ba’ath è in carica dal 1963, si regge sul potere dell’esercito e di 14 diversi servizi segreti spesso in concorrenza tra loro, ha una natura nazionalista e militarista e difende sostanzialmente gli interessi e i privilegi della minoranza religiosa degli alawiti (sciiti). È altrettanto chiaro che tra i ribelli, foraggiati opportunisticamente anche da potenze straniere, vi sono milizie armate salafite e wahhabite, ovvero composte da elementi islamici fondamentalisti e reazionari, che non si mettono problemi nel liquidare gli alawiti (e non solo!) nel più brutale dei modi. È questa la triste realtá dei fatti con la quale si deve fare i conti prima di esprimere opinioni affrettate e prendere posizione per l’uno o l’altro fronte. Eppure, tra le forze politiche della cosiddetta sinistra radicale (sic!) c’è chi sembra avere le idee chiare: i partiti stalinisti siriani e quelli europei (almeno in Francia e Belgio) stanno dalla parte del regime di Assad, considerato antiimperialista; i trotzkisti dal canto loro si schierano con i ribelli e vedono i fondamentalisti islamici come possibili alleati. Al di fuori di questo pattume, gli anarchici non sembrano avere idee precise, perchè se da un lato ancora non ne ho sentito uno che supporti in qualche modo il governo siriano, dall’altro non tutti sostengono il fronte antigovernativo, inquinato da interessi esterni e composto da forze troppo eterogenee che spesso hanno nulla a che fare con ideali di libertà, emancipazione e uguaglianza.
Si deve anche prendere atto di un’altra evidenza: il conflitto siriano è un conflitto ancora locare, ma la posta in gioco è a livello mondiale. I diritti umani non valgono una sega per le potenze interessate alla soluzione del conflitto a favore o contro il governo di Assad, queste nel sangue dei poveracci ci intingono il pane da tempi ormai immemori. Ogni mezzo è buono per portare acqua al proprio mulino, ai propri interessi geostrategici. A farne le spese sono coloro i quali in questa guerra crepano come mosche, uccisi dalle armi, siano chimiche o meno, delle truppe governative, o dalle rappresaglie di guerriglieri ben poco interessati a concetti quali democrazia o emancipazione, o quelli che -più fortunati?- si trovano a dover fuggire dal Paese dopo aver perso tutti i loro averi per finire in condizioni disastrose in qualche campo profughi. Il settarismo religioso ed etnico, alimentato soprattutto dagli Stati stranieri interessati a favorire l’una o l’altra fazione (creando divisioni soprattutto all’interno del fronte antigovernativo), precipita il conflitto in una dimensione che non lascia spazio a nessuno spiraglio per gli ideali tanto cari a noi anarchici. Un bel puttanaio, insomma, per dirla in modo tanto brutale quanto chiaro. Un intervento militare (che sembra ormai scontato, proprio quando gli ispettori ONU sono appena arrivati in Siria!) non farebbe altro che porre la parola fine non tanto alla violenza del regime di Assad, che verrebbe sostituita da altra violenza (basti pensare nell’immediato, visto che si parla “solo” di un possibile attacco aereo, al fatto che le bombe intelligenti sganciate dai deficienti non guardano in faccia nessuno, se qualcuno ricorda i bombardamenti NATO ai tempi del conflitto tra Serbia e Kosovo, tanto per fare un esempio, saprà a cosa mi riferisco), quanto a qualsiasi speranza residua di una rivoluzione in Siria. Al suo posto, solo un nuovo Stato devastato, colonizzato e privato della sua sovranità…e non sarebbe l’unico. Ma non finirebbe così, ne sono convinto, perchè l’obiettivo finale delle potenze occidentali e dei loro alleati in Medioriente è l’Iran. E se Russia e Cina assumono per ora un ruolo tutto sommato passivo nella vicenda siriana, non credo che farebbero lo stesso in caso di aggressione al loro alleato chiave mediorientale…

“Droni di guerra e droidi di Stato”.

Fonte: Umanità Nova, n. 23 anno 93 Giugno.

” Droni di guerra e droidi di stato

 

Guerra tecnologia

 

Droni di guerra e droidi di stato

Lo scorso 23 maggio, alla National defence university, il presidente Obama ha tenuto un lungo discorso in materia di sicurezza internazionale e “controterrorismo”, affrontando anche – per la prima volta, in modo ufficiale – il micidiale e sistematico impiego offensivo dei droni in Pakistan, Afghanistan, Yemen e Somalia. Negli Stati Uniti, infatti, l’utilizzo su larga scala di queste armi guidate a distanza sta sollevando crescenti interrogativi politici, obiezioni morali e proteste civili come quella svoltasi a Washington in contemporanea con l’intervento del presidente.
Sostanzialmente, Obama ha sostenuto che «non è vero che i droni hanno causato un numero enorme di vittime civili; si tratta invece di uno sforzo preciso, calcolato, contro coloro che sono nella lista dei terroristi effettivi, e che vogliono danneggiare gli Stati Uniti», quindi ha annunciato due cambiamenti tattici: modificare i parametri tecnici (aggiustare la mira, passando dai “signature strike” ai “personal strike”) al fine di evitare ulteriori uccisioni di innocenti; inoltre, completare il trasferimento del potere decisionale sulle esecuzioni mirate dalla Cia all’esercito e quindi al presidente stesso (attualmente in Pakistan sono infatti anche i servizi segreti a gestire tale procedura di morte).
Aldilà della propaganda svolta in prima persona da Obama, già paradossale nobel per la pace, i dati e le informazioni note sulla guerra dei droni incrementata e condotta con logica da serial killer durante i suoi due mandati presidenziali parlano da soli.
Iniziato nel 2001 in Afghanistan sotto l’amministrazione Bush, il ricorso ai robot volanti è cresciuto in modo esponenziale con Obama. Negli ultimi nove anni, solo in Pakistan gli Usa hanno portato a termine 366 attacchi con droni e tra questi ben 314 sono stati ordinati dallo stesso Obama; a seguito di questa “campagna”, peraltro del tutto fuorilegge sul piano della legalità internazionale e condannate dal governo di Islamabad, sono rimaste uccise non meno di tremila persone, dei quali solo per una quarantina sarebbe stata accertato un ruolo significativo come “capo” di Al Qaeda o dei gruppi talebani. Per il resto si tratta di civili “sospetti”, tra cui innumerevoli donne, bambini e persino soldati governativi, la cui morte è stata derubricata a spiacevole effetto collaterale (Internazionale, 20 giugno 2013).
Ulteriore conferma dell’ambiguità di Obama è la recente ri-nomina che lui ha deciso, all’inizio di quest’anno, di John Brennan a capo della Cia. Brennan infatti è il teorico dei raid assassini dei droni (da stesso definiti «etici, proporzionati e conformi agli sforzi degli Stati Uniti di risparmiare la vita di civili innocenti»); proprio grazie a lui questi sono divenuti centrali nella strategia anti-terrorismo statunitense (Panorama, 8 gennaio 2013).
Per fortuna, se il presidente Obama ha ormai messo a nudo l’essenza del suo presunto pacifismo, persino tra coloro che guidano, comodamente seduti ad una consolle, i droni killer qualche scrupolo umano si fa strada. Significativa la recente testimonianza di uno di loro, tale Brandon Bryant che, dopo aver ucciso a distanza 1626 persone, è stato dichiarato affetto da “post traumatic stress disorder” a seguito della sua sopravvenuta crisi individuale. Seppur tardivamente, dopo aver asetticamente seminato morte, ad un’importante emittente televisiva americana ha confessato: «Non senti il rombo dei motori e la scia del missile, hai davanti un computer, ma il risultato è lo stesso […] ma come si fa a riconoscere un talebano da un innocente che impugna un Ak-47, in un Paese dove circolare armati è la norma? O come si fa a distinguere un uomo con la vanga in mano da un potenziale fiancheggiatore pronto a piazzare uno Ied?» ( http://www.spiegel.de/international/world/pain-continues-after-war-for-a…).
Domande vane per quanti s’illudono ancora di poter fare la guerra senza assumersi la responsabilità del suo orrore.
In Italia, invece, l’attenzione pubblica per questo sistema d’arma continua ad essere minima, nonostante che i droni siano già ben dentro la politica militare nazionale.
Oltre ai droni Usa e Nato che operano dalla base di Sigonella mettendo in pericolo il traffico aereo civile (si veda Sicilia Libertaria, novembre 2012), le “nostre” forze armate da tempo hanno dotazione un certo numero di droni.
I primi acquisti di droni Predator da parte dell’Aeronautica militare italiana risalgono al 2004, dislocati nella base di Amendola e impiegati in Afghanistan, da Herat, dal 2007 (durante il governo Prodi) con formali compiti di ricognizione e intelligence; ma, secondo alcune indiscrezioni divulgate da fonti statunitensi, lo stato italiano avrebbe ordinato sei droni Reapers con relativi armamenti. Ma l’Italia è ben dentro anche al business connesso ai droni: «L’industria italiana è presente in modo sostanziale in questo settore grazie a Finmeccanica che, con le sue controllate Alenia Aermacchi e Selex, produce diversi modelli di Rpa […] A livello europeo Finmeccanica è impegnata assieme alle altre maggiori industrie europee del settore, a collaborare con la Commissione Ue, per il comune scopo di arrivare all’integrazione dei droni nello spazio aereo entro il 2016, quindi per lo sviluppo di questo mercato» (Il Sole-24 Ore, 4 marzo 2013).
In prevalenza si tratta di programmi destinati al controllo sociale: dalla vigilanza anti-clandestini delle frontiere (come avviene già in Usa per monitorare i confini con il Messico) all’ordine pubblico (così come avviene già in Francia e Gran Bretagna (in Germania, è previsto persino un loro impiego contro i writers), ma dalla polizia interna alla polizia internazionale, si sa, il passo è breve.
Intanto, per far accettare alle persone questa ulteriore e invasiva tappa della videosorveglianza, è stata avviata una sottile campagna volta a promuovere una presunta utilità sociale dei droni (emblematica la sponsorizzazione televisiva del programma “Quarto grado”, col pretesto della ricerca degli scomparsi), con l’evidente scopo di prepararne l’impiego repressivo contro le insorgenze popolari che mirano in alto.

Altra Info
(Altri articoli sui droni sono apparsi in precedenza su Umanità Nova del 13 novembre 2011 e 20 maggio 2012) “

Riaperto il processo per i risarcimenti ai familiari delle vittime del massacro di Kunduz.

Il 4 Settembre del 2009 a Kunduz, Afghanistan, due aerei militari statunitensi bombardavano due camion cisterna di carburante (destinati a rifornire strutture delgli eserciti di occupazione) precedentemente sequestrati da guerriglieri afghani, nelle immediate vicinanze dei quali si trovavano numerosi civili intenti a prelevare benzina. Il bilancio del bombardamento, secondo fonti NATO, è stato di 142 tra morti e feriti, tra i quali numerosi bambini. L’ “uomo” che diede l’ordine di bombardare, mentendo in parte ai piloti stessi che compirono l’azione, era un ufficiale tedesco, Georg Klein.
Klein non solo non è stato mai condannato per il massacro (al contrario dei due piloti che ricevettero in seguito al bombardamento da loro compiuto sanzioni disciplinari, nonostante avessero ripetutamente messo in discussione l’ordine ricevuto prima di eseguirlo), ma è stato addirittura promosso generale. La Germania ha offerto ai familiari delle vittime del massacro 5000 Dollari ciascuna; lo stipendio di un generale di brigata dell’esercito federale tedesco è di 11000 Euro mensili. Ora, dopo che diverse indagini a suo carico sono state sospese, Klein si trova di nuovo a dover fare i conti con un processo. Alcuni familiari delle vittime del massacro di Kunduz chiedono risarcimenti più alti e sono riusciti, anche grazie al reperimento di nuove prove, ad ottenere un nuovo processo, iniziato ieri 17 Aprile presso il tribunale superiore (Oberste Landgericht) di Bonn. Di fronte al tribunale, ridecorato per l’occasione da ignoti, hanno protestato 30/40 antimilitaristi/e, per ricordare che quanto avvenuto a Kunduz il 4 Settembre del 2009 è stato un massacro a danno di civili e che dagli eserciti non ci si può aspettare nulla di diverso.
(Sui muri del tribunale imbrattati con vernice rossa si possono leggere le scritte “COLONNELLO KLEIN=ASSASSINO” e “KUNDUZ=MASSACRO [ad opera]DELL’ESERCITO TEDESCO”).

“Fermiamo la guerra in Mali”: comunicato della FAI.

Fonte: Anarchaos.

” Fermiamo la guerra in Mali! [Comm. Rel. Internazionali FAI]

http://federazioneanarchica.org/archivio/20130216cri.html

Fermiamo la guerra in Mali!

L’11 gennaio il governo francese ha dato inizio ad un’operazione militare in Mali. Ha dichiarato di intervenire per sostenere le unità maliane contro il terrorismo di matrice islamica che imperversa in quell’area e per difendere la popolazione dalle violenze. Qualche giorno dopo, il 14 e il 17, rispettivamente la Germania e l’Italia, attraverso i loro ministri degli esteri, hanno affermato di appoggiare l’attacco francese in Mali e di essere disponibili a offrire supporto logistico. Passano poche settimane e, all’inizio di febbraio il presidente francese Hollande “atterra” tra le sue truppe a Timbuctu, ripreso dalle telecamere delle TV internazionali, sottolineando che le milizie islamiche/tuareg sono in fuga e il Mali è quasi completamente liberato: “Sosterremo i maliani fino alla fine di questa missione nel nord – ha dichiarato – ma non intendiamo star qui per sempre”.

Una frase che deve essere interpretata in senso esattamente opposto se si allarga lo sguardo alla politica estera dei governi francesi degli ultimi anni.
Infatti, c’è perfetta continuità tra Sarkozy che bombarda la Libia e Hollande che bombarda il Mali.
Sin dal 2007, in Niger, si è sviluppato un movimento tuareg, e dopo quasi cinquantanni di rapporti esclusivi con la Francia,questo paese aveva di recente aperto a compagnie non francesi lo sfruttamento delle risorse minerarie.
Certo, si potrebbero evidenziare le contraddizioni di chi interviene militarmente, ora in difesa della popolazione, ora per togliere di mezzo il dittatore scomodo. Insomma un giorno si spargono i “semi” della democrazia, l’altro si sostengono le forze ribelli con soldi e armi. A volte capita che i nemici di oggi siano stati gli amici di ieri (durante l’attacco alla Libia, Francia e Gran Bretagna hanno fatto ampio uso degli islamisti per combattere le forze armate di Tripoli, poiché i separatisti della Cirenaica non erano interessati a rovesciare Mu‘ammar Gheddafi una volta che Bengasi fosse diventata indipendente).
La campagna di comunicazione massmediatica preferisce mostrare le folle festanti che sventolano la bandiera francese invece delle migliaia di profughi che si sono concentrati in pochi giorni presso i confini maliani. Il ritornello si ripete mostrando i danni che i fondamentalisti hanno provocato al patrimonio culturale, (la biblioteca di Avicenna e i mausolei di Timbouctou) sottolineando il divieto di ascoltare la musica o di vestirsi senza seguire i dogmi religiosi. La distruzione generata dai bombardamenti dell’aviazione, invece, non appare mai.
L’opinione pubblica occidentale si confronta con l’ennesimo conflitto in modo apparentemente indolore: la distanza che ci separa dagli scenari di guerra favorisce, infatti, un certo “distacco”.
Non dobbiamo, però, scordare che gli interventi degli eserciti degli stati alimentano il pericolo “terrorista” (i recenti fatti che hanno interessato l’impianto energetico di In Amenas in Algeria rappresentano un esempio lampante).
Gli effetti di queste politiche neocolonialiste, travestite da missioni umanitarie, si estendono, comunque, anche all’interno dei confini dei paesi europei grazie alle legislazioni speciali antiterrorismo che, in nome della “sicurezza” continuano a erodere gli spazi di libertà e costituiscono uno “strumento repressivo e politico pronto all’uso” per fronteggiare le forme più pericolose e crescenti della protesta sociale.
Esaminando più nel dettaglio l’intervento militare in Mali ci si rende conto dell’infondatezza delle motivazioni ufficiali e delle mille contraddizioni che ne scaturiscono.
L’esercito francese era, da tempo, pronto a intervenire; la richiesta d’aiuto del presidente golpista Dioncounda Traorè è stata solo il pretesto.
È’ impossibile credere che sia stata l’emergenza umanitaria a spingere l’Europa a intraprendere questa nuova guerra. L’Africa è vessata, da decenni, da miriadi di focolai di violenza e nessuna potenza occidentale se ne è mai seriamente interessata. Si dirà che in Mali ad aggravare la situazione c’è l’emergenza “terrorismo islamico”.
Non dimentichiamo, inoltre,il ruolo degli Stati Uniti,in questa guerra,che da decenni contendono alla Francia il controllo della FrancAfrique.
Significativo il fatto che circa tre settimane dopo l’intervento francese in Mali, gli Stati Uniti abbiano siglato un accordo con il governo di Niamey per l’installazione di una base militare statunitense ad Agadez, nel nord del Niger nella zona uranifera del paese.

Dobbiamo considerare questa “nuova” guerra come la prosecuzione naturale della campagna libica e renderci conto che, probabilmente, ci troviamo di fronte a una precisa strategia neo-coloniale di controllo politico del territorio, finalizzato allo sfruttamento delle risorse naturali e inquadrato in un’ottica di contrasto dell’avanzata dei capitali cinesi in Africa. La Cina, infatti, è il primo partner commerciale di Tanzania, Zambia, Congo ed Etiopia (dove il PIL cresce con una media del 5,2% l’anno, cifre impressionanti) e in molte zone vanta l’esclusiva sui diritti di estrazione delle risorse.
Il governo francese ha enormi interessi economici nell’area centro-nord africana e sta cercando, anche con mosse azzardate, di mantenere sotto la propria influenza quelle zone di interesse strategico per l’abbondanza di risorse minerarie ed energetiche.
Il Mali potrà diventare importante nel prossimo futuro, ma il Niger lo è già ora. Non può sfuggire che, poco oltre il confine sud-est del Mali, sono collocate le più importanti miniere d’uranio nigeriane. Il riferimento è alla miniere di Arlit ed Akokan da cui la multinazionale Areva ricava gran parte dello “yellowcake” destinato ad alimentare i 58 reattori nucleari francesi. Nella stessa zona è prevista l’apertura di quella che è destinata a diventare una delle più grandi miniere al mondo per l’estrazione dell’uranio, Imouraren. Non mancano poi l’oro e il petrolio. Quindi, un grande affare che lo Stato francese – “spalla” di multinazionali come Total e Areva (giusto per fare due nomi) non può lasciarsi scappare.
Non si può dimenticare che la politica energetica francese è fondata sull’energia nucleare, una scelta che ha radici nel passato perché direttamente legata alla necessità di rafforzare il proprio ruolo militare nello scenario geopolitico internazionale. Sappiamo bene che non c’è soluzione di continuità tra gli impieghi, cosiddetti, civili dell’energia atomica e quelli finalizzati alla costruzione di ordigni destinati a minacciare l’umanità. Una scelta di sistema che rende, nell’attuale contesto d’instabilità, difficile, per il governo francese, individuare fonti energetiche alternative. La disponibilità dell’uranio rimane, quindi, una questione essenziale almeno in una prospettiva di medio periodo.
Quando l’esercito francese tornerà in patria sarà solo perché il controllo della situazione sarà affidato alle armi amiche delle forze africane alleate con la Francia.
Non è un caso che le forze armate della CEDEAO (Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale) siano state, velocemente, schierate lungo il confine tra Mali e Niger. La necessità di “proteggere” le aree d’interesse minerario da una possibile espansione della rivolta è stata subito evidente.
La nostra epoca è già contraddistinta da crisi energetiche e difficoltà di approvvigionamento di materie prime e non c’è da stupirsi che il capitalismo mondiale stia cercando di correre al riparo, ancora una volta, per garantirsi, con ogni mezzo, una parte del bottino. Tutti noi sappiamo che la guerra e la finanziarizzazione dell’economia sono mezzi per movimentare repentinamente enormi capitali, per riorganizzare equilibri politici di governi, stati e confini nazionali non più funzionali al profitto di multinazionali e società finanziarie.

Nel vicino Niger, da 40 anni, Areva e le sue consociate estraggono l’uranio senza alcun rispetto per l’ambiente e per i lavoratori, gli abitanti vicini ai siti di Arlit e Akokan hanno pagato e pagano un prezzo altissimo in termini di salute e di morte, come risulta da studi indipendenti (CRIIRAD – ROTAB). I minatori di uranio sfruttati infatti, sono esposti a radiazioni ionizzanti nelle cave, nelle miniere sotterranee, nelle officine di lavorazione del minerale grezzo, ma anche nelle città e nelle loro case. In questa zona 35 milioni di scorie radioattive sono raccolte all’aria aperta sin dall’inizio dell’attività estrattiva. Grazie al vento gas radon e altri derivati considerati cancerogeni si spargono nell’ambiente. Ma l’Areva opera anche sul territorio italiano. Il trasporto di materiale irraggiato passa per il nostro paese verso l’impianto di la Hague dove si estrae plutonio (per le bombe) e produce il mox (un combustibile di riciclo con cui funzionano alcune centrali). In Mali è la guerra di sempre, di stato e capitale, dove sfruttamento e saccheggio ai danni della popolazione non conoscono confini nazionali!

Diffondere l’informazione contro l’ipocrisia del potere, rafforzare la consapevolezza per far crescere la voglia di giustizia sociale sono solo i presupposti per sostenere le lotte che in ogni parte del mondo devono liberare gli oppressi da vecchie e nuove schiavitù, economiche, militari o religiose che siano.
Solo attraverso l’internazionalismo, l’antimilitarismo e la solidarietà di classe possiamo da anarchiche ed anarchici fermare l’orda di questo ennesimo, nuovo e lurido conflitto.

Fermiamo la guerra in Mali!
Solidarietà a tutte le popolazioni colpite dalla guerra!

Commissione Relazioni Internazionali
della Federazione Anarchica Italiana”

Appello per la situazione a Gaza.

Fonte: Anarchaos.

“nov 15 2012

Appello per la situazione a Gaza

riceviamo e diffondiamo:

La situazione in Gaza, Palestina si è aggravata negli ultimi giorni.
Il numero dei morti cresce di ora in ora.
Il portavoce delle forza di occupazione israeliane (IOF) ha dichiarato che se necessario sono pronti a procedere con un attacco via terra.
Non è chiaro quale sarà la portata di questa nuova operazione, chiamata Clopud of Pillar, ne’ in quanto tempo si concluderà. Non vogliamo creare allarmismi inutili, ma contribuire a tenere alta l’attenzione.
Vi inoltriamo un messaggio di Adie, attivista del movimento ISM che in questo momento si trova a Gaza:

“Cari tutti, vi chiediamo tutto il supporto possibile per la popolazione assediata della Striscia di Gaza. 
Qui a Gaza, oltre 10 persone sono state uccise fino a questo momento nell’operazione israeliana chiamata “Pilastro della Difesa”, nelle ultime 7 ore; tra loro, molti bambini tra cui Raneen Arafat, 7 anni, e un bambino di 11 mesi. Abbiamo visto corpi carbonizzati di bambini morti e feriti riversarsi all’ospedale Al-Shifa di Gaza city e negli altri ospedali dislocati nella Striscia. 50 attacchi aerei su tutta la Striscia fino ad ora.
Esplosioni assordanti ci hanno scosso tutti, come le bombe atterrate vicino a noi nelle strade intorno alle università. Forti esplosioni si stanno verificando tutto intorno a noi a Gaza City mentre scrivo, intere famiglie sono state ferite. Possiamo sentire anche gli spari dalle navi da guerra israeliane. Si dice che sia possibile che molto presto ci sia l’invasione di terra. 
Più di 330 bambini sono stati uccisi nell’ultima sanguinaria operazione come questa, Piombo Fuso, che ha ucciso più di 1400 persone in totale, per lo più civili. Stiamo testimoniando da ospedali, strade e aree bombardate. Quanti, terrorizzati nelle loro case, perderanno la vita entro domani, o dopo i giorni degli attacchi aerei, via terra e via mare che Israele ha annunciato. 

VOI POTETE FARE LA DIFFERENZA. MUOVETEVI. AGITE ADESSO PER FERMARE UN’ALTRO BAGNO DI SANGUE A GAZA. L’IMMOBILISMO DEL MONDO CI HA PORTATI A QUESTO PUNTO.”

Ci impegnamo a mantenere aggiornata la pagina facebook della rete:
https://www.facebook.com/ReteItalianaIsm?fref=ts
Inoltre vi consigliamo inoltre alcuni siti in cui trovare informazioni di prima mano:
Sito del PCHR, non è aggiornato in tempo reale, ma ha le informazioni più attendibili che si trovino in rete:
http://www.pchrgaza.org/portal/en/
Maan news, è la più rapida ma talvolta da notizie imprecise:
http://www.maannews.net/eng/Default.aspx
E volendo, anche haaretz:
http://www.haaretz.com
In italiano:
http://ilblogdioliva.blogspot.it/
http://nena-news.globalist.it/
http://www.infopal.it/

su facebook:

in inglese:
https://www.facebook.com/7aso00on?fref=ts
https://www.facebook.com/updatefromgaza?fref=ts
https://www.facebook.com/ICAI2?fref=ts
https://www.facebook.com/oppalestine?fref=ts

in italiano:
https://www.facebook.com/pages/Vittorio-Arrigoni/290463280451?fref=ts
https://www.facebook.com/groups/WeAreAllOnTheFreedomFlotilla2/?fref=ts

Rete Italiana ISM “

Nessun M346 a Israele!

Mentre i massmedia allineati ci frantumano periodicamente i maroni con il presunto programma di sviluppo atomico ad uso militare portato avanti dal governo iraniano, c’é chi si preoccupa invece di parlare di pericoli più concreti ed immediati che non riguardano possibilitá ma certezze, ricordandoci la vera natura di quello Stato che per molti è l’avamposto della democrazia occidentale in Medioriente di fronte alla barbarie islamica. A tale proposito diffondo una e-mail giuntami alcuni giorni fa e invito gli/le eventuali lettori/trici non solo a diffonderla a loro volta, ma anche ad attivarsi concretamente riguardo al tema in questione. In quanto anarchico posso anche ritenere superflui e/o inoppurtuni i richiami a leggi ed istituzioni nazionali e internazionali per sostenere gli argomenti, peraltro ben condivisibili, del testo, ma si tratta in fin dei conti di dettagli di fronte ai quali il discorso centrale- il rifiuto della guerra e del militarismo e lo schierarsi dalla parte degli oppressi- prende il sopravvento e senza esitazione spinge le nostre coscienze ad agire. Inutile aggiungere che il titolo della e-mail potrebbe essere efficacemente completato con “…né a nessun altro Stato!”, ma mi pare che il rifiuto in generale della guerra e degli strumenti di morte che la consentono risulti in modo chiaro da alcuni inequivocabili passaggi presenti nel testo.

” Nessun M346 a Israele
Dedicato a Stefano Ferrario

Fin dal 2005 è operativo uno scellerato accordo di “cooperazione
militare”, economica e scientifica tra il nostro Paese ed Israele.
Un accordo che non è stato scalfito neppure dall’ “Operazione
piombo fuso” del dicembre 2008 – gennaio 2009, che ha visto Israele
colpire con il suo “potere aereo” la popolazione palestinese
civile inerme (1400 uccisi, di cui ca 400 bambini).  Un’ azione
militare brutale, senza giustificazioni, nella quale sono state usate
anche armi sconosciute o già vietate dalle Convenzioni internazionali
(fosforo bianco, bombe D.I.M.E., uranio impoverito) e nella quale
Israele ha commesso crimini di guerra e contro l’umanità (come
documentato dall’ ONU nel “Rapporto Goldstone”). Un’operazione
condannata dalle principali organizzazioni internazionali per la
promozione e la difesa dei diritti umani.

L’Italia, almeno di fronte a ciò, avrebbe dovuto condannare Israele
e recedere da quegli accordi di cooperazione militare. Ma come avrebbe
potuto quando anch’essa, dopo l’introduzione del “Nuovo Modello
di Difesa” nel 1991 – che ammette interventi militari “ovunque i
propri interessi siano minacciati” – viola sistematicamente
l’articolo 11 della nostra Costituzione, che invece “ ripudia la
guerra”?  Quando partecipa alle iniziative militari USA e NATO e fa
“carta straccia” dello Statuto dell’ONU che voleva
“risparmiare la guerra alle generazioni future”, vietandola
esplicitamente ?

Il nostro paese non avrebbe dovuto sottoscrivere quell’accordo di
cooperazione militare perché esso viola la  Legge 185/90 che pone
limiti all’export di armi verso paesi belligeranti; a maggior
ragione verso Israele, paese in conflitto e fuorilegge per la
sistematica violazione delle Risoluzioni ONU e dei pareri della Corte
Internazionale  di Giustizia dell’Aja a tutela dei diritti del popolo
palestinese.

Il Tribunale Russell (un’istituzione composta da personalità
emerite, giuristi e intellettuali, tra cui diversi premi Nobel) ha
infatti affermato che il popolo palestinese è “soggetto a un regime
istituzionalizzato di dominazione che integra la nozione di Apartheid
come definita nel diritto internazionale”. E lo Statuto della Corte
Penale Internazionale all’art. 7 comma 1 include l’Apartheid tra i
“crimini contro l’umanità”, definendolo  “atto inumano
commesso nel contesto di un regime istituzionalizzato di oppressione
sistematica e dominazione di un gruppo razziale su di un altro, e
commesso con l’intento di mantenere quel regime”.

Invece accade che, facendo “carta straccia” anche della L.185/90,
AleniaAermacchi, la società di Finmeccanica con sede nazionale e
stabilimenti significativi a Venegono (Varese), si accinge a
consegnare ad Israele 30 jet M346 , definiti come “addestratori
tecnologicamente avanzati” ma in realtà già  strutturati per
essere armati con missili o bombe. Queste armi verranno sicuramente
testate contro i palestinesi, prima di tutti.

Nella sua qualità di addestratore l’M346 è finalizzato a formare i
piloti all’uso di cacciabombardieri  tecnologicamente più evoluti
tra i quali il “netcentrico” e “invisibile” F35, di cui
Israele si vuole dotare (19 + 56 in opzione), e che anche l’Italia
sta purtroppo acquistando per le guerre future.

Negli ultimi mesi è cresciuta in Italia una significativa opposizione
all’acquisto degli F35  per il loro costo esorbitante ( non meno di
15 miliardi di euro) che sottrae risorse all’economia civile e ai
settori dello “Stato Sociale” già colpiti dai tagli operati da
governi più o meno tecnici, capaci solo di colpire i più deboli. Ma
l’opposizione agli F35 non è certo solo economica; è soprattutto
opposizione alla “neoguerra”, pratica affermatasi negli ultimi 20
anni che chiama “pace” la guerra, e la vorrebbe giustificare  come
strumento di “sicurezza preventiva” e di “esportazione di
democrazia”, giungendo così a definirla “umanitaria”.

Ma “guerra umanitaria” è un ossimoro: la guerra provoca solo
morti, feriti, distruzioni e genera odio, rancori e vendette; essa è
quanto di più disumano si possa immaginare.

L’acquisto da parte di Israele degli M346 e degli F35 – questi
ultimi verranno prodotti e periodicamente revisionati a Cameri
(Novara) proprio da AleniaAermacchi  – è inoltre inserito
all’interno di un quadro di riarmo ad alta tecnologia, che impegna
l’industria bellica israeliana e che fa perno anche sulle sue armi
nucleari (come già denunciò nel 1986 il fisico israeliano Mordechai
Vanunu  che scontò per questo 18 anni di carcere in isolamento).

Grazie ad una accorta manipolazione mediatica Israele, che non ha mai
firmato il “Protocollo di Non Proliferazione Nucleare” e che è
ben dotato di armi nucleari, si presenta come   legittimato ad
intraprendere una guerra contro l’Iran, che invece quel Protocollo
ha firmato e che afferma di voler utilizzare l’energia prodotta da
generatori nucleari solamente a fini civili. Una guerra questa che
dobbiamo scongiurare a tutti i costi perché, tra l’altro, potrebbe
degenerare in un’escalation incontrollata.

Mai più  guerra, avventura senza ritorno.
Questi aerei non devono essere venduti.
Le armi non devono essere prodotte.

Nel maggio di quest’anno si è già svolto a Varese un importante
convegno contro l’F35 e sui temi del ripudio della guerra, del
taglio alle spese militari e della riconversione al civile.

Chiediamo ai lavoratori di AleniaAermacchi e di tutte le aziende a
produzione militare di non accettare il ricatto occupazionale e di
adoperarsi affinché le fabbriche non  producano strumenti di morte ma
siano destinate alla produzione di beni socialmente utili ed
ecologicamente compatibili.

Tra l’altro, in questo caso, la “vendita” degli M346 ad Israele
sarà “ compensata”dalla cessione all’Italia di altre armi:
infatti a fronte della commessa da 1 miliardo per la fornitura dei 30
velivoli, l’accordo commerciale prevede che noi acquistiamo da
Israele materiale bellico per il  valore di  2 miliardi.
Non possiamo più attendere, diciamo:

Solidarietà ai lavoratori che si trovano costretti a contraddirsi
nell’ etica,
ma NO alla Guerra, NO alle produzioni belliche ed ai mercanti di
morte.
Nessun M346 né altra arma deve essere data ad Israele.
L’Italia receda dall’accordo di cooperazione con quel Paese.
Siano riconosciuti i diritti del popolo palestinese.
Siano garantite Pace e Giustizia per tutti i popoli di quella
regione.
Un nuovo apartheid merita una nuova mobilitazione.

Uniamo le forze di tutti quelli che si oppongono alla violenza, alla
prepotenza, alla falsità di chi (parlando di pace e giustizia e
facendo la guerra) pratica e promuove la predazione delle nostre vite,
delle nostre speranze, delle nostre idee, del nostro lavoro. Di chi ci
fa continuamente passare sopra la testa, come malefici
cacciabombardieri, scelte di morte, di sopraffazione, di subdolo
dominio finanziario che minano la democrazia e vanificano la
sovranità popolare.
Sostenitori della Palestina, pacifisti, antinucleari, tutori dei beni
comuni, ambientalisti, oppositori di “grandi opere”e servitù
militari, associazioni umanitarie, culturali e sociali, collettivi,
reti, lavoratori e rappresentanze sindacali, disoccupati, precari,
studenti, tutti uniti in quanto vittime, o dalla parte delle
vittime…., troviamoci allora in tanti, tanti, arricchiti delle
nostre differenze, nonviolenti, a Venegono Superiore davanti ad
AleniaAermacchi, così come abbiamo fatto in passato davanti alle basi
militari di Comiso, Camp Darby, Vicenza, Solbiate Olona e alle aziende
belliche di tutta Italia, così numerose in provincia di Varese. 

VI INVITIAMO ALLA MANIFESTAZIONE NAZIONALE
di sabato13 Ottobre 2012
presso l’AleniaAermacchi di Venegono-Varese

Il Comitato promotore varesino  (segreteria tel 0332-238347)

Da allora molte sono state le associazioni anche nazionali che hanno
aderito all’iniziativa, tra le quali Pax Christi – Ponti e non
muri, la Commissione Giustizia e Pace dei Missionari Comboniani,
Attac, Arci – Servizio Civile, Assopace e una serie di altri
soggetti che sostengono il popolo palestinese, ecc. (vedi anche
nessunm346xisraele.blogspot.it)

Lo Stesso Padre Alex Zanotelli interverrà durante la manifestazione
che si terrà attorno agli stabilimenti di AleniaAermacchi che produce
l’M346 (che ha peraltro sede legale proprio a Venegono).

Per adesioni (di associazioni, gruppi e singole persone) invia una
mail a nessunm346xisraele@gmail.com

Venegono (Varese), 30 Giugno 2012

Per favore fate girare a tutte le vostre conoscenze.

Per sostegno economico, all’organizzazione della Manifestazione
“Nessun M346 a Israele” del 13 ottobre 2012, potete effettuare un
versamento, in posta, su:
CARTA POSTA PAY, intestata a Uslenghi Anna Maria n°4023600590951168
causale (se richiesta): No M346 ad Israele

Molte Grazie

Elio Pagani (per il Comitato promotore) “

 

Il vertice NATO di Chicago.

Fonte: Radio Blackout.

Il vertice NATO di Chicago

“Si è appena concluso il vertice NATO di Chicago. I ministri della guerra dei paesi dell’Alleanza hanno discusso dell’agenda dell’Alleanza Atlantica, sempre più candidata al ruolo di gendarme mondiale, con o senza l’egida delle Nazioni Unite. In questa prospettiva la NATO si dà una forma flessibile, multipolare, elastica, a rete, per intervenire mobilitando anche gli eserciti di Paesi che all’Alleanza strettamente intesa non hanno mai aderito, dall’Asia Centrale al Nord Africa, passando per l’Europa dell’Est.
Sempre meno un’alleanza che rappresenta un blocco di nazioni, sempre più la tutrice dell’ordine globale nel 21esimo secolo.
Un’alleanza che sembra corrispondere totalmente alle esigenze della Casa Bianca: condividere costi e responsabilità, ottimizzando i benefici.
Si lancia così la parola d’ordine di “smart defense” con oltre 20 progetti multinazionali.
Su questo ombrello “smart” e multipolare, veglierà lo scudo anti missilistico che – si apprende da Chicago – entro il 2015 sarà in grado di difendere i Paesi e le popolazioni dei 28 alleati dalla minaccia crescente di testate di vicini considerati ostili.
In epoca di crisi a Chicago hanno discusso di come fare la guerra spendendo meno, anche se l’ammiraglio Di Paola, il “tecnico” preposto alla Difesa nel governo Monti ha chiarito senza mezzi termini che prima vengono le esigenze della “sicurezza” poi si può parlare di spesa.
Per quanto riguarda il nostro paese la novità più importante riguarda la base di Sigonella, dove verranno collocati cinque droni e altri 600 militari.
A Chigaco hanno discusso anche di Afganistan, confermando il ritiro delle truppe per il 2012, un ritiro che sancisce la sconfitta degli Stati Uniti e dei loro alleati nel paese asiatico, nonostante 11 anni di guerra e occupazione militare feroce, tra torture, detenzioni extragiudiziali, terrorismo sistematico tra la popolazione.

Mentre era in corso il vertice migliaia di attivisti hanno manifestato a Chicago. Al termine della manifestazione la polizia ha caricato gli attivisti che rifiutavano di allontanarsi. Numerosi i feriti, 47 gli arresti.

Del vertice NATO, della guerra in Afganistan, delle nuove strategie di difesa abbiamo parlato con Stefano del Comitato contro Aviano 2000.”

Ascolta l’intervista direttamente sul sito di Radio Blackout.